DILEMMI MULTIPOLARI, di Pierluigi Fagan

DILEMMI MULTIPOLARI. Inizia oggi la tre giorni di Xi Jinping in Arabia Saudita. Raro Xi prenda l’aereo e vada fuori il suo Paese. La visita si articolerà in tre giorni e tre riunioni: bilaterale, Cina e Paesi del Golfo, Cina a Paesi arabi. la composizione di quest’ultimo non è al momento chiara. Vediamo in breve il significato.
Il primo e più importante è il venirsi a formare di due modelli di relazioni internazionali. Da una parte quello centrato sugli USA che di recente sembra propendere per una astiosa contrapposizione contro tutti coloro che non uniformano alle forme del modello lib-dem e dall’altra tutti gli altri. Questi altri procedono condividendo relazioni economiche e finanziarie di mercato, in modalità “doux commerce” à la Montesquieu. La formula delle relazioni bilaterali tra questi Paesi è “il rispetto per la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale e la non interferenza negli affari interni reciproci” che è il focus di IR cinese ma che già lo fu alla fondazione settanta anni fa del forum dei paesi non allineati, una configurazione terza rispetto alla contesa tra i due blocchi della guerra fredda che i più si dimenticano di considerare nelle analisi su gli ultimi settanta anni di storia.
Questo punto è assai rilevante. La Cina si presenta non come modello ma come partner, una posizione basata sul principio di reciprocità. Il mondo è pieno di diversità, ma tutti vogliamo star meglio. Star meglio significa sostanzialmente pace e sviluppo economico da riversare in consenso sociale e politico. Questo sul piano formale, su quello sostanziale, la Cina è oggi il principale soggetto statale dotato di capacità di investimento. Ognuno poi a casa sua fa come crede ma ci si incontra poi al crocevia degli scambi, al mercato potremmo dire, antichissima istituzione umana che risale alla notte dei tempi e su cui arabi e cinesi sono storicamente maestri.
Per la Cina, il “mondo arabo” è triplicemente importante: in sé per sé, per sottrarlo all’egemonia occidental-americana, come cerniera verso l’Africa. Quanto all’in sé per sé si declina in questioni energetiche sulle quali gli USA sono ormai autonomi mentre la Cina ha interesse a diversificare i fornitori e non legarsi in maniera troppo esclusiva alla Russia. Ma intorno a questo nucleo ci sono altri tre aspetti. Il primo è il reciproco sviluppo. Il giovane bin Salman, ma è questione che riguarda anche tutte le altre monarchie del Golfo, sa che in prospettiva la rendita energetica diminuirà ed è ora che bisogna avviare ipotetici progetti di diverso sviluppo economico il che, per paesi mono-risorsa e con ben poco di dotazione naturale e tradizione culturale economica moderna, non è facile.
Il secondo è la nascente convinzione che anni e decenni di conflitto armato da quelle parti non hanno portato alcun vantaggio. Dalla fine del conflitto siriano, in generale, da quelle parti soffiano venti di pace sostanziale. Si va dalla riappacificazione tra Qatar e sauditi, ai viaggi israeliani di qui e di là, ai colloqui riservati che vanno avanti da tempo tra sauditi ed iraniani, iraniani e turchi e così via. Fatti apparentemente banali di semplice soft power come i mondiali di calcio in corso, la stessa vittoria ieri del Marocco che è diventato il simbolo della rinascenza arabo-musulmana, forse anche i crescenti dubbi iraniani sulla c.d. “polizia morale”, sembrano dire che da quelle parti si sta formando una idea di comunità internazionale a modo suo simile a quella storicamente intesa dagli stessi occidentali, ma senza gli occidentali dentro. Sauditi ed affini sono da un po’ i maggiori acquirenti di armi, ma prima o poi si presenterà il dilemma tra spesa in armi e spesa in sviluppo.
Il terzo è molto rilevante e poco conosciuto. Noi stessi abbiamo a lungo scritto anni fa di come dietro al Qaida e soprattutto ISIS ci fossero chiari segni di presenza saudita-emiratina. Questo nucleo salafita-wahhabita era poi collegato a quello di diversa origine ma sostanziale similarità pakistano. Questa interpretazione integralista e ultra-tradizionalista dell’islam arrivava a turbare vaste porzioni del mondo musulmano non solo arabo o africano ma anche asiatico, i quattro “-stan” e ovviamente il Xinjiang cinese. Sappiamo che molta manovalanza ISIS nel conflitto siriano proveniva da quelle parti via Turchia. Forse poco noto a noi autocentrati sui destini occidentali ma più del 90% delle vittime di attentati di queste galassie di organizzazioni armate islamiche negli ultimi anni, erano nei paesi musulmani. La stessa penetrazione cinese in Africa deve farci i conti di convivenza. Sembra ora che in accordo anche con gli altri due punti, la strategia geopolitica di questa parte del mondo stia cambiando, la leva ideologico-religiosa sembra diventare meno importante, la cooperazione è in ascesa.
Quanto alla relativizzazione occidental-americana la faccenda è complicata e forse anche non così come l’abbiamo espressa sbrigativamente. Di fatto, l’Europa si sta sottraendo o tentennando ai legami progettuali sul progetto Vie della Seta, nel frattempo però i cinesi puntano all’Asia minore e l’Africa. Le strategie giocano su tempi medio-lunghi e nei fatti, l’Europa potrebbe trovarsi accerchiata dalla rete cinese-multipolare.
Ad un osservatore terzo, tutto ciò non potrà che esser giudicato come sostanzialmente positivo. Che questi Paesi cerchino la loro Via, commercino, si allaccino in reti di reciproco investimento, si scambino culture, è il modo penso auspicato da tutti di trovare un modo di convivenza planetaria in un mondo complesso. Ma forse, “l’osservatore terzo” è una astrazione, siamo tutti geo-storicamente e geo-politicamente collocati.
E veniamo appunto ai “dilemmi”. Qualche giorno fa, le cancellerie tedesco Scholz, ha rilasciato un lungo articolo sulla testata principe delle IR occidentali cioè americane: Foreign Affairs. Scholz ha introdotto un nuovo concetto: lo Zeitenwende, lo “spostamento tettonico epocale”, unitamente al riconoscimento ormai stabilito che la cifra della fase storica è il mondo multipolare, suoi ordini, assetti, problemi ed opportunità.
Lo Zeitenwende è tutta colpa di Putin, la rottura dei principi di convivenza stabiliti dalla carta dell’ONU e per altro anche dal semplice buonsenso. Non una parola sulla responsabilità europee o sulle comprensibili paturnie russe in fatto di sicurezza come fatto di recente da Macron, anzi, è colpa di Mosca se non si sono implementati gli Accordi di Minsk che erano l’unica strada perseguibile in Ucraina.
Da leggere la lunga requisitoria di Scholz contro Putin, un saggio di argomentazioni accusatorie perfettamente in linea con la posizione americo-anglosassone ed anche sintoniche con le idee dell’est Europa su cui Berlino ha rischiato di perdere la storica egemonia con i tentennamenti iniziali. Il pezzo di Scholz vale la pena di esser letto anche perché disegna una strategia del riarmo tedesco e la sua chiara volontà di porsi come futura forza armata di riferimento per l’intera Europa, fatto di non secondaria importanza a cui è legato anche un certo tipo di sviluppo di ricerca tecnologica e produzione industriale. Forse è questa prospettiva imposta nei primi giorni dagli americani che ha portato i tedeschi a cambiare atteggiamento da un giorno all’altro, quasi un anno fa. Ipotizzo che a Macron la lettura dell’articolo non piacerà, ma non è delle questioni interne la nostra area che qui volevamo parlare.
Se Scholz si mostra allineato e coperto nella strategia antirussa degli USA con portati energetici importanti ed altrettanto in termini NATO-Europa centro-nord/orientale, si smarca con decisione dall’idea di accettare il format democrazie-vs-autocrazie americano, quindi di iscriversi alla guerra fredda 2.0 voluta da Washington per mettere ordine al -per loro- “disordine” del mondo complesso. Per Berlino quindi, Europa dentro, Russia sotto ma NON Cina fuori. Infatti, l’ha visitata da poco con codazzo di industriali e banche a ribadire gli storici legami. Tutta l’industrializzazione cinese anni ’80-’90 quella a capitale 51% cinese e 49% partner nelle zone industriali speciali e poi in tutto il paese, era coi tedeschi. Insomma, il mercantilismo tedesco non ha alcuna intenzione di uscire dai circuiti finanziario-commerciali globali.
Le cronache del mondo nuovo multipolare e complesso ci impegneranno molto nei prossimi anni. Un vero peccato che la cultura politica media del nostro Paese ne sia completamente estranea nel pensiero quando ne è e sempre più ne sarà, dipendente nella sostanza.

Golpe e colpi di mano, di Antonio de Martini

Il tentativo di golpe in Germania somiglia come una goccia d’acqua alla favola del “ golpe Borghese” organizzato dal capo della Polizia di allora, Vicari ai primi del 1971, per rendere plausibile la “ minaccia” fascista” e far accettare l’entrata del PCI nell’area della maggioranza prima e del governo poi.
Anche nel caso del “ Golpe Borghese” – a seguito della confessione registrata di tale Remo Orlandini consegnata al capitano dei CC , Antonio La Bruna, prima di scomparire nel nulla-  si arrestarono “ ex ufficiali” ( i tenenti colonnelli Rosa e De Rosa, avanzi della Repubblica sociale di trenta anni prima), c’era un parà (il solito Saccucci) e, ovviamente, nessun esponente delle Forze Armate.
In Italia aggiunsero il gustoso dettaglio dell’occupazione del ministero dell’interno e del “ prelevamento” di quattro mitra ( MAB) dall’armeria centrale del Viminale in guisa di souvenir da parte di “ un nostalgico”.
Si trattava di quattro mitra Beretta catturati dagli studenti Pacciardiani sulle “campagnole” abbandonate dai poliziotti in fuga durante lo scontro di Valle Giulia nel 1968 e “ trasferiti “in un primo tempo all’armeria centrale del Viminale per nascondere l’ammanco, la diserzione e l’0abbandono del materiale avuto in consegna.
Un ingegnoso soggetto, suggerì di aggiungere il dettaglio per poter scaricare l’imbarazzante mancanza che prima o poi avrebbe potuto nuocere al Capo.
La Marina, sottrasse la sua medaglia d’oro ( Borghese) al ludibrio, trasferendolo in sottomarino, sulle coste spagnole in un giorno in cui il comandante, il vice e il capo di SM della base di La Spezia, risultarono contemporaneamente assenti per licenza.
Anche in questa vicenda tedesca non c’é ombra di Forze armate coinvolte. Non c’é ombra di colpo di mano. Nulla.
In Italia si coinvolse la Forestale comandata dal colonnello Berti ( la battuta dell’epoca che affondò l’accusa era “ doveva occupare la RAi , perché é lì che c’é il sottobosco”) e il tenente colonnello Amos Spiazzi , un bello spirito privo di truppe che nei salotti si presentava :” Amos Spiazzi, extraparlamentare di destra”.

Se non si verifica un colpo di stato, impossibile che si realizzi la fattispecie del reato.
La magistratura sgonfiò il palloncino, ma L’Espresso ed altri fogli di estrema sinistra diedero la cosa per assodata e la manovra di avvicinamento del PCI  al potere proseguì, tramite Rodano e compagni,  come se il pericolo di un golpe fascista esistesse davvero.

Il fatto che questa grottesca sceneggiatasi ripeta pedissequamente in Germania mezzo secolo dopo, mi legittima il sospetto che la matrice  e la motivazione siano le stesse: cooptare l’estrema sinistra nell’area di governo.
E quel che l’Italia del 1970 ha in comune con la Germania2022, é la NATO. Non altro.

Il manifesto per gli affari esteri di Olaf Scholz conferma le ambizioni egemoniche della Germania, di ANDREW KORYBKO

Il leader tedesco ha appena pubblicato quello che può essere interpretato come il suo manifesto in cui spiega perché il suo Paese debba presumibilmente ripristinare il suo precedente status egemonico, ed è stato pubblicato nientemeno che dalla stessa rivista del Council on Foreign Affairs, considerato tra le piattaforme politiche più influenti nel Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Il fatto stesso che abbiano pubblicato il suo manifesto può essere considerato come il tacito sostegno di questo blocco della Nuova Guerra Fredda alle ambizioni egemoniche della Germania.

La Polonia non è così paranoica come qualcuno ha ipotizzato

Il cardinale grigio polacco Jaroslaw Kaczynski non ha sbagliato a mettere in guardia di recente contro il dominio tedesco dell’Europa in commenti che hanno fatto eco a quelli di un anno fa con i quali- accusava quel Paese di voler costruire un “ Quarto Reich ”. Il suo paese in precedenza aveva esaltato la minaccia militare del suo vicino all’Europa centrale in modo che Varsavia consolidasse la sua influenza regionale, ma il manifesto del cancelliere Olaf Scholz per la rivista Foreign Affairs dimostra che le ambizioni egemoniche di Berlino esistono davvero.

La nuova cultura strategica della Germania

Intitolato ” The Global Zeitenwende: How to Avoid a New Cold War in a Multipolar Era “, il leader tedesco ha articolato la gamma di mezzi che il leader de facto dell’UE è pronto a impiegare per rafforzare in modo completo la sua influenza in tutto il blocco sulla base di presunte reazioni al conflitto ucraino . Il primo terzo del pezzo è solo una spiegazione di come tutto sia arrivato a questo punto dal punto di vista del suo governo, ma poi passa a parlare di politiche tangibili.

Nelle parole di Scholz, “il nuovo ruolo della Germania richiederà una nuova cultura strategica, e la strategia di sicurezza nazionale che il mio governo adotterà tra qualche mese rifletterà questo fatto”, che inquadra tutto ciò che segue nel suo articolo. La Russia è l’obiettivo principale di questa strategia, come dimostrato dal Cancelliere dichiarando che “la domanda guida sarà quali minacce noi e i nostri alleati dobbiamo affrontare in Europa, più immediatamente dalla Russia”.

Si è poi dato una pacca sulla spalla per aver promosso le riforme costituzionali all’inizio dell’anno per facilitare i piani del suo governo di esporre circa 100 miliardi di dollari per modernizzare la Bundeswehr, che ha accuratamente descritto come “segnare [ing] il più netto cambiamento nella politica di sicurezza tedesca dai tempi del costituzione della Bundeswehr nel 1955”. Il due percento del PIL sarà anche investito nella difesa in conformità con le precedenti richieste degli Stati Uniti ai suoi partner della NATO.

“Diplomazia militare”

Complementare al rafforzamento militare senza precedenti della Germania dopo la seconda guerra mondiale è la politica di Scholz di revocare il suo precedente rifiuto di esportare armi nelle zone di conflitto attive per equipaggiare Kiev. Non solo, ma il suo paese addestrerà anche un’intera brigata di truppe ucraine sul suo territorio come parte di una nuova missione dell’UE insieme alla sostituzione delle armi dell’era sovietica che i paesi dell’ex blocco di Varsavia danno a Kiev con quelle tedesche moderne.

Al di là dei suoi confini, Scholz ha affermato che “la Germania ha notevolmente aumentato la sua presenza sul fianco orientale della NATO, rafforzando il gruppo di battaglia della NATO a guida tedesca in Lituania e designando una brigata per garantire la sicurezza di quel paese. La Germania sta anche contribuendo con truppe al gruppo di battaglia della NATO in Slovacchia, e l’aviazione tedesca sta aiutando a monitorare e proteggere lo spazio aereo in Estonia e Polonia. Nel frattempo, la marina tedesca ha partecipato alle attività di deterrenza e difesa della NATO nel Mar Baltico”.

Di particolare preoccupazione è stata la riaffermazione del cancelliere che “la Germania continuerà a mantenere il suo impegno nei confronti degli accordi di condivisione nucleare della NATO, anche acquistando aerei da combattimento F-35 a doppia capacità”, che è destinato a scuotere la Russia. Abbastanza chiaramente, Scholz intende che la Germania competa con la Polonia come principale rappresentante militare degli Stati Uniti nell’UE, a tal fine spera che le capacità militari più impressionanti di Berlino e l’attuale partnership di condivisione nucleare con Washington le diano un vantaggio su Varsavia.

Espansione istituzionale

Questa osservazione non dovrebbe essere interpretata come un intento di rivedere l’esito geopolitico della seconda guerra mondiale come alcuni in Polonia hanno ipotizzato rispetto a quelli che chiamano i “territori recuperati” del loro paese che ora formano il suo confine con la Germania. Piuttosto, significa solo che la Germania sta diventando più fiduciosa nel mostrare la sua potenza militare nel senso di migliorare in modo completo le capacità difensive dei suoi partner su richiesta delle loro leadership, anche se è vero che questo rischia di renderli vassalli.

Molto probabilmente, Scholz cercherà di replicare questa stessa identica strategia nei Balcani occidentali favorendo l’adesione definitiva di quegli aspiranti stati all’UE de facto guidata dalla Germania dopo aver completato il cosiddetto Processo di Berlino, come ha parlato di aver rilanciato nel suo articolo . Nonostante abbia riconosciuto le difficoltà di ammettere nuovi membri, il Cancelliere ha parlato della promessa che questo risultato avrebbe per rafforzare il potenziale del blocco di stabilire nuovi standard globali per il commercio e l’ambiente, et al.

Questa ambiziosa agenda sarà portata avanti in piena collaborazione con la Francia, secondo Scholz, che ha descritto come “condivisa [ing] la stessa visione di un’UE forte e sovrana”. Le politiche migratorie e fiscali devono essere riformate, ha affermato, al fine di impedire a forze esterne come la Russia di esacerbare presumibilmente le divisioni all’interno del blocco. La sua soluzione proposta per razionalizzare i progressi su queste questioni delicate è “eliminare [e] la capacità dei singoli paesi di porre il veto a determinate misure”.

