Intervista a Giorgio Panattoni, ex dirigente ed AD di società del Gruppo Olivetti, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di una intervista su un argomento sempre attuale riguardante la storia della grande industria italiana. L’ascesa e il mesto declino dell’Olivetti, a partire dalla metà degli anni ’60. L’Olivetti è probabilmente l’esempio emblematico delle grandi potenzialità industriali e della genialità espresse dal paese, ma rimaste alla fine in un limbo che ne hanno impedito la definitiva affermazione per l’incapacità e la mancanza di volontà della nostra classe dirigente di sostenere la costruzione di una piattaforma industriale in grado di determinare gli standard in uno dei settori strategici del mercato e delle infrastrutture dei paesi negli anni a venire. L’intervista a Giorgio Panattoni che in qualità di dirigente e AD delle società del gruppo ha percorso tutti gli ambiti e i meandri dell’Azienda, è già apparsa sul sito conflittiestrategie il 27 novembre 2012. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Intervista a Giorgio Panattoni I Parte

II parte

III parte

IV parte

V parte

VI parte

Intervista a Giorgio Panattoni II Sezione I Parte

II parte

III parte

IV parte

V parte

VI parte

IL PAPA E L’ANTIPAPA, di Giuseppe Germinario

Dopo otto anni di fatiche presidenziali, Barack Obama ha deciso di concedersi un lungo meritato periodo di riposo. Un paio di settimane di soggiorno in Polinesia, presumibilmente di vero ozio, seguite da una lunga permanenza in Italia, assieme ai familiari, dai primi di maggio ed ancora in corso, sia pure inframezzato, stando almeno ai comunicati ufficiali, da un frettoloso rientro di pochi giorni negli Stati Uniti.

A un reduce di cinquantasei anni, ancora nel pieno delle energie, non si può certo chiedere un istantaneo rientro nell’anonimato della vita quotidiana, magari in pantofole davanti al televisore e con i nipotini che ancora mancano all’appello. Eccolo, quindi, presenziare nel frattempo a incontri e convegni per altro lautamente remunerati sull’alimentazione, sulla crisi climatica, sulla ecologia, sulla fame nel mondo; sulle tragedie che affliggono, come maledizioni divine o “umane”, il significato è pressoché simile, il genere umano.

Bisognerà concedergli anche il necessario periodo di adattamento da una vita di sfarzi e protezioni regali a quella di inerme cittadino e concedergli l’indulgente e benevolente comprensione ai suoi pernottamenti da diecimila dollari a notte e alle sue scorte blindate, ben più ingombranti della decina di automezzi destinati solitamente ad un convoglio presidenziale.

La fragilità dell’uomo affiora, però, guardando agli itinerari europei dei suoi spostamenti e alle persone dai quali più o meno riservatamente cerca conforto e riconoscimento. Solitamente la nostalgia comincia ad insinuarsi nel vuoto di aspettative, ma solo dopo un certo tempo.

In Obama, questo tratto è apparso praticamente il giorno stesso del suo abbandono della Casa Bianca. Quanto il personaggio sia abbarbicato ed affezionato agli incarichi di prestigio lo abbiamo visto nella fase di transizione, di passaggio delle consegne al nuovo presidente; non ha fatto altro che disseminare di trappole e di fatti compiuti una fase di passaggio che dovrebbe invece agevolare il più possibile l’ingresso del neoeletto. Quasi una ripicca per la sconfessione di otto anni di “change”.

A maggio ha fatto qualcosa di più. Si è guardato bene dal metter piede in casa saudita e in Israele, ancor meno in Egitto e in Turchia, paesi dalle spiagge altrettanto rinomate; segno che qualche traccia di realismo e di istinto di sopravvivenza deve essergli rimasto. In Europa, invece, ha ripercorso e soprattutto anticipato l’itinerario politico, già tracciato da un anno, di Trump al G7 e al Quartier Generale della Nato. Potrebbe apparire una preoccupante dissociazione della personalità, di chi si vede ancora investito delle trascorse funzioni, senza averne diritto, incapace di metabolizzare il trapasso.

Sta di fatto che il suo soggiorno in Italia è stato punteggiato da incontri pubblici e soprattutto riservati, ancorché protetti da una cortina assoluta di discrezione. Non sono mancate le puntate in Germania ad incontrare Angela Merkel e non sappiamo chi altri sino ad arrivare in Scozia, a meno di un ripensamento ufficialmente legato a problemi di sicurezza.

Si insinua il sospetto che la spiegazione psicologica di questo comportamento sia assolutamente riduttiva.

In effetti Obama aveva dichiarato più volte che la fine del suo impegno politico non avrebbe coinciso con quello del suo mandato presidenziale; la disfatta della Clinton ha certamente aperto la strada ad una sua presenza meno discreta volta a ricostruire il malconcio Partito Democratico senza grandi concessioni alle derive social-radicali, ormai ben radicate, espresse da Sanders e messe in quiescenza con qualche furbata di troppo nelle primarie democratiche del 2016. La coincidenza al momento di questa ambizione con gli interessi e le strategie di gran parte dello stato profondo impegnato a neutralizzare ed orientare le velleità conciliatrici verso la Russia e a impedire lo sconvolgimento del sistema di relazioni geoeconomiche perpetrati dalla parte più militante delle forze sostenitrici di Trump consente a BO (Barach Obama) di assolvere contemporaneamente ad entrambi gli impegni. A normalizzazione eventualmente compiuta lo Stato Profondo potrà finalmente tornare a disporre nuovamente di più opzioni politiche e BO potrà rifugiarsi in lidi più tranquilli, nella routine dello scontro tra gli scenari classici del palcoscenico politico.

Il viaggio di Trump in Medio Oriente e in Europa ha sancito lo stato avanzato di questa sua normalizzazione e il prezzo doloroso che una parte del vecchio establishment rischia di pagare a questo successo.

La clamorosa riattribuzione del ruolo egemone dei sauditi nel contesto arabo-sunnita suona come un campanello di allarme sulla persistenza della solidità di legami tra i Saud e la fazione democratica americana, rivelata apertamente dagli archivi di Wikileaks.

Un investimento che poggia sul sodalizio, tutto da rinsaldare ma con costi e incognite fondamentali, di due paesi “minori” di quell’area le cui ambizioni possono essere soddisfatte solo con l’esplicito appoggio esterno. I due paesi sono ovviamente Israele, “minore” per la sua collocazione geografica ed il peso demografico, e l’Arabia Saudita, ancora più esposta nella sua influenza ideologica ed economica, grazie alla crisi irreversibile e progressiva del petrolio. I costi a carico di Israele sono l’eventuale accordo per un definitivo riconoscimento di status dei palestinesi; a carico dei sauditi il rischio connesso a un tradimento dell’ISIS e all’ulteriore sacrificio della componente sunnita irachena già decimata dagli americani e dall’attuale governo dell’Iraq e sopravvissuta grazie al patto militare con l’ISIS. Le incognite sono le ambizioni da potenza regionale dell’Egitto da una parte, in procinto di fondersi con il Sudan e in grado di contrastare efficacemente il predominio ideologico dei sauditi; della Turchia, dall’altra, attualmente sospesa, ma tentata e spinta a realizzare un sodalizio con l’Iran, con pretese le quali, se non ben soppesate, rischiano di destabilizzarla ulteriormente. Il bersaglio immediato ridiventa l’Iran. La migliore condizione di realizzazione del piano sarebbe una accondiscendenza più o meno tacita delle due superpotenze emergenti, eventualmente timorose di veder sorgere al proprio fianco un competitore geopolitico del calibro della coppia Turchia-Iran. Una preoccupazione minore per la Russia, piuttosto che per la Cina. Una trama azzardata, ma che consentirebbe a Trump di ottenere sul piano economico e sociale, grazie ai contratti e alle collaborazioni in via di sottoscrizione, qualche risultato sacrificando i suoi propositi di svolta in politica internazionale.

Cosa c’entrerebbe l’Italia, o meglio la nostra scalcagnata classe dirigente, in tutto questo? C’entra, eccome!

