COSA È CAMBIATO?_di Pierluigi Fagan

COSA È CAMBIATO? (Spoiler: non lo so). Due post fa ricordavo le dichiarazioni di Biden ad inizio ottobre che segnavano un deciso cambio di atteggiamento verso Russi, Putin e guerra in Ucraina. “Deciso” non sarà sembrato a chi non si interessa di questioni internazionali dove vige un codice simbolico per il quale anche piccoli accenni di qua e non di là fanno segnale, differenza, quindi informazione. Da allora, continuo il flusso di segnali, alcuni in una direzione, altri a mantenere calda l’atmosfera, ma seguendo chi diceva cosa e che potere ha, sempre più di un tipo e sempre meno dell’altro. Il generale Milley ha alla fine messo giù carte decise dicendo che era giunto il tempo di trattare, che gli ucraini avevano dato il massimo e di più non si poteva pretendere, ieri ha apertamente detto che la situazione sul campo non è credibilmente migliorabile. Attenzione, trattare non è pace, si può trattare per anni ed anni e così rendere di fatto una situazione che non si può accettare ufficialmente. Russia e Giappone non hanno ancora firmato la pace dopo 77 anni dalla IIWW.

Nel frattempo, i russi si ritiravano da Kherson, sia segnale di accettazione del presunto stato del campo ovvero darsi il Dnepr come confine, sia ovvia mossa di logistica militare. La questione del missile polacco ha mostrato come il dibattito pubblico non capisce quasi nulla di ciò che succede. Ho letto la notizia a tutta pagina prima di andare a letto ed ho pensato “ma perché mettere a tutta pagina una stupidaggine del genere?”. Un singolo missile a pochi chilometri dal confine di un paese in guerra è evidentemente un errore, non importa fatto di chi, certo non si attiva l’art. 5 della NATO per una cosa del genere. Viepiù in un clima generale che stava andando verso il sedersi al tavolo, anzi proprio questo generale andare verso il tavolo (USA-Russia), poteva ben spiegare chi aveva intenzione di sparare un missile dove non doveva.
Che Zelensky (nome collettivo dell’élite ucraina al potere) non abbia alcuna voglia di andare al tavolo e sostanzialmente accettare lo stato del campo o giù di lì (trattando qualcosa potrebbe ottenere se gli americani su un altro tavolo dessero qualcosa ai russi in termini di architettura di sicurezza generale), si comprende. Tuttavia, si spera siano abbastanza intelligenti da capire che affidarsi alle volontà strategiche di una iper-potenza dominante, comporta accettare questi cambi repentini di postura. Probabilmente, più si scende lungo la scala di rilevanza politica di questa scala, meno intelligenza si trova. Questo era noto e ne scrivemmo mesi fa, difficile per i vertici del potere ucraino richiamare ora le frange eccitate dal conflitto, armate, eroizzate, rese protagoniste, eccitate dal traffico d’armi e relativi introiti ed ora destinate a tornare nell’ombra. In questi casi capita anche che ti lancino un razzo a tua insaputa rendendo così palese che tu certe cose non le controlli.
Il che vale anche per il corteo di quelli che una volta si chiamavano “servi sciocchi” dell’establishment europeo e mediatico. Hanno preso tutti a vibrare all’unisono al segnale che forse, sì, era giunta “l’ora più buia” l’altra sera. Poi si sono resi conto che gli americani avrebbero sostenuto la tesi dell’incidente di tiro degli ucraini anche se il razzo fosse stato avvolto nel tricolore blu-bianco-rosso. Si capisce le opinioni pubbliche non siano veloci a cogliere i mutamenti di quadro, ma quelli che hanno responsabilità politiche e di interpretazione mostrano semmai più stupidità il che è sconfortante una volta di più.
Gente che in questi mesi è andata a dire che ii russi volevano andare a Berlino, poi che volevano prendere tutta l’Ucraina, che Putin aveva evidenti segnali di malessere psichico e fisico, poi che sarebbero crollati sotto le sanzioni, poi che ci sarebbe stato un colpo di stato contro Putin, poi che i russi avevano finito i missili, i soldati, i carrarmati, che ci si sarebbe fermati solo riconquistando la Crimea, che forse si poteva nuclearizzare Mosca preventivamente o forse anche solo con le armi convenzionali. Tonnellate e tonnellate di sciocchezze emesse 7/24 con sciami di replicatori su i social a creare nuvole di falsa percezione, altro che fake news. Anche loro, come gli eroi ucraini al fronte, ora presi in contropiede.
L’altro giorno a Bali, riunione dei G20, Biden ha dato altri segnali con Xi Jinping. E vabbe’ ci sarà competizione accesa ma forse conviene rimanere dentro quadrati predefiniti di ciò che si può e non si può dire o fare. Se ne riparlerà in un prossimo incontro sino-americano tra addetti ai lavori tecnici. La Dichiarazione di Bali, che si disperava si potesse avere in comune e che invece gli americani volevano fortemente, ammette che non tutti erano d’accordo, specie sulle unilaterali attribuzioni di colpe e sulle sanzioni ma che sì, la guerra perturba l’economia mondiale (che è l’oggetto per cui esiste il formato G20). Già, ne parlammo tempo fa a proposito della “pace multipolare”, la grande parte del mondo questa guerra non la voleva, non la vuole, la rifiuta come perno per operare in logica geopolitica contro la logica geoeconomica che dà speranze di sviluppo a tutti loro. Atteggiamento che vale verso gli americani, gli europei, i russi. Molti non hanno capito cosa significa “multipolare”, ovvero che gli attori sono tanti diversi, ognuno col proprio interesse e punto di vista. È da questa pluralità che può emergere un mondo sì dinamico (il mondo statico-ordinato tocca scordarcelo per sempre) ma più equilibrato come si conviene ad ogni sistema iper-complesso.
Biden se l’è sentito dire e ripetere a soggetto specifico Asia ed atteggiamento verso la Cina, nell’incontro precedente a Bali con gli ASEAN, gli 11 paesi asiatico orientali senza i quali la strategia di contenimento dei cinesi pensata a Washington non va da nessuna parte. Ma per la verità quella strategia era noto non andasse da nessuna parte. Da tempo penso che i circoli geopolitici di Washington sappiano qualcosa di Europa, Russia, Medio Oriente ma quanto all’Asia, mostrano di non saperne quasi nulla. Una cosa come quella della “Pelosi goes to Taiwan” la fai solo se non conosci i minimi termini di base della mentalità asiatica, asiatico confuciana diciamo. Tutta la storia dell’Indo-Pacifico ed i corteggiamenti multipli ai vicini del gigante di Beijing, mostra inquietanti segnali di wishful thinking. Ma si sono mai presi i dati di import-export di questi Paesi prima di pianificare strategie? Taiwan, per dirne una, a parte distare poche miglia dalla costa cinese, ha il 40% tanto dell’import che dell’export con RPC-Hong Kong. Alle brutte, basta un blocco navale totale e la sospensione totale di ogni scambio con l’isola che dopo due-tre settimane il capitalismo taiwanese farebbe un colpo di stato in favore di “una nazione, due sistemi” altro che Terza guerra mondiale. Se sottrai di colpo il 40% di un sistema, il sistema crolla per implosione.
Rimane la domanda: cosa ha cambiato la postura americana? Attenzione, di nuovo, in politica internazionale non puoi mai esser certo e definitivo, potrebbe esser un “buying time” in favore di cosa non so dire, ma un cambio moderato e però significativo c’è.
In questi due mesi pendeva la spada di Damocle delle elezioni in USA. Ora sappiamo che: 1) i democratici hanno salvato il Senato; 2) i repubblicani hanno preso la Camera; 3) l’area Trump ha problemi interni allo schieramento repubblicano. Tante altre cose del complesso ambiente economico e finanziario stelle e strisce non le sappiamo anche se possiamo intuire che siano, a parte ovviamente il complesso militar-industriale, più o meno sulle stesse posizioni di chi questo innalzamento della temperatura del conflitto non lo vuole per niente. Si fa presto a dire “friendshoring”, farlo è tutt’altro conto. Di questi tempi la nostra attenzione è strapazzata di qui e di là, forse pochi hanno registrato che Facebook ha operato 11.000 licenziamenti, più quelli di Musk a Twitter ed i prossimi di Amazon verso cui comincia qui in Europa a montare un certo fastidio allargato visto che chiudono negozi, gente va per strada, quei camioncini con lo sbaffo del sorriso inquinano e complicano il traffico, rubano dati, le vendite mondiali di smartphone sono in decisa contrazione etc.. Ma come? L’Era dei Dati, il mondo digitale e metaversico, il “Futuro”? Il Grande Reset è durato lo spazio di un mattino? Non ci sono più le distopie di una volta. Ma poi, questo comparto, non era poi il principale sponsor anche finanziario del partito democratico?
Andranno fatte ricerche ed analisi più a grana fine. I dem, forse, vedono la possibilità di spaccare i repubblicani tra l’area old style conservatrice ma sennata e l’area populista arruffona dissennata e quindi vedono luce per le elezioni fra due anni che prima erano buie. Gli alleati o i potenziali tali, stanno facendo sapere che qui ognuno ha i suoi problemi, tanti, economici, sociali, climatico-ambientali, politici. Forse è il caso di rallentare l’impeto della strategia “democrazie vs autocrazie” ovvero Cold War 2.0 che poi da Cold ad Hot ci mette un attimo. Russia va bene, ma con la Cina aspetta un attimo, come ha mostrato Scholz andando in Cina coi vertici delle sue multinazionali, i tedeschi sono lì per primi, erano tutte tedesche le aziende che aprirono le prime industrie a capitale misto (51% cinese) quando andai lì nel 1990. Magari meglio buttarla sulla diplomazia. Ne scrivemmo, ci pareva una strategia eccessivamente semplificante ed ambiziosa, difetti tipici di certi strateghi americani, lo si dice dal punto di vista “tecnico” che in questo periodo di grandi passioni ideali è un punto di vista poco frequentato ma che è sempre quello che, realisticamente, detta le partiture di gioco che è e rimane razionale.
Ai dem che ragionano ad elezioni, conviene ora metterla giù morbida, tanto internamente che esternamente. I mesi più difficili, dal punto di vista economico, finanziario, energetico, debbono ancora arrivare. Le olimpiadi greche sospendevano i conflitti, facciamo i mondiali, aspettiamo primavera, poi vediamo. Forse…

 

La difficile scelta di Surovikin, di Big Serge

Nel gennaio 1944, la 6a Armata tedesca, appena ricostituita, si trovò in una situazione operativa catastrofica nell’ansa meridionale del fiume Dnepr, nella zona di Krivoi Rog e Nikopol. I tedeschi occupavano un pericoloso saliente, che sporgeva precariamente nelle linee dell’Armata Rossa. Vulnerabili su due fianchi scomodi e di fronte ad un nemico superiore per uomini e potenza di fuoco, qualsiasi generale degno di questo nome avrebbe cercato di ritirarsi prima possibile. In questo caso, però, Hitler insistette affinché la Wehrmacht mantenesse il saliente, perché la regione era l’ultima fonte di manganese rimasta alla Germania, un minerale fondamentale per la produzione di acciaio di alta qualità.

Un anno prima, nelle prime settimane del 1943, Hitler era intervenuto in un’altra battaglia più famosa, vietando alla precedente incarnazione della 6a Armata di uscire da una sacca formatasi a Stalingrado. Vietato il ritiro, la 6a Armata fu del tutto annientata.

In entrambi i casi vi fu uno scontro tra la pura prudenza militare e gli obiettivi e le esigenze politiche più ampie. Nel 1943 non c’erano ragioni militari o politiche convincenti per mantenere la 6a Armata nella sacca di Stalingrado: l’intervento politico nel processo decisionale militare era insensato e disastroso. Nel 1944, invece, Hitler (per quanto sia difficile ammetterlo) aveva un argomento valido. Senza il manganese proveniente dall’area di Nikopol, la produzione bellica tedesca era condannata. In questo caso, l’intervento politico era forse giustificato. Lasciare un esercito in un saliente vulnerabile è un male, ma lo è anche rimanere senza manganese.

Questi due tragici destini della 6a Armata illustrano la questione basilare di oggi: come si analizza la differenza tra decisioni militari e politiche? In particolare, a cosa attribuiamo la scioccante decisione russa di ritirarsi dalla riva occidentale del Dnepr, nell’oblast di Kherson, dopo averla annessa solo pochi mesi fa?.

Vorrei analizzare la questione. Innanzitutto non si può negare che il ritiro sia politicamente un’umiliazione significativa per la Russia. La domanda che ci si pone è se questo sacrificio fosse necessario per motivi militari o politici, e cosa possa significare per il futuro corso del conflitto.