Influenza radicata

Non c’è altro modo per descrivere la suddetta riforma se non come un gioco di potere politico senza precedenti, esattamente del tipo da cui l’ Ungheria e la Polonia avevano precedentemente messo in guardia. In caso di successo, si tradurrà nella completa sottomissione di tutti i membri dell’UE al duopolio franco-tedesco, eliminando così quelle vestigia di sovranità che ancora conservano. In altre parole, questo asse della Grande Potenza diventerà l’unico che conta in Europa.

Sarà probabilmente impossibile per gli stati più piccoli ripristinare i propri diritti perduti nel caso in cui la Germania assuma il controllo diretto sui propri eserciti in futuro, come la proposta di Scholz per la standardizzazione dei sistemi d’arma dell’UE suggerisce fortemente che accadrà inevitabilmente. L’espansione della presenza militare dell’egemone in ascesa lungo la periferia orientale del blocco, di cui ha parlato così bene all’inizio dell’articolo, potrebbe inevitabilmente portare a ciò per rafforzare l’influenza politica di Berlino.

Simili cosiddetti “complotti di colpo di stato” come quello che le sue autorità affermano di aver sventato mercoledì potrebbero diventare il pretesto con cui la Germania assume il controllo diretto sulle forze armate dei paesi dell’Europa centrale sulla base del presunto aiuto a garantire in modo sostenibile “legge e ordine”. . Visto che quelle forze avrebbero potuto a quel punto standardizzare i loro sistemi d’arma, sarebbero perfettamente interoperabili con quelli della Germania, soprattutto se a quel punto hanno già effettuato più esercitazioni congiunte.

La vera connessione con la Cina

Il resto dell’articolo di Scholz parlava un po’ dell’imminente approccio della Germania alla Cina, ma quei piani non sono così direttamente rilevanti per le ambizioni egemoniche del suo paese come quelli che è pronta ad attuare contro la Russia, ecco perché rimarranno al di fuori dell’ambito del presente analisi. Esaminando l’intuizione che è stata condivisa finora, è chiaro che ” il complotto secolare della Germania per catturare il controllo dell’Europa è quasi completo “, con ogni giorno che passa riducendo la probabilità di controbilanciare questo scenario.

Il suo leader ha appena pubblicato quello che può essere interpretato come il suo manifesto che spiega perché la Germania debba presumibilmente ripristinare il suo precedente status egemonico, ed è stato pubblicato nientemeno che dalla stessa rivista gestita dal Council on Foreign Affairs, che è considerato tra le più influenti piattaforme politiche nel Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti . Il fatto stesso che abbiano pubblicato il suo manifesto può essere considerato come il tacito sostegno di questo blocco della Nuova Guerra Fredda alle ambizioni egemoniche della Germania.

La conclusione è che l’America aspira a ripristinare la sua egemonia unipolare in declino facilitando la rinascita egemonica della Germania al fine di fare affidamento su quel paese come suo principale delegato ” Lead From Behind ” (LFB) per la gestione degli sforzi di contenimento anti-russi del Golden Billion in Europa. Questa politica mira a consentire agli Stati Uniti di concentrarsi maggiormente sull’espansione della NATO nell’Asia-Pacifico in modo da portare avanti i propri sforzi di contenimento anti-cinesi nell’altra metà dell’Eurasia.

Questo sviluppo incipiente ha lo scopo di rendere più probabile che la Repubblica popolare accetti i termini dell’America per la serie di compromessi reciproci tra di loro per stabilire un equilibrio di influenza che alla fine diventerà la “nuova normalità”. È importante che queste due superpotenze facciano progressi tangibili sulla Nuova Distensione in vista del viaggio programmato del Segretario di Stato Blinken a Pechino all’inizio del prossimo anno, ergo la tempistica dietro la pubblicazione del manifesto di Scholz da parte di Foreign Affairs.

Pensieri conclusivi

Il grande contesto strategico all’interno del quale ha articolato le ambizioni egemoniche della Germania è quindi quello di facilitare il graduale riorientamento del suo mecenate americano dall’Eurasia occidentale verso la sua metà orientale mentre il suo paese assume il ruolo di principale procuratore LFB degli Stati Uniti in Europa per contenere la Russia. Questa sequenza di eventi per migliorare il contenimento della Cina da parte dell’Occidente è tacitamente approvata dall’élite del Golden Billion, come evidenziato da Foreign Affairs che pubblica il suo articolo correlato, confermando così che il piano degli Stati Uniti è in atto.

https://korybko.substack.com/p/olaf-scholzs-manifesto-for-foreign?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=89191551&isFreemail=true&utm_medium=email

Incertezze del gas algerino e l’ipotesi di un gasdotto, di Bernard Lugan

Abbiamo più volte sottolineato la dabbenaggine sconcertante e penosa del quadro politico della Unione Europea e, con rare eccezioni, dei relativi stati nazionali, pari solo al servilismo più abbietto nei confronti, non degli Stati Uniti, ma della parte del suo establishment più avventurista e guerrafondaio. Il varo e la gestione delle sanzioni ai “danni” della Russia, in particolare quelle in materia energetica, rappresentano l’apice dell’autolesionismo consapevole di queste élites, cadute in un paradosso disarmante. Hanno varato le sanzioni sulle importazioni di gas e petrolio russi per punire il loro intervento in Ucraina, per destabilizzarla economicamente e, ridere per non piangere, acquisire l’agognata indipendenza energetica da un paese inaffidabile. Nella fattispecie hanno in realtà rinunciato ai più che stabilizzanti ed economici contratti di lunga durata per ricorrere almeno in parte alla stessa fonte per vie traverse e a prezzi moltiplicati; hanno semplicemente indotto i russi a spostare la loro offerta energetica verso altri paesi, in particolare Cina ed India, e con essa il loro baricentro geopolitico. Alla penuria e ai costi energetici provocati artificialmente nell’immediato presente, contrappongono un futuro incerto di nuove rotte energetiche incerte e  di alternative ecologiche tutt’altro che risolutive. Rivendicano l’acquisizione di una indipendenza energetica dalla Russia, per cadere in una condizione di acquirenti in un mercato di fornitori artatamente ristretto e dalla posizione contrattuale ulteriormente rafforzata. Vogliono liberarsi dall’abbraccio russo, per legarsi mani piedi al loro “amico americano”, quello stesso amico che sta brigando per condizionare le rotte energetiche europee del Mediterraneo Orientale verso la Turchia e l’Ucraina; per orientarsi verso aree geopolitiche, in particolare il Nord-Africa, particolarmente instabili, sempre più ostili all’influenza euro-statunitense, in primis la Francia, e sempre più allettate da collaborazioni con Russia, Cina, India e Turchia.
Un quadro drammaticamente fosco, capace di illuminare solo la grettezza e l’insulsaggine, la rapacità distruttiva di chi ci governa. Nella sua essenzialità, Bernard Lugan è una delle poche voci competenti in grado di additare il re nudo. Buona lettura, Giuseppe Germinario
LE INCERTEZZE DEL GAS ALGERINO
Approfittando del pesante contesto geopolitico, l’Algeria ha affermato di poter compensare parte dei volumi di gas russo aumentando le proprie esportazioni verso l’UE attraverso il gasdotto Transmed che la collega all’Italia. Tuttavia, essendosi esaurite le sue riserve che sarebbero di quasi 2.400 miliardi di metri cubi [1] , e essendo la sua produzione consumata per tre quarti localmente, l’Algeria non è in grado di compensare la Russia nella fornitura di gas all’UE.
Nel 2021 l’Algeria ha prodotto ufficialmente 130 miliardi di metri cubi (bn m3) di gas su una produzione mondiale di 3850 miliardi di m3, molto indietro rispetto alla Russia con i suoi 604,8 miliardi di metri cubi (dati 2013). Ovviamente, l’Algeria non può sostituire la Russia. Tanto più che sui 130 miliardi di m3 prodotti dall’Algeria, dovrebbero essere prelevati 93,4 miliardi di m3, ovvero: – 48 miliardi di m3 per la produzione di gas di città consumato localmente. – 20 miliardi di m3 per la produzione di elettricità, l’Algeria produce il 99% della sua elettricità da gas naturale. – 20 miliardi di m3 per la reiniezione in pozzi petroliferi o sacche di gas. – 5 miliardi di m3 per il flaring, ovvero la combustione dei gas non utilizzati. Ciò significa che l’Algeria dispone solo di circa 40 miliardi di m3 di gas da esportare, ovvero appena il 7,7% dei 520 miliardi di m3 di gas che l’UE importa ogni anno [2] . In queste condizioni, a meno che non operi drastiche restrizioni sui suoi consumi interni, è difficile vedere come, se non marginalmente, l’Algeria possa aumentare le sue consegne verso l’UE e pretendere quindi di compensare una quota significativa delle consegne russe… shale gas, non può essere la soluzione. Certo, l’Algeria dispone di enormi riserve in quest’area, ma per produrre un miliardo di metri cubi di gas (MBTu o Million British Thermal Unit) occorre un milione di metri cubi di acqua dolce. Tuttavia, come tutti i paesi del Maghreb, l’Algeria è gravemente carente di acqua e ne resterà sempre più a corto a causa dell’aumento della sua popolazione e del cambiamento climatico. Per l’Algeria, non riuscendo a rilanciare la produzione di gas, l’urgenza è quindi quella di farla durare il più a lungo possibile, e quindi di razionalizzarne l’utilizzo e non certo di aumentarne i volumi di esportazione. Tanto più che per preservare la pace sociale, il governo mantiene prezzi artificialmente bassi che portano a destinare una parte considerevole e crescente delle risorse di gas al consumo delle famiglie e non all’esportazione che genera valuta estera. Producendo sempre meno gas, l’Algeria intende riorientarsi verso un ruolo di intermediario tra alcuni produttori sud-sahariani e il mercato europeo. Da qui il suo progetto di gasdotto trans-sahariano che le consentirebbe di diventare il punto di esportazione del gas dalla Nigeria e dal Niger (si veda l’articolo nella pagina accanto).
[1] A meno che le recenti scoperte annunciate dalle autorità algerine non si rivelino veramente significative. Nell’immediato futuro regna una grande opacità in quest’area. Comunque sia, anche se queste scoperte, presentate come promettenti, fossero messe in funzione, non sarebbero state trasportate in Europa per diversi anni. Inoltre, secondo alcuni esperti indipendenti, le riserve algerine disponibili sono in realtà meno importanti dei volumi annunciati. [2] Questa cifra deve essere confrontata con i dati ufficiali che rappresentano dall’11 al 12% delle importazioni europee.
UN GASODOTTO TRANS-SAHARIANO O COSTIERO?
L’Africa è un continente gasifero sempre più promettente, ma la questione è come far arrivare il proprio gas agli acquirenti europei [1] Sono allo studio quindi tre progetti di gasdotti: uno algerino, un altro libico, il terzo marocchino. Sullo sfondo ci sono importanti problemi politici, geopolitici, geostrategici e di sicurezza. La diplomazia del gas dell’Algeria si oppone a quella del Marocco [2] e della Libia.
Il progetto algerino L’Algeria, che sta vedendo diminuire le sue riserve come abbiamo visto nel precedente articolo, cerca di installare il terminale dell’eventuale gasdotto transahariano che la collegherebbe alla Nigeria attraverso il Niger, il che ne farebbe un fornitore indiretto essenziale verso l’Europa. Per questo è particolarmente coinvolta nel progetto del gasdotto trans-sahariano. Con una lunghezza di 4.128 chilometri, questo gasdotto potrebbe collegare la Nigeria all’Algeria, passando per il Niger dove catturerebbe il gas di questo paese lungo il percorso. Un gasdotto che sarebbe in grado di trasportare 30 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso i porti algerini, quindi verso i mercati europei attraverso due gasdotti che già collegano l’Algeria all’Europa. Si tratta del gasdotto TransMed che collega Hassi R’Mel in Algeria a Mazara del Vallo in Sicilia via Tunisia, e del gasdotto Maghreb Europe (GME), che collega Hassi R’Mel a Cordoba in Spagna, via Marocco. Tuttavia, un tale progetto sembra irrealistico, non a causa del suo percorso, ma a causa del contesto terroristico subregionale. Questo gasdotto dovrebbe infatti attraversare regioni in guerra o addirittura in una situazione di totale anarchia, che, oltre al suo problema di costruzione, porrà inevitabilmente quello del suo funzionamento. In effetti, la stessa Nigeria è uno stato che non controlla tutto il suo territorio. Da sud a nord regna dunque l’insicurezza in tutta la regione di Wari da cui si estrae il gas, mentre più a nord c’è il problema di Boko Haram e dei suoi dissidenti che controllano diversi stati della federazione da dove deve passare questo gasdotto? Per quanto riguarda il Sahel, la sua situazione di sicurezza è fuori controllo… In queste condizioni, che gli investitori sarebbero disposti a rischiare decine di miliardi di dollari per portare a nord il gas prodotto nella regione costiera della Nigeria quando il più sicuro è esportare direttamente dal gasdotto marino? Il progetto alternativo libico La Libia si oppone al progetto del gasdotto trans-sahariano guidato dall’Algeria perché vorrebbe che il terminale terminasse sulla costa libica già collegato all’Italia dal Greenstream, un gasdotto lungo 520 chilometri che dalla Tripolitania trasporta il gas verso Sicilia.
La Libia ha quindi presentato un’opzione alternativa al tracciato del progetto del gasdotto trans-sahariano destinato a trasportare il gas dalla Nigeria all’Europa e che, dalla Nigeria, attraverserebbe comunque il Niger, ma per terminare non più in Algeria, bensì in Libia. Tuttavia, qui si presentano gli stessi problemi di sicurezza appena evidenziati con il progetto algerino. Ancor di più, bisognerebbe aggiungervi la questione dell’irredentismo Toubou nel nord del Niger e quella derivante dall’anarchia libica sia nel Fezzan che in Tripolitania. Il progetto marocchino Al momento, il progetto più realistico sembra essere quello portato avanti congiuntamente da Marocco e Nigeria. Un progetto colossale che riunirebbe tutti i paesi dell’Africa sahariana occidentale produttori di gas. Si tratta del Nigeria Morocco Gas Pipeline (NMGP), che dalle coste della Nigeria correrebbe lungo la costa dell’Africa occidentale, gravando sulla produzione di gas dei paesi costieri. Qui non ci sono problemi di sicurezza perché, essendo offshore, questo gasdotto sarebbe quindi indipendente dai rischi per la sicurezza regionale. L’unico problema è che utilizzerebbe le acque territoriali marocchine del Sahara occidentale, ma l’Algeria, che vuole la creazione di un immaginario stato saharawi, sta facendo pressioni sugli investitori internazionali affinché non finanzino questo progetto.
Un progetto colossale
Il progetto del gasdotto Nigeria-Marocco (Tangeri) è nato durante una visita del re Mohammed VI in Nigeria nel dicembre 2016. È stato seguito da un accordo di cooperazione tra Marocco e Nigeria firmato a Rabat il 15 maggio 2017. Con una lunghezza di 5.500 chilometri , 569 km già esistenti tra Nigeria e Ghana via Benin e Togo, la costruzione di questo gasdotto è stimata tra i 25 ei 50 miliardi di dollari. Il progetto è entrato nella fase di studi di dettaglio affidati a ditte specializzate. Ad oggi, dei 7 tracciati originariamente previsti per questo gasdotto, tre sono attualmente selezionati ma non sono stati ancora presentati ufficialmente. In totale, 16 paesi sono interessati da questo progetto, inclusi tutti i paesi dell’ECOWAS che potrebbero beneficiare delle sue ricadute, in particolare paesi senza sbocco sul mare come il Mali, il Burkina Faso e il Niger che beneficeranno dei collegamenti terrestri. Questo gasdotto permetterebbe di elettrificare intere regioni e creare poli industriali integrati. Una prima fase di questo gasdotto potrebbe collegare i giacimenti di gas offshore Grande Tortue Ahmeyim (GTA) situati su entrambi i lati del confine marittimo tra Mauritania e Senegal a Tangeri in Marocco, il suo punto finale.
[1] Un’opzione è ovviamente il gas liquefatto, ma ciò richiede una pesante infrastruttura di trasporto per liquefazione e deliquefazione.
[2] Dopo aver interrotto le sue esportazioni di gas attraverso il GME per privare il Marocco di questa fonte di energia, la Spagna ha riattivato il gasdotto per portare il gas al regno, questa volta in direzione nord-sud. Martedì 5 luglio 2022 il Marocco ha annunciato il ritorno in servizio di due grandi centrali elettriche grazie al gas naturale liquefatto (GNL) trasportato dalla Spagna attraverso il gasdotto Maghreb Europe (GME), dopo la decisione di Algeri di non fornire più il regno con il gas.

COLPA DI LETTA?_di Teodoro Klitsche de la Grange

COLPA DI LETTA?

È diventato un esercizio normale già da alcuni mesi prima delle elezioni politiche, prendersela con il segretario Letta, per il loro prevedibilissimo esito, disastroso per il PD, puntualmente verificatosi.

Intendiamoci: Letta ci ha messo del suo. Dalla proposta di aumento dell’imposta di successione per la “dote” ai giovani, al campo largo, che invece era, come prevedibile, stretto, ecc. ecc. Tuttavia farne carico al segretario appare viziato da un errore di valutazione sul quale è opportuno spendere qualche riga.

Partiamo da una considerazione: vi sono due modi estremi e opposti di valutare gli eventi storici: il primo è farne una conseguenza di fattori non individuali né dipendenti da scelte soggettive. Un esempio classico è la filosofia della Storia di Hegel per il quale questa è l’attuazione del piano della provvidenza. Lo spirito del mondo genera la storia; il ruolo dell’azione umana è così secondario, i protagonisti hanno successo in quanto attuano il piano della provvidenza. In questo senso il pensiero di Hegel è il tipo ideale della concezione “determinista”. L’altro è rapportare gli eventi a cause per lo più consistenti in attività (e passioni) umane. Così è stato interpretato come causa principale della caduta dell’Impero romano d’occidente il contrasto tra Ezio e Bonifacio e la conseguente perdita dell’Africa romana. In termini mediani, come nel pensiero di Machiavelli, si può pensare che se da una parte c’è l’influenza della fortuna, (quindi non riconducibile a una volontà di coloro che la subiscono) dall’altra c’è la virtù con la quale si limitano e s’indirizzano (almeno in parte) gli eventi causati dalla fortuna. E proprio quando la fortuna è avversa, occorre che i governanti siano più dotati di virtù.