Sin dai tempi dello “smacchiatore” Bersani si preconizzava un nuovo ruolo dell’Italia in Nord-Africa e Medio-Oriente. Lontana dai fasti di Mattei, in realtà il paese si sta riducendo ad una mera funzione di marchio per conto terzi, con tutti gli sballottolamenti legati alla competizione tra i paesi possessori. Piuttosto, come sollecitato da Trump, si chiede di svolgere una funzione di mediazione con Francia, Gran Bretagna e Germania che li spinga all’azione comune contro l’ISIS. Una azione particolarmente rischiosa soprattutto per i primi due paesi, proprio perché l’uso massiccio di queste frange integraliste sono state il veicolo di ritorno della loro influenza nell’area Nordafricana e Mediorientale e potrebbero intensificare le ritorsioni terroristiche in caso di ulteriori voltafaccia.

È certamente uno degli oggetti di disputa tra il Papa Trump e l’Antipapa Obama, l’argomento forte e decisivo di quest’ultimo essendo la precarietà della condizione dell’attuale Presidente e la ventilata sua prematura defenestrazione. Una panacea per una intera classe dirigente europea cresciuta malamente sulla russofobia e sull’espansionismo americano ad est a scapito della propria indipendenza politica, ma evidentemente pronta o quanto meno tentata a cogliere il repentino trasformismo dell’attuale Presidente. In Italia una parte della compagine governativa e della sedicente opposizione pare tentata ad assecondare la richiesta in cambio di un ruolo americano attivo di mediazione in Libia, in funzione antifrancese e antirussa. Ne rimane un’altra, legata al buon Matteo, legata nei suoi abbracci mortali fuori tempo massimo.

L’esito della disputa ci dirà se l’Antipapa si qualificherà come il messaggero diabolico del genio del male o si ridurrà alla figura di un impostore al servizio di una fazione politica ormai compromessa e miserabile. Quanto al Papa, pur con qualche sussulto, il solco pare sempre più quello classico conservatore con una qualche attenzione in più alla coesione sociale interna. L’imprevedibilità e il rivolgimento in un primo tempo sembrano spiazzare i due principali contendenti nello scacchiere internazionale. L’apertura di più fronti ostili, in realtà, rischia di rafforzare i loro propositi di momentanea collaborazione, pur tra le tante debolezze di quelle formazioni sociali e delle loro classi dirigenti ed accentuare il processo di formazione multipolare con tutti i rischi e le opportunità che classi dirigenti adeguate potrebbero affrontare e cogliere nello scenario mondiale.

LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

NATURA MORTA 3a parte, di Giuseppe Germinario

qui la 1a e 2a parte

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

“Vogliamo essere da stimolo affinché il Partito democratico riprenda questo cammino arrestando la sua deriva neocentrista”, così recita la parte finale del documento fondativo del Movimento dei Democratici Progressisti (http://www.huffingtonpost.it/2017/02/25/movimento-democratico-pro_n_15005420.html ). Una intenzione che rivela lo spirito gregario di una iniziativa lanciata evidentemente di mala voglia, dallo scarso respiro strategico, la cui inerzia connoterà inesorabilmente la precisa funzione del neonato soggetto politico, così come degli altri in via di formazione nella stessa area: quella di mosca cocchiera.

Ogni movimento degno di questo nome per altro indirizza la propria azione costruendosi il proprio Pantheon di numi ispiratori. Massimo d’Alema, l’incubatore del MDP (articolo I Movimento Democratico e Progressista), ancora una volta ci ha illuminati e sorpresi per il suo spirito di accoglienza, già rivelatosi per nulla schizzinoso, sin troppo generoso ed aperto alle novità di fine secolo; nel suo Olimpo in terra, nel tempio degli “illuminati” è riuscito ad assegnare un posto di prestigio niente meno che al Senatore John Mccain, il a suo dire “conservatore illuminato”, acerrimo nemico dell’apprendista stregone neopresidente Donald Trump. La ragione della inopinata ascesa al tempio sono le sue dichiarazioni sulla natura guerrafondaia delle politiche di “the Donald”. Il pulpito dal quale provengono le filippiche non potrebbe essere di certo più credibile. Si tratta proprio di quel McCain immortalato ultimamente, tra le sue innumerevoli peregrinazioni nei vari focolai di guerra nel mondo, in amabile compagnia dei più sanguinari e settari esponenti qaedisti in servizio attivo in Siria ed Iraq, nonché dei più convinti e truculenti esponenti neonazisti impegnati ad alimentare la guerra civile in Ucraina.

Verrebbe da chiedersi il motivo di cotanto spirito d’accoglienza.

Certamente al nostro Leader Maximo non difetta il realismo politico; ne consegue l’accettazione tra le proprie fila dei nemici, secondo il noto principio di Clausewitz, del suo nemico Trump, il capostipite dei populisti e dei reazionari dell’universo-mondo. Si comprende anche, dopo oltre venti anni di imbarazzi e di contorsioni sempre più inverosimili, il sollievo determinato da una situazione che consente di riproporre finalmente il vecchio schema di una sinistra democratica mondiale fautrice di diritti e di pace contrapposta ad una nuova destra razzista, divisiva e militarista. Un buon viatico per garantirsi la sopravvivenza politica ancora per qualche tempo al prezzo però della disinvolta rimozione dei misfatti bellicisti democratico-progressisti degli ultimi trenta anni. Una rimozione certamente resa più disinvolta dall’attitudine e dallo spessore della scorza acquisita nella prima mutazione del nostro dal passato originario nel Partito Comunista. A queste qualità proattive, “diciamo”, fa probabilmente però da retroterra motivazionale alle scelte politiche, una certa inguaribile provinciale sudditanza psicologica di chi ha costruito la propria ascesa politica sulla partecipazione ad una sola guerra, quella contro la Federazione Jugoslava, condotta per di più dall’alto, costruita anch’essa sulla menzogna, tanto propedeutica alla costruzione del sodalizio tedesco-americano quanto nefasta per la federazione jugoslava e deleteria per gli italici interessi; sudditanza psicologica, quella di d’Alema, al cospetto di un personaggio come McCain, al quale deve essere sfuggito persino il novero dei focolai di guerra sino ad ora fomentati. Più prosaicamente deve spingerlo all’azione politica contingente anche il rischio di rottura dello stretto sodalizio con i democratici di Clinton che tanto ha contribuito, assieme ai benefici politici legati alle privatizzazioni degli anni ’90, al successo della sua fondazione;  una incognita determinata dall’esito delle elezioni presidenziali americane e dal possibile conseguente declino della famiglia sconfitta.

Basterebbe questa sintetica rappresentazione a qualificare un movimento politico destinato a raccogliere ormai consensi residuali nel paese.

Il problema è che questa residualità potrà consentire a queste formazioni comunque di ritagliarsi un proprio peso nel processo di frammentazione politica in atto e ritardare se non pregiudicare definitivamente un qualche sviluppo di positiva maturazione politica di una parte sia pure ridotta dei suoi quadri dirigenziali e della gran parte dei militanti di questa area in via di formazione.

Da qui la necessità di sviluppare una critica più puntuale delle tesi adottate non solo dal MDP (Articolo 1 MDP), ma anche dalla costellazione di formazioni interne al PD (mozione Orlando e marginalmente mozione Emiliano), esterne ad esso ma propedeutiche alla ricostituzione del centro-sinistra (MDP di D’Alema, Bersani e Speranza; Campo Progressista di Pisapia); esterne ma intenzionalmente alternative al PD (SI- Sinistra Italiana di Fratoianni e Fassina).

Ad eccezione della mozione Emiliano, conglomerato più che altro destinato ad alimentare formazioni politiche su base civica e territoriale in particolare del Centro-Sud, il resto delle formazioni politiche citate poggia, come si vedrà dai documenti e dagli interventi prodotti, su fondamenti ed analisi politiche comuni, ma su posizionamenti politici diversi frutto di contingente opportunismo.

Ad offrire gli spunti di discussione è sempre d’Alema.