A mio avviso il ritiro dalla riva occidentale di Kherson deve essere motivato da una delle quattro possibilità seguenti:

  1. L’esercito ucraino ha sconfitto l’esercito russo sulla riva occidentale e lo ha respinto oltre il fiume.
  2. La Russia sta tendendo una trappola a Kherson.
  3. È stato negoziato un accordo di pace segreto (o almeno un cessate il fuoco) che prevede la restituzione di Kherson all’Ucraina.
  4. La Russia ha fatto una scelta operativa politicamente imbarazzante ma militarmente prudente..

Esaminiamo queste quattro possibilità in sequenza..

Possibilità 1: sconfitta militare

La riconquista di Kherson è giustamente celebrata dagli ucraini come una vittoria. La domanda è: di che tipo di vittoria si tratta? Politica/d’effetto o militare? È banalmente ovvio che si tratta del primo tipo. Esaminiamo alcuni fatti.

Innanzitutto, già la mattina del 9 novembre – poche ore prima dell’annuncio del ritiro – alcuni corrispondenti di guerra russi esprimevano [in russo] scetticismo sulle voci di ritiro perché le linee difensive avanzate della Russia erano intatte. Non c’era alcuna parvenza di crisi tra le forze russe nella regione.

In secondo luogo, l’Ucraina non stava eseguendo alcuno sforzo offensivo intenso nella regione al momento dell’inizio del ritiro, e i funzionari ucraini hanno espresso [in inglese] scetticismo sul fatto che il ritiro fosse reale. In effetti l’idea che la Russia stesse tendendo una trappola nasce dai funzionari ucraini che sono stati apparentemente colti di sorpresa dal ritiro. L’Ucraina non era pronta ad inseguire o a sfruttarlo, e ha avanzato [in inglese] con cautela nel vuoto dopo che i soldati russi se ne sono andati. Anche con il ritiro della Russia i soldati ucraini erano chiaramente spaventati dall’avanzare, perché gli ultimi tentativi di superare le difese dell’area gli avevano causato molte perdite.

Nel complesso il ritiro della Russia è stato attuato molto rapidamente con pressioni minime da parte degli ucraini – proprio questo fatto è alla base dell’idea che si tratti di una trappola o del risultato di un accordo dietro le quinte. In entrambi i casi la Russia è semplicemente scivolata indietro attraverso il fiume senza essere inseguita dagli ucraini, subendo perdite trascurabili e portando via praticamente tutto il proprio equipaggiamento (finora, un T90 guasto è l’unica cattura ucraina degna di nota). Il risultato netto sul fronte di Kherson rimane un forte sbilanciamento delle perdite a favore della Russia, che ancora una volta si ritira senza subire una sconfitta sul campo di battaglia e con le sue forze intatte.

.

Possibilità 2: è una trappola

Questa teoria è emersa subito dopo l’annuncio del ritiro. Ha avuto origine dai funzionari ucraini che sono stati colti di sorpresa dall’annuncio, ed è stata poi ripresa (ironicamente) dai sostenitori russi che speravano che si giocasse a scacchi 4D – non è così. La Russia sta giocando a scacchi 2D standard, che è l’unico tipo di scacchi esistente, ma di questo parleremo più avanti.

Non è chiaro cosa si intenda esattamente per “trappola”, ma cercherò di riempire gli spazi vuoti. Ci sono due possibili interpretazioni: 1) una manovra convenzionale sul campo di battaglia che comporta un contrattacco tempestivo, e 2) una sorta di mossa non convenzionale come un’arma nucleare tattica o una inondazione per il cedimento di una diga.

È chiaro che non c’è alcun contrattacco sul campo di battaglia, per la semplice ragione che la Russia ha fatto saltare i ponti dopo il ritiro. Senza forze russe sulla sponda occidentale e con i ponti distrutti non c’è alcuna capacità immediata per entrambi gli eserciti di attaccare l’altro in forze. Certo, possono bombardarsi l’un l’altro attraverso il fiume, ma la linea di contatto effettiva è per il momento congelata.

Rimane la possibilità che la Russia intenda fare qualcosa di non convenzionale, come usare una testata nucleare a bassa potenza.

L’idea che la Russia abbia attirato l’Ucraina a Kherson per far esplodere una bomba atomica è… stupida.

Se la Russia volesse usare un’arma nucleare contro l’Ucraina (e non è così, per le ragioni che ho esposto in un precedente articolo) non c’è alcuna ragione sensata per cui sceglierebbe di farlo in una capitale regionale che ha annesso. Alla Russia non mancano i sistemi di lancio. Se volessero bombardare l’Ucraina, molto semplicemente, non si preoccuperebbero di abbandonare la loro città e di farne il luogo dell’esplosione. Semplicemente bombarderebbero l’Ucraina. Non si chiama trappola.

.

Possibilità 3: accordo segreto

Questa possibilità è stata innescata dalla notizia che il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, è stato in contatto con la sua controparte russa, e in particolare dalla sensazione che la Casa Bianca abbia spinto per i negoziati. Secondo una variante dell’ “Accordo Sullivan”, l’Ucraina riconoscerebbe le annessioni russe a est del Dnepr, mentre la riva occidentale di Kherson tornerebbe sotto il controllo di Kiev.

Lo ritengo improbabile per una serie di ragioni. Innanzitutto, un accordo di questo tipo rappresenterebbe per i russi una vittoria di Pirro estrema: pur ottenendo la liberazione del Donbass (uno degli obiettivi espliciti dell’Operazione Militare Speciale), lascerebbe l’Ucraina in gran parte intatta e abbastanza forte da essere una perenne spina nel fianco, come uno stato nemico anti-russo. Rimarrebbero il problema di una probabile ulteriore integrazione dell’Ucraina nella NATO e, soprattutto, l’aperta cessione di una capitale regionale annessa.

Da parte ucraina il problema è che il recupero di Kherson non fa altro che rafforzare la (falsa) percezione per Kiev che la vittoria totale sia possibile e che la Crimea e il Donbass possano essere recuperati interamente. L’Ucraina sta godendo di una serie di conquiste territoriali e sente che si sta aprendo la sua finestra di opportunità.

In definitiva, non sembra esserci un accordo che soddisfi entrambe le parti, e questo riflette il fatto che l’ostilità innata tra le due nazioni dev’essere risolta sul campo di battaglia. Solo Ares può giudicare questa disputa.

Per quanto riguarda Ares, sta lavorando duramente a Pavlovka.

Mentre il mondo era concentrato sul passaggio di mano relativamente incruento a Kherson, la Russia e l’Ucraina hanno combattuto una battaglia sanguinosa per Pavlovka, e la Russia ha vinto. L’Ucraina ha anche tentato di rompere le difese russe nell’asse di Svatove, ma è stata respinta con pesanti perdite. In definitiva, la ragione principale per dubitare della notizia di un accordo segreto è il fatto che la guerra continua su tutti gli altri fronti – e l’Ucraina sta perdendo. Ciò lascia solo un’opzione.

.

Possibilità 4: una scelta operativa difficile

Questo ritiro è stato sottilmente segnalato poco dopo che il generale Surovikin è stato messo a capo delle operazioni in Ucraina. Nella sua prima conferenza stampa ha segnalato l’insoddisfazione per il fronte di Kherson, definendo la situazione “tesa e difficile”, e alludendo alla minaccia dell’Ucraina di far saltare le dighe sul Dnepr e di inondare la zona. Poco dopo è iniziato il processo di evacuazione dei civili da Kherson..

Ecco cosa penso abbia deciso Surovikin su Kherson.

Kherson stava diventando un fronte inefficiente per la Russia a causa dello sforzo logistico di rifornire le forze attraverso il fiume con una capacità limitata di ponti e strade. La Russia ha dimostrato di essere in grado di sostenere quest’onere (mantenendo le truppe rifornite per tutta l’offensiva estiva), ma la questione diventa: 1) a quale scopo, e 2) per quanto tempo.

Idealmente, la testa di ponte diventerebbe il punto di lancio per un’azione offensiva contro Nikolayev, ma il lancio di un’offensiva richiederebbe il rafforzamento del raggruppamento di forze a Kherson, il che aumenta di conseguenza l’onere logistico della proiezione delle forze attraverso il fiume. Con un fronte molto lungo da gestire Kherson è chiaramente uno degli assi più impegnativi dal punto di vista logistico. Ritengo che Surovikin abbia preso il comando e abbia deciso quasi subito di non voler aumentare l’onere del sostegno cercando di spingere su Nikolayev.

Pertanto, se non si vuole lanciare un’offensiva da Kherson, la domanda diventa: perché mantenere la posizione? Dal punto di vista politico è importante difendere una capitale regionale, ma dal punto di vista militare la posizione diventa priva di significato se non s’intende passare all’offensiva a sud.

Siamo ancora più espliciti: a meno che non sia prevista un’offensiva verso Nikolayev, la testa di ponte di Kherson è militarmente controproducente.

Mantenendo la testa di ponte a Kherson, il fiume Dnepr diventa un moltiplicatore negativo di forze, aumentando il carico logistico e di sostegno, e minacciando sempre di lasciare le forze tagliate fuori se l’Ucraina riesce a distruggere i ponti o a far saltare la diga. Proiettare le forze attraverso il fiume diventa un fardello pesante senza alcun beneficio evidente. Ma ritirandosi sulla sponda orientale il fiume diventa un moltiplicatore di forze positivo, fungendo da barriera difensiva.

In senso operativo più ampio, Surovikin sembra rifiutare la battaglia a sud mentre si prepara a nord e nel Donbass. È chiaro che ha preso questa decisione poco dopo aver assunto il comando dell’operazione – l’ha accennato per settimane, e la velocità e la pulizia del ritiro suggeriscono che è stato ben pianificato, con molto anticipo. Il ritiro attraverso il fiume aumenta notevolmente l’efficacia di combattimento dell’esercito e diminuisce il carico logistico, liberando risorse per altri settori.

Questo rientra nel modello generale russo di fare scelte difficili sull’allocazione delle risorse, combattendo questa guerra con il semplice obiettivo di ottimizzare i rapporti di perdita e di costruire il perfetto tritacarne. A differenza dell’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale, l’esercito russo sembra essere libero da interferenze politiche per prendere decisioni militari razionali.

In questo senso il ritiro da Kherson può essere visto come una sorta di anti-Stalingrado. Invece dell’interferenza politica che ostacola l’esercito, abbiamo i militari liberi di fare scelte operative anche a costo di mettere in imbarazzo le figure politiche. E questo, in definitiva, è il modo più intelligente – anche se otticamente umiliante – di combattere una guerra..

https://sakeritalia.it/ucraina/la-difficile-scelta-di-surovikin/

Ucraina, il conflitto_20a puntata. Punti deboli e punti forti_con Max Bonelli e Stefano Orsi

L’arretramento dell’esercito russo da Kherson ha lasciato perplessi alcuni. I più hanno manifestato entusiasmo per la vittoria decisiva degli ucraini e in particolare del loro regime, giacchè sono pure ucraini la parte consistente di popolazione sulla quale infieriscono i sodali di Zelensky; altri, con fare sornione, intravedono una trappola geniale in un arretramento, in perfetto ordine e con nessuna perdita, comunque difensivo e seguito al precedente arretramento sulla parte settentrionale del fronte. Il protrarsi del conflitto, come ogni evento bellico, sta mettendo a nudo i punti dolenti e i punti di forza di ogni schieramento. Nella sostanza strategica gli uni hanno capovolto al momento le sorti al prezzo della progressiva distruzione del proprio paese, per meglio dire del paese del quali detengono le redini, in condizioni di spossatezza. Gli altri, con ampie risorse ancora da gestire, contengono la pressione sul campo giocando un conflitto su più piani e con interlocutori, di fatto i reali decisori della sorte del regime. Inizia ad intravedersi una prima lacerazione tra i beneficiari di una economia di guerra e gli strateghi del gioco geopolitico che devono conciliare le esigenze di un confronto multipolare con i più prosaici interessi di bottega a corollario. Vedremo se l’inverno porterà consiglio. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1vizk0-ucraina-20a-puntata-debolezze-e-punti-forti-con-max-bonelli-e-stefano-orsi.html

Stati Uniti! Una partita truccata_con Gianfranco Campa

Tra aspettative deluse, partite truccate, corti dei miracoli, manipolazioni e reale polarizzazione del confronto politico, l’esito delle elezioni di medio termine influenzerà pesantemente il decorso politico dei prossimi due anni e le dinamiche geopolitiche nel mondo. Non nel senso però auspicato dal movimento MAGA e strombazzato a bella posta dal sistema mediatico. Ha certamente spostato ulteriormente lo scontro politico all’interno dei due partiti. Qualche aggiustamento avverrà anche nelle dinamiche geopolitiche, soprattutto nei punti di crisi più pericolosi. In questa prima parte ci siamo divertiti a mettere a nudo la “creatività” che ormai condiziona pesantemente la gestione e l’esito delle consultazioni elettorali. Nella seconda parte, a breve giro, ne analizzeremo con maggiore solennità le implicazioni politiche. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1v96j4-stati-uniti-una-partita-truccata-con-gianfranco-campa.html