A servirsi di tali strumenti interpretativi la tesi della scarsa fortuna del PD come dipendente dalla “colpa” di Letta non regge o regge come concausa limitata: un po’ perché tutti i suoi recenti predecessori quali Segretari hanno fatto altrettanti buchi nell’acqua; un po’ perché anche da questo, è confortata l’opinione opposta che sia la proposta politica del PD (ed i relativi mezzi) ad essere inadeguati e contrari alla “corrente” della storia contemporanea.

Come mi è capitato di scrivere più volte, con il crollo del comunismo è venuta meno la contrapposizione borghesia/proletariato con i relativi sentimenti politici.

La cui conseguenza è stata l’eclissarsi del senso politico (cioè dell’opposizione amico-nemico) e della funzione politica delle conseguenti istituzioni anche economiche e sociali. Come i partiti comunisti i quali o scompaiono e/o si mimetizzano o cambiano radicalmente (come quello cinese); od anche di istituzioni come la NATO e il Patto di Varsavia (logicamente sciolto) delle quali si capisce che ci stiano a fare: sicuramente a comunismo imploso non hanno la funzione di prima.

Tuttavia il sentimento politico cioè in primo luogo la percezione del nemico (anche come differenza etica) è elemento necessario non solo della guerra (Clausewitz) ma anche della politica (Schmitt). Senza di quello la politica (e il rapporto tra vertice e base) perde di tensione. Ed è progressivamente sostituito da un’altra contrapposizione amico-nemico: quella vecchia viene neutralizzata e ne diminuisce così la capacità di suscitare opposizioni decisive e primarie; tutt’al più conserva quella di suscitare conflitti relativi e secondari. E chi lo interpreta ne subisce la sorte: dal ruolo di protagonista decade a quello di comparsa.

La risposta del PD (e antecedenti) a questa cesura storica è stata quella di cambiare nome (anzi nomi): escamotage poco remunerativo perché da una parte i dirigenti erano gli stessi (quindi poco credibili) dall’altra elementi della vecchia opposizione erano conservati – soprattutto i più utili a tenersi il potere.

Dato però che un nemico era necessario e così delle idee da sventolare in sostituzione delle vecchie, o almeno di alcune (l’antifascismo ha resistito alla rottamazione) il nemico è diventato chi si oppone all’ideologia gender, alla famiglia nouvelle vague, chi è convinto delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, ecc. ecc. Rispetto al vecchio nemico, cioè l’imperialismo capitalistico, il minimo che si possa dire è che è un po’ poco: più che mettere paura, spesso fa ridere. Ovvero, come l’antifascismo – e l’anticomunismo – è depotenziato in se.

Tale situazione dipende dalla storia e gli uomini, in particolare i dirigenti italiani di sinistra, l’hanno subita e non causata. In relazione alla quale poco si può fare. Anche se il PD fosse stato guidato non da Fassino, Letta o Bersani ma da Cavour o da Bismarck (o come scriveva Hegel da Cesare o da Napoleone) l’esito difficilmente sarebbe stato diverso. Perché, come sostiene il filosofo, carattere distintivo degli individui cosmico-storici è di attuare lo spirito del mondo: è questo a renderli differenti dagli altri e capaci di padroneggiare i cambiamenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

RISCALDAMENTO DELL’INTERO SISTEMA SOLARE (The Imprecator),

Per decenni, gli ecologisti urbani, soprannominati ecolos piaghe, ci hanno molestato con i gas serra, “GHG”, che accusano come la causa principale del riscaldamento globale nell’atmosfera terrestre.

 

 

 Questi gas serra, dicono, sono prodotti dalle fabbriche, quindi dall’industria, dalle automobili e principalmente dai motori diesel, dal riscaldamento urbano e domestico e dall’eccesso di attività umane e di esseri umani. Quindi bisogna ridurre con urgenza l’attività industriale, fermare del tutto i veicoli a scoppio e sostituirli con quelli elettrici, fermare le nascite, riscaldare meno con un tetto che hanno arbitrariamente fissato a 19°C, senza tener conto di anziani, malati e portatori di handicap che, non potendo riscaldarsi durante il movimento, hanno bisogno di 20-24°C.

La nostra élite politica supremamente intelligente ha risolto immediatamente il problema con il maglione a collo alto e abbiamo potuto ammirare i tre pupazzi Macron, Borne e Le Maire sfoggiare in maglioni a collo alto nel bel mezzo del caldo periodo di ottobre e inizio novembre. Ma dopo aver fatto una bella risata ai francesi, hanno trovato un’altra soluzione altrettanto geniale, se i vecchi, i malati e gli handicappati soffrono il freddo, basterebbe sopprimerli e buona liberazione. La cosa divertente è che i due “zelanti intellettuali” che hanno dato questo consiglio ai politici sono Alain Minc e Jacques Attali, due vecchietti: Attali avrà ottant’anni nel 2023 e Minc lo seguirà presto.

Esistono diversi gas serra, di cui il vapore acqueo è il più abbondante, seguito dal metano; ma è la terza, la CO2 che hanno ritenuto colpevole, senza alcuna prova scientifica. Infatti la temperatura ha iniziato a salire a partire dal 1900 ed è aumentata di 1,6 gradi tra il 1900 e il 2000. Aumenterà ancora della stessa quantità, più o meno, tra il 2000 e il 2100. rispetto al picco termico di 5°C di il Medioevo che provocò siccità, ma anche migliori raccolti di cereali e frutta, riducendo così le carestie. C’è stato un raddoppio della popolazione europea. Tuttavia, il contenuto di CO2 dell’aria era molto più basso di oggi e non c’erano industrie, automobili o aerei e le barche erano a vela. D’altra parte c’era il metano a causa degli armenti di bovini e ovini.

Le popolazioni erano fondamentalmente rurali, compresa la nobiltà, e gli abitanti delle città avevano famiglie contadine. Tutti sapevano che il clima sulla terra è naturalmente instabile, e non esisteva ancora un IPCC la cui missione fosse quella di creare paura ad ogni minima variazione, paura che permettesse la tassazione e prendesse misure di privazione della libertà.

Ma soprattutto tutti sapevano che non è l’atmosfera a scaldare il clima, ma il sole . In Provenza le notti sono state tra 0° e -2°C per una decina di giorni, e le giornate tra 20 e 24°C con cielo azzurro e soleggiato. Il sole sorge alle 8:00 e il picco di calore viene raggiunto intorno alle 14:00. C’è quindi un aumento della temperatura dell’atmosfera di 24° in 6 ore, ovvero 4° all’ora e la CO2 non c’entra, il sole è l’unica causa di questo aumento di temperatura. Questo non spiega il lentissimo ma costante aumento della temperatura del globo.

L’INTERO SISTEMA SOLARE SI RISCALDA!

Tutto cambierà nella percezione del clima con la recente scoperta fatta dagli astronomi:

Tutti i pianeti del sistema solare si stanno riscaldando come la Terra!
Questo esclude definitivamente la CO2 come una delle principali cause del riscaldamento globale.

A meno che non corrano il rischio di ridicolizzarsi in modo permanente, i più ostinati e ostinati caldeggianti verdi avranno difficoltà a trovare fabbriche su Venere e inondazioni di auto diesel su Nettuno, o sovrappopolazione su Marte!

All’inizio c’è un grosso file in inglese; finisce con il riscaldamento globale del sistema solare e dei suoi pianeti.

Inizia mostrando che la temperatura globale da 600 milioni di anni non ha smesso di salire e scendere (la linea blu) mentre il contenuto di CO2 dell’atmosfera (la linea nera) è costantemente diminuito, a parte un rimbalzo tra -250 milioni e oggi.
E l’umanità non c’entra niente.

Quindi, mostra come, negli ultimi 12.000 anni, l’umanità si sia sviluppata nell’Olocene, un periodo geologico interglaciale, che è succeduto all’era glaciale del Pleistocene e che è stato caratterizzato da un aumento delle temperature e dal livello del mare.

E infine, questa è la spiegazione del riscaldamento del sistema solare.

IL SOLE È IL MOTORE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Il Sole è il principale motore del cambiamento climatico.

Ora abbiamo prove del recente riscaldamento su altri pianeti!
Se la Terra si è riscaldata negli ultimi 100 anni, anche Giove, Nettuno, Marte e Plutone si sono riscaldati.

Giove

Giove è il pianeta più grande del sistema solare. La sua caratteristica più distintiva è la Grande Macchia Rossa, un’enorme tempesta che infuria da oltre 300 anni. Una nuova tempesta, chiamata Red Spot Jr, si è recentemente formata dalla fusione di tre tempeste di forma ovale tra il 1998 e il 2000. Le ultime immagini del telescopio spaziale Hubble suggeriscono che Giove sia nel bel mezzo di uno spostamento globale che potrebbe modificare le temperature fino a 10 gradi Fahrenheit in diverse parti del globo. Il nuovo temporale si è alzato in quota sopra le nuvole circostanti, segnalando un aumento della temperatura. Vedi Space.com

Nettuno

Nettuno è il pianeta più lontano dal Sole (il piccolo Plutone è stato declassato a pianeta nano) e orbita attorno al Sole a una distanza 30 volte maggiore di quella della Terra. Le curve mostrano l’aumento della temperatura

La figura (a) mostra la luce visibile corretta, dal 1950 al 2006; (b) mostra le anomalie della temperatura terrestre; (c) mostra l’irraggiamento solare totale come variazione percentuale per anno; (d) mostra l’emissione ultravioletta dal Sole.
Tutti i dati sono stati corretti per gli effetti delle stagioni di Nettuno, le variazioni nella sua orbita, l’inclinazione assiale apparente vista dalla Terra, la distanza variabile tra Nettuno e la Terra e i cambiamenti nell’atmosfera vicino al Lowell Observatory.

Ci sono anche forti prove del riscaldamento globale su Tritone, il più grande satellite di Nettuno, che si è riscaldato considerevolmente da quando la sonda Voyager lo ha visitato nel 1988. La tendenza al riscaldamento sta facendo sì che la superficie ghiacciata di Tritone si trasformi in azoto gassoso, che rende la sua atmosfera più densa.

Marzo

Uno studio recente mostra che Marte si sta riscaldando quattro volte più velocemente della Terra. Marte si sta riscaldando a causa della maggiore attività del Sole, che aumenta le tempeste di sabbia. Secondo gli autori dello studio, guidati dalla scienziata planetaria della NASA Lori Fenton, la polvere fa sì che l’atmosfera assorba più calore, provocando un feedback positivo. Le temperature dell’aria sulla superficie di Marte sono aumentate di 0,65 ° C (1,17 F) tra il 1970 e il 1990. Notano che il ghiaccio residuo sul polo sud di Marte si è costantemente ritirato nel corso degli ultimi quattro anni. Le immagini di Marte scattate dallo spettrometro termico della missione Viking della NASA alla fine degli anni ’70 sono state confrontate con immagini simili raccolte più di 20 anni dopo dal Global Surveyor.

Ghiaccio polare di Marte (si stanno sciogliendo, come quelli dell’artico sulla Terra)

Plutone

Secondo gli astronomi, anche il pianeta Plutone, che si sta allontanando dal Sole, sta subendo un riscaldamento. La pressione nell’atmosfera di Plutone è triplicata negli ultimi 14 anni, indicando l’aumento delle temperature anche quando il pianeta si allontana dal Sole.

IL CONSENSO SCIENTIFICO NON È MAI STATO UNA CERTEZZA

È prevedibile che gli ecologisti caldisti si uniranno alla maggioranza degli scienziati che sostengono che questa spiegazione è necessariamente errata “poiché esiste un consenso sul riscaldamento dovuto all’attività industriale e alla sua produzione di gas serra”.

Ricordiamo loro che da quando i Greci furono unanimi nel porre la Terra al centro dell’universo, il numero di errori consensuali da parte degli scienziati è stato considerevole. Vedi questo articolo che ne fa un inventario: https://www.matierevolution.fr/spip.php?article4866 .

Alcuni durano da secoli; come la certezza che l’isteria fosse una malattia femminile dovuta allo spostamento dell’utero nel corpo della donna che veniva curato con l’asportazione del clitoride. Cessa solo nell’Ottocento con il progresso della medicina. O, più di recente, la certezza che il Covid fosse stato trasmesso all’uomo dai pipistrelli, poi dalle squame dei pangolini, durata un anno quando già a marzo 2020 molti indizi dimostravano che il Covid-19 era un virus migliorato dal guadagno di- tecniche funzionali, fin dalla prima SARS.

E stiamo ancora aspettando che il ruolo della CO2 nel riscaldamento dell’atmosfera sia dimostrato scientificamente, non solo da un atto di fede da parte degli ecologisti e degli scienziati che li seguono.

https://www.minurne.org/billets/33454

COVID e vaccini, il dovere della verità_con Max Bonelli

AVVISO!! Il video è stato rimosso da youtube. Rimane disponibile su rumble.

Questo è un dialogo di presentazione di un documentario di indagine delle dinamiche e procedure di adozione dei vaccini anticovid. Le procedure di adozione dei vaccini anticovid hanno goduto di procedure accelerate quantomeno insolite. E’ mancata altresì una adeguata verifica delle controindicazioni emerse in corso d’opera, tanto più che non sono stati rispettati gli usuali tempi di sperimentazione propedeutici all’utilizzo terapeutico. In alcuni paesi tali verifiche sono state praticamente assenti; in particolare in quei paesi nei quali il vaccino è diventato un credo, un dogma indiscutibile, la soluzione salvifica. Il baraccone politico-tecnocratico italiano è stato in prima fila in questa campagna di demonizzazione delle possibili alternative e di approccio unilaterale. La crisi pandemica ha evidenziato, in realtà, tutti i limiti di questa classe dirigente e ha aperto la strada a pratiche di controllo sociale e di gestione prosaica degli affari connessi. Ha evidenziato in Italia l’assenza di un piano di emergenza, l’incapacità di adozione di un piano di azione articolato e differenziato di igiene e sanità pubblica, la reticenza alla sperimentazione di soluzioni terapeutiche diversificate. Un mix esplosivo favorevole all’introduzione di sistemi di manipolazione e controllo sociale ed individuale totalitari e alla proliferazione e coltivazione di interessi lobbistici e di malaffare. Qualche flebile voce sembra emergere anche negli ambienti istituzionali. Il coinvolgimento di un intero ceto politico e di gran parte della classe dirigente nella gestione fanno propendere più verso una strumentalizzazione a fini di regolamento di conti che ad un accertamento serio di responsabilità e di cambiamento delle politiche; almeno sino a quando sarà possibile nascondere il bubbone o sotterarlo nel silenzio. Qui di seguito il link del video originale https://drmorse.tv/video/died-suddenly-documentary/ Buon ascolto e buona visione, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1yyqci-covid-e-vaccini-il-dovere-della-verit-con-max-bonelli.html

 

 

L’emergere del paradigma produttivista, una conversazione con Dani Rodrik

Per l’economista di Harvard l’era dell’iperglobalizzazione sta tramontando: gli imperativi della sicurezza nazionale hanno già cominciato a dettare nuove regole economiche globali. Credendo di perseguire gli stessi obiettivi, stiamo coltivando linee di confronto – lo dimostra quello apertosi in questi giorni tra Bruxelles e Washington. Come evitare che il nuovo paradigma sia peggiore del vecchio?

Dalla pandemia di Covid-19, molti esperti, accademici e politici annunciano il declino del neoliberismo e della globalizzazione. Secondo te, quali sono le cause di questo cambiamento di percezioni? 

Il discorso su quella che ho chiamato iperglobalizzazione si è davvero dissipato. Ciò è particolarmente visibile dopo la pandemia e, ancor di più, dopo la guerra in Ucraina, con le sue ramificazioni geopolitiche, e con il rafforzamento della competizione con la Cina. Ma queste cause immediate e molto visibili vanno collocate nel loro contesto, quello di un decennio che già vedeva farsi evidenti le debolezze ei problemi legati al neoliberismo e all’iperglobalizzazione.

Penso che per molti versi la crisi finanziaria globale sia il punto in cui è iniziata. Non ha portato a un cambiamento fondamentale nel discorso, ma ha messo in moto alcune forze che sono all’origine di questa dissoluzione del discorso neoliberista. Questo è veramente il punto di svolta nel commercio e nella finanza globali. Dopo la crisi finanziaria, la Cina, ad esempio, è diventata molto introversa in termini di commercio, e in una certa misura ciò è accaduto anche in India più di recente. Così, se consideriamo i due Paesi che sono stati i veri motori dell’espansione del commercio mondiale e degli investimenti, il loro atteggiamento, le loro politiche e il loro reale orientamento nei confronti dell’economia mondiale hanno subito una netta evoluzione nell’ultimo decennio. Molte cose erano quindi già in movimento prima della pandemia.

Inoltre, il contraccolpo politico del neoliberismo si stava già manifestando, in termini di un significativo calo dei voti per i partiti centristi, l’ascesa del populismo di estrema destra che, secondo molti studi economici, è in parte guidato dall’ansia economica e dalla dislocazione del lavoro mercati. E penso che ci sia stato anche un crescente riconoscimento all’interno della comunità economica che il consenso professionale sul fatto che l’espansione dei mercati in tutto il mondo e la loro integrazione avrebbe giovato a tutti, non si rifletteva nella realtà. Ci siamo quindi allontanati dal neoliberismo e dall’iperglobalizzazione, sia intellettualmente che in termini di reazione della gente comune. Ma è chiaro che gli shock della pandemia,

Dopo la crisi finanziaria, la Cina è diventata sempre più introversa in termini di commercio, e in una certa misura ciò è accaduto anche in India più di recente.