Le sue linee portanti sono le seguenti:

  • Il processo di globalizzazione non ha portato ad una spontanea condizione di pace e di sviluppo omogeneo e ad una estinzione del ruolo degli stati. Le erronee aspettative alimentate in tal senso hanno penalizzato soprattutto le sinistre
  • La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze e favorito quindi l’emergere del potere finanziario, l’emarginazione o la sottomissione della funzione politica a questo potere e una reazione di difesa dei ceti emarginati strumentalizzate da forze antiestablishment (antisistema) piuttosto che populiste
  • Il recupero delle prerogative degli stati nazionali e la riproposizione del nazionalismo sono un lusso consentito alle formazioni e ai paesi più grandi. In quelli medi e piccoli, come quelli europei, si risolvono in una caricatura velleitaria ed impotente
  • Il processo di globalizzazione va quindi governato; per i paesi europei rimane fondamentale ed imprescindibile costruire entità sovranazionali per assumere un ruolo politico significativo
  • La sinistra democratica e progressista deve recuperare una certa radicalità e la capacità di difesa degli interessi dei soggetti deboli assumendo come parola d’ordine il principio di uguaglianza

Inutile ricercare nei suoi interventi una qualche autocritica coerente di posizioni sostenute da lui stesso sino a pochi mesi fa.

Rimane, tra le righe, un approccio che impedisce di valutare adeguatamente la permanenza del ruolo degli stati nazionali, la composizione dei centri strategici che determinano le strategie politiche nei vari ambiti, compreso quello economico e finanziario; che nella permanenza dell’equivoco del predominio delle forze economiche consente di riproporre la solita logica di divisione tra destra e sinistra, soprattutto tra democrazia e dittatura, funzionale al mantenimento degli attuali legami di subordinazione politica nell’agone internazionale; che nella proclamata pretesa di difesa a se stante dei ceti deboli non si fa che riproporre una divisione tra destra e sinistra che assegna a quest’ultima al meglio un ruolo subordinato di redistribuzione di risorse e alla prima la funzione determinante delle scelte produttive e di organizzazione economica funzionali alle strategie geopolitiche e di controllo delle formazioni sociali. Al peggio rimane il ruolo assunto nel determinare l’attuale condizione del nostro paese.

L’analisi dei documenti congressuali consentirà un maggior approfondimento di questi spunti.

Quelle espresse da d’Alema non sono solo debolezze e carenze di analisi, delle semplici incongruenze. Sono anche l’espressione consapevole di una strategia politica da sconfiggere senza remore, oggetto di una battaglia politica. La seguente intervista lascia intravedere di cosa si tratta e di come il personaggio sia parte del meccanismo ( http://www.huffingtonpost.it/2017/04/24/massimo-dalema-spiega-ad-huffpost-la-lezione-francese-una-sin_a_22053364/  )

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/natura-morta-di-giuseppe-germinario/

documento congressuale citato: http://www.partitodemocratico.it/congresso-2017/avanti-insiememozione-congressuale-matteo-renzi/

Ci siamo lasciati un mese fa nel bel mezzo del viaggio di riflessione di Renzi negli States con una sospensione di giudizio circa le sue frequentazioni. Si può confermare con ragionevole sicumera che la spregiudicatezza esibita sinora dal personaggio abbia superato da tempo ormai il suo acme; tutto si è risolto e racchiuso nella ristretta cerchia di consiglieri, sostenitori e mentori che ha facilitato la sua sfolgorante ascesa, incapace però di indirizzare proficuamente con sapienza la sua energia prorompente.

Da qui una prima considerazione. Non è sufficiente la lucidità e la chiarezza di obbiettivi individuati da uno staff destinato necessariamente a rimanere nell’ombra e avulso dal contesto politico del paese se non si dispone poi sul campo dell’indispensabile personale politico in grado di tessere appropriate relazioni, di muovere le necessarie energie, di tradurre in strategie e tattiche adeguate tese a scompaginare e ricomporre gli schieramenti e i gruppi di interesse in campo sino a ricostruire una formazione sociale sufficientemente solida, tanto più in un contesto di risorse e di margini economici decisamente ristretti.

Si ripropone in maniera sempre più acuta il problema delle modalità di formazione di una classe dirigente sempre più espressione dei poteri orizzontali dispersi nel paese e formatasi nelle varie realtà amministrative e gestionali locali piuttosto che alimentata da centri e da strutture verticali di potere sempre più logorate ed incapaci di elaborare strategie autonome; queste ultime sempre più mera espressione di indirizzi e strategie esterne al paese nel caso di centri di potere e gestionali, sempre meno in grado di elaborare indirizzi ed obbiettivi generali unificanti nel caso delle grandi associazioni nazionali.

È una delle tante conseguenze deleterie della campagna di smobilitazione della grande industria pubblica, della faciloneria con la quale si è consentita la cessione all’estero della quasi totalità della pur scarna grande industria privata e di buona parte della struttura finanziaria, della dissennatezza con la quale sono stati introdotti principi di federalismo grazie ai quali si è accentuata la disarticolazione dello Stato Centrale e l’infiltrazione delle strutture comunitarie nelle articolazioni periferiche senza la necessaria mediazione e l’indispensabile indirizzo dei centri nazionali.

Assieme al degrado del sistema universitario e all’indebolimento delle scuole nazionali di Pubblica Amministrazione e alla supina integrazione di buona parte delle strutture di comando specie militari, sono tutti fattori che contribuiscono al progressivo inaridimento del bacino da cui attingere personale in grado di elaborare ed operare secondo una visione politica generale con modalità adeguate.

Argomenti per altro già trattati in articoli di alcuni anni fa e che riproporrò su questo sito nel tempo.

A complicare ulteriormente la posizione del nostro è sopraggiunta la serie di indagini giudiziarie che sta intaccando la credibilità del cosiddetto “Giglio Magico”.

Non entrerò nel merito di come l’attuale ordinamento giudiziario, specie nei settori più permeabili della fase istruttoria, agisca pesantemente nel confronto politico, né mi soffermerò sull’evidente protagonismo di alcuni di essi, anche se in parte ridimensionati dalle recenti avocazioni. Preme sottolineare, piuttosto, come tali iniziative siano ormai un preciso segnale dell’indebolimento e del declino di un determinato gruppo dirigente e, soprattutto, evidenzino ancora di più la estrema fragilità degli attuali partiti. L’attuale sommatoria di nuclei dirigenti localistici in perenne competizione impedisce una netta separazione dell’azione politica dall’opera di reperimento e gestione più o meno trasparenti delle risorse, specie economiche. Una separazione che era particolarmente efficace ai tempi dei grandi partiti di massa della prima repubblica; una commistione ed una prossimità invece le quali rendono gli attuali gruppi dirigenti particolarmente esposti a ricatti e scorribande.

Paradossalmente il PD, proprio perché rimane l’unico partito strutturato in buona parte secondo criteri classici e con un radicamento nazionale, sembra ormai soffrire maggiormente di questi limiti, di questa permeabilità e di questa esposizione.

A mio avviso l’attuale dibattito interno, lo scontro politico in atto per la prossima rielezione del segretario vanno collocati in tale contesto.

L’esame delle tre mozioni congressuali interne al partito e dei documenti delle nuove formazioni in via di costituzione alla sua sinistra offrono alcuni spunti di riflessione al riguardo.

Inizio dalla mozione di sostegno a Renzi, a meno di qualche clamoroso incidente di percorso il predestinato alla vittoria nella battaglia politica, per lo meno quella interna al partito.

È l’unica mozione che ribadisce convintamente la necessità di una riorganizzazione istituzionale tesa a rideterminare una gerarchia funzionale delle competenze dello Stato; manca, nel contempo, altresì una qualsivoglia analisi delle ragioni del fallimento della riforma istituzionale legate anche alle contraddizioni intrinseche di quel progetto; un fallimento che rischia di rendere vacua la parziale riorganizzazione delle strutture amministrative comunque in corso. Una carenza di analisi quindi assolutamente non casuale, vista la particolare retorica che impregna l’intero documento.

Si parte dallo scontato atto di accusa rivolto ai “populisti”, entro i quali si accomunano indistintamente e opportunisticamente sovranisti, nazionalisti, razzisti, antiliberisti, comunitaristi e via dicendo, di costruire muri e di perseguire il modello della “chiusura”.

Un espediente retorico tanto semplicistico quanto ormai inefficace visto che non si riconosce attività umana, tanto più quella dell’agire politico, in grado di operare senza delimitazioni e “muri”. Più che dell’esistenza degli stessi, il dibattito risulterebbe meno pleonastico se si riuscisse a discutere concretamente del tipo di “porte” e del tipo di filtri da schierare agli ingressi e alle uscite. Un equivoco in cui l’estensore rischia di rimanere invischiato quando parla di contrapposizione tra limite ed integrazione; ma un limite appunto del quale l’estensore sembra intuire l’esistenza quando parla di “alleanza tra libertà e protezioni” e del “nuovo bisogno di sicurezza e di appartenenza” da soddisfare.