Gli accordi militari Russia-Africa, di Bernard Lugan

Mentre la Cina si sta affermando in Africa grazie all’economia, la Russia scava il solco attraverso una politica militare. Quest’ultimo richiede la firma di accordi e la garanzia di sicurezza data ai capi degli Stati partner che dispongono di guardie pretoriane totalmente sicure, il che consente alla Russia di avere alleati incondizionati.
Paesi africani con uno o più accordi militari con la Russia
Mentre la NATO avanza le sue pedine contro la Russia ottenendo nuovi membri o domande di adesione, in particolare nel Nord Europa, Mosca avanza le sue pedine in Africa firmando accordi militari con la maggior parte dei Paesi del continente. Risultato di questa politica, il 2 marzo 2022, durante il voto della risoluzione Onu di denuncia dell’attacco all’Ucraina da parte della Russia, tra i 35 Paesi che si sono astenuti dal condannare quest’ultima abbiamo infatti incluso 17 Paesi africani, ovvero Algeria, Angola , Burundi, Congo-Brazzaville, Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sud Sudan, Sud Africa, Senegal, Tanzania, Uganda e Zimbabwe, mentre l’Eritrea ha votato contro la risoluzione. A riprova del peso sempre più forte dell’influenza russa in Africa, quasi tre anni prima, nell’ottobre 2019 quasi tutti i capi di stato africani si erano recati in Russia per partecipare al vertice Russia-Africa da Sochi. Dal 2017, la Russia ha firmato numerosi accordi militari di vario tipo con 28 paesi africani mostrati nella mappa a pagina 8. Nel 2022, Madagascar e Camerun si sono aggiunti a questo elenco che copre l’intero continente e che testimonia l’entità dell’influenza russa. Il numero di questi accordi è peraltro tale che presto diventerà più facile contare gli Stati che non li hanno (ancora?) firmati. Ad oggi sono solo 19, ovvero Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Niger, Ciad, Sud Sudan, Uganda, Gibuti, Somalia, Malawi, Namibia e Lesotho. Questi accordi hanno la particolarità di presentare nuovi contenuti. All’aspetto tradizionale della formazione sui mezzi erogati attraverso il dispiegamento di consiglieri militari, si aggiunge ora la cooperazione in materia di intelligence, di lotta al terrorismo e, forse ancor di più, quella alla criminalità. Accordi che contengono quindi una componente importante riguardante la sicurezza quotidiana delle popolazioni. Tradizionalmente, la Russia vende armi ai paesi africani che si adattano perfettamente al continente perché robusti, semplici ed economici. La domanda è tale che oggi la Russia è diventata il principale venditore di armi del continente. Tutto ciò spiega perché è con grande facilità che la Russia sta progressivamente cacciando la Francia dal suo ex cortile africano. Bisogna anche riconoscere che quest’ultima ha fatto di tutto per lasciarsi estromettere, e questo, a causa dei suoi colossali errori politici, come ho costantemente dimostrato nei numeri precedenti di Real Africa. L’obiettività ci costringe a riconoscere che la Francia, essendosi regolarmente affermata come ostile agli interessi russi, in particolare in Libia, Siria, Bielorussia e oggi in Ucraina, Mosca le sta in qualche modo restituendo la propria moneta.

LA SINDROME IMPERIALE DELLA RUSSIA SECONDO JIN YAN

Continuiamo a presentare tesi ed analisi di esponenti ed intellettuali cinesi, anche divergenti, ma inseriti nel mondo politico ed accademico di quel paese. Segno del dibattito in corso tra quelle élites a dispetto della dozzinale narrazione occidentale prevalente. I commenti in corsivo sono opera del curatore e non riflettono necessariamente il punto di vista del blog. Buona Lettura, Giuseppe Germinario

Dottrine della Cina di Xi | Episodio 11

L’invasione russa dell’Ucraina ha agitato i circoli intellettuali cinesi. In questo testo, lo storico Jin Yan esprime una posizione piuttosto favorevole a Mosca ma che implicitamente richiama un monito per i cinesi: la Russia ha l’ambizione di “restaurare” il suo impero – è una pessima scelta strategica a livello globale. che crea una situazione potenzialmente più pericolosa della Guerra Fredda.

AUTORE
DAVID OWNBY

 

Jin Yan (nato nel 1954) è professore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, China University of Political Science and Law (中国政法大学). Eminente specialista di storia russa e sovietica, ha pubblicato in particolare numerosi lavori sulla storia della Russia ma anche sulla sua epoca contemporanea e più in generale sull’Europa orientale, scrivendo spesso testi insieme al marito, il famoso storico Qin Hui.

Il testo tradotto qui1è uno dei tanti testi pubblicati da studiosi pubblici cinesi dall’inizio della guerra in Ucraina che cercano di spiegare le radici del conflitto senza schierarsi esplicitamente. In altre parole, non sostengono né criticano la posizione del governo cinese. Non condannano nemmeno apertamente l’aggressione della Russia. Jin riesce comunque a far capire il suo punto di vista, come si evince dal titolo del suo testo, che letteralmente significa “rifare la doratura” in mandarino. Questo è un riferimento alle icone dorate trovate nei templi buddisti in Cina. Sebbene la sfumatura sia difficile da trascrivere in francese, Jin voleva sicuramente paragonare la nozione di “impero” in Russia a un simbolo religioso, e suggerire che la Russia sta solo “restaurando il tempio del proprio impero” e quindi non fa altro che tentare riciclare il proprio passato. Pertanto, anche se l’autore esprime una certa simpatia per la posizione russa e per la guerra,

L’argomento di Jin è fondamentalmente storico: l’Unione Sovietica è crollata, lasciandosi dietro nient’altro che miseria e quasi anarchia. Quando il liberalismo e la democrazia non sono riusciti a fare la loro magia, l’“impero” è venuto a riempire il vuoto e ad offrire una giustificazione per la grandezza passata e futura della Russia. Jin non si sofferma particolarmente su Putin in questo testo, ma fa notare che l’accettazione dell’idea di “impero” è diffusa tra intellettuali e opinione pubblica. Lasciando da parte considerazioni sulla NATO o sulla sicurezza, riprende l’idea spesso mobilitata dai sostenitori del Cremlino che, quando, negli anni ’90 e 2000, la Russia – e Putin – hanno chiesto aiuto all’Occidente ( adesione alla NATO, esenzione dal visto per i viaggi in Europa), l’Occidente avrebbe generalmente rifiutato la Russia. Jin sostiene che l’Occidente avrebbe potuto giocare meglio le sue carte, proponendo un nuovo Piano Marshall per aiutare la Russia in un periodo di grande difficoltà. In assenza di tale assistenza, Putin – e gran parte della Russia – sono diventati ostili nei confronti dell’Occidente e hanno deciso di difendere la loro grande identità di potere in altri modi.

Jin Yan inizia e conclude il suo saggio con un sottile appello ai leader cinesi alla prudenza. Questa non è una nuova Guerra Fredda , insiste, ma Putin rappresenta un’incarnazione della Russia il cui sentimento non scomparirà anche se il leader del Cremlino dovesse lasciare il centro della scena. Il mondo potrebbe quindi finire per dividersi nuovamente in “campi” definiti non dall’ideologia ma dal loro atteggiamento nei confronti della Russia. Jin pone qui una domanda fondamentale: a quale campo vuole aderire la Cina?

La Russia contemporanea ha un’eredità comune con la Russia zarista e l’Unione Sovietica. Tuttavia, si ispira più all’impero zarista che all’esperienza sovietica.

La somiglianza delle politiche di Putin con le politiche interne ed esterne degli Zar non è più in dubbio. Bambole, dipinti e sculture che ricordano l’era zarista possono essere visti in tutte le strade della Russia, e ad ogni attrazione turistica i viaggiatori accorrono per scattare foto con persone vestite da Pietro il Grande o Caterina. Sono tornati i simboli e gli slogan dell’impero, tutti gli zar sono diventati figure positive, Nicola II è stato “canonizzato” ed è ora oggetto di culto. Settant’anni di lavoro ideologico del Partito Comunista dell’Unione Sovietica sono stati spazzati via da un freddo vento siberiano. Attualmente, i “valori imperiali” sono decisamente un’ideologia nazionale positiva in Russia .

Ricostruisci l’Impero

Il nazionalismo è ormai l’unica bandiera sotto la quale la Russia di oggi può radunare le sue truppe , ed è l’arma magica di Putin. Questo vale anche per il mondo intellettuale. Si è notato che pochi intellettuali russi sono riusciti a sfuggire alla trappola dell’eccessivo “statalismo” quando si tratta di questioni nazionali; anche i migliori e i più brillanti smettono di pensare e si allontanano.

Sotto la guida di Putin, l’ intellighenzia russa ha abbracciato uno “slavismo” culturalmente conservatore, e gli individui all’interno e all’esterno del governo si sono affrettati a ridefinire il concetto di “impero” come scienza politica e dargli un nome appropriato. La “febbre dell’impero” era in pieno svolgimento e termini come “impero indipendente”, “impero libero” e “impero nazionale” erano di gran moda, e gli studiosi affermavano che “l’impero è radicato nel DNA della Russia” e discutevano la razionalità di costruire un impero. Il politologo Andrei Saveliyev (nato nel 1962) è arrivato al punto di affermare che “l’impero è il destino della Russia” e che “lo spirito nazionale russo è sempre stato radicato nell’impero. »

Nelle interviste che ha condotto per il suo libro, a Svetlana Alexievich (nata nel 1948), che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura 2015 , è stato detto dai suoi intervistati che: “Amo l’impero, e senza di lui la mia vita non avrebbe significato”; “I geni dell’imperialismo e del comunismo sono nelle nostre cellule spirituali”; “La Russia ha bisogno di un’idea che faccia tremare: l’impero”; “La Russia era, è e sarà sempre un impero”; “Comunque, sono un imperialista, e sì, voglio vivere in un impero. »

La Russia iniziò a definirsi un impero durante il regno di Pietro il Grande (1672-1725), che combatté per 21 anni la Grande Guerra del Nord, trasformando la Russia da paese continentale in una grande potenza marittima. Il 22 ottobre 1721, in riconoscimento dei suoi successi, il Senato lo nominò ufficialmente “Grande Imperatore di tutta la Russia”, e da quel momento in poi lo Zar fu ufficialmente chiamato “l’Imperatore russo”. Le caratteristiche più distintive dell’Impero russo sotto Pietro il Grande e Caterina la Grande erano la repressione interna e l’espansione territoriale esterna, mentre combattevano per l’egemonia in Europa. Durante il regno di Caterina, la Russia ha combattuto sei guerre straniere: tre spartizioni della Polonia,

Dopo che i comunisti salirono al potere, la tradizionale visione russa dell’impero fu completamente screditata. La descrizione di Lenin dell’imperialismo come parassitario e morente era ben nota alla gente dell’epoca. Per dirla semplicemente, gli stati imperiali erano parassiti, monopolisti, litigiosi e predatori. La conclusione di Lenin fu che “l’imperialismo annuncia l’alba della rivoluzione sociale proletaria” che ne segnò inevitabilmente il crollo finale. Da quel momento in poi, “impero” divenne un termine peggiorativo, un segnale di rivoluzione nei paesi capitalisti in decadenza. Naturalmente, questi due “imperi” non sono esattamente la stessa cosa.

Grazie alla teoria della rivoluzione mondiale di Lenin e alle sue idee internazionaliste, la rivoluzione russa si è basata sulla negazione dell’impero. Infatti, al tempo di Stalin, molti elementi dell’impero tradizionale erano stati integrati nel sistema del Partito Comunista Sovietico, mentre il pragmatismo ideologico trasformava il marxismo in una copertura degli “interessi russi” sotto la bandiera dell’Unione Sovietica. risolvere alcuni conflitti nella teoria della rivoluzione. Sotto la copertura della retorica rivoluzionaria, “l’impero sovietico ha ereditato e portato avanti completamente gli aspetti interni ed esterni dell’impero zarista” (per inciso, questo era anche il termine usato in Cina per condannare l’URSS negli anni ’70, quando le relazioni diplomatiche tra i due paesi furono degradate). Tutti sapevano che l’Unione Sovietica era un “impero rosso” nella sua carne, anche se il velo della vergogna non era stato ancora apertamente rimosso.