DANI RODRICK

Stiamo assistendo a un crescente interesse per la politica industriale, in particolare per quanto riguarda le industrie verdi , nonché un rinnovato interesse per gli investimenti pubblici. Di recente hai suggerito di chiamare questa tendenza produttivismo1. Quali sono le principali caratteristiche di questo paradigma e quali sono i principali cambiamenti rispetto al neoliberismo?

Questa è una forma di riorientamento rispetto al neoliberismo, nel senso che il produttivismo ripone molta meno fiducia nelle forze di mercato, nell’impresa privata e molto di più nella capacità dello Stato e dell’azione collettiva in generale di essere una forza di trasformazione. Sottolinea il lato dell’offerta dell’economia. Investimenti, produzione e lavoro, posti di lavoro di qualità, piuttosto che il lato della domanda dell’economia, dei consumi, del potere d’acquisto. Si concentra sulle comunità locali e sulla loro rivitalizzazione, in particolare quelle che sono state messe da parte dalla globalizzazione. Questo paradigma è molto più scettico nei confronti della finanza e favorisce gli investimenti reali rispetto ai mercati finanziari.

Il produttivismo differisce nettamente dall’economia reaganiana dal lato dell’offerta. In quest’ultimo, l’obiettivo era semplicemente migliorare gli incentivi, ridurre le tasse ed estrarre lo stato dall’economia e dal mercato. Il produttivismo, invece, consiste nel dire che, certo, dobbiamo lavorare dal lato dell’offerta, perché senza posti di lavoro produttivi non possiamo permettere ai nostri concittadini di condurre una vita dignitosa e appagante. Quindi dobbiamo assicurarci che quei posti di lavoro siano disponibili. Ma non possiamo semplicemente fare affidamento sulle aziende per garantire che questi vantaggi siano disponibili e diffusi in tutta la società.

Insisto anche sul fatto che il produttivismo è diverso dal paradigma keynesiano o socialdemocratico. Quest’ultima era essenzialmente incentrata, da un lato, sugli ammortizzatori sociali e sul welfare state. D’altra parte, si è concentrato anche sulla gestione dell’economia attraverso strumenti macroeconomici. Il produttivismo si distingue per sottolineare che se devono essere create società inclusive, sono necessari interventi diretti che diffondano i benefici delle nuove tecnologie produttive a segmenti più ampi dell’economia e a settori del lavoro che non hanno accesso a posti di lavoro produttivi di qualità, come come lavoratori poco qualificati. Questo nuovo paradigma costituzionale afferma che, naturalmente, abbiamo bisogno di protezione sociale e gestione macroeconomica, ma dobbiamo anche garantire che le persone abbiano accesso a posti di lavoro di qualità. Ciò richiede quindi il ricorso a una forma di politica industriale esplicitamente orientata alla creazione e distribuzione di questi posti di lavoro. In questo senso, è molto più focalizzato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato. è molto più incentrato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato. è molto più incentrato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato.

Certo, abbiamo bisogno di protezione sociale e gestione macroeconomica, ma dobbiamo anche garantire che le persone abbiano accesso a posti di lavoro di qualità.

DANI RODRICK

Devo aggiungere che il termine produttivismo è sia un’etichetta descrittiva che prescrittiva. Ho coniato questo termine per descrivere quelli che considero i contorni di questa nuova direzione di politica economica che è probabilmente più sorprendente negli Stati Uniti, ma di cui alcuni elementi sono visibili anche in Europa. Ma è anche in parte prescrittivo, vale a dire che penso che ciò che sta accadendo sul campo in questo momento non si sia ancora cristallizzato attorno a un nuovo modo di pensare all’economia e a una nuova visione di ciò che dovrebbe guidare le nostre politiche economiche, che potrebbe quindi costituire davvero un’alternativa al neoliberismo. Occorre quindi pensarci in modo più sistematico e coerente.

Se guardiamo agli esempi concreti di produttivismo, e in particolare alla politica industriale dell’amministrazione Biden, rimaniamo colpiti dalla molteplicità degli obiettivi prefissati. Nell’IRA, notiamo che alcuni crediti d’imposta, che mirano ad accelerare la diffusione delle energie verdi, mirano anche a sostenere le regioni svantaggiate e creare posti di lavoro di qualità. 

Ciò che mi preoccupa è che abbiamo molti obiettivi e li stiamo raggiungendo con troppo pochi strumenti. I seguenti tre obiettivi sono spesso confusi, ma è importante separarli perché ciò che funziona per uno non funzionerà necessariamente per gli altri due.

Vogliamo una transizione verde. Questo è assolutamente essenziale perché il cambiamento climatico è la minaccia più grave per la nostra esistenza. Vogliamo quindi accelerare la transizione verde, che richiederà un’ampia gamma di politiche industriali incentrate sulle energie rinnovabili e sulle tecnologie verdi. L’obiettivo principale dell’IRA è quindi proprio quello. E sostengo totalmente questo obiettivo. Le critiche europee a questa legge , apparse di recente, mi sembrano al riguardo del tutto fuori luogo.

Il secondo obiettivo è l’imperativo geopolitico della competizione con la Cina. Nota che ho alcune preoccupazioni su come questo viene pensato negli Stati Uniti, ma mettiamolo da parte per ora. Il CHIPS Act, anch’esso recentemente approvato, prevede di dedicare ingenti risorse pubbliche per promuovere la produzione avanzata e gli investimenti nei semiconduttori. Ha principalmente lo scopo di rendere gli Stati Uniti un miglior concorrente della Cina nelle industrie ad alta tecnologia e garantire che laddove gli Stati Uniti hanno un vantaggio, rimanga significativo.

C’è un terzo obiettivo, che non è l’obiettivo esplicito di nulla che l’amministrazione Biden abbia ancora adottato, e quel terzo obiettivo è la creazione e la diffusione di posti di lavoro di qualità. Purtroppo negli Stati Uniti c’è la tendenza a pensare che se perseguiamo il nostro obiettivo geopolitico, cioè investiamo nel manifatturiero e nella transizione verde, abbiamo anche a che fare con il problema di creare un’economia che offra posti di lavoro di qualità. Ma questi sono mezzi molto inefficienti per raggiungere questo scopo, perché questi investimenti non saranno necessariamente diretti verso le aree che consentono di creare un gran numero di posti di lavoro di qualità.

Quindi, mentre sono molto favorevole a garantire che le aziende che ricevono sussidi paghino buoni salari, si prendano cura dei propri lavoratori e, per quanto possibile, si tenga conto anche delle comunità svantaggiate negli investimenti, penso che ciò non possa sostituire le politiche industriali finalizzati esplicitamente alla creazione e diffusione di posti di lavoro di qualità. Questi devono mirare a un segmento molto diverso dell’economia. Dovrebbero essere presi di mira i servizi, l’istruzione, la sanità, l’assistenza a lungo termine, le piccole e medie imprese. Dovremmo sostenere innovazioni molto diverse, che mirano ad aumentare le capacità dei lavoratori meno qualificati. Ho scritto un saggio su una politica industriale per buoni posti di lavoro,

Investire nella produzione avanzata ad alta intensità di capitale e competenze è probabilmente il modo meno efficiente per creare posti di lavoro di qualità.

DANI RODRICK

Lei ha citato il ruolo della concorrenza con la Cina nell’emergere del paradigma produttivista. Questa relativa cartolarizzazione dell’economia le sembra un rischio? 

L’attuale politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina mi preoccupa. Penso che la Cina sia effettivamente diventata più autoritaria e il governo cinese stia commettendo molte violazioni dei diritti umani, che devono essere condannate da tutte le nazioni democratiche. Ma penso che dobbiamo capire che abbiamo un’influenza molto limitata su ciò che accade e accadrà in Cina.

Il problema più grave è che oggi gli Stati Uniti considerano il proprio rapporto con la Cina un gioco a somma zero. Si ritiene che se il mondo non continuerà ad essere governato dalle nostre regole, sarà organizzato secondo le regole cinesi. La conclusione quindi è, ovviamente, che deve continuare ad essere disciplinata dalle nostre stesse regole. Gli Stati Uniti devono quindi fare tutto il necessario per garantire il proprio predominio nel mondo. Non si riconosce che il mondo futuro potrebbe essere multipolare. Penso che l’idea di schiacciare la Cina, contenerla o impedirne l’ascesa economica semplicemente per mantenere la supremazia americana sia pericolosa. Penso che questo alla fine confermerà i nostri peggiori timori sulla Cina, perché più la Cina si sente minacciata,

Ho appena scritto un articolo in cui dico che l’errore che abbiamo commesso nel contesto dell’iperglobalizzazione è stato quello di lasciare che le nostre società e le nostre grandi banche scrivessero le regole dell’economia globale. L’errore che stiamo commettendo oggi è lasciare che sia il grande potere dell’establishment della sicurezza nazionale a scrivere le regole dell’economia globale. E quindi penso che in entrambi i casi finiamo per perdere perché abbiamo regole sbagliate.

Dobbiamo capire che abbiamo un’influenza molto limitata su ciò che accade e accadrà in Cina.

DANI RODRICK

Sono quindi molto preoccupato perché penso che abbiamo questa competizione geopolitica globale che rischia di eclissare tutto e non ci porterà verso un mondo più sicuro e certamente non verso un mondo prospero perché allontanerà le società e bloccherà la cooperazione in aree critiche come il cambiamento climatico , salute pubblica globale e questioni economiche.

Proprio per quanto riguarda la cooperazione sui cambiamenti climatici, qual è la sua opinione sulle critiche formulate dall’Unione Europea contro l’ Inflation Reduction Act  ?

Penso che le lamentele degli europei contro gli Stati Uniti riflettano una certa forma di miopia. La lamentela di base, a quanto ho capito, è che la legge statunitense, e in particolare i crediti d’imposta dell’IRA, include molte regole sui contenuti locali, in base alle quali le società che ricevono sussidi dal governo federale devono utilizzare input locali. E naturalmente, in senso stretto, ciò potrebbe costituire una violazione delle regole dell’OMC. Ma il clima è molto più importante dell’OMC e penso che dobbiamo rivedere le nostre priorità. Sai, la gente si lamentava dei sussidi per l’energia solare in Cina. Ma grazie a questi sussidi, che per lo più violavano le regole dell’OMC, il prezzo dell’energia solare è crollato, rendendolo una fonte di energia commercialmente valida. La Cina ha quindi fatto un enorme favore al mondo ignorando le regole dell’OMC sui sussidi. Quindi, se le regole statunitensi che prevedono ingenti investimenti nella tecnologia verde danno i loro frutti, in termini di rallentamento del riscaldamento globale, anche l’Europa ne beneficerà.

I reclami europei rivelano una certa forma di miopia. Se le regole statunitensi che prevedono ingenti investimenti nelle tecnologie verdi danno i loro frutti, in termini di rallentamento del riscaldamento globale, anche l’Europa ne beneficerà.

DANI RODRICK

Penso che anche l’Europa abbia dimenticato di non essere perfettamente liberoscambista. Lei stessa sta discutendo di un meccanismo di aggiustamento del carbonio e quindi affronta lo stesso problema: potrebbe violare le regole del commercio mondiale così come le concepiamo oggi. Perché questo meccanismo comporterebbe la creazione di dazi doganali sulle merci dei Paesi che utilizzano tecnologie inquinanti. E penso che sia perfettamente accettabile, perché consentirà all’Europa di mantenere alti i prezzi interni del carbonio.

Il passaggio a un approccio economico più interventista e dal lato dell’offerta sembra essere meno forte in Europa che negli Stati Uniti. Condividete questa analisi? E hai una spiegazione per questo? 

L’Europa si è comunque evoluta più o meno nella stessa direzione degli Stati Uniti. La politica industriale è riemersa in prima linea nelle discussioni politiche europee. Osserviamo le stesse debolezze di quelle che ho appena esposto per gli Stati Uniti, perché focalizzati sulla digitalizzazione e sulla transizione ecologica. Fondi europei molto significativi sono dedicati all’innovazione e al sostegno in questi ambiti. Ancora una volta, il presupposto è che i posti di lavoro di qualità e la loro diffusione geografica seguiranno meccanicamente. Ma questo mi sembra tutt’altro che certo.

Siamo quindi impegnati nella stessa direzione, ma l’Europa non è stata così ambiziosa come gli Stati Uniti. Penso che manchi una riflessione coerente su ciò che è necessario per creare un’economia che sia produttiva e inclusiva e per trasformare il panorama dell’occupazione produttiva per i lavoratori che sono particolarmente lasciati indietro. In Francia, ad esempio, si tratta di giovani lavoratori che affrontano un tasso di disoccupazione molto elevato. In molti altri paesi, sarebbero gli immigrati recenti ad essere esclusi dalle opportunità di lavoro produttivo ea creare significative tensioni sociali nelle società.

L’Europa manca di un pensiero coerente su ciò che è necessario per creare un’economia che sia al tempo stesso produttiva e inclusiva e per trasformare il panorama dell’occupazione produttiva per i lavoratori che sono particolarmente lasciati indietro.

DANI RODRICK

All’inizio di quest’anno avete lanciato un progetto chiamato “Reimagining the economy”, che mira a “studiare nuove strutture, nuovi meccanismi di governance e nuove forme di economia di mercato e di capitalismo”. Quali sono le principali domande e idee che saranno esplorate da questo programma? 

Le discussioni sulla politica economica tendono a oscillare tra l’idea che il mercato sia la soluzione e che lo Stato sia una minaccia da un lato e la tesi opposta dall’altro. Il nostro progetto “reimmaginare l’economia” si basa sulla premessa che il mercato e lo stato sono complementari. Cerchiamo quindi di capire come lo Stato possa lavorare con il settore privato in uno spirito di collaborazione per aumentare il numero di posti di lavoro produttivi di qualità. La nostra ipotesi è che molte collaborazioni intersettoriali innovative siano già in atto in un certo numero di luoghi. Negli Stati Uniti sono molte le esperienze locali in cui gruppi di imprese si alleano con agenzie locali di sviluppo economico, community college e uffici locali della Small Business Administration per sviluppare una visione comune e investire in aree che creano nuove opportunità di lavoro. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. in cambio del quale le imprese e gli altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. in cambio del quale le imprese e gli altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla.

Da un lato, abbiamo una sorta di teoria generale secondo cui abbiamo bisogno di meccanismi migliori per la collaborazione tra governo e settore privato. D’altra parte, abbiamo questi germi di esperienza. E quello che vogliamo fare è collegare tutto questo insieme in un modo che allarghi le nostre prospettive e le nostre idee su come possiamo creare economie di successo. Vogliamo arricchire la nostra comprensione di quali collaborazioni funzionano bene e dove no. Perché questo è l’enigma principale. Non si tratta solo di come far decollare queste collaborazioni, ma di come assicurarsi che servano a uno scopo pubblico in modo che non si trasformino in un’istanza di corporativismo che serve solo i bisogni di pochi addetti ai lavori.

LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA: LO STUPIDO E L’ANALISTA, a cura di Luigi Longo

LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA: LO STUPIDO E L’ANALISTA

a cura di Luigi Longo

Ho trovato interessante sia la conferenza stampa di Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, tenuta a Bruxelles il 25/11/2022 e ripresa dall’agenzia Adnkronos e pubblicata, a mò di stralcio, sul suo sito https://www.adnkronos.com/ucraina-stoltenberg-diventera-membro-nato_5EZiSZ99s7FBWwsQbcCHLa/amp.html, sia l’intervista del colonnello statunitense Douglas Macgregor rilasciata al canale polacco Votum TV e pubblicata sul sito www.comedonchisciotte.org del 24/11/2022.

Le riporto per riflettere sia sulla stupidità di Jens Stoltenberg sia sull’analisi concreta e ragionata del colonnello Douglas Macgregor.

Una precisazione e una riflessione. La precisazione riguarda il concetto di stupidità, una sorta di scherzosa (mica tanto) teoria generale della stupidità umana, elaborata dallo storico Carlo Maria Cipolla (Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988, in particolare le pagine 65-77) che così la definisce << Il secondo fattore che determina il potenziale di una persona stupida deriva dalla posizione di potere e di autorità che occupa nella società. Tra burocrati, generali, politici, capi di stato e uomini di Chiesa, si ritrova l’aurea percentuale […] di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (o occupano). La domanda che spesso si pongono le persone ragionevoli è in che modo e come mai persone stupide riescano a raggiungere posizioni di potere e di autorità >>. Affermare, come fa Jens Stoltenberg, che << […] Se Putin, o altri leader autoritari, vede che l’uso della forza è premiato, la userà ancora per raggiungere i suoi obiettivi. E’ quindi nei nostri interessi di sicurezza sostenere l’Ucraina. Bisogna ricordare che la Russia è l’aggressore, l’Ucraina è vittima di una aggressione e l’Ucraina ha il diritto di difendersi e noi la aiutiamo a farlo >> rientra sia nel potere della stupidità << La persona intelligente sa di essere intelligente. Il bandito è cosciente di essere un bandito. Lo sprovveduto è penosamente pervaso dal senso della propria sprovvedutezza. Al contrario di tutti questi personaggi, lo stupido non sa di essere stupido. Ciò contribuisce potentemente a dare maggiore forza, incidenza ed efficacia alla sua azione devastatrice. Lo stupido non è inibito da quel sentimento che gli anglosassoni chiamano self-consciousness. Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente. >>; sia nella quarta legge fondamentale della stupidità che afferma << Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore. Nei secoli dei secoli, nella vita pubblica e privata, innumerevoli persone non hanno tenuto conto della Quarta Legge Fondamentale e ciò ha causato incalcolabili perdite all’umanità. (grassetto mio, LL) >>.