Si tenta quindi un recupero del riconoscimento dell’importanza del principio di identità nel garantire la coesione e la dinamicità di una comunità; un’azione congiunta di promozione dal basso, tesa alla valorizzazione delle comunità locali e dall’alto mirante alla costruzione di una identità europea. Cosa potrebbe essere l’identità europea se non il tentativo di costruzione di una nuova identità nazionale l’autore è lungi dal determinarlo; ciò che risalta alla fine, nella sua assenza, è l’elusione dell’esistenza delle identità e degli stati nazionali vigenti. Non più, quindi, il disconoscimento aperto così pervasivo nella retorica europeista più oltranzista, ma l’aggiramento del problema, tanto più paradossale in quanto dovrebbero essere gli stati nazionali stessi, stando alla nuova prassi instaurata obtorto collo da Renzi, a condurre il processo di proprio esautoramento. Un escamotage che inibirà ancora una volta il pieno utilizzo delle leve statali quantomeno per contrattare una condizione meno supina nell’ambito comunitario e per assumere almeno la consapevolezza del proprio stato di subordinazione; in realtà l’ennesima cortina fumogena che consentirà lo sviluppo del processo funzionalista di polarizzazione condotto attraverso i due livelli, regionale-locale ed eurocomunitario, già in atto da decenni.

L’EUROPA

Secondo il documento ad ogni buon conto si tratterebbe di recuperare, in polemica con i populisti appiattiti sulle pulsioni e con “la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico”, il valore della politica, la capacità quindi del politico-intellettuale di comprendere, non solo di analizzare freddamente, e di agire collettivamente sulla base di tale comprensione.

A dispetto degli inaspettati richiami gramsciani l’ennesimo disconoscimento della legittimità politica di due correnti di pensiero, populista e tecnocratico, impedisce un corretto confronto politico. Tende, in particolare, al netto delle inerzie proprie delle burocrazie, a sopravalutare l’autonomia politica di questi centri e a evitare il confronto diretto con i reali interlocutori che li indirizzano; attori assolutamente politici.

L’obbiettivo sarebbe la realizzazione di “una convergenza che faccia perno sulle tre più grandi democrazie dell’Eurozona, su un modello originale che concili integrazione e democrazia” adottando “un modello con due livelli di governo distinti, uno federale con un adeguato bilancio da gestire e regole comuni per dare una dimensione davvero europea ai nostri mercati, e uno rinviato alla responsabilità degli Stati, singoli o in forma associata nel Consiglio europeo”; “restituire quindi anima e respiro alle quattro libertà europee – la libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi – ritrovando in esse un orizzonte comune, di progresso e crescita”. Per concludere si deve realizzare “il principio di fondo della nostra visione; quello di un’Europa politica e democratica e anche di un’Europa sociale”.

Fine, quindi, della politica di austerità, investimenti in sicurezza, ricerca e cultura svincolati dai tetti di spesa, spesa fiscale comune attraverso una assicurazione europea contro la disoccupazione e per investimenti contro la povertà educativa. Torna in auge la funzione cruciale e prioritaria per la sinistra dell’investimento nel sociale, termine salvifico che giustifica la propria esistenza, ma che innalzata a funzione taumaturgica non fa che relegare ad una pura funzione redistributiva la sua azione politica; una funzione tutt’al più complementare incapace il più delle volte di determinare strategie in grado di preservare la forza e l’autonomia politica di un paese e lo sviluppo e la coesione sociale stessi nel lungo periodo.

Le ricadute nell’economicismo mi sembrano evidenti; lo spirito del documento equivale al tentativo di librarsi di un uccello troppo pesante per poter volare.

L’aspetto puramente politico, la sicurezza stessa dei confini vengono d’altronde giustapposti e ridotti al problema della gestione della immigrazione; a questa, ipocritamente, pare vincolata la proposta di difesa comune “partendo dal nucleo dei grandi paesi fondatori e individuando alcuni obiettivi concreti: rafforzare la collaborazione e la cooperazione; mettere in comune competenze e risorse, sulla base di un modello  condiviso e di un accordo costitutivo per stabilire finalità e modalità operative, al fine di realizzare una forza europea multinazionale, con funzioni e mandato stabiliti insieme, dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali ed economici comuni; investire in una dimensione europea di integrazione dell’industria della difesa europea; dirigere risorse, umane ed economiche, verso settori strategici quali ad esempio la difesa cyber, il sistema di difesa satellitare e la logistica”.

 Si tratterebbe quest’ultimo in realtà di un passaggio epocale, sempre che non si riveli una rischiosa velleità. Tanto impegno sarebbe legato ad un obbiettivo politico tangibile: “una politica estera europea che, grazie al contributo fondamentale dell’Italia, investa su due aree d’importanza strategica: gestione dei processi migratori e Mediterraneo”.

 

Le lacune e le incongruenze presenti nel documento a mio avviso si infittiscono.

Assegnare un valore strategico alla gestione dei processi migratori e al Mediterraneo porta a confondere le cause con gli effetti. Negli ultimi anni appare evidente l’emersione di un conflitto sempre più manifesto tra Stati Uniti e Russia e sempre meno latente tra i primi e la Cina. All’interno di questo si inseriscono le dinamiche di emersione di potenze regionali, l’esplosione di conflitti regionali, l’avvio di potenti processi di riorganizzazione sociale ed economica che inducono tra l’altro a colossali movimenti migratori che si incanalano lungo corridoi resi più agibili dalla dissoluzione per lo più indotta di alcuni stati nazionali. La Libia, la Siria, l’Ucraina, il Sudan, la Bosnia sono gli esempi e le vittime più lampanti. Il terreno di confronto tra Russia ed USA vede l’Europa come teatro principale e all’interno di esso i vari paesi europei, in particolare i loro centri dominanti, hanno trovato accomodamenti più o meno convenienti. La Germania ha trovato il modo di conciliare con l’establishment americano le proprie ambizioni di estensione dell’area di influenza nella regione balcanica e nell’Europa Orientale, sacrificando al momento e per una lunga fase una prospettiva di politica più autonoma del tutto impraticabile senza una riconciliazione con la Russia; i paesi scandinavi e gran parte dei paesi dell’Europa orientale e nord-orientale hanno rispolverato ambizioni ed ostilità russofobe, sopite per quasi due secoli e assecondato di conseguenza l’espansionismo americano; l’Italia tra i paesi mediterranei ed in gran parte la Francia hanno sacrificato anche i propri interessi immediati in nome della pedissequa fedeltà atlantica con la prima ridotta ormai a terra di conquista dei propri amici alleati. L’avvento di Trump avrebbe dovuto rappresentare una occasione di recupero di rapporti accettabili con la Russia e di un’opportunità di recupero di una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Tanto l’aperta ostilità della Merkel verso il nuovo Presidente americano, invece, rivela la solidità degli interessi di breve periodo di quella classe dirigente e la sua speranza di un rapido ripristino del vecchio ordine nel paese egemone quanto il significativo silenzio del nostro rivela invece la debolezza e la subordinazione costosa per il nostro paese della nostra classe dirigente all’ordine precedente. Non si vede, quindi, come si possa ambire ad una difesa comune senza aver definito una altrettanto area comune di interesse e conduzione politica che ponga fine, in primo luogo, alla destabilizzazione di impronta preminentemente americana dei numerosi stati ai bordi delle aree di influenza. La stessa creazione di un unico complesso militare-industriale è quanto di più lontano si possa immaginare dalla dinamica di un libero mercato e presuppone un ruolo attivo e potente di concertazione dei vari stati nazionali.

Gli investimenti cosiddetti sociali ed una politica adeguata di investimenti infrastrutturali comunitari, altro cavallo di battaglia ricorrente, presuppongono una capacità fiscale almeno quindici volte maggiore dell’attuale senza che nessuno evidenzi le implicazioni di questo eventuale enorme trasferimento di risorse dai bilanci degli stati nazionali, data l’impraticabilità di un ulteriore incremento massivo del carico fiscale.