Questo è un commento sulla natura dell’impero sovietico — la forma e, in un certo senso, l’ideologia dell’impero sarebbero state prese dai comunisti — ma anche un commento sulle relazioni sino-sovietiche, che erano pessime durante questo periodo. Oggi la Russia ribalta apertamente il verdetto sull'”impero”. Per volere dell’ideologia ufficiale, gli accademici hanno scritto articoli a destra ea manca per imbiancare il nome dell'”impero” che Lenin avrebbe “distrutto e distorto”. Alcuni credono che il “nuovo nazionalismo” e il “nuovo impero” ora emergenti in Russia rappresentino diverse tendenze del nazionalismo storico e dell’egemonia imperiale.

Eppure questa ideologia imperiale evidenzia la grandezza storica della Russia e la sua influenza sul mondo di oggi. L’obiettivo è quello di integrare la “nuova prospettiva imperiale” nella spiritualità e nell’ideologia nazionale. L’idea è di superare l’instabilità della storia russa e il problema della “scelta di civiltà” creato dalla posizione della Russia tra Oriente e Occidente, che spiega la sua stessa mancanza di valori fondamentali e la natura “discontinuo” della sua storia. Per ovviare a questo problema, è stato spesso necessario mettere in atto forti meccanismi di integrazione.

Per dirla senza mezzi termini, i “valori imperiali” dovrebbero essere la base della coesione nazionale nell’era post-sovietica. La “cortina di ferro” dell’era della guerra fredda è servita a proteggere e isolare in una certa misura l’Unione Sovietica, ma ha anche fissato l’agenda del regime. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, i “valori imperiali” sono diventati di nuovo un nuovo mezzo per identificare i confini esterni, così che il contenuto complessivo del nuovo stato russo includeva questi valori. In passato questi valori erano avvolti dal manto dell’internazionalismo, ma oggi ha senso giocare la “carta impero” per superare le forze centrifughe.

Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che la Russia è un paese circondato da nemici e che in termini geopolitici manca di capacità difensive, quindi la sua espansione all’estero non è la stessa del colonialismo occidentale, ma piuttosto un’autoprotezione difensiva. In questo senso, “l’impero” è un soft power al servizio dello sviluppo complessivo e della strategia di potere della Russia.

Le ragioni del ritorno dell’Impero

I sondaggi dopo la Guerra dei cinque giorni con la Georgia del 2008 e dopo il conflitto Russia-Ucraina del 2014 hanno mostrato che quasi il 90% della popolazione riteneva che il dispiegamento di truppe russe in Georgia e la deterrenza in Ucraina fossero pienamente giustificati, il che rappresentava il più alto indice di gradimento governo aveva goduto dal crollo dell’Unione Sovietica, e alcuni media russi hanno persino affermato che il governo sarebbe stato respinto dal popolo se non avesse agito in quel modo.

Nel 2011, l’indice di gradimento di Putin è sceso al 42% prima di salire all’86% dopo la guerra in Ucraina. Le sanzioni occidentali e la rinnovata evocazione da parte di Putin dell’idea che la Russia sia “isolata” e “assediata” lo hanno reso popolare in patria, e la sua popolarità è salita alle stelle. Putin ha affermato che il crollo dell’Unione Sovietica “ha messo in luce le nostre debolezze e le persone deboli vengono ancora picchiate”. Il ritorno del paese all’impero è stato accolto con rara unanimità praticamente da tutti i gruppi. Anche il liberale Anatoly Chubais (nato nel 1955) sostiene che un “impero libero” dovrebbe diventare l’obiettivo nazionale della Russia e l’ideologia post-sovietica.

Il leader del Partito Comunista Russo, Gennady Zyuganov (nato nel 1944), ha dichiarato: “Sin dai tempi antichi, la Russia si è considerata l’erede e il difensore di un’eredità imperiale, e la Russia non dovrebbe rinunciare al sentimento di grandezza che è esistito per molti secoli. »

L’ex presidente Dmitry Medvedev (nato nel 1965) gli disse: “La Russia ha il suo posto nel mondo. Deve avere una sua sfera di interessi, ed è impensabile negarlo. Il 4 novembre 2013, il Congresso mondiale russo ha assegnato a Putin il “Premio per la difesa dello status di grande potenza della Russia”, che è un riconoscimento della sua posizione consolidata.

Sotto titoli come “L’Unione Sovietica non è realmente morta”, i media occidentali hanno notato che è sempre più chiaro che l’ideologia statale russa sta subendo “uno spostamento verso i valori imperiali tradizionali zaristi. Commenti dall’esterno della Russia affermano che la Russia soffre attualmente di una “nuova sindrome imperiale”. Nel 2008, il quotidiano francese Les Echos ha usato il titolo “Le retour de l’empire” per parlare della Russia, dicendo che “il risorgente impero russo potrebbe rappresentare una sfida più difficile della Guerra Fredda” e che questo impero potrebbe essere più pericoloso rispetto all’Unione Sovietica. La diplomazia dovrebbe imparare le lezioni della storia e prenderle sul serio.

Le ragioni del ritorno della Russia nell’Impero sono complesse

In primo luogo, il popolo russo ha un forte senso di orgoglio nazionale, avendo storicamente sconfitto Napoleone e Hitler, ed essendo diventato praticamente da un giorno all’altro una delle due superpotenze mondiali. I russi sono abituati a vedersi come fratelli maggiori, hanno sempre avuto un “complesso salvatore”, e sono estremamente sensibili ai temi della sicurezza territoriale. Come non essere indifferenti alla riduzione del territorio del Paese, al fatto che l’Occidente e gli Stati Uniti ignorino l’esistenza della Russia e facciano pressione sulle “aree di interesse privilegiato” della Russia? Come può questo non infiammare i russi?

L’eredità sovietica è uno degli elementi importanti nella costruzione dell’attuale immagine nazionale della Russia, che mescola temi zaristi con il sentimento di dominio che ha segnato l’era sovietica. In questo senso il tricolore dell’Impero russo e la falce e martello del periodo sovietico si sovrappongono, il risultato è la sintesi di una “nuova sindrome imperiale”.

In secondo luogo, quando negli anni ’90 Boris Eltsin propose i quattro obiettivi principali di “smilitarizzazione, non bolscevizzazione, privatizzazione e liberalizzazione”, l’Occidente non adottò un piano Marshall come dopo la seconda guerra mondiale per aiutare la Russia a superare le sue difficoltà economiche, ma invece ha suggerito che “la Russia sia come la Turchia dopo la caduta dell’Impero ottomano” e “si limiti strettamente al proprio ambiente. »

In un primo momento, la Russia ha esteso un ramoscello d’ulivo all’Occidente: nel 2000 Putin ha invitato a Mosca il segretario generale della NATO George Robertson (nato nel 1946), nel 2001 la NATO ha istituito un’intelligence a Mosca, seguita da una missione militare nel 2002, e le relazioni con la Russia con l’Europa occidentale sono stati molto cordiali. Nel 2002, il presidente Putin ha inviato una lettera al presidente della Commissione europea, parlando dell’intenzione della Russia di approfondire la cooperazione reciproca con l’UE, e Putin ha chiesto di aderire alla NATO.

Ma l’Occidente ha rifiutato, temendo in qualche modo che avere una “volpe nel pollaio” sarebbe stato un disastro. A differenza del caldo russo, la reazione dell’Occidente è stata molto più indifferente e riservata. L’UE era riluttante a cedere sulla questione dell’esenzione reciproca dal visto, lasciando i russi a sentirsi snobbati, portando ad attacchi russi al liberalismo occidentale e provocando una reazione nazionalista/populista.

La maggior parte degli occidentali crede che se alla Russia fosse concesso lo status europeo, l’omogeneità culturale e intellettuale dell’Europa sarebbe minata e le fondamenta della legittimità dell’Unione europea sarebbero scosse. I paesi dell’Europa orientale hanno le loro ragioni per non voler essere coinvolti di nuovo con i russi. Come ha affermato un ex ministro della Difesa polacco2, “La civiltà europea ha dei limiti e la Chiesa ortodossa russa è troppo lontana dalla civiltà europea. La cultura russa è in opposizione alla cultura occidentale”.

Inoltre, Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno fatto marcia indietro sul loro impegno verbale a Gorbachev di non espandere la NATO, cosa che ha scioccato l’élite russa, dopo di che sono arrivate le rivoluzioni colorate, il dispiegamento di sistemi antimissile, la crisi ucraina… Il punto di vista dei russi, il loro cambio unilaterale di strategia non ha ricevuto la risposta attesa, e gli europei hanno continuato a considerarli alla stregua di Churchill, vale a dire come “figli di Gengis Khan venuti dalle regioni selvagge dell’Asia”. . Non avevano mai visto i russi come europei e la loro posizione era “non permettere loro di attraversare il Reno verso l’Europa. »

La categorizzazione delle “rivoluzioni colorate” per designare una serie di rivolte popolari che hanno causato alcuni cambi di governo tra il 2003 e il 2006 in Eurasia e nel Medio Oriente: la Rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003, la Rivoluzione arancione in Ucraina nel 2004, la Rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan, ecc. — è contestato e tende ad essere utilizzato sempre meno. Nelle tesi cospiratorie, queste rivolte, alcune delle quali sostenute in particolare da ONG americane, sarebbero l’unico atto degli Stati Uniti. Jin Yan sembra usare qui il termine per riferirsi al presunto coinvolgimento degli Stati Uniti – e dell’Occidente in generale – nel cambio di regime in questi paesi.

È chiaro che c’è sempre stata una notevole distanza tra l’immagine di sé della Russia e la percezione della Russia da parte dell’Occidente. La Russia una volta immaginava di entrare nella “corrente principale della civiltà umana” attraverso la trasformazione politica ed economica. Infine, di fronte alla definizione occidentale della Russia come “attore marginale”, la Russia ha fatto una sorta di “ritorno alla storia” in modo molto risoluto. Sembrava che stessero coraggiosamente andando controcorrente.

L’atteggiamento degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali ha fortemente stimolato i sentimenti antioccidentali di molte élite russe e del popolo in generale, il che ha rafforzato quegli elementi antioccidentali e antilatini che sono stati a lungo radicati nella psichecittadino russo. Allo stesso tempo, durante il difficile processo di transizione economica, la Russia ha gradualmente preso coscienza della natura distruttiva dell’immagine idealizzata dell’Occidente, comprendendo che, su due fronti fondamentali, i valori occidentali non potevano informare il futuro sviluppo della Russia. In primo luogo, l’Occidente e la Russia non condividono gli stessi interessi e, in secondo luogo, il sistema ideologico occidentale non può essere applicato direttamente alle realtà russe. Occorreva, quindi, restituire alla nazione russa il significato positivo della parola “impero”, e non rifiutarla del tutto, come aveva fatto il Partito Comunista Sovietico.

Dal punto di vista di un osservatore, l’errore strategico a breve termine dell’Occidente negli anni ’90 è stato quello di accelerare le condizioni esterne che incoraggiavano il nazionalismo russo, che ha intensificato lo squilibrio psicologico del popolo russo che aveva già perso l’orgoglio di essere una grande potenza. Ciò a sua volta ha stimolato una reazione nazionalista e la “sindrome del nuovo impero” si è rapidamente diffusa tra la gente, quindi l’umore pubblico si è rapidamente spostato verso i tradizionali valori imperiali russi dopo aver fatto l’esperienza della perdita del crollo dell’Unione Sovietica. Si potrebbe dire che l’Occidente non era abbastanza amichevole all’inizio quando erano possibili relazioni amichevoli, e non abbastanza duro oggi quando la durezza è richiesta. In altre parole,

Oggi, quando la Russia danneggia altri paesi, l’Europa deve essere più dura, ma spesso la durezza retorica è inversamente proporzionale all’azione. La Russia di oggi è come la Germania dopo la prima guerra mondiale, quando l’accordo di Versailles era troppo duro per il paese, portando all’ascesa dei nazisti e ad un accresciuto militarismo che ha assunto l’intera nazione. Come la Germania, l’atteggiamento della Russia è che non ha nulla da perdere. È attorno a questo atteggiamento che gioca Putin quando si mostra mentre pilota aerei e combatte contro tigri.

Caratteristiche della sindrome dell’impero russo

Durante il secondo e il terzo mandato di Putin, la “nuova sindrome imperiale” della Russia si è gradualmente evoluta. Le sue caratteristiche sono le seguenti:

In primo luogo, c’è uno stato d’animo in cui “un sentimento di inferiorità si è trasformato in un sentimento di arroganza” che sopravvaluta il grado di sviluppo nazionale. Valery Tishkov (nato nel 1941), che ha servito come ministro delle nazionalità sotto Eltsin, una volta ha osservato che la tradizione imperiale della Russia è molto profonda, che “se l’impero è morto, il gene rimane” e che, specialmente in un momento in cui il potere della Russia ha declinate, le nozioni di impero possono servire agli scopi della coesione nazionale e fornire la mobilitazione sociale necessaria per gli spettacoli politici.