La riflessione concerne l’analisi concreta della situazione concreta del colonnello Douglas Macgregor. Ne rimarco alcuni passaggi << Non vedo alcuna prova che Mosca sia interessata ad attaccare la NATO. Di certo non è interessata ad attaccare l’Occidente e penso che l’intero conflitto si sarebbe potuto evitare se avessimo semplicemente riconosciuto i legittimi interessi di Mosca riguardo a ciò che accade in Ucraina […] questo regime di Zelensky sia un governo molto pericoloso, inguaribilmente ostile alla Russia e che risponde esclusivamente alle istruzioni di Washington, che, a sua volta, ha deciso di indebolire la Russia in ogni modo possibile […] Beh, torniamo indietro e rendiamoci conto che la struttura militare che Putin e il suo governo hanno costruito negli ultimi 15-20 anni è stata concepita principalmente per difendere la Russia. Non è stata progettata per una guerra di conquista contro Paesi confinanti e, secondo me, [l’Occidente] non ha capito che la riduzione delle dimensioni e il cambiamento di orientamento [dell’esercito russo] lo rendevano molto diverso da quello che esisteva all’epoca dell’Unione Sovietica […] Sono abbastanza sicuro che i Russi non vorranno rimanere nell’Ucraina occidentale, che è il cuore dell’Ucraina e dove vivono i veri Ucraini. I Russi non sono interessati ad una cosa del genere. I Russi probabilmente si ritireranno nella parte alta del fiume, ma, per quanto riguarda Kherson, Kherson è sempre stata russa. Odessa è stata fondata dai Russi, anche se si potrebbe dare un po’ di merito ai Tedeschi, che erano certamente al servizio di Caterina la Grande, e che avevano partecipato alla costruzione di molte di queste città, insieme a Inglesi, Scozzesi e Olandesi. Siamo sinceri, il punto fondamentale è che questa regione è sempre stata russa, non è mai stata ucraina, il vero “cuore dell’Ucraina” è più a nord, a nord del Mar Nero. I Russi riconquisteranno Kherson e riconquisteranno anche Kharkov. Queste sono città storicamente russe, ma i Russi non sono interessati al resto del Paese. >>.

La guerra Russia-Ucraina si gioca nella soluzione del conflitto interno (in equilibrio dinamico) agli agenti strategici statunitensi. In sintesi, se: a) questo esprimerà un blocco egemone che produrrà un progetto di sintesi nazionale di una nuova idea di sviluppo e riorganizzazione sociale in grado di dialogare, come potenza mondiale, con il progetto del costituendo polo asiatico e, quindi, creare una frattura nella storia statunitense per rimanere nella fase multicentrica che significa condivisione e rispetto tra i costituendi poli: Occidentale (ad egemonia statunitense) e Orientale (ad egemonia cinese e russa) per il dominio mondiale; b) oppure, il conflitto, esprimerà un blocco egemone, sulla scia della storia statunitense, che fa della guerra lo strumento per l’affermazione del dominio mondiale monocentrico che porterà alla fase policentrica, ossia alla terza ed ultima guerra mondiale. Seneca, letto da Concetto Marchesi (Seneca, Casa editrice Giuseppe Principato, Messina-Milano, 1934, pag.274), sosteneva che << La guerra dell’uomo all’uomo è un pericolo quotidiano contro cui bisogna sempre premunirsi e vigilare; è il male più frequente, più tenace e più insidioso. La tempesta minaccia prima di scoppiare, l’edificio scricchiola prima di rovinare, il fumo preannunzia l’incendio: la rovina che ci viene dall’uomo è improvvisa ed è tanto più nascosta quanto più vicina. E’ un errore credere ai volti che ci si presentano: l’immagine è di uomo, l’animo è di belva; ma delle belve è più pericoloso il primo assalto: una volta passate non ci ricercano più, e solo il bisogno le porta a nuocere costrette dalla fame e dalla paura; per l’uomo è un piacere rovinare un altro uomo. >>.

In chiusura, rilevo, di sfuggita, che altra cosa è ragionare sul perché le relazioni sociali devono attraversare il campo del potere e del dominio (ossia il campo della stupidità che coinvolge tutti: stupidi e non stupidi) che sono distruttrici di sensatezza sociale storicamente data. Qui dobbiamo studiare, capire, comprendere la storia umana sessuata se vogliamo trasformare i rapporti sociali fondati sul potere e sul dominio in tutte le sfere della società e nell’insieme della vita pubblica e privata che sono intrecciate e innervate.

LO STRALCIO DELLA CONFERENZA STAMPA

UCRAINA, STOLTENBERG: “DIVENTERÀ MEMBRO NATO”

“Russia non ha veto su ampliamento Alleanza”

a cura di redazione Adnkronos

L’Ucraina diventerà membro della Nato. “Le porte della Nato sono aperte e lo abbiamo dimostrato non solo a parole ma anche con i fatti”, con la recente adesione della Macedonia del Nord e, quest’anno, l’avvio del processo di adesione di Finlandia e Svezia, passi a cui Mosca si opponeva, ha sottolineato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in una conferenza stampa a Bruxelles, precisando che così facendo “dimostriamo che le porte della Nato sono aperte, la Russia non ha un veto sull’ampliamento dell’Alleanza e spetta ai Paesi alleati decidere sulle adesione”.

“E questo è lo stesso messaggio diretto all’Ucraina. Abbiamo ribadito la decisione presa al vertice di Bucarest del 2008 che l’Ucraina diventerà un Paese membro”, ha quindi aggiunto in vista della riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi Nato la prossima settimana, sempre a Bucarest.

“Il modo di aiutare l’Ucraina a raggiungere la membership è quello di lavorare insieme a Kiev, sia a livello politico che di sostegno pratico, che è quello che facciamo”, sia assicurando le necessità più urgenti di Kiev, che una cooperazione più a lungo termine.

“La maggior parte delle guerre terminano con negoziati, ma quello che avviene al tavolo negoziale dipende da quello che è accaduto sul campo di battaglia. Quindi la cosa migliore per aumentare le possibilità di una soluzione pacifica è sostenere l’Ucraina. Non ci tireremo indietro”, ha affermato ancora Stoltenberg.

“I Paesi alleati forniscono (a Kiev, ndr) sostegno militare senza precedenti e mi aspetto che i ministri degli Esteri si impegneranno per aumentare il loro supporto di equipaggiamenti non letali. Alla riunione di Bucarest chiederò più contributi. Sul tempo più lungo, aiuteremo l’Ucraina alla transizione da sistemi d’arma di epoca sovietica a standard Nato e incontreremo Dmytro Kuleba per discutere delle necessità più urgenti e del sostegno a lungo termine”, ha quindi anticipato.

“Putin sta fallendo in Ucraina e risponde con più brutalità. Ondate di attacchi missilistici diretti contro cittadini e infrastrutture civili privano gli ucraini di riscaldamento, luce e acqua. Sono tempi duri anche per il resto dell’Europa e per il resto del mondo, stiamo tutti pagando un prezzo per la guerra della Russia in Ucraina. Ma per noi il prezzo è in denaro, per gli ucraini è con il sangue. Se consentiamo a Putin di vincere, tutti noi pagheremo un prezzo più alto negli anni a venire. Se Putin, o altri leader autoritari, vede che l’uso della forza è premiato, la userà ancora per raggiungere i suo obiettivi. E’ quindi nei nostri interessi di sicurezza sostenere l’Ucraina. Bisogna ricordare che la Russia è l’aggressore, l’Ucraina è vittima di una aggressione e l’Ucraina ha il diritto di difendersi e noi la aiutiamo a farlo”.

L’INTERVISTA

L’UCRAINA STA PER ESSERE ANNICHILITA

L’intervista del colonnello douglas macgregor* al canale polacco votum tv

INTERVISTANATOUCRAINA

Votum TV**. Salve e benvenuti a tutti, spero che stiate passando una buona serata e vorrei darvi il benvenuto al primo episodio di Heretics channel su votum Tv. Stiamo trasmettendo dalla Polonia e questa sera abbiamo un ospite molto speciale, il colonnello Douglas McGregor, che vi è stato presentato con la sua biografia all’inizio dell’episodio. Credo che per molti molti dei nostri telespettatori il colonnello McGregor sia un personaggio molto noto, soprattutto alla luce della situazione che si sta verificando in Ucraina, ma non solo.

Colonnello Doug, è un onore averla nel nostro programma, come sta?

Macgregor. Benissimo.

Votum TV. Perfetto, entriamo subito nel vivo. Alla luce della situazione che si è verificata in Polonia con l’attacco missilistico dall’Ucraina, vorrei iniziare citando due tweet, uno di ieri e uno di oggi. Il primo proviene da un canale ucraino che sostiene di essere associato al movimento Euro Maidan e il secondo è di un giornalista polacco. Il primo afferma: “i sondaggi oggi impongono di scegliere tra la vergogna o la guerra, ma, anche se si sceglie la vergogna, la guerra busserà sicuramente alla porta. La storia ha dimostrato che la Polonia può vincere solo combattendo insieme all’Ucraina contro la Russia, tutte le altre opzioni rappresentano la distruzione della Polonia.” Il secondo tweet è di un giornalista polacco secondo cui, cito testualmente, “sarebbe un male se la tragedia di Przewodow [il villaggio dove è caduto il missile ucraino, N.D.T.] portasse in Polonia ad un indebolimento del sostegno all’Ucraina. Tali tragedie potranno cessare solo se la Russia porrà fine alla sua aggressione non autorizzata e illegale contro l’Ucraina, sosteniamo l’Ucraina.” Doug, come risponde a questi due tweet?

Macgregor. Sono certamente favorevole alla comprensione reciproca e alla cooperazione tra Polacchi e Ucraini, ma non condivido l’idea che la Russia sia attualmente un nemico di tipo sovietico che deve essere combattuto a tutti i costi. Non vedo alcuna prova che Mosca sia interessata ad attaccare la NATO. Di certo non è interessata ad attaccare l’Occidente e penso che l’intero conflitto si sarebbe potuto evitare se avessimo semplicemente riconosciuto i legittimi interessi di Mosca riguardo a ciò che accade in Ucraina. L’Ucraina è un vicino della Russia, ciò che accade in Russia è importante per gli Ucraini e ciò che accade in Ucraina è importante per i Russi, quindi avremmo potuto intervenire tempestivamente e dire: facciamo un cessate il fuoco e parliamo. In realtà, negli ultimi 10-20 anni, avremmo dovuto ascoltare i Russi riguardo alle loro preoccupazioni per ciò che stava accadendo in Ucraina ed ora penso che questo regime di Zelensky sia un governo molto pericoloso, inguaribilmente ostile alla Russia e che risponde esclusivamente alle istruzioni di Washington, che, a sua volta, ha deciso di indebolire la Russia in ogni modo possibile. L’intera faccenda si è ovviamente ritorta contro [l’Occidente]. La Russia è oggi economicamente e finanziariamente più forte di quanto non fosse all’inizio dell’intervento. Direi che sta anche diventando militarmente più forte ogni ora che passa, quindi la soluzione non è unirsi a questa guerra futile e inutilmente distruttiva con Mosca. È quella di mettere un po’ di buon senso nella testa della gente, nel governo di Kiev e l’ultima cosa che Varsavia deve fare è unirsi a questa follia. Varsavia dovrebbe offrire i suoi servizi come mediatore e porre fine a questo conflitto distruttivo, è qui che Varsavia potrebbe svolgere il ruolo di grande potenza.

Votum TV. È molto importante, credo, sottolineare la dimensione militare di questa situazione e penso che lei sia l’uomo perfetto per una cosa del genere, perché, fin dall’inizio di questa guerra, abbiamo avuto militari polacchi, ex ufficiali, che hanno continuato a dire che è solo una questione di tempo prima che la Russia finisca i missili, che i Russi rubano l’equipaggiamento militare degli Ucraini perché non ne hanno abbastanza nel loro esercito post-sovietico. Quindi, Doug, voglio che lei accompagni i nostri telespettatori attraverso una sorta di tour de force riassuntivo della situazione militare in Ucraina, con particolare attenzione a ciò che è appena accaduto a Kherson, perché stiamo vedendo molte e diverse interpretazioni. Secondo l’Occidente, i Russi sono stati scacciati, mentre i Russi dicono: “No, è stata solo una ritirata tattica e ritorneremo presto.”

Macgregor. Beh, torniamo indietro e rendiamoci conto che la struttura militare che Putin e il suo governo hanno costruito negli ultimi 15-20 anni è stata concepita principalmente per difendere la Russia. Non è stata progettata per una guerra di conquista contro Paesi confinanti e, secondo me, [l’Occidente] non ha capito che la riduzione delle dimensioni e il cambiamento di orientamento [dell’esercito russo] lo rendevano molto diverso da quello che esisteva all’epoca dell’Unione Sovietica. Putin, tra l’altro, aveva iniziato l’intervento in Ucraina orientale basandosi su una serie di presupposti che non erano validi, ma che all’epoca riteneva tali. Aveva affermato di non voler uccidere civili, di non voler distruggere le infrastrutture, anzi di avere intenzione di condurre una campagna molto limitata perché l’interesse principale della Russia era distruggere questi elementi radicali nell’est del Paese, ponendo così fine alla forza ostile costruita dagli Stati Uniti e dalla NATO nell’Ucraina orientale e giungere ad un qualche tipo di accordo che avesse consentito una pari rappresentanza di fronte alla legge per la popolazione di lingua russa che vive in Ucraina. Aveva pensato: “Stiamo combattendo contro un Paese slavo fratello e non vogliamo che questo conflitto duri più dello stretto necessario.” Secondo me pensava di avere a Kiev e a Washington dei partner con cui poter negoziare sul serio. Si sbagliava. Ora tutto è cambiato e i cambiamenti sono iniziati questa estate. Parlo delle decisioni prese ad agosto su come affrontare il resto della campagna ed ora [con l’arruolamento di altri 300.000 soldati russi] ci troviamo di fronte ad una forza totale di quasi 700.000 uomini che circondano l’Ucraina, con la forte probabilità che l’offensiva russa inizi nelle prossime settimane, quando il terreno si congelerà completamente e i Russi riterranno di essere pronti si muoveranno e daranno il colpo di grazia a questo Stato ucraino.

Non prendiamoci in giro, il regime di Kiev sarà probabilmente annientato insieme al resto delle sue forze armate, che, col tempo, si sono sempre più radicalizzate, al punto che questi cosiddetti nazisti e i loro sostenitori non solo uccidono i Russi, ma anche la loro stessa gente e, come abbiamo visto di recente, anche truppe polacche che combattevano in Ucraina indossando l’uniforme ucraina. La situazione si è deteriorata. I Russi avrebbero esaurito le munizioni, credo fin dal primo giorno di guerra, secondo la propaganda, e gli Ucraini sono ancora in marcia per la vittoria. Beh, sono tutte sciocchezze. I Russi ora si stanno mobilitando per portare a termine questo conflitto. L’errore più grande che potremmo fare in Occidente è farci coinvolgere. Abbiamo fatto abbastanza danni e credo che quello che vedremo sarà esattamente ciò che ho descritto: la totale distruzione dello Stato ucraino. Cosa succederà dopo non lo so. Sono abbastanza sicuro che i Russi non vorranno rimanere nell’Ucraina occidentale, che è il cuore dell’Ucraina e dove vivono i veri Ucraini. I Russi non sono interessati ad una cosa del genere. I Russi probabilmente si ritireranno nella parte alta del fiume, ma, per quanto riguarda Kherson, Kherson è sempre stata russa. Odessa è stata fondata dai Russi, anche se si potrebbe dare un po’ di merito ai Tedeschi, che erano certamente al servizio di Caterina la Grande, e che avevano partecipato alla costruzione di molte di queste città, insieme a Inglesi, Scozzesi e Olandesi. Siamo sinceri, il punto fondamentale è che questa regione è sempre stata russa, non è mai stata ucraina, il vero “cuore dell’Ucraina” è più a nord, a nord del Mar Nero. I Russi riconquisteranno Kherson e riconquisteranno anche Kharkov. Queste sono città storicamente russe, ma i Russi non sono interessati al resto del Paese.

Spero solo che gli Ucraini permettano la nascita di un nuovo governo con un nuovo atteggiamento, in modo da poter porre fine a questa situazione, perché, francamente, noi Americani abbiamo deluso il mondo. È la prima volta nella nostra storia, sicuramente dalla Seconda Guerra Mondiale, che non siamo intervenuti immediatamente per porre fine ad un conflitto che coinvolgeva la Russia. Abbiamo sempre lavorato instancabilmente per trovare una via d’uscita da un possibile conflitto con la Russia e mai prima d’ora avevamo avuto un governo che aveva cercato il conflitto con la Russia e la tragedia, ovviamente, è che abbiamo sovvenzionato e costruito nell’Ucraina orientale questa tremenda forza che, nonostante sia stata abbondantemente, stiamo continuando a sostenere e le vittime principali sono ovviamente gli Ucraini. Stanno morendo in gran numero. I Polacchi devono capirlo. La strada da seguire non è la guerra con la Russia.

Votum TV. Quindi, secondo lei, sono assurde le dichiarazioni di quelli che dicono: “un po’ di tempo in più e un po’ di armi in più cambieranno la situazione.” Che poi, più tempo e più armi sono le cose che Zelensky continua a chiedere.

Macgregor. Se si guarda agli attacchi, lo schema degli attacchi che sono iniziati da quando il generale Surovikin ha preso il comando, sono molto diversi da quelli visti in precedenza. In Russia, nei primi mesi, ci si chiedeva perché non erano stati distrutti i ponti, perché non era stata attaccata la rete dei trasporti, la rete elettrica, l’infrastruttura energetica, le installazioni militari ucraine, e così via. Ebbene, ora queste cose stanno accadendo. L’Ucraina non può più produrre combustibile per razzi, è stato tutto distrutto. L’Ucraina sta finendo il gasolio, non può illuminare e riscaldare le città perché non ha più energia. Questa situazione continuerà fino a quando il popolo ucraino sarà davvero affamato, congelato e senza speranza e allora inizierà l’offensiva russa, che sarà devastante. Ora stanno trattando l’Ucraina come un vero e proprio nemico, mentre prima non lo facevano e questo fatto non viene compreso in Occidente.