Basterebbe ricordare che gli Stati Uniti raggiunsero la piena condizione di stato federale dopo oltre un secolo dall’indipendenza, dopo una sanguinosa guerra civile e con il repentino passaggio del carico fiscale dall’otto a quasi il trenta per cento del prodotto interno a fine ottocento.

Gli stessi investimenti strutturali europei tra l’altro, così come concepiti sull’altare del tabù della concorrenza, secondo una letteratura ormai consolidata ma poco considerata in Italia, sono un’arma ambivalente che può accentuare anziché ridurre gli squilibri, desertificare piuttosto che ripopolare gli insediamenti produttivi, inibire lo sviluppo di una imprenditoria locale radicata.

Un dibattito aperto sul merito farebbe vacillare un altro totem indiscusso della retorica europeista.

Sono tutte ambiguità e rimozioni che servono a glissare sul peccato originale dell’attuale costruzione europea. Il suo carattere prettamente economicista e velleitariamente federalista offusca il dato che l’Unione Europea è nata sulle ceneri di una sconfitta militare dei paesi europei e sulla base di una alleanza militare che sancisce il predominio americano su di essa, così come esplicitamente definito per altro nei trattati; nasconde surrettiziamente le dinamiche di competizione e di prevalenza tra stati comunque presenti all’interno di essa; rimuove l’unica possibilità di costruzione europea che renda più trasparenti questi rapporti e agevoli un processo di emancipazione dalla sudditanza scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra Fredda: quella confederale limitata ad un numero più ristretto di attori europei.

La ristrettezza del cerchio di frequentazioni di Renzi non è quindi casuale; rappresenta l’indice dei rigidi vincoli entro cui intende e può muoversi.

 

IL PAESE

 

La rigidità dei vincoli non è però sinonimo di immobilismo, tutt’altro. L’agenda del candidato è fitta di appuntamenti e di propositi riformatori che comunque godono di una dinamica insolita rispetto al passato.

Il welfare di cittadinanza piuttosto che di settori e di corporazioni, l’intervento assistenziale attivo, teso all’inserimento produttivo, la garanzia di reddito minimo, in particolare pensionistico, di fatto contrapposto al sistema contributivo delle pensioni, l’attenzione dichiarata e sancita al cosiddetto terzo settore legato in prevalenza ai servizi alla persona, gli investimenti nella logistica, la riforma scolastica ed universitaria sono programmi, buona parte dei quali in fase di attuazione, che stanno rivoluzionando gli assetti organizzativi e sociali e di conseguenza modificando le modalità di aderenza e di controllo pervasivo del ceto politico sulle strutture e negli apparati. Lo stesso riconoscimento di cittadinanza ai ceti professionali autonomi finalmente acquisito politicamente nel PD è un altro segno evidente della svolta, tradottosi anche nella recente legge

Si tratta di una dinamica cui Renzi ha dato una spinta decisiva, anche se scomposta, ma che aveva cominciato a delinearsi chiaramente già da sette anni, a partire dai seminari di Todi del 2011 promossi dalla Conferenza Episcopale con i quali aveva preso forma compiuta in Italia il processo di esautoramento del Governo Berlusconi. Una spinta che avrebbe dovuto portare alla creazione di una nuova DC; fallita miseramente quell’ipotesi il baricentro di quella iniziativa si è riposizionato prontamente nel PD.

Una dinamica potenzialmente ambivalente ma che rischia di assumere sempre più le caratteristiche di uno nuovo sistema di servizi di tipo parassitario e assistenziale di supporto ad un assetto sociale ed economico più precario e meno autonomo nella determinazione delle strategie. Tutto dipende dalla collocazione internazionale che si intende accettare e dalle strategie economiche che si intende perseguire. Delle prime ho accennato sopra; sulle seconde ho già accennato in altri articoli.

Le dinamiche del conflitto interno al PD sono per altro il riflesso di questo rischio.

Le tesi sostengono di puntare su turismo, edilizia ed esportazioni, qualcosa di non molto diverso dall’impronta Einaudiana data al sistema economico italiano degli anni ‘50; in realtà lo schema, già in fase avanzata di realizzazione, prevede il parziale controllo dei presidi sul territorio e la cessione a terzi esterni al paese del controllo strategico di gran parte delle reti e non fa che assecondare e accentuare le tendenze del cosiddetto libero mercato.

Come si possa essere “artefici del proprio destino” delegandone la supervisione ad altri rinunciando per altro alle leve necessarie a contrattare una compartecipazione resta un mistero.

Sindacare sul rigore di un documento può sembrare pedante e poco generoso rispetto ad una situazione talmente intricata e complessa. La coerenza di fondo può rivelarne però i limiti e le finalità effettive che possono anche prescindere dalle intenzioni soggettive.

La contingenza politica, per di più, sta costringendo Renzi al tentativo di bloccare l’erosione a sinistra, snaturando e paralizzando i propri propositi riformatori.  I richiami a Gramsci, la rivendicazione ostentata del carattere di sinistra della sua azione sono una manifestazione evidente del peso dei retaggi. Dopo le rivisitazioni subite nella sinistra latino-americana, in Podemos e in Siriza, all’intellettuale e politico sardo tocca subire anche questo ulteriore scempio, seguito alle persecuzioni fasciste.

Il PD rischia alla fine di diventare per Renzi più che un veicolo, una gabbia che rischia di soffocarlo definitivamente contribuendo in tal modo al sorgere di una terza fase più convulsa della battaglia politica. Gran parte del personale politico raccolto da Renzi, del resto, è stato coltivato dalle tre precedenti gestioni del partito sulla base di esperienze prevalentemente territoriali e localiste.

Nella terza parte dell’articolo vedremo quindi come gran parte dei suoi oppositori interni ed esterni della sinistra rappresentino un fattore di freno ulteriore e di impaludamento della situazione; in particolare vedremo come lo schema classista, quello che oppone sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, forti e deboli alla base della loro azione politica offra una chiave esclusiva di lettura che impedisce di individuare le dinamiche di conflitto e cooperazione e la composizione delle forze in campo; ostacola la difesa stessa delle condizioni di vita degli strati più popolari impedendo il loro inserimento consapevole in un blocco sociale più dinamico e promettente.

ΣΥΡΊΑ 10.06.2012, di Giuseppe Germinario

ΣΥΡΊΑ

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Non tutti hanno la fortuna di godere delle eteree certezze sull’universo mondo di cui dispone Bernard-Henry Levy, in arte BHL. Le nouveau philosophe, discepolo, ahimè, anche se dozzinale, di Althusser, ha iniziato la sua folgorante carriera nei migliori salotti strappando quella maschera umanistica al marxismo che altrettanti marxisti decadenti, dal cuore cedevole al pari del rigore analitico, hanno appiccicato allo scienziato di Treviri; lo ha fatto, però, per riproporre un suo umanesimo a “la carte”, in barba agli insegnamenti del suo maestro all’Ecole Normale.

La apparente linearità del pensiero “debole” trova spazi accoglienti in quegli ambienti ben disposti a farsi dettare le ultime verità, specie in periodi di facile smarrimento.

BHL, infatti, ormai al crepuscolo in Francia, trova sempre più frequente ospitalità nientedimeno che sul Corriere nostrano, un tempo acerrimo nemico.

Dopo la sua marcia trionfale a Bengasi a sostegno della primavera libica, omaggiata con sguardo ammirato dal “Corrierone” pur con qualche stonatura, eccolo di nuovo a perorare con toni melensi e indignati, sulla stessa testata, il sostegno diretto alla “primavera siriana” sino a rammentare pubblicamente ad Holland il significato della gentile concessione del suo voto e favore all’allora candidato ed attuale presidente di Francia.