In secondo luogo, c’è anche una sorta di autovalorizzazione che spesso nuoce ai rapporti con i popoli vicini e tende a creare nuove tensioni.

In terzo luogo, c’è una tendenza a esternare i rancori, che si nutre di un’ostilità verso la cultura occidentale/latina, e cercare altrove risposte ai propri problemi è accompagnata da una debole capacità di autoriflessione. Negli anni ’50, Mao Zedong ha osservato che “i leader sovietici hanno sempre pensato di essere i migliori, che tutto ciò che facevano fosse giusto e che gli errori fossero tutti commessi da qualcun altro”. Sembra che ci sia ancora qualcosa da dire su questo.

Durante la nostra visita in Russia nel 2013, il capo della Heinrich Böll Foundation di San Pietroburgo3ha notato che non c’erano assolutamente dubbi sul fatto che Putin avesse rafforzato l’autorità centrale e la capacità di governo, e che in termini di controllo economico e controllo sociale, ci sono stati notevoli miglioramenti rispetto ai suoi primi due mandati. Quindi, dopo che il potere politico dello stato ha visto una serie di fluttuazioni dalla caduta dell’Unione Sovietica, le cose sono ora tornate alla tradizionale situazione russa in cui il potere centralizzato e concentrato ha il controllo. Il governo centrale si distingue ora come principale meccanismo di integrazione, ponendo fine a un periodo di frammentazione. L’attuale governo russo ha quindi maggiori capacità di azione e si sta essenzialmente trasformando in un governo della linea dura.

Il tono politico di base di Putin è diventato gradualmente più chiaro. La situazione passata in cui la sua posizione politica era poco chiara e la sua identità dottrinale ambigua, in cui era una sorta di “variabile sconosciuta”, è ormai un ricordo del passato. Per riassumere sinteticamente la sua posizione, è “sospettoso della globalizzazione, resiste all’occidentalizzazione e limita la democratizzazione”. Persegue gli interessi nazionali, cerca di esercitare un’influenza regionale e globale e pratica il protezionismo e il profitto. Avendo perso la Guerra Fredda, la Russia cercherà di sfruttare ogni possibile opportunità per riscrivere la storia.

Con il calo dei prezzi del petrolio, l’economia russa è in difficoltà, la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia continua a diminuire e la Russia si sta ripiegando verso l’interno. Ciò intensifica lo stato d’animo di accerchiamento da parte di forze esterne ostili, il che rende la Russia ancora più chiusa e isolata. Il numero di persone xenofobe e paranoiche che affermano che “la Russia è infelice” è aumentato drammaticamente, creando un clima sociale di risentimento autoimposto e alienazione dal sistema globale.

Questo passaggio potrebbe fare riferimento per il lettore cinese a una serie di opere ultranazionaliste cinesi pubblicate negli anni ’90 e 2000. Questi libri consistono in forti denunce contro l’Occidente. In questo caso, l’espressione “Russia è infelice” è, per il lettore cinese, un ovvio riferimento al libro “China inhappy” di Song Jiang, pubblicato nel 2009, populista e antioccidentale.

Sia la sinistra che la destra reagiscono in modo eccessivo quando si tratta di questioni nazionali. Putin è rappresentativo di questo clima sociale. Dopo che l’Occidente ha imposto sanzioni economiche alla Russia, Putin si è offerto di tagliare gli stipendi del governo del 10%, ma ha anche insistito sul fatto che la spesa militare non sarebbe diminuita. Il 20% del bilancio è destinato alle spese per la difesa, che rappresentano l’importo più elevato nell’era post-sovietica.

Alcuni dicono che Putin stia fabbricando una nuova guerra fredda e che dopo l’incidente in Ucraina siamo entrati in un “nuovo contesto di guerra fredda”. La Guerra Fredda è stata un prodotto dell’ideologia, uno scontro tra socialismo e capitalismo, e la Russia oggi chiaramente non sta combattendo l’Occidente per scopi ideologici. La Russia non combatte né per il liberalismo né per il socialismo, il che significa che la situazione attuale non è una guerra fredda. Ma è potenzialmente più pericolosa della guerra fredda, perché se da un lato l’ideologia può essere aggressiva, dall’altro l’ideologia può regolare il comportamento dello Stato e quello della popolazione.

I conflitti della Russia contemporanea con i paesi vicini non sono ovviamente legati alla difesa di certe convinzioni, e Putin non crede nel socialismo, ma questo non riduce il pericolo dell’espansionismo russo. La Russia oggi ricorda l’era zarista, quando il patriottismo dello zar russo fece tremare di paura i suoi vicini, cosa che li fece diventare più filo-occidentali e conservatori dal punto di vista della sicurezza nazionale. Il panorama mondiale potrebbe nuovamente essere diviso tra due campi, il cui centro di gravità sarebbe la loro posizione rispetto alla Russia.

FONTI
  1. 金雁, “为帝国重塑金身,俄罗斯的 ‘新帝国综合征”, originariamente pubblicato sul canale WeChat congiunto di Qin Hui e Jin Yan, 秦川雁塔, ripubblicato sul sito web di Dunjiao (parte del gruppo multimediale Fenghua, con sede a Pechino ), 7 marzo 2022.
  2. Jin Yan fornisce il nome del Ministro della Difesa – Nuoshen/诺什.
  3. Jin Yan fornisce il nome del rappresentante-Yanci/晏茨

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/10/29/le-syndrome-imperial-de-la-russie-selon-jin-yan/

LA CIVILTA’ È ADATTA?_di Pierluigi Fagan

LA CIVILTA’ È ADATTA? La civiltà è un modo delle forme di vita associata umana nella storia della nostra abitazione del pianeta. Ad occhio rappresenta solo lo 0,16% del tempo della storia del nostro genere primate. Come e perché iniziò e lungo qui da dire, si tratta, al solito, di un sistema di cause interagenti, ma poiché è sorta più volta da più parti deve esserci stato al fondo un andamento comune.
La più probabile causa di fondo è stata l’avvento di un regime climatico particolarmente favorevole, l’Olocene. Il miglior clima ha sciolto il ghiaccio in acqua e il resto della natura ha prodotto più cibo vegetale e quindi animale, gli umani hanno vissuto una fase “paradiso terrestre” così narrato dopo che le condizioni peggiorarono di molto, nel ricordo.
A quel tempo, secondo alcuni paleoantropologi, gli umani che nel XIX secolo bollammo spregiativamente come “primitivi”, lavoravano per la sussistenza e il minimo confort necessario alla vita, tre-quattro ore al giorno. Il resto del tempo lavoravano artigianalmente assieme, chiacchieravano intorno al fuoco, ridevano, giocavano, facevano sesso. Ma se dentro i gruppi umani la vita era niente male, fuori di questi le minacce erano tante, in fondo la forma sociale che ereditiamo dalla storia evolutiva di altre specie, serve proprio per opporre al vaglio adattivo gruppi e non singoli come pretendono i biologi molecolari riduzionisti e deterministi, perdonatemi ma non posso fare a meno di aggiungere “anglosassoni”. C’è un vincolo di coerenza delle immagini di mondo che parte dai barbari germanici trasferitisi nell’isola ad Hobbes (uno dei rari studiosi dell’Alto Medioevo inglese anche perché le fonti sono assai scarne e quindi si fa presto a farsene una idea), Locke, Smith, Ricardo, Malthus, Thatcher fino a Dawkins e compagnia anglo-brit. L’intera economia anglosassone parte dalla variabile di scarsità, ma le variabili sono due, l’altra è la ridistribuzione. Nella gestione delle immagini di mondo, a volte si ottiene narrativamente di più non aggiungendo qualcosa ma sottraendolo alla vista.
Ad ogni modo, queste condizioni favorevoli aumentarono il volume dei gruppi umani, molti presero a stanzializzarsi. Cacciavano, raccoglievano (soprattutto) e integravano con piccola agricoltura che non fu affatto una invenzione tecnica che trasformò i modi produzione come narrano all’unisono marxisti e liberali con mentalità che replica la Rivoluzione industriale del capitalismo all’eternità entrambi confortati di aver scoperto una “legge” dell’economia e così confortati dal fatto che l’economia sia una scienza con le leggi come la fisica. Nelle cose umane non c’è alcuna legge, questa è la sola legge (negativa), semmai regole.
Ad un certo punto, masse umane consistenti, entrarono in periodi climatici più turbolenti e meno umidi con una raggiunta densità abitativa importante. Domanda crescente, offerta naturale calante, questo il motivo per il quale gli umani si densificarono presso i fiumi (l’acqua non cadeva più con regolarità dal cielo). Ma è anche il motivo per il quale la caccia e la raccolta (calanti anch’essi) vennero sostituite da un incremento dell’attività agricola, praticata da almeno 10.000 prima. Nascevano così le prime città, la civiltà, la gerarchia sociale, la religione (stante che forme varie di spiritualità di gruppo sono longeve quanto l’uomo), la guerra organizzata, la scrittura e le immagini di mondo di una certa complessità. La gerarchia sociale non nasce affatto dai modi di produzione ma è il modo più semplice per gestire e coordinare una società dotata di una certa massa, l’autorganizzazione delle masse consistenti è auspicabile negli ideali ma è tremendamente improbabile se non accompagnata da una intenzionalità molto sofisticata, consapevole e ben distribuita.
Potremmo dire allora che la civiltà nasce perché non si poteva più alzarsi la mattina e dire “ok, oggi che si mangia?” per poi andare per boschi o prati o ruscelli a procurarselo, bisognava programmare, pensarci prima ed organizzarsi collettivamente di conseguenza. Naturalmente l’offerta relativamente abbondante di cereali e vegetali ma anche animali allevati, aumentò la popolazione al prezzo di malattie, dominio dei maschi sulle femmine, degli anziani sui giovani, dei forti sui deboli, fragilizzazione ossea ed una cascata di innovazioni adattative con impatti vari sulle forme sociali e loro dinamiche. Questo ci dice lo studio di decine di testi di paleo-et cetera, negli ultimi anni la tecnologia ci ha permesso di estrarre moltissime informazioni dai resti degli scavi e così sembra si possa dire sia andata, più o meno e non solo in Masopotamia che è quella che consociamo meglio, la storia più antica e quella più vicina a noi.
La civiltà umana ha avuto poi cinque-seimila anni di storia, fasi alterne con vari eventi separati tra popoli e territori.
Secondo gli statistici dell’ONU, oggi festeggiamo l’arrivo dell’ottavo miliardesimo di umano vivente. Il mondo intero è diventato una Grande Mesopotamia, ormai siamo tutti stipati con vari stili di vita sullo stesso pianeta. Vi arriviamo però impreparati come impreparati furono coloro che dal “paradiso terrestre” si ritrovarono a mangiare il sudore della propria fronte misto ad un po’ di miglio francamente deludente rispetto al barbecue di cervo, domandandosi quale colpa avessero visto che il loro dio gli aveva così duramente puniti. O almeno questo raccontavano i gestori dell’immagine di mondo al potere dando a tutti la colpa che non era di nessuno. Dare le colpe è una delle principali attività del potere.
Saprete e leggerete come tutto ciò porta ad un gigantesco problema adattivo di tipo ecologico, ambientale, climatico. Ma dovrete aggiungere parecchio altro per capire il perché del titolo del post. Ad esempio, il conflitto per spazio e risorse (terra, minerali, energia, acqua) che ha portato di recente la geopolitica a prendere il posto della virologia che già aveva preso il posto dell’economia. Poi dovrete aggiungere il ridisegno dei sistemi di relazione tra culture diverse, economie e finanze diverse, credenze diverse, modi politici diversi con sciame di lotte tremende per garantirsi le migliori condizioni di possibilità a noi e non ad altri. Migrazioni ovviamente, treni di feedback non lineari che percuotono l’omeostasi del sistema umano e naturale, deliri tecnologici nella credenza magica che ogni problema complesso abbia soluzioni semplici che poi è in breve “farci i soldi” credendo di risolvere un problema creandone una decina ex-novo. Infine, ma solo perché lo spazio per scrivere ed il tempo per leggere è tiranno, l’effetto che tutto ciò ha nelle nostre specifiche forme di vita associata. Partendo dall’umanità alle varie civiltà, la nostra civiltà occidentale, l’Europa che è di natura diversa dall’Anglosfera, l’Italia e via così.
Dopo seimila anni, ci troviamo oggi e per la prima volta, con un problema adattivo inedito: riuscirà l’umanità a riconfigurarsi per essere complessivamente adatta a vivere in così tanti con così meno a disposizione di ognuno? Si tratta di un problema di ridistribuzione a dimensione planetaria e non solo tra classi sociali interne una data società, sebbene le due cose siano correlate ovviamente, come lo furono quando iniziò la civiltà.
Da ciò conseguono cascate e cascate di novità perturbanti. Le forme di vita associata, le nostre singole esistenze, le immagini di mondo. Chi scrive si occupa di questo, prioritariamente e lo fa con metodo di studio suo, indipendente, non solo nel descrittivo ma cercando anche di conseguirne il prescrittivo. Coltivo una nuova disciplina, la mondologia. Farà sorridere l’enormità dell’intento; eppure, non c’è proprio niente da ridere. Noi abbiamo il logos, il discorso con cui interpretiamo cose e fenomeni ed oggi abbiamo un nuovo oggetto iper-complesso che è il mondo. Un “mondo” in generale ce l’avevamo anche prima, ma quello di oggi si presenta come un sistema in sé alla ricerca della sua coerenza e compatibilità interna ed esterna a condizioni nuove, inedite, problematiche, con poco tempo per trovare le soluzioni, mentre il mondo stesso continua a cambiare velocemente e profondamente.
Il mondo è entrato nella prima fase storica planetaria, dove cioè le dinamiche sono sincroniche per tutto il sistema umano e i battiti di farfalla lì fanno uragani qui, questa è l’Era complessa. Ed è di questo mondo che ci sforziamo di dare una immagine, una immagine di mondo adatta al mondo che è oggi, non quello di un secolo o un millennio fa, solo qui e non lì. Non è un mio piglio definirla una nuova era storica, mi pare un fatto oggettivo secondo numero-peso-misura, materialisticamente e spiritualmente parlando.
Dovremmo forse condividere un po’ di più questo problema perché è il problema di tutti i problemi. Certo sono cose preoccupanti, complicate, prima di dire dovremmo studiare molto, cambiare molte credenze cui siamo affezionati e molti modi di essere e fare, ma è anche una formidabile spinta al cambiamento, è un cambiamento che tanto avverrà comunque, a noi sta “”solo” cercare di direzionarlo da una parte o da un’altra.
Mi sento di citare un filosofo pessimista ma forse era solo pessimista nella ragione anche se la moglie disse che era troppo “pesante” (la moglie era H. Arendt) e per questo lo mollò. Diceva il nostro e non lo trovo affatto un pensiero pessimista, al contrario, che bisognava far in modo che il mondo non cambiasse senza di noi.
Se avremo o meno un futuro con un discreto adattamento a cotanta complessità emergente dipende solo ed esclusivamente da questo.
(Appoggio solo una scarna ANSA sulla notizia del dato, troverete analisi un po’ più esplicative sulla stampa odierna, dategli un occhio, sono cose importanti tra un Kherson, un Montesano ed un Xi Jinping, tutte parti e conseguenze del tema posto: https://www.ansa.it/…/onu-la-popolazione-mondiale…).