Votum TV… a me sembra che se si guarda, ad esempio, alla guerra strategica, alle campagne aeree strategiche recenti, lei personalmente era andato in Iraq nel ’91. Insomma, sembra che tutto questo faccia parte delle regole della guerra, o sbaglio?

Macgregor. Ha assolutamente ragione e, durante la Seconda Guerra Mondiale, probabilmente il compito più importante portato a termine dall’aviazione americana era stata la distruzione della capacità produttiva di carburante della Germania, che praticamente consentiva alla Wermacht di continuare a combattere. Quando i Sovietici avevano lanciato l’Operazione Bagration, nel giugno 1944, i Tedeschi non avevano quasi più carburante. In altre parole, i loro aerei avevano due ore di autonomia e poi dovevano atterrare. Sul terreno tutto era trainato da cavalli, non perché i Tedeschi non si fossero completamente modernizzati, ma perché non avevano più carburante. Trainavano l’artiglieria con i cavalli e i carri armati avevano forse solo un giorno, un giorno e mezzo di autonomia. Questo è il punto in cui si trova l’Ucraina ora; è una tattica ben precisa. Lo avevamo fatto con i Tedeschi, lo abbiamo rifatto nei Balcani con i Serbi, non è un crimine di guerra, è una misura prudente che chiunque prenderebbe in guerra. Quindi, stiamo osservando i Russi che fanno esattamente quello che abbiamo fatto o che faremmo noi.

Votum TV. In questo momento, in un contesto storico più ampio, sappiamo che Putin ha detto fin dall’inizio che la ragione principale di tutto questo riguarda l’espansione della NATO, che l’intervento militare ha lo scopo di fermare l’espansione della NATO iniziata alla fine degli anni ’90. So che lei è stato a Bruxelles e ha conosciuto il generale Wesley Clark. Col senno di poi e tenendo conto dell’opinione di molti altri stimati statisti americani, come il compianto George F. Kennan, le chiedo se questo è vero (questo potrebbe sembrare un paradosso a molti dei nostri telespettatori, ma credo che, se la si valuta in termini di conseguenze, questa domanda la si debba porre). Secondo lei, l’espansione della NATO iniziata alla fine degli anni ‘90 era stata una mossa prudente da parte degli Stati Uniti?

Macgregor. No, non credo lo sia stata e quando ero [a Bruxelles] la questione era emersa, c’erano state molte discussioni interessanti e avevo avuto il privilegio di parlare privatamente con ufficiali molto anziani delle forze armate tedesche e avevo chiesto loro a bruciapelo: “Cosa ne pensate?” e tutti credevano fermamente che lo scopo della NATO in Europa fosse quello di prevenire un’altra guerra in Europa, questo è ciò che credevano. Così avevo chiesto: “Ma portare la Polonia nella NATO aiuta o danneggia questa iniziativa?” [I Tedeschi] erano convinti che, visto quello che era successo alla Polonia in passato, far entrare la Polonia nella NATO, in questa Alleanza Occidentale, era qualcosa che [in quanto Tedeschi] erano assolutamente obbligati a fare per aiutare la Polonia. Quando i Polacchi si erano detti interessati ai territori persi durante la Seconda Guerra Mondiale, l’atteggiamento tedesco era stato: “Ci siamo messi il cuore in pace per le nostre perdite territoriali e siamo sicuri che lo faranno anche i Polacchi.” All’epoca avevo sentito dire cose diverse dai Polacchi e, certamente, avevo sentito cose diverse dagli Ungheresi, che continuavano a parlare delle terre della Corona di Santo Stefano, e questo era l’atteggiamento da parte europea.

Da parte americana, non era pensato alla storia, alla cultura, alla religione, alla lingua, a nulla. All’America, alla leadership americana non importava nulla di tutto ciò. In altre parole, indipendentemente dalla storia passata della Lituania polacca, del Regno di Prussia, del Regno d’Ungheria, dell’Impero asburgico, nulla di tutto ciò faceva la benchè minima differenza. Non c’era la volontà di guardare alle radici, alle origini delle varie popolazioni e di capire i loro interessi. Avevano detto che lo stavamo facendo per sostenere una “rivoluzione democratica” che, alla fine, sarebbe arrivata fino a Mosca. Ricordo di aver sentito questi discorsi. Li avevo guardati e avevo detto: “Non so che tipo di allucinogeni stiate prendendo, voi non sapete nulla delle persone che vivono in questi Paesi e quali sono i loro interessi. Oh, non importa, saranno tutti felici in questa democrazia utopica di perfetta diversità.” Era una cosa completamente irrazionale, ma questa era la prospettiva americana.

Votum TV. Quindi, in questo contesto, non credo che nessun presidente del periodo della Guerra Fredda, da Truman a Reagan, avrebbe mai contemplato che gli Stati Uniti sarebbero stati sull’orlo di una guerra potenzialmente nucleare a causa dell’adesione dell’Ucraina alla NATO. Non credo che le sia mai capitata una situazione del genere.

Macgregor. Sembra impossibile ma, lo ripeto, ciò che pensavano gli Europei e ciò che pensavano gli Americani erano due cose molto diverse. Si era trattato di una drammatica divergenza di opinioni e di percezioni. Il suo pubblico deve capirlo e credo che la situazione attuale sia qualcosa che avevo previsto a gennaio, quando avevo avuto una conversazione online con Dmitry Socoff [?] a Washington e avevo detto che, secondo me, questo conflitto sarebbe durato ben più di qualche mese. Questo conflitto distruggerà la NATO e penso che siamo a buon punto, soprattutto perché, come lei sa, ho fonti molto valide in Germania e le cose che sento dai Tedeschi sono spaventose. Penso che distruggendo il collegamento Nordstream con la Russia e poi, in ultima analisi, con questa guerra, [noi Americani] abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per espanderci in Ucraina. I Tedeschi sono pronti ad allontanarsi da noi. Penso che ora assisteremo ad una sorta di restaurazione o ad una fase di riavvicinamento tra Mosca e Berlino, come quelle che abbiamo già visto verificarsi storicamente e che si supponeva fosse quello che tutti dicevano di voler evitare.

Ora sta per accadere, assolutamente, e molti Tedeschi sono infuriati con il governo polacco che continua a battere i tamburi di guerra. I Tedeschi non capiscono il perché e anch’io continuo a chiedermelo. Lo chiedo sempre quando sento qualcuno che dice: “Non è forse un bene che stiamo indebolendo la Russia? La Russia è uno Stato nemico.” E io rispondo: “Davvero? La Russia non è più l’Unione Sovietica. La Russia sta forse ammassando eserciti per invadere l’Europa occidentale? No, ovviamente no. Che cosa sta facendo la Russia per meritare di essere distrutta?” Di solito ottengo questa risposta: “Beh, sono cattivi, sono antidemocratici.” Gran parte del mondo è antidemocratico, lo è sempre stato e probabilmente lo sarà sempre. È una sfortunata serie di circostanze e credo che i Polacchi, in larga misura, siano caduti in questa trappola e devono uscirne. Devono capire una volta per tutte quali sono i loro interessi, quali sono gli interessi della Polonia. L’interesse della Polonia coincide davvero con quello che vuole il governo di Kiev? È questo che vogliono? Sono uniti? Sono dalla stessa parte e si battono per le stesse cose? Non credo.

Votum TV. Credo che molti dei nostri telespettatori siano d’accordo con quanto ha detto l’ex direttore della CIA, il generale Petraeus, qualche settimana fa. Si è parlato di una coalizione dei volenterosi. Come lei ben sa, una piccolo contingente, ufficialmente al di fuori della NATO potrebbe fare il suo ingresso in Ucraina, sto parlando di Rumeni, Polacchi e del 101° Aviotrasportato americano. So che ne ha parlato nelle sue precedenti interviste. Ha sentito qualcosa di nuovo al riguardo, ci sono nuovi sviluppi o è stato fatto un passo indietro dopo la caduta del missile ucraino in Polonia?

Macgregor. Penso che, per il momento, sia tutto fermo e credo che questo sia uno dei motivi per cui il generale Milley, il capo degli Stati Maggiori Riuniti, aveva fatto trapelare i suoi commenti al New York Times, commenti che, tra l’altro, ora ha smentito e ritrattato. La gente non capisce che i generali a quattro stelle che arrivano al vertice degli Stati Maggiori Riuniti non vengono mai scelti per la competenza o l’intelligenza dimostrata, ma per la loro disponibilità a dire o fare tutto ciò che vogliono i politici. È un peccato, ma è la verità e credo che Milley stesse diventando molto preoccupato perché io non conosco nessuno ai vertici delle forze armate statunitensi che pensi che sarebbe una buona idea per le forze polacche, americane e magari rumene entrare nell’Ucraina occidentale. Se lo facessero saremmo in guerra con la Russia e la vera domanda è “perché dovremmo voler entrare in guerra con la Russia?” Credo che la maggior parte delle persone all’interno del Dipartimento della Difesa abbia detto “beh, non possiamo farlo, non siamo preparati per una cosa del genere.” Un mio amico, un generale in pensione dell’esercito francese, mi ha detto: “Doug, l’esercito francese ha munizioni per quattro giorni, l’unica cosa che l’esercito francese potrebbe fare è un safari in Nord Africa.”

Beh, questo descrive la maggior parte degli eserciti NATO, la domanda infatti è quante munizioni abbiamo noi a disposizione. Sappiamo che le nostre scorte belliche sono state gravemente ridotte per rifornire gli Ucraini. Gli Ucraini sparano in media 7.000 proiettili d’artiglieria al giorno, i Russi 20.000. I Russi non stanno finendo le munizioni, no, non le finiranno, la loro industria è completamente attrezzata e ora c’è stata questa mobilitazione. Insomma, abbiamo a che fare con un avversario che è inequivocabilmente mobilitato e preparato a combattere e noi non lo siamo. Naturalmente, la gente ha detto che questa Coalizione dei Volenterosi è una cattiva idea, ma questo lo dicono dietro le quinte e poi perché dovremmo avere una Coalizione dei Volenterosi? La maggior parte dei Paesi NATO non è interessata a questo e non ha nessuna intenzione di aderire. Se si va in Spagna, in Italia, in Portogallo, in Grecia, persino in Francia, dietro le quinte la gente dice che è una cosa ridicola. Allora, perché la appoggiamo pubblicamente? Perché la gente vuole essere amica degli Stati Uniti, ma noi abbiamo spinto la cosa all’estremo e credo che, ad un certo punto, la gente dirà “al diavolo Washington” e questo non è nell’interesse del popolo americano. Penso che ci siamo molto vicini ed è un peccato, perché non era questo che volevamo all’inizio.

Votum TV. È un bene che lei abbia menzionato Milley, perché durante la sua recente conferenza stampa ha dichiarato in modo molto categorico che l’esercito degli Stati Uniti rimarrà il numero uno e che nessuno supererà gli Americani. In Polonia e nella NATO, gran parte dell’atteggiamento nei confronti di Mosca si basa sul presupposto che, avendo gli Stati Uniti alle spalle, nessuno può farci del male e quindi si tende a voler provocare i Russi perché è certo che lo Zio Sam ci difenderà. Penso che lei sia molto ben informato sulle condizioni delle forze armate statunitensi e vorrei che dicesse al pubblico polacco che cosa possiamo aspettarci da parte americana se, Dio non voglia, dovesse iniziare una guerra totale.

Macgregor. La prima cosa da tenere a mente è che probabilmente spenderemo sempre più soldi di tutti gli altri. Purtroppo i soldi spesi non equivalgono alla capacità militare e questo purtroppo non è molto chiaro. Le nostre forze sono, in realtà, piuttosto mal messe, abbiamo una quantità inesauribile di generali e ammiragli, ma relativamente poche persone che combattono davvero e questo è un problema. Abbiamo enormi difficoltà a trovare reclute per un esercito che dovrebbe sostenere il peso di una guerra contro la Russia. Non possiamo mantenere più di 475.000 persone e di queste forse solo 150.000 o 160.000 in unità combattenti. Se cercassimo di mobilitare la Guardia Nazionale o le riserve ci scontreremmo con una forte opposizione. Queste truppe sono state logorate e mal gestite, a mio parere, negli ultimi 22 anni di conflitti in Medio Oriente, questa forza è stanca, logorata ed esausta, ma c’è qualcosa di molto più importante di tutto questo. Innanzitutto né noi né i Russi vogliamo usare le armi nucleari. Ovviamente i Russi non ne hanno bisogno, possono raggiungere i loro obiettivi senza di esse. Spero che non si prenda più in considerazione l’idea di usarle in qualsiasi circostanza. Il nostro presidente ha incautamente firmato un documento che, di fatto, fa marcia indietro rispetto al nostro divieto de facto di usare le armi atomiche in prima battuta.

A mio parere, è stato un errore: se dovessimo ricorrere all’uso di armi nucleari, tutto si aggraverebbe rapidamente e la civiltà come la conosciamo si estinguerebbe. Questo lascia come unica alternativa un conflitto convenzionale ad alta intensità. Cosa possiamo fare? Beh, le cose sono cambiate dal 1945 e il suo pubblico deve capirlo. L’evoluzione della sorveglianza aerea e satellitare, sulla terra e in mare e i precisi e ipertecnologici sistemi d’arma stand-off, fanno sì che quando si lancia, per esempio, un missile da crociera con una testata esplosiva di 1.000 chilogrammi dal territorio russo, esso colpirà un obiettivo, per esempio, a Lisbona, in Portogallo, con grande precisione e se ne possono lanciare centinaia, se non migliaia, in tutta Europa. Se ci spostiamo nell’Atlantico, i sottomarini russi finiranno per ostacolare il movimento di qualsiasi forza statunitense che cerchi di consolidare la nostra posizione sul continente europeo. Non possiamo retrocedere nel tempo a 80 o 85 anni fa, siamo nel presente. Siamo limitati in ciò che possiamo fare ed è per questo che il presidente Trump aveva detto che gli Europei devono essere i loro primi soccorritori. In altre parole, se scommettete sul nostro arrivo tempestivo state commettendo un errore, perché oggi è tecnologicamente troppo facile per qualsiasi grande potenza interferire con il movimento di forze e rifornimenti dagli Stati Uniti all’Europa. Perciò non possiamo fare quello che avevamo fatto negli anni ’40, ovvero passare due anni a sconfiggere la minaccia sottomarina tedesca prima di raggiungere l’Europa.

Non funzionerà, certamente non funzionerà con i Russi, ma, lo ripeto, i Russi questo lo sanno, non sono interessati ad una guerra contro noi, vogliono davvero fare affari con noi, vorrebbero fare affari con la Germania e credo che vorrebbero fare affari con la Polonia. Dobbiamo liberarci di questa atmosfera velenosa, che non fa altro che coltivare odio e ostilità sulla base di atteggiamenti e idee che non si adattano più all’era moderna. Dobbiamo superare queste vecchie ferite, queste vecchie frustrazioni. Non significa che dobbiamo dimenticarle, non significa che dobbiamo smettere di ricordare i sacrifici delle persone che ci hanno preceduto, ma dobbiamo vivere in questo mondo di oggi con un insieme diverso di persone e andare avanti e penso che questo sia qualcosa che questa Amministrazione non è riuscita a fare. Ha cercato di trascinarci tutti in una nuova Guerra Fredda. La maggior parte degli Americani non vuole tornarci. Io, di certo, non lo voglio.

Votum TV. Giusto, è un bene che abbia menzionato Trump. Orban ha recentemente dichiarato che, se Angela Merkel fosse ancora al potere e Donald Trump alla Casa Bianca, questa guerra probabilmente non sarebbe scoppiata. Dal suo punto di vista, come pensa che Trump avrebbe affrontato la situazione nel suo evolversi, almeno a partire dal dicembre dello scorso anno, quando Putin aveva chiesto quelle garanzie di sicurezza per la Russia.

Macgregor. Innanzitutto, credo che il signor Orban stia dando troppo credito ad Angela Merkel. A me non sembra che abbia fatto nulla di veramente positivo per la Germania e sempre più Tedeschi vedono il suo mandato come un periodo di grave decadenza e credo che, alla fine, la considereranno una traditrice degli interessi nazionali tedeschi. Quindi dimentichiamo Angela Merkel. Credo che Donald Trump abbia avuto a che fare con una serie di persone che si sono sempre opposte a lui. Non c’è bisogno che lo spieghi alla maggior parte dei suoi telespettatori, ma siamo sinceri: aveva nominato persone che, fin dal primo giorno, avevano iniziato a sabotare e a sovvertire la sua politica, ma se fosse stato ancora presidente quando era iniziato tutto questo, come lei ha detto, nel dicembre dello scorso anno, penso che sicuramente Donald Trump avrebbe subito chiamato il presidente della Russia, chiedendo un incontro per poter parlare con lui e scoprire quali fossero esattamente le sue richieste. Ad essere sinceri, penso che avrebbe accettato la neutralità dell’Ucraina, immediatamente.

Non era mai stato molto entusiasta della NATO come arma offensiva, ricordate, lui, come gli Europei, pensava che la NATO fosse un’alleanza difensiva. Non era stato molto entusiasta del bombardamento della Serbia o di un intervento nei Balcani, non era molto entusiasta per il coinvolgimento degli Europei in Afghanistan e in Iraq o in Libia. Quindi, penso che avrebbe immediatamente organizzato una sorta di cessate il fuoco e poi avrebbe chiesto un incontro e che avrebbe poi raggiunto una sorta di accordo e, francamente, avrebbe invitato gli Ucraini (o l’attuale regime, odio dire Ucraini, perché non credo che Zelensky rappresenti tutti gli Ucraini) ad essere sinceri. Si sarebbe rivolto a Zelensky e gli avrebbe detto: “Guarda che se hai intenzione di persistere in questa guerra con la Russia lo farai da solo, noi non ti sosterremo.” Quindi, credo che le cose sarebbero state molto diverse.

Votum TV. Considerando che, come abbiamo appreso ieri, i Repubblicani hanno conquistato la maggioranza alla Camera, come crede sarà il sostegno dell’opinione pubblica americana, nelle prossime settimane, riguardo alla guerra in Ucraina e, se il sostegno continuerà, come pensa che evolverà la situazione per quanto riguarda la possibile influenza dell’opinione pubblica americana sul nuovo Congresso e sul Presidente?