Si sa che gli umanisti quanto più si accaniscono con veemenza nel difendere l’ UOMO, tanto più infieriscono e abusano degli uomini in carne ed ossa, per lo più indegni di incarnare il loro idealtipo; poco propensi a mettere a repentaglio la propria vita, bene troppo prezioso per l’umanità e meritevole, per questo, di sicurezza e benevole licenze, quanto più riescono a inveire contro il dittatore reo delle peggiori nefandezze verso la propria gente, tanto più rimangono abbagliati dai proclami di un qualsiasi assembramento di persone le quali il più delle volte proiettano le proprie esigenze di emancipazione su quelle di una massa con ben altri orientamenti e propositi. Rendendosi conto, in corso d’opera, che per fare una rivoluzione non bastano i messaggini di Twitter e Facebook, agli umanisti illuminati non resta altro che fare appello, per il buon esito della causa, all’arrivo poco sportivo ma rassicurante dei “nostri” in groppa a cavalli e draghi d’acciaio e all’azione sul terreno dei peggiori tagliagole per l’occasione investiti alla bell’e meglio di doti e sembianze “umanistiche” e “democratiche”.

Pensavo che la fine tragica di Gheddafi e di suo figlio, l’intera vicenda libica rappresentassero lo zenit di questa rappresentazione e di questi istrioni.

Si è trattato invece di un primo rudimentale esperimento, alla fine riuscito con qualche difficoltà di troppo, ma ancora con tanti aspetti dilettanteschi da regolare, legati alla balordaggine di alcuni protagonisti e gran parte delle comparse, all’improvvisazione di alcune costruzioni mediatiche (vedasi il cimitero di Tripoli spacciato per fossa comune) e alla stonatura  reiterata di alcuni compartecipi dello scenario libico; vedasi la Chiesa Cattolica impersonata dal vescovo Martinelli. La grottesca ritrattazione di quest’ultimo, dopo una lunga catechizzazione in Vaticano, non ha fatto altro che aggiungere la beffa al grottesco e far crollare la credibilità del pastore di anime romano sino alla sua degradazione a cane da guardia del gregge per conto terzi.

La Siria, purtroppo per quel paese e per quel popolo, rischia al contrario di diventare un campo di azione e di battaglia dalle regie meno improvvisate.

Lo scenario si presenta decisamente più complesso e incerto di quello libico, ma con gli schieramenti più definiti.

Gli strateghi del pantano e della destabilizzazione non possono rischiare uno stallo di tipo afghano a pochi mesi dalla probabile rielezione della loro maschera alla Casa Bianca. Non solo; qualcuno tra di essi, all’interno dei servizi e dell’apparato militare statunitense, vorrebbe indurre ad una maggiore cautela nella manipolazione e nella istigazione di forze che potrebbero rivoltarsi in un breve volger di tempo.

Così, anche se in maniera ancora latente, cominciano ad apparire le prime discrepanze con gli oltranzisti dei diritti umani e degli interventi umanitari pronti sempre e comunque a strepitare. Questi ultimi capeggiati dalla Hillary Rodham in Clinton al centro dello schieramento; con i satelliti occidentali, in particolare Francia e Gran Bretagna, ad incitare e fomentare, consapevoli che solo da una acutizzazione progressiva dello scontro con Russia e Cina possono sperare di alzare il prezzo della loro collaborazione e ritagliarsi qualche lembo periferico dell’impero; con le forze ed i paesi presenti nella regione impegnati a ritagliarsi, in competizione tra loro, sfere di influenza locali a spese delle vittime via via designate.

In quest’ultimo anno e mezzo la Libia è stato il bacino di decantazione di queste forze: la Turchia ha sciolto ogni originaria incertezza manifestata all’inizio del conflitto e rivelato il patto di ferro sottoscritto, dopo anni di attriti, tra Erdogan e i militari turchi, sul cui altare sono stati sacrificati i rapporti con la Russia e le buone relazioni con il vicinato, in particolare Siria e Iran e consolidati i rapporti con gli Stati Uniti; la Francia ha cercato, con il suo interventismo eterodiretto e ostentato, di interrompere la continua erosione anche violenta delle sue aree di influenza ad opera soprattutto del suo ingombrante alleato americano, ma anche di Cina e Russia.

Quali siano i risultati di tanto attivismo servile transalpino, li abbiamo visti dalle turlupinature subitanee ricevute in Libia e da quelle che arriveranno dalla destabilizzazione dell’intera Africa Subsahariana a seguito della dissoluzione dello stato libico; i sauditi sono entrati in aperta competizione regionale oltre che con l’avversario storico iraniano, anche con la Turchia islamizzata.

La Siria rischia di diventare il terreno di confronto e di scontro di queste forze, in parte ormai sedimentate le quali hanno comunque trovato nella distruzione degli stati laici e nazionalisti residui il campo di azione comune da occupare per contendersi e accaparrarsi le spoglie.

Si tratta comunque di forze, queste ultime, ancora fragili e precarie all’interno delle loro stesse basi di partenza, che poggiano spesso e volentieri ancora su clan e tribù e con una forza integralista tanto radicale quanto pronta a frantumarsi a contatto con le realtà locali; suscettibili, quindi, di diventare repentinamente, a loro volta, vittime.

Il terreno ideale per i giochi geopolitici spregiudicati delle potenze dominanti. Il discorso di Obama al Cairo, tre anni or sono, con le sue profferte di “dialogo” al mondo islamico, ufficializzò questa strategia, per altro già in corso;  oggi prosegue con qualche cautela da parte di taluni e con spregiudicatezza distruttiva da parte di altri.

Non più tardi di alcuni giorni fa, ancora la Hillary Clinton ha denunciato con veemenza e faccia tosta l’espansione di Al Qaeda nel mondo, dopo aver incoraggiato ed alimentato ancora una volta generosamente le attività dei suoi scherani e tagliagole in Libia e Siria, rilasciando loro entusiasti attestati di democraticità.

Non è certamente l’unica; gli stessi nazionalisti, oggi vittime in Libia, Siria e Algeria, in passato ed alcuni ancora oggi, hanno alimentato e foraggiato le fila di questi militanti apolidi per i più svariati motivi. Ma è certamente la più disinvolta, grazie forse allo sguardo panoramico consentito dal suo punto di vista centrale.

Oltre alle contingenze politiche interne al paese dominante, la situazione di stallo apparente in Siria è determinata da altri tre fattori altrettanto importanti in relazione tra loro e assenti nell’intervento in Libia:

ñ  la resistenza di Cina e Russia all’intervento occidentale e il sostegno diretto dell’Iran al Governo Siriano. Per l’Iran è evidente il rischio diretto che correrebbe con la sconfitta di Assad. Per la Russia il valore simbolico di un cedimento sarebbe enorme, oltre alla perdita della presenza militare residua nel Mediterraneo. Perderebbe ogni residua capacità di conflitto regolato e contrattazione con gli americani e le rimarrebbero le sole carte della remissione e della disperazione

ñ  la relativa solidità e capacità di resistenza del regime di Assad

ñ  la presenza di una parte importante dell’opposizione che, di fronte al rischio di una dissoluzione e una occupazione del paese, ha preferito interrompere le ostilità e tentare un accordo diretto con il regime di Assad piuttosto che diventare uno strumento e la maschera presentabile di forze forcaiole esterne. Una scelta affatto gradita dallo schieramento occidentale non a caso impegnato a coprire le provocazioni terroriste tese a innescare la dinamica repressione indiscriminata, proteste, intervento straniero. Le conseguenze evidenti sono l’incapacità di una opposizione oltranzista più agguerrita ma meno radicata di quella libica di costituire quella testa di ponte necessaria a consentire l’intervento diretto esterno e la creazione di aree franche.

A rendere più trasparente e delineata la situazione in campo in Siria, rispetto alla Libia, è, inoltre, il silenzio assordante della Chiesa Cattolica, conferma evidente di una scelta di campo magari estorta, non ostante la presenza nel paese di una comunità cristiana di oltre due milioni di persone (10% della popolazione) schierata per lo più contro l’interventismo esterno. Del resto, quella comunità, nel corso dei secoli, ha dovuto spesso difendersi più dalle persecuzioni dei correligionari, compresi i crociati, che da quelle dei mussulmani; nelle comunità ristrette la memoria, spesso, rimane più viva che in quelle allargate.

In questo contesto, l’attivismo frenetico dei ribelli sul posto e delle potenze satelliti nel supporto militare e nella propaganda sembrano colpi di mano tesi a forzare una situazione che, dopo la eventuale rielezione di Obama, potrebbe sfuggire di mano agli oltranzisti della strategia del pantano.