RUSSIA E AFRICA: UNA PRIMA VISIONE GEOPOLITICA, di Bernard Lugan

All’inizio degli anni 2000, la Russia ha fatto un grande ritorno in Africa. Per ragioni
geopolitica, e riattivando vecchie reti ereditate dall’ex URSS. Ma anche approfittando
dell’accumulo di errori commessi dalla Francia e più in generale dagli occidentali.

Non sono stati i russi a cacciare la Francia dal Mali, anzi, quest’ultima si è fatta cacciare dal paese. Come era già avvenuto nella Repubblica Centrafricana. Accumulando i suoi errori, la Francia ha aperto la strada al gruppo wagneriano. Poiché la natura “aborre il vuoto”, in Mali come nella Repubblica centrafricana, i russi hanno semplicemente preso il posto della Francia dopo che quest’ultima si era diligentemente sparata su ogni piede… In Mali, l’errore politico commesso dai decisori francesi è aver fatto fin dall’inizio la diagnosi sbagliata, che era la lotta al terrorismo islamista. Tuttavia, e come non smetto di scrivere dal 2011, il problema in questo Paese non era allora una questione di terrorismo religioso, ma prima di tutto un problema di tradizionale contrapposizione tra vari popoli. Presente in Mali, il gruppo Wagner non intende sostituire l’esercito francese, né vincere la guerra per il governo maliano. Non ha né i mezzi umani né quelli materiali. Né ha i mezzi politici e tanto meno la necessaria conoscenza del Paese. Il gruppo Wagner è infatti una sorta di guardia ravvicinata delle attuali autorità maliane, con in più alcuni elementi che sovrintendono alle forze maliane in grande difficoltà di fronte alle varie ribellioni. Detto questo, i russi in questo momento possono amplificare la presenza del gruppo Wagner quando devono affrontare problemi di organico in Ucraina? Oggi non siamo più nella stessa situazione di un anno fa, quando il gruppo Wagner prendeva posizione ovunque e prendeva di mira la Guinea. Costretti a rimpatriare quante più truppe possibili, è difficile vedere come i russi possano, attualmente, sviluppare una politica di sostituzione sistematica dei francesi. Va anche ben inteso che, nella fase precedente, prima della guerra in Ucraina, quando la Russia sviluppò una politica attiva, per non dire aggressiva, in Africa, non era alla ricerca delle materie prime del continente. Abbonda nel suo territorio. La Russia in realtà ha giocato una carta completamente diversa. Piuttosto che spendere soldi inutilmente per uno sviluppo impossibile – cosa che facciamo da 70 anni – i russi hanno scelto di assumere il controllo degli eserciti. Perché, in Africa, chi controlla l’esercito, controlla il Paese. Inoltre, controllando lo Stato, si sono assicurati una clientela e un serbatoio di voti all’Onu, che hanno permesso a Mosca di non essere isolata sulla scena internazionale. Questo è anche quello che è successo quando ci sono stati voti sull’Ucraina e 17 paesi africani non hanno condannato la Russia. Se guardiamo indietro, scopriamo che in realtà il presidente russo Vladimir Putin ha adottato esattamente la strategia sovietica dell’epoca dell’ultima fase della guerra fredda. Finché Stalin era al potere, l’URSS, che era principalmente interessata all’Europa, non aveva una vera politica africana. Poi, quando si è resa conto che l’Occidente la stava accerchiando attraverso la sua rete globale di alleanze, è stata escogitata una nuova dottrina che riassumo in una breve frase che è “accerchiare gli accerchiatori”. E per questo si sviluppò una poderosa politica di aiuto ai paesi dell’Africa con entrata diretta in guerra, sia in Etiopia che in Angola. L’URSS poté così intervenire militarmente ovunque in Africa, come testimoniano i ponti aerei da essa organizzati nel 1975 verso l’Angola, poi nel 1977-78 verso il fronte etiope. Diverse decine di migliaia di “consiglieri” sovietici furono poi distribuiti tra i paesi africani che avevano accordi con Mosca. 25.000 studenti africani hanno poi frequentato università e istituti sovietici, tra cui la famosa Patrice Lumumba University. Oggi, alcuni di questi ex studenti sono al potere o gravitano nei corridoi del potere. E questo, ovunque, con esempi eclatanti nella Repubblica centrafricana, in tutto il Sahel e in particolare in Mali o addirittura nella regione sudanese. Quanto all’Egitto, che aveva rotto con l’URSS nel 1972, si è avvicinato in modo spettacolare alla Russia nel 2016, provocando così uno sconvolgimento geopolitico. In un segno molto chiaro del ritorno di Mosca in Egitto, nell’ottobre 2016, i paracadutisti russi hanno preso parte a manovre militari congiunte con l’esercito egiziano nel deserto occidentale che separa l’Egitto dalla Cirenaica. Vladimir Putin ha quindi ripreso esattamente la politica sovietica degli anni ’70 e ’80, dal momento in cui si è reso conto che l’Europa atlantista non voleva un partenariato privilegiato con la Russia. Tuttavia, all’inizio della sua ascesa al potere, Putin, che è un russo del Baltico e non un russo della Siberia, guardava all’Europa. E questo fino a quando non ha preso atto che quest’ultimo aveva decisamente scelto gli Stati Uniti. Anche lui aveva l’impressione che la Russia fosse circondata. Un sentimento che si è ancorato in lui man mano che la NATO si estendeva a est. Si è poi trovato nella situazione dell’Unione Sovietica degli anni 70. Ed è per spezzare il cerchio che, secondo lui, si era tracciato intorno alla Russia, che ha ripreso la politica africana dell’Unione Sovietica, a partire dal riattivare la vecchia reti formate all’Università Patrice Lumumba. Tuttavia, poiché i leader politici europei non hanno né memoria storica né cultura geopolitica, non l’hanno capito. L’inizio di questa politica risale al 2006 quando il presidente Putin fece un viaggio ufficiale in Sudafrica e Marocco, poi nel 2009 Dimitri Medvedev fece lo stesso in Angola, Namibia e Nigeria e cancellò 29 miliardi di dollari dal debito africano. Questi viaggi sono stati l’occasione per rinsaldare vecchie amicizie, Mosca riattivando così i suoi contatti dai tempi dell’ex Unione Sovietica. Così è stato con Michel Djotodia che ha preso il potere nella Repubblica Centrafricana nel 2013 e che parla russo. Oggi la Russia ha stabilito o ristabilito relazioni diplomatiche con tutti i Paesi africani e Mosca ospita 35 ambasciate africane. Poi, dal 22 al 24 ottobre 2019, riunendo nella località balneare di Sochi più di 40 capi di Stato per il primo vertice Russia-Africa, Vladimir Putin ha confermato il ritorno della Russia nel continente. Tuttavia, ancora una volta ciechi e prigionieri del loro prisma economico, gli “esperti” hanno minimizzato il ruolo della Russia in Africa, evidenziandone il modesto rango economico. In tal modo, non hanno visto che Vladimir Putin non è venuto in Africa per catturare i suoi minerali, ma per ragioni geostrategiche. E che la sua politica non ha avuto come alibi le nubi dello sviluppo in quanto è impossibile “sviluppare” un continente che, entro il 2030, vedrà aumentare la sua popolazione da 1,2 miliardi a 1,7 miliardi, con più di 50 milioni di nascite all’anno . Le stesse persone sono rimaste sorprese nel vedere che l’approccio della Russia è stato visto con simpatia in un continente africano stanco di moralismi e ingiunzioni sociali. Inoltre, e come i leader russi non hanno esitato a ripetere, non avendo un passato coloniale, il loro paese non si è mai creduto autorizzato a imporgli imperativi sociali, politici o economici. Al contrario, ieri l’URSS ha aiutato le lotte di liberazione e oggi la Russia esorta i paesi africani a liberarsi dalle “sopravvivenze coloniali”. Gli approcci russi sono perfettamente accolti perché gli africani hanno visto chiaramente che la Russia non viene a dare lezioni morali, né viene a imporre loro diktat politici o economici. A differenza degli insegnanti occidentali, non cerca di imporre i propri modelli. Politicamente, e l’ho mostrato in un numero precedente di Real Africa, Vladimir Poutine ha quindi espresso in modo molto esatto il punto di vista opposto rispetto al diktat democratico che François Mitterrand ha imposto all’Africa nel 1990 durante la conferenza di La Baule. Un diktat che ha causato un caos senza fine nel continente, installando definitivamente il disordine democratico. Al contrario, Vladimir Putin ritiene che uno dei blocchi dell’Africa sia dovuto alla sua instabilità politica. Un’instabilità che è in gran parte il risultato della democratizzazione perché quest’ultima porta automaticamente all’etnomatematica elettorale. Tuttavia, e questo naturalmente si scontra con la religione dei “diritti umani”, in Africa la stabilità richiede il sostegno di regimi forti, e quindi di eserciti. Ciò ha fatto dire ad Alexandre Bregadzé, ex ambasciatore russo in Guinea, nel gennaio 2019 che: “Le Costituzioni non sono né dogmi, né la Bibbia, né il Corano. Si adattano alla realtà”. Dicendo questo, ha sostenuto la proposta di revisione della costituzione che consentirebbe ad Alpha Condé, presidente della Guinea, di candidarsi per un terzo mandato presidenziale. Da parte sua, il 24 gennaio 2019, nel suo discorso di chiusura pronunciato a Sochi, Vladimir Putin ha osservato che: “Diversi paesi stanno affrontando le conseguenze delle primavere arabe. Risultato: tutto il Nord Africa è destabilizzato”. Questo è il motivo per cui la politica africana della Russia è decisamente orientata al militare. Dal 2018, la Russia è così diventata il principale fornitore di armi dell’Africa. Esportazioni che vengono effettuate attraverso la società Rosoboron export attraverso accordi firmati con RDC, CAR, Burkina Faso, Rwanda, Guinea ecc. La Russia ha firmato anche accordi della massima importanza con il Mozambico in quanto prevedono il “libero ingresso” delle navi militari russe nei porti del Paese. Mosca ha quindi ora una base di collegamento nell’Oceano Indiano, che consentirà alla sua flotta di esercitare una presenza diretta sulle principali rotte di approvvigionamento di petrolio verso l’Europa.
Cina e Russia, due metodi diversi. La Cina si sta affermando in Africa indebitando i suoi partner con prestiti che non potranno mai rimborsare e che permetteranno a Pechino di mettere le mani sulle grandi infrastrutture dei Paesi interessati. Questo sta accadendo attualmente in Zambia, dove il governo, che è stato costretto a cedere ZNBC, l’azienda radiotelevisiva, alla Cina, è attualmente impegnato in discussioni sulla cessione dell’aeroporto di Lusaka e di ZESCO, l’azienda elettrica nazionale. In definitiva, queste pratiche cinesi produrranno inevitabilmente forti turbolenze. La Russia agisce in modo completamente diverso, attraverso l’opzione militare. Ha capito che è inutile lanciarsi in grandi progetti perché lo sviluppo dell’Africa è una chimera in cui solo gli europei credono o fingono di credere. Non volendo “solcare l’oceano”, decise quindi di porsi al centro delle uniche vere strutture di potere e di influenza, ovvero le forze armate. Il suo metodo è semplice: consiste nel fornire le armi con, ovviamente, i tecnici incaricati dell’istruzione e della manutenzione. Inoltre, la Russia non ha paura di andare dove la situazione è difficile e “ribaltare la situazione” lì, come ha fatto in Libia e nella Repubblica Centrafricana. Per sostenere questa politica, impiega compagnie militari cosiddette “private” come Wagner Group e Sewa Security. Così, a poco a poco, Mosca ha preso piede nei circoli del vero potere. Il fenomeno in crescita dal 2015 rientra a pieno titolo nella strategia di disaccerchiamento di Mosca.

Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici, di Gianandrea Gaiani

Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici

0_main

 

 

Dopo nove mesi di sanguinose battaglie in cui i russi puntavano a sfondare verso Mikolayv e gli ucraini a raggiungere la riva destra del Dnepr la battaglia per la città di Kherson e i territori dell’omonima regione posti oltre il grande fiume sembra potersi risolvere con il ritiro delle forze di Mosca.

L’annuncio russo del ritiro dai territori sulla riva destra del Dnepr potrebbe segnare una svolta, forse più politica che militare, nel conflitto in Ucraina.

Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha ordinato il 9 novembre il ritiro delle truppe da Kherson, inclusa la città omonima, e il loro rischieramento sulla sponda sinistra del fiume dove da settimane erano in corso lavori di costruzione di fortificazioni e linee difensive.

s1-410-1200

I vertici ucraini, incluso il presidente Volodymyr Zelensky, hanno mostrato per ora molta cautela nei confronti dell’annuncio. Le forze di Mosca sul lato destro del Dnepr sono stimate in oltre 20 mila uomini (addirittura 40 mila secondo alcune stime) appartenenti ai migliori reparti di fanteria leggera (fanteria di Marina e truppe aviotrasportate) che finora hanno difeso con successo la testa di ponte oltre il Dnepr che avrebbe dovuto aprire ai russi la strada per prendere Odessa attaccandola da nord invece che dal mare.

Dall’estate scorsa invece le forze di Mosca sono sulla difensiva, attaccate da oltre 100 mila soldati ucraini che secondo diverse fonti hanno subito perdite spaventose pur conquistando alcune porzioni di quel territorio.

Dal primo ottobre le forze ucraine hanno liberato 41 insediamenti in questa regione, ha detto ieri su Telegram il comandante delle forze armate di Kiev, Valery Zaluzhnyi. “L’avanzata delle nostre truppe nella profondità della difesa nemica è arrivata a 36,5 chilometri”, specifica Zaluzhnyi, “la superficie totale del territorio riconquistato raggiunge i 1.381 chilometri quadrati ed è stato ripristinato il controllo su 41 insediamenti” (nel video e nella foto sotto truppe ucraine dotate di mezzi blindati occidentali e australiani nella regione di Kherson).

Video Player

Solo nell’ultimo giorno “in direzione di Pervomaiske-Kherson siamo avanzati di 7 chilometri, abbiamo preso il controllo di 6 insediamenti e l’area del territorio liberato è di 157 chilometri quadrati”, ha aggiunto il comandante in capo delle forze armate ucraine.

Completata ieri anche la liberazione della regione di Mykolaiv, di cui in realtà i russi avevano occupato solo una piccolissima parte (annessa alla regione di Kherson) intorno alla cittadina di Snihurivka, snodo delle diverse strade della sponda destra del fiume Dniepr, caduta in mano russa in marzo e a quanto sembra riconquistata in queste ore dagli ucraini.

Il ritiro dalla città di Kherson costituisce una sconfitta sul piano militare e simbolico per i russi poiché la città è l’unico capoluogo regionale conquistato dall’inizio del conflitto e la regione di Kherson è una delle quattro annesse alla Federazione Russa in seguito ai referendum di fine settembre.

Una sconfitta, o più probabilmente un ridimensionamento delle ambizioni dell’operazione speciale varata da Mosca il 24 febbraio, ma non una disfatta.

-5969696455302166387_121 (002)

I russi sembrano essersi ritirati in buon ordine lasciando agli ucraini una città e numerosi villaggi quasi disabitati, ampiamente devastati dai bombardamenti ucraini e dalle demolizioni dei russi e con ogni provabilità massicciamente minati dalle truppe di Mosca per complicare le operazioni al nemico.

Nonostante l’annunciato ritiro, il Cremlino ha escluso qualsiasi modifica dello status della regione di Kherson conseguentemente al ritiro delle truppe russe sulla riva sinistra del Dnepr poiché il territorio fa parte “della Federazione Russa, questo status è legalmente definito e fissato.

MOSCOW, RUSSIA - DECEMBER 19, 2019: Russia's Presidential Spokesman Dmitry Peskov looks on during the 15th annual end-of-year news conference by Russia's President Vladimir Putin at the World Trade Centre. Mikhail Metzel/TASS Ðîññèÿ. Ìîñêâà. Ïðåññ-ñåêðåòàðü ïðåçèäåíòà ÐÔ Äìèòðèé Ïåñêîâ íà áîëüøîé åæåãîäíîé ïðåññ-êîíôåðåíöèè ïðåçèäåíòà ÐÔ Âëàäèìèðà Ïóòèíà â Öåíòðå ìåæäóíàðîäíîé òîðãîâëè íà Êðàñíîé Ïðåñíå. Ìèõàèë Ìåòöåëü/ÒÀÑÑ

Non ci sono e non possono esserci cambiamenti”, ha affermato il portavoce presidenziale Dmitry Peskov, in un riferimento all’annessione della regione il 30 settembre scorso.

Quanto al ritiro russo e se questo possa apparire come un colpo al prestigio della dirigenza russa, Peskov ha detto che “esistono valutazioni opposte in proposito.

E in ogni caso la situazione non è umiliante. Ma non vorremmo commentare né in un modo e né in un altro. Il conflitto in Ucraina potrà finire dopo il raggiungimento degli obiettivi o terminare con il raggiungimento degli obiettivi attraverso negoziati pacifici. Kiev non vuole negoziati, quindi l’operazione militare speciale continua”. L’impressione è quindi che il Cremlino tenda a non commentare il ritiro da Kherson tenere Vladimir Putin al riparo da critiche e valutazioni negative circa l’andamento del conflitto.

“La giustizia sarà ristabilita, tutte le terre della regione di Kherson saranno riprese sotto il controllo delle forze alleate di Mosca” ha affermato il governatore ad interim della regione, Vladimir Saldo.

“La nostra terra nella regione di Kherson, tutto il suo territorio, tutti i suoi residenti faranno di certo parte della Federazione Russa”, ha concluso il governatore.

OCTOBER 16, 2022. Engagement of an Uragan multiple rocket launcher system of the Russian Central Military District under cover of electromagnetic complexes. Artillery units are protected by electromagnetic systems that monitor the sky and destroy detected enemy drones with an electromagnetic pulse. Best quality available. Video screen grab. A STILL IMAGE TAKEN FROM A VIDEO PROVIDED BY A THIRD PARTY ON 16 OCTOBER 2022. EDITORIAL USE ONLY. Russian Defence Ministry/TASS Áîåâàÿ ðàáîòà ðàñ÷åòîâ ðåàêòèâíûõ ñèñòåì çàëïîâîãî îãíÿ (ÐÑÇÎ) "Óðàãàí" Öåíòðàëüíîãî âîåííîãî îêðóãà (ÖÂÎ), äåéñòâóþùèõ ïîä ïðèêðûòèåì ðàñ÷åòîâ ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ.  ðàéîíàõ äèñëîêàöèè è áîåâûõ ïîçèöèé ïîäðàçäåëåíèÿ àðòèëëåðèè íàõîäÿòñÿ ïîä çàùèòîé ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ, ðàñ÷åòû êîòîðûõ âåäóò íàáëþäåíèå çà âîçäóøíûì ïðîñòðàíñòâîì è óíè÷òîæàþò ýëåêòðîìàãíèòíûì èìïóëüñîì îáíàðóæåííûå äðîíû ïðîòèâíèêà. Ñíèìîê ñ âèäåî. Ìàêñèìàëüíî âîçìîæíîå êà÷åñòâî. Ïðåññ-ñëóæáà Ìèíîáîðîíû ÐÔ/ÒÀÑÑ ÏÐÅÄÎÑÒÀÂËÅÍÎ ÒÐÅÒÜÅÉ ÑÒÎÐÎÍÎÉ 16 ÎÊÒßÁÐß 2022. ÒÎËÜÊÎ ÄËß ÐÅÄÀÊÖÈÎÍÍÎÃÎ ÈÑÏÎËÜÇÎÂÀÍÈß

Per il governo ucraino le forze armate russe vogliono “ridurre in macerie” Kherson, da cui si sono appena ritirate, e stanno “minando tutto” ha detto ieri il consigliere presidenziale ucraino Mykaylo Podolyak al quotidiano Ukrainska Pravda precisando che a Kherson ci sarebbero ancora militari russi e non si vedrebbero segni di ritirata e aggiungendo le forze armate ucraine non possono “né confutare né confermare le informazioni sul cosiddetto ritiro delle truppe russe da Kherson”.

Un ripiegamento che fa seguito al repentino ritiro in settembre dalla regione di Kharkiv di fronte all’offensiva ucraina che sfondò facilmente linee difensive quasi del tutto sguarnite di armi e truppe co sente do agli ucraini di mettere le mani su almeno un centinaio di mezzi corazzati e d’artiglieria russi.

 

Evacuati i civili

Il comandante delle truppe russe in Ucraina, il generale Sergey Surovikin (nella foto sotto), ha ricevuto dal ministro Shoigu l’ordine di avviare il ritiro secondo un piano messo a punto dallo stesso Surovikin subito dopo aver assunto il comando, quando diede il via all’evacuazione di tutti i civili che volevano lasciare le loro case a Kherson e negli altri centri sulla riva sinistra del Dnepr.

Un esodo che ha visto muoversi verso la Crimea e il territorio russo 88 mila abitanti della città (che prima della guerra ne contava 300 mila) e 115 mila dell’intera regione.

2_Surovikin (1) (002)

Di fatto i russi hanno evacuato la popolazione, fedele a Mosca, per sottrarla ai bombardamenti ucraini e soprattutto alle feroci rappresaglie che le milizie nazionaliste inserite nei servizi di sicurezza di Kiev hanno perpetrato (nel silenzio dei media occidentali) nei territori riconquistati dall’esercito ucraino.

Per Kiev si tratterebbe in realtà di deportazione della popolazione ucraina ma questa valutazione, comprensibile in termini di propaganda, non sembra credibile. Oltre 3 milioni di cittadini ucraini hanno infatti trovato rifugio in Russia e almeno altrettanti vivono nei territori controllati da Mosca e dalle forze secessioniste mentre in diverse aree lungo la prima linea vi sono varchi (come nell’oblast di Zaporizhzhia) in cui i cittadini ucraini possono muoversi tra i territori controllati da Kiev e quelli in mano a russi e separatisti.

Ovviamente il governo ucraino tendeva negare che quella in corso sia anche una guerra civile come dimostrano gli oltre 50 mila combattenti ucraini degli eserciti secessionisti di Donetsk e Luhansk e i il fatto che a Kiev sono stati messi fuori legge 12 partiti, incluso quello arrivato secondo alle ultime elezioni, con l’accisa di essere “filorussi”.