Macgregor. Credo che il suo pubblico debba capire che se si guarda alle 10 priorità più importanti per il cittadino americano medio, non sono nemmeno sicuro che l’Ucraina rientri nella lista. Il nostro attuale problema è vecchio di 30 anni, era nato dopo Desert Storm, negli anni ’90, era iniziato sotto Bill Clinton, ma si potrebbe anche dire che era stato Bush a dare il via con l’intervento in Somalia, da cui tutti lo avevano messo in guardia, compreso il generale Powell. Gli Americani non sono interessati a questi interventi, da nessuna parte, e, di conseguenza, se questi interventi continuano è perché esistono degli sponsor che si comprano il sostegno del Congresso e quelli al Congresso pensano di trarne beneficio sia dal punto di vista finanziario (cosa vera), sia dal punto di vista dell’immagine, per poter dire ‘quanto siamo potenti. Purtroppo, gli Americani questo non lo capiscono e, quando bombardiamo qualcuno da qualche parte, pensano che questo li faccia sembrare grandi. Non è così, ma ci sono persone stupide che la pensano così, quindi, secondo me, questo è il problema e ora l’Ucraina è il posto da qualche parte, e il denaro viene speso e questo è altro denaro che si aggiunge ad un debito sovrano nazionale di 31 trilioni di dollari di cui la maggior parte delle persone non conosce neanche l’esistenza.

Guardano i tassi d’interesse salire, guardano l’inflazione aumentare, guardano il crollo dello Stato di diritto nelle nostre città e lungo i nostri confini, guardano l’invasione di questo Paese da parte di milioni di persone provenienti dai Paesi in via di sviluppo, soprattutto dall’America Latina, e si chiedono: “Che cosa stiamo facendo in Ucraina? Perché le truppe non proteggono i nostri confini? Perché non fermiamo la criminalità? Perché non affrontiamo la questione della prosperità economica? Perché non stiamo rimpatriando, come voleva il presidente Trump, il settore manifatturiero negli Stati Uniti [attualmente delocalizzato in Cina]? Questa gente a Washington è molto brava a distrarre le persone. Dicono che la Cina è la nuova minaccia commerciale, che la Russia è la nuova minaccia sovietica, che l’Isis è la nuova minaccia globale. Continuo a chiedere alla gente se sanno cosa potrebbe successo al Califfato Islamico e nessuno ha una risposta, credono sia sparito. Beh, certo, non tutti sanno che ci sono ancora problemi nel mondo islamico, ma l’intera questione era “come possiamo migliorare la situazione se non facendoci coinvolgere?” e la risposta è che non lo facciamo. Quindi, penso che il problema non sia il popolo americano, il problema, in questo momento, è al Congresso, al Senato, alla Camera, dove si fanno gli interessi degli sponsor. Stamattina, un giornalista importante mi ha chiesto perché la gente fa queste cose e io ho risposto che bisogna scoprire chi sono gli sponsor, scoprire quanti soldi arrivano nelle tasche di questi politici per la loro rielezione, per il loro mantenimento in carica, e che questo avrebbe risposto alla sua domanda.

L’Americano medio non manda milioni di dollari a Washington, bisogna quindi vedere da dove vengono questi soldi e credo che poi tutti i nodi verranno al pettine. Guardate il disastro di FTX che coinvolge questa criptovaluta e l’individuo che ne è coinvolto, che è ovviamente un grande sostenitore del signor Zelensky (che novità) e Zelensky che ha investito in FTX il denaro che gli avevamo mandato a Kiev e ora scopriamo che questo fa sembrare l’affare Enron come uno spettacolo secondario. Non sappiamo nemmeno con certezza quante centinaia di miliardi di dollari siano stati persi in questa impresa, ma chi ne ha beneficiato al Congresso? Ci sono tanti Repubblicani coinvolti in questa vicenda quanti Democratici, ed è per questo che si parla di partito unico, quindi la sintesi è questa: l’atteggiamento dell’America cambierà le cose a Washington? Sì, ma non subito, la situazione si trascinerà fino a quando non sarà chiaro che i Russi avranno schiacciato l’avversario e credo che Mosca abbia capito di non avere molta scelta, di non avere un vero partner negoziale e che qualsiasi offerta sarebbe trattata con grande sospetto. Io, se fossi russo, a questo punto sarei molto riluttante a credere a qualsiasi cosa potremmo dire noi Americani.

Votum TV. Un’ultima domanda, perché si parla molto, ovviamente, dei vertici che si sono appena svolti, dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, della nuova struttura dei BRICS. Sappiamo che molti Paesi stanno presentando domanda di adesione, tra cui Turchia e Arabia Saudita. Per concludere, un’ultima opinione su questo tema. Molte persone sono perplesse e dicono che l’Eurasia e le organizzazioni tipo BRICS non saranno mai una sorta di concorrenza per l’Occidente unito. Ma vediamo che sempre più capitali, sempre più persone, sempre più potenziale tecnologico militare si sviluppano a Est, non in Occidente, che è diventata una zona a dir poco deindustrializzata, e vediamo che l’Europa si sta praticamente suicidando dal punto di vista demografico ed economico, quindi, secondo lei, quale sarà la traiettoria dell’Eurasia rispetto all’Occidente collettivo e, tenendo conto anche di ciò che sta accadendo in Ucraina, l’Est sarà un forte concorrente e probabilmente anche un egemone?

Macgregor. Innanzitutto, le istituzioni che sostengono il potere finanziario occidentale e, in ultima analisi, il dominio finanziario americano non sono riproducibili in Oriente. In altre parole, per costruire il sistema e le varie istituzioni che sostengono il nostro dominio finanziario ci vorrà un po’ di tempo. Non ho dubbi che ci proveranno, e penso anche che, ad un certo punto, ci riusciranno. [Noi Occidentali] siamo sempre stati considerati affidabili, in altre parole: a chi altri affidereste i vostri soldi? Un tempo la gente era pronta ad affidarci il proprio denaro. Ora siamo visti come inaffidabili e truffatori e in gran parte del mondo c’è la tendenza ad allontanarsi da noi. La gente, per esempio, non capisce che se si guarda alla Banca Mondiale, l’abbiamo usata efficacemente per costringere le Nazioni a coltivare le colture che volevamo noi, invece di quelle che volevano loro. Ora, questa può sembrare una cosa di poco conto, ma non lo è se si vive in quei Paesi.

Credo che le persone di tutto il mondo siano stanche di subire la nostra prepotenza e, naturalmente, a questo si aggiunge il trasferimento [al resto del mondo] del nostro enorme debito attraverso il commercio in dollari. Quando tutto questo si romperà, quando cambierà, non lo sa nessuno. Non rapidamente, non nei prossimi sei mesi, probabilmente non nel prossimo anno, ma, alla fine, assolutamente sì. Penso che il cosiddetto Rubicone sia stato attraversato e che la Russia avrà un ruolo in tutto questo, ma i Russi non si illudono. Sanno che non saranno loro la potenza globale e, contrariamente alle credenze popolari, i Cinesi, che vogliono fare soldi, non sono molto propensi a sostituirci. In questo caso, la situazione è molto più eterogenea, ma non credo che, alla fine, nessuno di loro abbia molta possibilità di scelta. India, Cina, Russia, gran parte del mondo in via di sviluppo, il Medio Oriente e l’Asia, si allontaneranno da noi. Certo, potremmo cambiare, cercare di blandire queste persone, rinunciare a questa sorta di egemonia militare permanente nel mondo che usiamo per intimidire e intimorire le persone, ma, nel breve periodo, non credo che accadrà. Non vedo come possa accadere.

[…]

24.11.2022

*Douglas Macgregor, colonnello in pensione, è senior fellow di The American Conservative, è stato consigliere del Segretario alla Difesa nell’amministrazione Trump, è un veterano decorato e ha pubblicato cinque libri.

** I grassetti dell’intervista sono i miei (LL).

Non dare alla pace troppe possibilità, di Aurelien

Niente è più pericoloso di un trattato di pace imperfetto.

C’è una differenza fondamentale tra uno stato di pace e un trattato di pace. La storia è piena di disastri provocati da trattati negoziati al momento sbagliato o imposti a partecipanti riluttanti. Non vogliamo ripeterci con l’Ucraina.

Nota: Parte di ciò che segue è tratto da un articolo commissionato alcuni anni fa da un think-tank europeo, ma mai pubblicato perché considerato troppo controverso. Nemmeno io ero pagato.

La nostra società considera la pace sempre preferibile al conflitto e alla guerra, o almeno in linea di principio. Gli operatori di pace sono benedetti e lo sono anche le loro produzioni, per quanto discutibili possano rivelarsi. L’annuncio di un trattato di pace o addirittura di un cessate il fuoco, come recentemente in Etiopia, è visto come una buona notizia senza ambiguità. Inoltre, si presume che la pace sia l’ordine naturale delle cose e che una volta affrontate le “cause sottostanti” e alcuni individui malvagi condannati per qualcosa o altro, allora la pace arriverà naturalmente e tutti la accoglieranno con favore.

Non è sempre stato così. Per la maggior parte della storia umana, la guerra è stata considerata normale e persino lodevole. Si ritiene che una pace troppo lunga, in alcune opere di Shakespeare, porti alla decadenza. La guerra, al contrario, è l’occasione per atti di valore ed eroismo, e i grandi capi erano generalmente grandi capi di guerra, e grandi capi di guerra erano coloro che avevano sbaragliato eserciti nemici, ucciso un gran numero di nemici con le proprie mani e bruciato le loro città e schiavizzarono il loro popolo. “Saul ha ucciso le sue migliaia, ma Davide le sue decine di migliaia”, cantavano esultanti le donne israelite nel primo libro di Samuele , senza mostrare molta preoccupazione per i parenti degli uccisi.

Ora, questo non vuol dire che alla gente comune piacesse necessariamente molto la guerra: era vista nel migliore dei casi come un male inevitabile, e in realtà vivere la Guerra dei Cent’anni, o la Guerra dei Trent’anni, deve essere stata un’esperienza terrificante e esperienza traumatizzante per molte persone. Ma anche così, il richiamo di “andare per un soldato”, di compiere azioni coraggiose e fare fortuna lungo la strada, sembra essere una parte persistente della psiche umana, recentemente visibile nel fango e nel sangue dell’Ucraina.

Tutto questo è cambiato progressivamente negli ultimi duecento anni, non perché il mondo sia cambiato, ma perché la narrativa dominante al riguardo è cambiata. Come ho sottolineato prima , il liberalismo non ha mai veramente compreso le questioni del conflitto e della pace. I conflitti “scoppiano”, le nazioni “cadono nella” violenza, a volte perché le persone coinvolte sono stupide, a volte perché “imprenditori della violenza” sfruttano “rimostranze reali anche se esagerate” per i propri scopi. Criticamente, i conflitti non riguardano mai davvero nulla, e quindi i negoziati di pace, accolti da tutti e idealmente facilitati da quel curioso animale bastardo che è la Comunità internazionale, possono invariabilmente risolvere anche le controversie più intrattabili se esiste la volontà, e la pace durerà se vengono affrontate le “cause sottostanti”.

Un momento di riflessione suggerisce che questo modello dei mali del mondo è tratto dal diritto contrattuale e dalle negoziazioni contrattuali, come gran parte del pensiero liberale. Un trattato di pace può quindi essere paragonato alla creazione di un cartello per controllare la vendita di un particolare prodotto in un particolare mercato. Ci saranno trattative dure, ma alla fine si potrà trovare un compromesso che soddisfi tutti. Poiché, nella visione liberale, il conflitto riguarda in ultima analisi il potere e le risorse, può essere risolto secondo la stessa logica: tanto per te, tanto per me. Il guaio è che il mondo nel suo complesso non funziona così.

In particolare, i conflitti di solito riguardano qualcosa nella pratica e sono spesso situazioni binarie a somma zero in cui qualcuno (di solito la parte più debole) perderà da qualsiasi accordo di pace. Quindi il “conflitto” in Medio Oriente, ad esempio, non riguarda l’odio e la sfiducia reciproci tra ebrei e palestinesi, ma piuttosto su chi deve possedere la terra dove i palestinesi hanno vissuto fino al 1949. Alla fine, tu ed io non possiamo possedere entrambi il stessa casa, e in un conflitto vincerà il più forte. Sebbene le cause profonde del conflitto possano teoricamente essere affrontate in un accordo di pace, in molti casi ciò è impossibile senza assegnare effettivamente la vittoria a una parte. Qui potremmo ricordare l’inversione di Michel Foucault della famosa formula di Clausewitz: la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Anche quando un’autorità politica pone fine alla guerra, le future relazioni politiche sono ancorate all’equilibrio di forze alla fine del conflitto. Quindi i trattati di pace e le istituzioni che istituiscono non sono neutrali, ma riflettono l’equilibrio del potere politico e militare al momento della firma.

Allo stesso modo, il presupposto che il conflitto sia essenzialmente irrazionale (o non si verificherebbe), e quindi possa essere risolto attraverso i valori liberali della razionalità e della logica, in realtà sottovaluta l’importanza degli stessi motivi irrazionali. L’osservazione di David Hume secondo cui “la ragione è schiava delle passioni” è stata confermata in modo spettacolare dalle scoperte della moderna neuroscienza, che ci dice che la maggior parte delle decisioni sono effettivamente prese dalla nostra mente inconscia su basi emotive, e che la mente cosciente serve in gran parte a fornire post giustificazioni razionali ad hoc . Ecco perché il ruolo della paura nel provocare e prolungare il conflitto è così poco compreso. La paura, infatti, è il singolo più grande generatore di conflitti, e per definizione non è affrontabile con argomentazioni razionali o con l’attenta stesura degli articoli dei trattati di pace. Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Burundi al tempo della crisi ruandese ha commentato in un’intervista che ciò di cui quel Paese aveva bisogno non erano le forze di pace ma gli psichiatri: “hanno tutti paura l’uno dell’altro. Quando stringo loro la mano sono grondanti di sudore”. In tali circostanze, non c’è motivo di fidarsi di nessuno e ogni motivo per vedere cospirazioni ovunque.

I presupposti liberali vedono anche la pace e il conflitto come opposti binari. Non sembra necessariamente così sul terreno. Molti sistemi politici esistono in uno stato di costante lieve conflitto, attraversando uno spettro a seconda della situazione politica. La violenza è quindi uno strumento come un altro, da usare quando è opportuno, e da lasciare da parte a favore della trattativa o della politica quando non è produttiva. In un paese come il Libano, ad esempio, la violenza è un linguaggio in cui diverse fazioni e i loro sponsor stranieri parlano e negoziano tra loro. Lo spettro spazia da violente manifestazioni di piazza ad omicidi, autobombe e conflitti aperti, ognuno dei quali invia un messaggio calibrato, che viene compreso dagli altri. Chiaramente, un “accordo di pace” in tali circostanze è irraggiungibile, e credere che sia stato effettivamente negoziato è pericoloso.

Né gli accordi di pace sono universalmente popolari: anzi, il conflitto ha molti vantaggi, sia per i grandi che per i piccoli. Porta attenzione politica, denaro, investimenti e operatori umanitari stranieri e truppe con denaro da spendere. Negli ultimi anni è diventato sempre più evidente come certi conflitti continuino perché è nell’interesse di tutti i principali attori che lo facciano. (Altrimenti è inconcepibile che il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo sia durato così a lungo). Definire queste persone “spoiler” è poco adeguato: per la maggior parte stanno semplicemente rispondendo in modo intelligente ai dettami e alle opportunità della situazione.

Quindi ci sono molte ragioni per volere che un conflitto di basso livello continui, con solo perdite modeste e corrispondenti pochi incentivi per arrivare a una vera pace, dove come ci ricorda David Keen in un importante studio , “… le funzioni politiche ed economiche della guerra non scomparire semplicemente…. la pace è spesso molto violenta, mentre il dopoguerra si rivela, troppo spesso, un periodo prebellico». Quindi è più probabile che il leader intelligente di un paese o di una fazione, a meno che non stia perdendo male, preferisca la quantità nota di conflitto alle incertezze della pace. Ciò non significa, ovviamente, che parlare di pace, o anche firmare un accordo di pace, sia escluso se ciò è tatticamente vantaggioso. Ma nella maggior parte delle culture diverse dalla nostra, la firma di un accordo di pace è una decisione politica, mentre la sua attuazione è un’altra. In ogni caso, prima di promettere di firmare e rispettare un accordo di pace, un leader intelligente si farà due domande:

  • · La firma di questo accordo di pace favorirà i miei obiettivi politici?
  • · Se lo implemento, sarò ancora vivo alla fine di un certo periodo minimo?

Eppure, nonostante tutte queste difficoltà e debolezze, i trattati di pace vengono quasi sempre firmati, anche se in seguito sfociano in conflitti. Perchè è questo?

Innanzitutto, è importante distinguere tra due tipi di trattati efficaci. Uno (spesso, in pratica un armistizio) può essere considerato un trattato amministrativo . Anche la resa incondizionata deve essere organizzata in qualche modo, dopotutto. Tradizionalmente, tali trattati venivano imposti ai vinti dal vincitore (la sconfitta francese del 1870-71 ne è un buon esempio), ed era normale che la parte perdente pagasse le spese della parte vittoriosa, come in una causa giudiziaria. Questo era il modello ancora in funzione all’epoca dei negoziati di Versailles.

Il secondo è un trattato sostanziale , in cui le differenze devono essere appianate, gli obiettivi confrontati l’uno con l’altro e, si spera, deve essere concordata una soluzione politica duratura. Si tratta di un tipo di trattato tipico delle guerre a obiettivi limitati della prima età moderna, come il trattato di Utrecht del 1713, che pose fine alla guerra di successione spagnola. In tali trattati, tutti concordano sul fatto che la guerra è durata abbastanza a lungo, che è improbabile che ulteriori combattimenti risolvano qualcosa, ed è giunto il momento di parlare. Nel 1713 era chiaro che i francesi avrebbero scelto un nuovo re in Spagna, ma c’erano tutta una serie di altre questioni da risolvere tra i governanti d’Europa.