L’invito recente di Obama rivolto a Putin, per il tramite di Medvedev, a pazientare, probabilmente non riguardava solo l’ambito del confronto militare strategico, ma anche e soprattutto il contenzioso geopolitico di alcune zone, tra cui la Siria e la definizione dei rapporti economici; uno spiraglio che consentirebbe a Putin di definire, al proprio interno, un compromesso più solido con le forze “sensibili” ai richiami del mondo occidentale.

È probabile che l’epilogo della vicenda comporterà comunque la defenestrazione di Assad, ma lo scenario è tutto da costruire, tanto più che le forze lealiste risultano ancora in grado di ritorcere le intromissioni, fomentando a loro volta le divisioni in Turchia e Libano.

La Siria sta diventando un caso esemplare che consente di intuire e individuare le dinamiche di conflitti, alleanze e influenze tra i vari gruppi strategici in competizione, così come teorizzate dal nostro blog.

Sta rivelando, inoltre, un affinamento significativo della macchina propagandistica.

All’adulazione dozzinale dei rivoltosi libici e all’utilizzo rozzo e sfrontato delle costruzioni mediatiche si sovrappongono un uso più sapiente delle immagini e reportage sulla condizione del paese, sulla modernità delle relazioni sociali cui non corrisponderebbe l’organizzazione clanica del sistema di potere degli Assad; si prefigura una svolta che nel lungo periodo (sic!) porterebbe all’affermazione di una società dei diritti e della cittadinanza; nel lungo periodo, appunto, quasi a premunirsi sulla possibilità di svolte di breve periodo in tutt’altra direzione.

Qualche sforzo cerebrale più significativo rispetto alla macelleria di ogni raziocinio perpetrata durante la guerra a Gheddafi.

Segno che anche l’opinione pubblica è diventata un po’ più esigente e diffidente.

http://www.marianne2.fr/Syrie-pourquoi-la-revolution-n-est-pas-pres-de-s-arreter_a219385.html

http://inshallah.comunita.unita.it/2012/06/05/siria-un-appello-ai-media-italiani/

L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio 2011, di Giuseppe Germinario

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio rappresenta una prima sintesi dell’impegno portato avanti, con grande dispendio di energie, per oltre un anno, da diversi gruppi di lavoro tematici.

Da oltre venti anni, è il primo tentativo organizzato di costruzione di un programma ad opera di un partito che sembrava aver dissolto nella nebbia della polemica politica dozzinale la tradizione ed il rituale di ponderosi e pretenziosi programmi politici propri delle organizzazioni popolari del dopoguerra bipolare.

Chi ha partecipato alla vita politica di quegli anni, ma anche solo assistito alle tribune politiche in bianco e nero e grisaglia, conosce l’impegno delle persone ed il peso che veniva dato alle parole e agli scritti, anche con tutto il rischio connesso alla facile caduta in slogan capaci di spiegare e piegare il tutto.

L’organizzazione dell’evento, se per alcuni doveva servire per uscire, una volta per tutte, dall’acceso dibattito politico sulle propensioni lubriche del Premier e dal vicolo cieco dell’antiberlusconismo, per la maggior parte del gruppo dirigente, quella determinante, è servita per rivendicare, con qualche velleità, la paternità ed il potere di investitura della coalizione, del caravanserraglio antiberlusconiano e inventarsi un tratto di nobiltà e presentabilità della proposta di coalizione attraverso un simulacro di programma.

In realtà è ormai evidente che l’agenda e i contenuti politici sono dettati dal protagonismo diretto di altri poteri e attuati direttamente da figure il più delle volte esterne ai partiti; gran parte di quei dirigenti di partito ed istituzionali sembrano assumere sempre più il ruolo di semplici cicisbei.

Lo sforzo elaborativo, tuttavia, non sembra aver raggiunto risultati al momento apprezzabili.

Tutto si è risolto nella giustapposizione di numerosi documenti tematici, in buona parte assolutamente generici, alcuni penosi, come quelli sul Mezzogiorno e la giustizia, o del tutto antitetici di fatto, alcuni, rispetto all’obbiettivo dichiarato di recupero del consenso dei ceti produttivi e di intere aree geografiche del paese.

Manca, soprattutto, l’indicazione esplicita del contesto internazionale in cui si opera e di una “mission” cui subordinare gli elaborati; la fissazione, quindi, delle priorità di obbiettivi da perseguire nell’eclettismo delle proposte.

È possibile, tuttavia, tracciare alcune linee guida che informano, implicitamente, l’elaborazione:

  • la prosecuzione della costruzione europea nel quadro di sostegno collaterale alla politica statunitense di gestione “illuminata” del multilateralismo a predominanza USA;

  • la prosecuzione della costruzione europea attraverso la centralizzazione delle politiche finanziarie e di bilancio, l’allargamento delle funzioni collaterali del parlamento europeo e il rispetto dell’assemblearismo degli stati europei. Una critica indiretta, quindi, all’affermarsi dell’asse franco-tedesco, al ruolo ancora preponderante degli stati nazionali accompagnata all’assunzione acritica del ruolo della Commissione Europea e delle regole del mercato finanziario dettate in gran part dalle lobby anglo-americane. Una conferma della visione prevalentemente tecnocratica ed economicistica coperta dalla solita retorica europeista, nonché della corrispondenza tra NATO e Comunità Europea là dove l’adesione degli stati minori della comunità e le attuali procedure decisionali contribuiscono a neutralizzare le velleità autonomistiche del nucleo storico della CEE; la stessa opzione di rafforzamento di una istituzione, il Parlamento, dal ruolo prevalentemente consultivo e che, comunque, per avere un minimo di efficacia deve appoggiarsi paradossalmente agli istituti statuali nazionali, rappresenta una contraddizione che in realtà contribuisce al peso crescente di una Commissione Europea così com’è;

  • l’accettazione delle politiche di rientro drastico del deficit pubblico quale risposta agli attacchi finanziari speculativi; in realtà, il presupposto del consolidamento definitivo del predominio tedesco in condominio con quello planetario americano e sotto la sua egida.

All’interno di questo quadro trovano una collocazione gli indirizzi e gli obbiettivi espressi nei documenti.

Si parte dalla presa d’atto della necessità una contrazione drastica del deficit pubblico all’interno dell’attuale perimetro dell’euro così com’è.

Le modalità di raggiungimento dell’obbiettivo prevedono il recupero massiccio dell’evasione fiscale, lo spostamento del prelievo verso le rendite o, come proditoriamente specificato, il reddito da rendite e un taglio drastico e progressivo della spesa pubblica.

Sullo spostamento del prelievo, data la scarsità del reddito ricavato (interessi, canoni, rendite) e la scarsa rintracciabilità delle grosse rendite speculative penso ci sarà poco da fare; sempre che non si arrivi al demenziale prelievo sul patrimonio, di nefasta memoria e di dimensioni ben maggiori di quelle effettuate da Giuliano Amato. Cosa improbabile e capace di scatenare, questa volta, reazioni realmente violente. Sarbbe da augurarsi l’attuazione demenziale e inutile, a conti fatti, del progetto

Questi due altri aspetti meritano, invece, l’attenzione particolare, perché saranno il terreno di scontro reale non tanto nel senso tradizionale offerto dai sinistri di attacco al welfare che pure esiste, quanto, soprattutto, nel senso della gestione delle risorse a favore prevalentemente dei ceti produttivi innovativi e strategici o meno.

Rispetto all’evasione fiscale il continuo richiamo all’etica non lascia presagire nulla di buono; di fatto si continua ad ignorare ottusamente e, ormai, con una buona dose di malafede, che l’evasione fiscale è soprattutto uno strumento di sopravvivenza di interi settori economici ed intere aree geografiche oltre ad essere uno strumento di arricchimento surrettizio di alcune fasce sociali e di alcune categorie professionali che lucrano sulla complessità e farraginosità del sistema fiscale; il drastico e indiscriminato recupero fiscale fine a se stesso non farebbe altro che affossare definitivamente buona parte dell’economia. Le poche esperienze di emersione dei decenni passati, infatti, sono tutte pressoché fallite, soprattutto nel Mezzogiorno. Se a questo recupero viene subordinato l’alleggerimento fiscale generalizzato dei redditi bassi e delle attività produttive piccole e medie, si comprendono il velleitarismo e la demagogia celata dietro queste attenzioni.

Ancora più rivelatore, se possibile, l’atteggiamento nel versante della spesa pubblica e della gestione di servizi ed attività pubbliche.