Sotto l’incalzare di forze ucraini numericamente preponderanti (Kiev ha pochi giorni fa avviato il reclutamento di altri 100 mila uomini) Surovikin ha suggerito la “decisione difficile” di arretrare la linea di difesa lungo la sponda sinistra del Dnepr.

-6012463849850125075_120 (002)

“Capisco che questa sia una decisione molto difficile”, ha detto Surovikin, spiegando che è legata anche all’eventualità di un attacco di Kiev alla diga di Novaya Kakhovka, più volte colpita dai razzi ucraini nei giorni scorsi.

“In questo caso ci sarebbe un’ulteriore minaccia per la popolazione civile e il completo isolamento del nostro gruppo di truppe sulla riva destra del Dniepr. In queste condizioni, l’opzione più appropriata è organizzare la linea difensiva lungo la riva sinistra”, ha detto Surovikin senza indicare una data precisa per il ritiro precisando che l’operazione avverrà “nel prossimo futuro”.

In realtà già la mattina dell’11 novembre diversi elementi sembrano indicare che il ritiro è stato quasi completato. Soprattutto il danneggiamento del ponte Antonovsky (nella foto a sinistra) sul fiume Dniepr, a Kherson.

L’infrastruttura per mesi è stata utilizzata per rifornire le truppe russe al di là del fiume e per questo a lungo bersagliata dai razzi dei sistemi HIMARS impiegati dagli ucraini.

Il giornalista russo della Komsomolskaya Pravda, Oleksandr Kots, ha pubblicato su Telegram un video della distruzione del ponte, al quale mancano due campate: una demolizione attuata quindi con ogni probabilità dai russi in ritirata che inibisce al nemico l’uso del ponte ma non ne impedisce domani la ristrutturazione.

 

Conseguenze militari

Il ritiro russo consentirà di ridurre l’impegno in prima linea di molti reparti in quel settore, di rafforzare le difese a Luhansk e di condurre offensive in altri settori come quello di Donetsk dove i russi hanno ripreso ad avanzare anche se con progressi lenti sul terreno.

Certo Mosca confermerebbe così di aver assunto un assetto prettamente difensivo come nell’oblast di Luhansk con la costituzione della cosiddetta “Linea Wagner”, propedeutico in questa fase al tentativo di sviluppare una trattativa per concludere il conflitto.

Kherson and Mykolaiv Battle Map Draft November 11, 2022

Meglio però non dimenticare che circa un terzo dei 300 mila riservisti mobilitarti sono già stati assegnati ai reparti e in futuro amplieranno le opzioni in mano al comando russo per sostenere la difesa dei territori occupati o per alimentare nuove offensive.

A sostenere le buone ragioni del piano di ritirata sono scesi in campo anche i due maggior esponenti del fronte nazionalista-patriottico e fautori della guerra in Ucraina: il leader della milizia privata Wagner, Yevgeny Prigozhin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov, vicino al Cremlino.

DraftUkraineCoTMapNovember11,2022

Segno che questa volta non ci saranno faide contro i comandanti militari come è accaduto nei mesi scorsi e che tutti a Mosca concordano nel ridurre il rischio di lunghe battaglie d’attrito che comporterebbero gravi perdite.

Oltre ad azzerare per il momento le possibilità russe di prendere Mykolayv e Odessa, il ritiro oltre il Dnepr comporta anche una maggiore esposizione della Crimea e soprattutto dell’istmo che collega la penisola ai territori ucraini sotto il controllo russo all’artiglieria lungo raggio ucraina che dalla riva sinistra del fiume avrà a tiro gli obiettivi nell’istmo situati a poco più di 70 chilometri in linea d’aria.

 

Aspetti politici

A Kiev non mancano le reazioni perplesse all’annuncio russo. Podolyak ha fatto sapere di “non vedere segnali che la Russia lascerà Kherson senza combattere”. Anzi ha affermato che parte del contingente “rimane all’interno della città”, mentre si prevede l’arrivo di nuovi rinforzi russi nella regione. “Noi liberiamo territori sulla base di informazioni di intelligence, e non di dichiarazioni alla tv” che appaiono come una “messa in scena”.

In realtà già il 9 novembre fonti militari ucraine confermavano il ritiro russo da alcuni settori. “Oggi, i russi hanno effettivamente iniziato a far crollare l’intera linea del fronte di Kherson e hanno iniziato una ritirata di massa. Nel settore di Berislav, gli occupanti sono scomparsi in un certo numero di insediamenti. Cioè, non ci sono occupanti lì per ora. I russi se ne vanno in massa, ma quando se ne vanno fanno saltare in aria i ponti” ha detto Serhii Khlan, consigliere dell’amministrazione militare regionale di Kherson.

Khlan ha aggiunto che i russi stanno rafforzando le difese sulla sponda sinistra per lasciare in modo più sicuro la sponda destra della regione di Kherson: “Oggi stanno cercando di rafforzare alcune delle loro posizioni al fine di frenare l’offensiva delle forze armate e ritirarsi in sicurezza dalla riva destra del Dnipro”.

La stessa fonte ha confermato che “gli occupanti hanno fatto saltare in aria non solo i ponti Daryiv e Tyagin ma anche il ponte all’uscita da Snigurivka verso Kherson, il ponte Mylovi a il Novokairy”.

-5431722982247613108_121 (002)

I piani di ritiro russi sembrerebbero quindi confermati dal fatto che sono stati fatti esplodere almeno 5 ponti, per rallentare l’avanzata nemica, ma in guerra non si può mai escludere che venga utilizzata l’arma dell’inganno così come pare scontato che i russi in ritirata abbiano lasciato molte aree minate per mettere in difficoltà gli ucraini.

“Gli invasori russi continuano a depredare gli insediamenti dai quali si stanno ritirando e il nemico sta anche cercando di danneggiare il più possibile le linee elettriche e altri elementi dei trasporti e delle infrastrutture critiche dell’oblast di Kherson” ha reso noto lo Stato maggiore delle forze armate ucraine.

Atteggiamenti consueti per ogni esercito che si ritiri senza voler lasciare nulla di utile al nemico: in questo caso si tratta della strategia della “terra bruciata” lasciata al nemico attuata su scala ben più ampia dai russi in ritirata contro le truppe napoleoniche e dell’Asse.

“Gli Stati Uniti hanno rilevato alcuni segnali che fanno pensare ad un possibile ritiro russo dalla città di Kherson”, ha dichiarato il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan.

Altri segnali sembrerebbero indicare la volontà russa di ritirarsi oltre il Dnepr, come il reiterato invito e Kiev a negoziare sulla base della “attuale situazione”, come ha fatto sapere per ultima la portavoce del ministero di esteri Maria Zakharova.

-6005944733739891838_121 (002)

Il che significherebbe trattare accettando che i russi mantengano il controllo dei territori a oggi sotto il loro controllo. Scontata la risposta negativa degli ucraini che confermano di voler trattare solo dopo il ritiro totale dei russi dal territorio ucraino.

Il ritiro russo da Kherson rappresenta un importante segnale politico inviato da Mosca ma rivolto all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, non agli ucraini. Non deve sfuggire che l’annuncio del ritiro è stato effettuato il giorno dopo le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: circostanza definita “curiosa” dal presidente Joe Biden che considera il ritiro annunciato un “ulteriore segnale dei problemi che i russi stanno affrontando”. Difficile però non trovare nella coincidenza temporale la conferma che Washington e Mosca stanno trattando segretamente una via d’uscita dal conflitto.

Certo Biden ha aggiunto che “rimane da vedere se le autorità ucraine saranno pronte a scendere a compromessi con la Russia” ma è altrettanto chiaro che tali opzioni non sono nelle mani di Kiev.

rus-usa_flags-550

L’Ucraina è in ginocchio tra danni di guerra, morti militari re civili, black-out elettrico che minaccia di costringere milioni di cittadini a cercare un rifugio in Europa per l’inverno. Solo il sostegno militare ed economico dei paesi della NATO consente a Kiev di continuare a combattere, a dare da mangiare alla popolazione, a pagare gli stipendi con un PIL quasi dimezzatosi dall’inizio della guerra e che il blackout elettrico divenuto ormai una costante quotidiana potrebbe ridurre di un ulteriore 40 per cento.

E’ evidente quindi che l’Occidente ha a disposizione la leva degli aiuti militari ed economici per indurre Zelensky a trattare. Forse non a caso ieri, mentre il Pentagono annunciava nuovi aiuti militari caratterizzati da forniture di missili antiaerei, il Wall Street Journal ha reso noto che il Pentagono ha deciso di non fornire a Kiev i grandi droni armati americani Grey Eagle nel timore che questo potesse portare a un’escalation del conflitto.

Anche tenendo conto che molti ambienti politici statunitensi (in maggioranza repubblicani ma anche democratici) sono stanchi di questa guerra, per le conseguenze economiche e perché ne temono i rischi di potenziale escalation non si può escludere che il Congresso uscito dalle elezioni di mid-term possa imprimere una svolta nella gestione del conflitto impostata finora dagli Stati Uniti sulla volontà di prolungarlo per logorare la Russia.

Il ritiro russo da Kherson offre quindi a Washington una ulteriore opportunità per indurre gli ucraini a sedersi al tavolo delle trattative potendo vantare successi militari e ridotte ambizioni territoriali da parte di Mosca.

Con un tempismo non casuale l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, ha detto in un’intervista apparsa oggi sul quotidiano russo Izvestija che gli Stati Uniti potrebbero porre fine al conflitto in Ucraina con “uno schiocco di dita”.

@GianandreaGaian

Foto: Ministero della Difesa Russo, Ministero della Difesa Ucraino, Telegram

Mappe: Institute for the Study of the War

 

Il florido commercio di armi ed armamenti, di Giuseppe Gagliano

Nonostante la guerra in corso tra Russia e Ucraina, l’import-export di armi procede, anche se non senza qualche difficoltà dovute alle implicazioni della guerra stessa. Vi sono casi in cui l’esportazione di armi assume una valenza strutturata e non episodica, come ad esempio quello che vede coinvolta l’Argentina: il ministro dell’Economia argentino Massa ha deciso di inviare una delegazione in Danimarca allo scopo di acquisire ben 12 aerei F-16 da Lockheed Martin. Questa decisione non deve sembrare peregrina o casuale, poiché è anche il risultato sia delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti che dalla vice presidente Cristina Kirchner. A proposito del ruolo degli Stati Uniti non va dimenticato che una volta nominato ministro, Sergio Massa è andato negli Stati Uniti per cercare il sostegno di Joe Biden per la sua candidatura alle primarie che si terranno in Argentina nel 2023. Questa richiesta di sostegno è stata accettata e condivisa almeno fino a questo momento da Biden, ma tale appoggio è condizionato dalla volontà da parte Argentina di boicottare qualunque partnership con la Cina.
Tra la Germania e la Germania è invece in funzione un sistema di contenimento anti-turco, con Berlino disposta a vendere alla Grecia carri armati Leopard e 205 veicoli da combattimento KF-41 Lynx infantry (IFV) di Rheinmetall. L’uomo chiave di questa relazione bilaterale è l’amministratore delegato dell’industria greca EODH, Andreas Mitsis, che ha un rapporto di stretta collaborazione con due importanti industrie militari tedesche e cioè la KMW e la Rheinmetall.
Mitsis non è stato soltanto un imprenditore di successo, bensì è stato consigliere dell’ex ministro della Difesa greco Akis Tsochatzopoulos, del partito socialdemocratico Pasok e segretario generale per l’Industria. Questi ruoli gli hanno consentito di avere rapporti molto stretti non solo con il Ministero della Difesa greco, ma anche con le principali industrie militari tedesche.
Indipendentemente dai rapporti tra l’imprenditore greco e i vertici del potere politico, rimane però il fatto che la crisi energetica legata all’attuale guerra in Ucraina potrebbe costituire un ostacolo serio per la Grecia nel finalizzare gli ordini con la Germania. Il fatto che il capo di Stato maggiore della Marina greca, Stylianos Petrakis, abbia chiesto all’industria navale tedesca ThyssenKrupp Marine Systems di abbassare il prezzo richiesto per modernizzare quattro fregate di classe Hydra (MEKO 200HN), da 700 milioni di euro a 600 milioni di euro, dimostra oggettivamente le difficoltà nelle quali si trova attualmente la Grecia.
Il fatto poi che la Grecia abbia rinunciato, almeno al momento attuale, ad acquistare le corvette proposte sia da Fincantieri che da Naval Group è una ulteriore dimostrazione della difficoltà in cui versa Atene.

https://www.notiziegeopolitiche.net/il-florido-commercio-di-armi-ed-armamenti/?fbclid=IwAR3WGVHlVIiBmaUk0OJeCxC65eqNpDzSYsqHoFZ6azzvuwSvQOdUmpbshqU

1 150 151 152 153 154 365