Curiosamente, la maggior parte dei trattati di pace negoziati nei tempi moderni non rientra in nessuna di queste categorie. Forse è per questo che così tanti di loro falliscono e portano a ulteriori conflitti. Questi trattati tendono ad essere imposti, o almeno fortemente incoraggiati e facilitati, dall’esterno, da nazioni e individui che condividono idee largamente liberali sulla pace e la sicurezza, e quindi piuttosto dissociati dalla realtà. Ora, mentre tutte queste idee non sono molto evidenti nel caso della guerra in Ucraina al momento (piuttosto, le stesse onde radio stanno cedendo sotto il peso della sete di sangue liberale-umanitaria) arriverà un punto in cui “i colloqui di pace ” sono necessarie, o almeno possibili, e in quel momento quasi sicuramente riaffioreranno le tradizionali idee liberali. Ho già suggerito che dobbiamo diffidarne in linea di principio: ecco alcuni casi in cui hanno funzionato in modo disastroso nella pratica e che possono fornire spunti di riflessione nel contesto dell’Ucraina.

Uno è il predominio da parte di estranei, che possono influenzare pesantemente una o più parti e in effetti fornire gran parte del materiale per il trattato finale stesso. Ciò è accaduto a Versailles e ai negoziati associati, dove Wilson e la delegazione americana hanno beneficiato del loro status di banchiere delle potenze dell’Intesa e del suo status di capo di stato. Sono arrivati ​​anche con un programma normativo significativo e poca conoscenza ed esperienza pratica sia dell’Europa e del Medio Oriente, sia dell’arte della negoziazione. La Conferenza di Parigi è stata anche la prima in cui un gran numero di Stati o non erano rappresentati come negoziatori, o nella migliore delle ipotesi erano in modalità supplichevole, chiedendo favori a inglesi, francesi e americani. Le grandi potenze erano, in larga misura, in grado di disporre come meglio credevano.

Questo modello continua oggi, con l’ulteriore complicazione che i negoziati di pace possono essere dominati non solo da stati esterni, ma anche da politici e media nelle capitali nazionali lontane dall’azione. Durante il conflitto in Bosnia, un armistizio generale sarebbe stato possibile in qualsiasi momento dopo il 1993, probabilmente sulla falsariga del Piano di pace Vance-Owen. Ma l’opinione politica in un certo numero di capitali occidentali lontane dall’azione e dal costante accrescimento di cadaveri, ha ostacolato qualsiasi accordo che “ricompensasse l’aggressione”, indipendentemente dal fatto che la gente del posto lo volesse. Nelle parole agghiaccianti di un politico olandese, ciò che serviva era “un accordo che soddisfi il nostro senso di giustizia”. Ma non era solo, e il governo americano, sollecitato da influenti Ong, è riuscito per qualche tempo a ostacolare la pace. Commenti simili sono già stati fatti sull’Ucraina. Questo atteggiamento di moralismo distaccato, lontano dalla realtà sul campo, può portare a negoziazioni di pace strutturate per soddisfare le esigenze dei sistemi politici al di fuori della zona di conflitto.

Nel caso dell’Ucraina, sembra abbastanza ovvio che, una volta che l’Occidente si sarà avvicinato all’idea dei negoziati, è probabile che voglia tentare di determinarne l’esito. Ma dal momento che l’Occidente avrà poca o nessuna influenza sui russi, cercherà di compensare microgestendo la parte ucraina. Ciò avrà (almeno) due ovvie conseguenze. Una sarà quella di mettere ciò che è “accettabile” per l’Occidente, e ciò che può essere venduto ai cittadini, ai parlamenti e ai media, prima di qualsiasi considerazione degli interessi del popolo ucraino, o addirittura delle prospettive di pace. La tentazione, infatti, sarà quella di cercare di costringere gli ucraini a prendere nei negoziati una linea più dura di quanto sia effettivamente ragionevole, o addirittura praticabile. Un altro è che qualsiasi unità di intenti che l’Occidente possa avere all’inizio evaporerà rapidamente e diversi paesi occidentali, individualmente o in combinazione, negozieranno separatamente con diverse fazioni all’interno o all’esterno del governo ucraino.

Gli stessi attori esterni, ovviamente, hanno i loro programmi gli uni con gli altri e nel proprio paese, e molto dipende dal fatto che abbiano uno status ufficiale nei colloqui. È difficile immaginare che gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione Europea semplicemente osserveranno da lontano qualsiasi negoziato sull’Ucraina senza cercare di influenzarli, ma ovviamente più attori ci sono in un negoziato, più geometricamente diventa complesso. È probabile che le relazioni tra questi attori (che comunque in gran parte si sovrappongono) diventino tese molto rapidamente. C’è anche una differenza fondamentale tra facilitare i negoziati con competenze e aiuti logistici, e limitarsi a mettersi in mezzo e cercare di influenzare il risultato. L’accordo globale di pace per il Sudan del 2005, ad esempio, ideato in gran parte dall’estero, ha prodotto un testo troppo complesso e ambizioso per essere attuato e ha portato alla fine all’indipendenza e poi all’implosione del Sud Sudan. In ogni caso, non è raro che anche i negoziati formali siano destabilizzati dalle attività di singoli grandi attori: un esempio sono i negoziati sullo Statuto di Roma del 1998, dove altre parti si sono adoperate per accogliere gli Stati Uniti nella formulazione del trattato finale, solo per scoprire che il presidente Clinton aveva paura di sottoporlo al suo Senato per la ratifica.

Un altro rischio è un approccio eccessivamente tecnico a problemi che sono in realtà profondamente politici e potrebbero non avere una soluzione facile. Sebbene il discorso culturale popolare della prima guerra mondiale, seguendo la guida della letteratura degli anni ’20, parli di una “guerra inutile” piena di “strage insensata” che “non ha risolto nulla”, la verità è piuttosto diversa. La guerra ebbe la sua origine ultima nella logica della sostituzione dei possedimenti imperiali sparsi con nuovi stati-nazione, e nei conseguenti problemi di quali sarebbero stati i confini di questi stati-nazione, e come sarebbero stati fissati. (La risposta alla seconda domanda è stata sfortunatamente semplice: è stata con la violenza.) In pratica questo si è risolto nel futuro degli imperi asburgico, ottomano e romanov, e se ognuno di loro poteva contenere le proprie pressioni centripete interne. Altri temi sussidiari includevano, chi avrebbe controllato gli ex territori ottomani se quell’impero fosse crollato, e dove sarebbero stati i confini tra gli stati successori degli imperi Romanov e Asburgico, così come la piccola questione se la Francia o la Germania sarebbero stati i principali potere militare in Europa.

A queste domande è stata data una certa risposta dalla guerra stessa, così come dagli anni di conflitto che seguirono, e dalla serie di trattati solitamente indicati come “Versailles”. In difesa di Lloyd George, Wilson e Clemenceau, si può dire che hanno fatto del loro meglio, di fronte a problemi intellettualmente e politicamente molto più complessi di quanto potessero affrontare. Ma il loro approccio effettivo ricordava un negoziato del diciottesimo secolo in cui i territori venivano scambiati tra sovrani, piuttosto che un mondo in cui i sentimenti nazionalisti popolari e la politica democratica cominciavano ad avere una reale influenza. Quindi probabilmente sembrava un’idea intelligente assegnare i Sudeti di lingua tedesca al neonato stato della Cecoslovacchia per dotarlo di una frontiera difendibile. Che cosa potrebbe andare storto?

In molti modi, quell’incapacità di cogliere lo stesso quadro generale che vediamo più chiaramente ora, è parallela all’incapacità delle nostre élite politiche, intellettuali e mediatiche di capire cosa sta succedendo oggi in Ucraina e, cosa più importante, intorno. Quello che stiamo vedendo sono in realtà due cose: il definitivo allentamento delle tensioni inerenti alla situazione alla fine della seconda guerra mondiale, e la successiva creazione di un nuovo ordine di sicurezza in Europa, dove prevarranno o gli Stati Uniti o la Russia. E se entrambi questi punti sembrano avere echi del periodo 1914-21, ebbene forse sì: in tal senso è giusto dire che la prima guerra mondiale “non ha risolto nulla” perché gli insediamenti definitivi nella storia sono rari. Come accadeva un secolo fa, questi grandi problemi intrattabili contengono molti piccoli problemi intrattabili, come le ultime disposizioni per la disposizione delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, il destino dei confini stabiliti con la forza dopo il 1945, il progressivo lo svuotamento delle popolazioni dei paesi in declino dell’Est e la questione se la Francia o la Germania debbano essere l’attore dominante in Europa. Tra gli altri, ovviamente.

Nel 1914, l’insieme delle tensioni politiche che esistevano in Europa produsse una situazione che non poteva essere risolta pacificamente: Francia e Germania non potevano scambiarsi la proprietà dell’Alsazia e della Lorena a settimane alterne, e la Polonia esisteva o non esisteva. Il risultato è stata la violenza. Allo stesso modo, oggi, l’apparentemente irresistibile marcia verso est del liberalismo normativo si è scontrata direttamente con la massa genuinamente inamovibile dell’opposizione russa. In teoria, quest’ultimo caso avrebbe potuto essere risolto, almeno per un po’, ma come ho sostenuto , ciò sarebbe avvenuto a costo di creare una crisi esistenziale nella cultura liberale occidentale. In pratica, la collisione era probabilmente inevitabile.

Ora è importante non lasciarsi trasportare dai confronti storici. Una guerra generale in Europa non accadrà ora, anche perché l’Occidente in senso lato non ha i mezzi per combatterla. Ma i due momenti sono, direi, di gravità e significato paragonabili. Ciò significa che i tentativi di rimediare al problema ritarderanno solo il peggio, e il peggio sarà probabilmente peggiore di quanto sarebbe stato altrimenti. L’unica cosa che, forse, stabilizzerà la situazione è se le sarà permesso di svolgersi completamente, cosa che probabilmente accadrà comunque. (Spiegherò quel commento gnomico tra un momento.)

Un ultimo rischio (ne bastano tre) è che i partecipanti ai negoziati semplicemente non abbiano alcun reale interesse a concluderli positivamente. Sembra ovvio, ma c’è stata una storia decennale di forzatura di un accordo – qualsiasi accordo – tra le parti di un conflitto armato, per poi rimanere scioccati quando va terribilmente storto. Il classico caso moderno è il trattato di pace di Arusha del 1993 per il Ruanda, che ha diviso il paese, il governo e le forze di sicurezza, più o meno equamente tra l’RPF, rappresentanti della vecchia classe aristocratica in esilio, e l’allora governo di coalizione esistente a Kigali , escludendo tutte le altre forze politiche. In un Paese e in una regione dove le stragi erano uno strumento tradizionalmente basilare della politica, ed era sempre stato assente il concetto stesso di negoziazione e compromesso, lo stesso Trattato destabilizzò la situazione e rese di fatto inevitabile una ripresa della guerra, con le terribili conseguenze che seguito.

Ma può essere vero anche il contrario. Dopo il rilascio di Nelson Mandela nel 1990 e la revoca del bando dell’ANC e del Partito Comunista, le varie parti hanno dovuto trovare una via da seguire. Sebbene ci fossero piccoli gruppi di intransigenti in luoghi diversi, la stragrande maggioranza degli attori (come la stragrande maggioranza della popolazione) ha riconosciuto che le uniche scelte erano un accordo di qualche tipo o un’apocalittica spirale mortale per il paese. Non c’è niente che concentri così tanto la mente sulla ricerca di soluzioni come la prospettiva della distruzione se non ci riesci. E in tal senso, se molti degli accordi presi tra il 1990 e il 1994 possono essere, e sono stati, pesantemente criticati, ciò non toglie che la volontà politica condivisa di uscire dall’impasse sia riuscita ad appiattire tutti gli ostacoli.

Nel caso dell’Ucraina, è importante distinguere diversi tipi di “accordi”, ciascuno dei quali può essere soggetto ad alcuni dei problemi sopra discussi. Potrebbe essere utile prenderli in sequenza. In primo luogo, la fine di qualsiasi combattimento richiede accordi tecnici di qualche tipo. Ci sarà una linea oltre la quale i russi non intendono andare, ci saranno problemi di sicurezza e ordine pubblico nelle città vicine, molti casi di persone che devono transitare sulla linea di controllo, sicurezza da entrambe le parti, indagini sulle violazioni dell’accordo, e così via. Tali accordi sono meglio negoziati a livello locale da coloro che dovranno attuarli. La storia suggerisce che gli “osservatori internazionali” e ancor più le forze di interposizione, nel migliore dei casi non aggiungono nulla e nel peggiore dei casi possono essere manipolati e diventare parte del problema.

Tali accordi provvisori a un certo punto dovranno essere inclusi in un accordo che stabilisca i futuri confini e la composizione politica dell’Ucraina. La storia suggerisce che non è ragionevole aspettarsi troppo dai documenti, perché la pressione per raggiungere un accordo porta inevitabilmente a compromessi, che potrebbero essere deplorati e persino abbandonati in seguito. In particolare, è difficile credere che qualsiasi governo ucraino immediatamente prevedibile sarebbe abbastanza unito e avrebbe abbastanza controllo del paese da firmare e attuare un accordo vincolante. Come precedente storico, si consideri il caso del trattato anglo-irlandese del 1921, aspramente divisivo, che richiese importanti concessioni da entrambe le parti. FE Smith, uno dei negoziatori britannici, ha detto in seguito a Michael Collins, capo della delegazione irlandese: “Potrei aver firmato la mia condanna a morte politica”. A cui Collins ha risposto, prescientemente “Potrei aver firmato la mia vera condanna a morte”. Fu assassinato pochi mesi dopo. Oppure si consideri il caso dei delegati dell’UCK ai colloqui di Rambouillet sul Kosovo nel 1999, dove il capo della delegazione (che in realtà era solo un portavoce dei comandanti militari) era obbligato a dire alla delegazione statunitense che se avesse firmato il trattato proposto nel testo, sarebbe stato ucciso al suo ritorno.

Tutto ciò suggerisce che non ha molto senso cercare di negoziare una soluzione politica onnicomprensiva per l’Ucraina, con un insieme ampio ed elaborato di strutture per l’attuazione. Un simile insediamento conterrebbe probabilmente in sé i semi della sua distruzione: grossolanamente, come abbiamo visto, più complesso è l’insediamento, maggiore è il margine per le cose che vanno male. Al contrario, i contorni spogli di un insediamento – un’Ucraina smilitarizzata e un po’ più piccola senza alcuna influenza occidentale – sono facili da capire e anche essenzialmente robusti. È questo che bisognerà tenere presente, anche se il legalismo russo e l’inevitabile tendenza dei negoziati a sollevare problemi complessi che invitano a soluzioni complesse lo renderanno difficile. Il coinvolgimento di parti esterne dovrebbe essere contrastato il più possibile, perché in realtà c’è poco che possano contribuire ed è improbabile che una particolare parte esterna sia accettabile per entrambe le parti. E tale coinvolgimento porta i suoi problemi: la convenzione secondo cui un governo degli Stati Uniti non è vincolato dai trattati firmati dal suo predecessore, per esempio, è inutile.

Infine, c’è la questione più ampia del nuovo ordine di sicurezza in Europa che emergerà dopo il conflitto. Anche in questo caso, non è molto utile parlare di trattati e accordi formali, perché, nella misura in cui saranno presenti, sarà un esercizio di riordino quando i principali contorni politici si saranno già aggiustati. In effetti, è un classico errore supporre che gli accordi formali cambino le cose: non lo fanno. Quelli di successo, almeno, registrano semplicemente il fatto che le cose sono già cambiate. Il problema fondamentale di questo nuovo ordine di sicurezza è facile da enunciare: solo una potenza esterna può avere un’influenza decisiva sull’Europa occidentale. Possono essere gli Stati Uniti o la Russia, ma non possono essere entrambi allo stesso tempo. Dopo il 1945, ci fu una demarcazione geografica tra i due, e c’erano regole non scritte che la sostenevano. Sebbene non ci sia mai stato un trattato di guerra fredda, la situazione era notevolmente stabile e le due grandi potenze generalmente evitavano sfide dirette l’una con l’altra. Dopo il 1989, gli Stati Uniti sono avanzati costantemente, fino a quando non hanno colpito un muro di mattoni all’inizio di quest’anno. Ora è possibile vedere una nuova dispensa, non senza gli Stati Uniti del tutto, dal momento che la vita non funziona così, ma con un ruolo americano nettamente ridotto in Europa e il riconoscimento de facto dell’influenza russa. La NATO probabilmente continuerà in qualche forma, e potrebbero anche esserci alcune unità militari statunitensi aggrappate alla periferia, ma questo sarà in gran parte teatro. Ora non c’è motivo di pensare che i russi vorranno emulare le pratiche statunitensi di coinvolgimento diretto con paesi europei, basi militari e così via, e in effetti non ne hanno bisogno. Sarebbe sufficiente un riconoscimento generalmente inteso ma tacito che il nuovo regime è: americani fuori, russi dentro e tedeschi (ancora) giù.

Più a lungo va avanti la guerra, più è probabile che appaiano sul terreno il secondo e il terzo di questi insediamenti, dopodiché potrebbe non essere nemmeno necessario formalizzarli in un trattato. Nessuno, ovviamente, vuole che le guerre continuino per il gusto di farlo, ma, come ho sostenuto, i tentativi di utilizzare negoziati e trattati per fermare i conflitti che in realtà hanno una dinamica inarrestabile non fanno che peggiorare le cose alla fine. Al contrario, alcune guerre, come quella in Bosnia, alla fine finiscono quando le parti sono esaurite. Per quanto l’idea possa sembrare poco allettante, alcune crisi devono solo essere lasciate a risolversi da sole, se mai ci sarà un risultato stabile che abbia una possibilità di durare.

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