Il principio fondante è la difesa del consumatore e della persona, lo stesso su cui si fonda la politica della Commissione Europea; un punto di vista, quindi, legato piuttosto alle astratte esigenze di consumo e della domanda che all’investimento strategico cui subordinare le politiche di distribuzione. Un ruolo centrale, a questo punto, dovrebbero assumere le privatizzazioni e le liberalizzazioni. Manca totalmente, su queste, una analisi critica degli antefatti degli anni ’80/’90; non esiste alcuna distinzione fra settori strategici, settori in cui la presenza di infrastrutture non riproducibili (telefonia, gas, elettricità, autostrade, ect) rende illogica la liberalizzazione e la loro attuazione si rivela uno strumento di appropriazione parassitaria di risorse e di distorsione di capacità imprenditoriali anche da settori strategici (vedi il caso Pirelli-Telecom, la privatizzazione delle autostrade); emblematico il caso della distribuzione del gas dove si dovrebbe scorporare ulteriormente l’ENI, dopo la cessione scellerata del Nuovo Pignone, frammentare l’offerta al dettaglio e compensare la debolezza contrattuale di questa con la costituzione di una unica società acquirente del gas al dettaglio da grossisti e proprietari dei gasdotti. Siamo, praticamente, alla quinta colonna della Commissione Europea.

Rimane il terreno insidioso delle categorie e degli albi professionali, altro punto cruciale dove gli interessi strategici della potenza dominante e dei ceti subdominanti trovano un terreno fertile di incontro con i ceti medi; i legami diretti ed evidenti con parti importanti di essi, come ad esempio settori della magistratura, traggono alimento politico diretto dalla difesa corporativa degli interessi economici, di status e di potere. I casi di intreccio di tali aspetti sono ormai numerosissimi e per uscirne non è sufficiente, anzi risulta controproducente, una liberalizzazione generalizzata slegata dalla qualità delle prestazioni, dalla responsabilità e dalle tutele economiche.

La stessa attenzione conclamata verso le piccole aziende e i ceti produttivi risulta, quindi, velleitaria e demagogica se subordinata al recupero dell’evasione; l’unico punto realizzabile potrebbe essere quello dell’abbattimento degli oneri legati alla semplificazione delle procedure burocratiche; su questo, però, hanno fallito miseramente, ancor prima di cominciare, sia Prodi che Berlusconi.

La stessa proposta di piani industriali di riorganizzazione e contenimento della spesa pubblica, di per sé corretta, appare del tutto ambigua e demagogica in mancanza di una critica seria delle logiche di riproduzione degli apparati burocratici, giunti ormai ad una dimensione di autentici “monstre” divoratori e con la perpetuazione dell’ideologia del consumatore sovrano.

Se a questo si aggiunge la totale assenza di accenni alla difesa delle aziende strategiche e alla necessità di investimenti e di politiche orientate ai settori fondamentali per garantire autonomia e autorevolezza nazionale, si comprende come l’intenzione di favorire le forze produttive piccole e medie sia, di fatto, il perseguimento più o meno cosciente di una politica di subordinazione remissiva e reazionaria.

Non a caso, l’enfasi maggiore viene posta nell’attenzione alle energie alternative quando è ormai chiaro che l’introduzione indiscriminata di incentivi spropositati ed improvvisi sta aggravando gli squilibri, gli oneri economici generali legati all’energia e, in mancanza dei tempi necessari alla creazione di una industria nazionale, alla dipendenza tecnologica e manifatturiera dall’estero in un settore ritenuto dagli stessi strategico; per non parlare, poi, del fatto che, nella migliore delle ipotesi, questo settore riuscirà a coprire, nei prossimi trenta anni, a mala pena il 30% del fabbisogno energetico.

La stessa ipotesi di razionalizzazione della spesa pubblica si risolve in una sorta di appello a lavorare di più con meno risorse, quando si tratterebbe di varare un vero e proprio piano drastico di trasferimento di risorse verso gli investimenti produttivi strategici; sarebbe doloroso e traumatico, certamente meno di quanto lo saranno, tra qualche tempo, in una situazione di ulteriore degrado e stagnazione.

Sicuramente servirebbe a ridimensionare le velleità politiche della pletora di strati parassitari attualmente in fibrillazione.

Sono misure ancora possibili ma che hanno un ostacolo preciso nel carattere composito degli schieramenti politici e apertamente regressivo di quello antiberlusconiano.

L’evoluzione stessa del PD è emblematica; la sua progressiva “apertura” ha coinciso con l’ingresso di lobby e gruppi organizzati (ambientalisti di professione, ect.) che lo hanno inaridito dal radicamento originario, paralizzato nella capacità decisionale e asservito a gruppi decisionali la cui fonte di ispirazione è sempre più la scuola economica e sociologica americana.

Basterebbe analizzare la formazione e la storia di gran parte delle nuove teste pensanti, per farsi una idea precisa del senso delle attuali scelte, pure raffazzonate e contraddittorie e, soprattutto del futuro di questa organizzazione che rimane, comunque, la principale formazione politica antiberlusconiana, anche se non la più importante; anche lì, comunque, qualche contraddizione, poco significativa, però, dal nostro punto di vista, comincia a manifestarsi.

Sono tutte comprese, però, in una visione economicistica che implicano l’accettazione più o meno consapevole del quadro imperiale ormai anacronistico; non è un caso che il termine più sotteso sia ancora la “globalizzazione”. Se non supereranno questo limite che li rende del tutto complementari al gruppo egemone, saranno del tutto indifferenti ai nostri propositi ed interessi.

Giuseppe G.

DAL LINGOTTO1 AL LINGOTTO2_ DAI SUSSULTI AI SINGULTI DI GIUSEPPE GERMINARIO 31.01.2011

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

Già il cipiglio tipico del travet dominato da montagne di scartoffie lasciava presagire la misura di entusiasmo che avrebbe potuto trasmettere il buon Vuoter Veltroni.

Ha semplicemente confermato che la fine eventuale di Silvio sarà per intervento diretto di poteri forti o per decisione di madre natura; che, quindi, nell’attesa del compimento di un destino deciso da altri, bisognerà prepararsi al dopo. Gli stessi propositi bellicosi nei confronti di Bersani e D’Alema sono prontamente rientrati; qualcuno dei suoi consiglieri in ombra gli avrà fatto pesantemente notare che, in una fase di grande dibattito politico sulle gozzoviglie libertine del Cavaliere, non era il caso di distogliere l’attenzione e di mostrare la vitalità dell’ennesimo frammento democratico. In mancanza di argomenti solidi, per ben quattro volte ha rimarcato la solidità del suo principale ispiratore e consigliere, evocandone dall’ombra il nome: Obama. Tutto si è risolto, alla fine, con una riproposizione sbiadita e dimessa degli argomenti del Lingotto1 di tre anni fa, ma con una variante tattica, equivalente al riconoscimento di una sconfitta: non più unico partito alternativo, ma principale partito di coalizione. Tornando ai contenuti del discorso va definito il loro contesto implicito: un mercato mondiale, scosso dalla crisi finanziaria dove sono determinanti, per il successo, la qualità delle merci ed i loro costi, con il sovrappiù, al massimo, del rispetto dei diritti civili da tirar fuori nelle occasioni opportune; siamo al puro conflitto economico, dissociato dagli sconvolgimenti politici e normato da regole cavalleresche; nessun accenno, quindi, sul multipolarismo incipiente, sulle strategie politiche di dominio di cui fanno parte le scelte economiche. L’unico faro politico è Obama, con la sua capacità di suscitare “grandi cambiamenti negli USA e nel mondo”; una Europa unita economicamente e “in ultima analisi politicamente”, capace di competere come sistema paese; siamo alla riproposizione testarda, contro ogni evidenza, che l’integrazione liberistica economica e delle politiche di bilancio porta all’unione politica, con il correttivo della elezione del Presidente degli Stati Uniti d’Europa teso a scoraggiare il predominio di un paese, la Germania, sugli altri; “una democrazia senza stato”. Un così audace scatto di reni per una mera riproposizione dell’utopia retorica europeista che ignora bellamente gli stati, le nazioni e gratifica le burocrazie comunitarie terreno di occupazione di lobbys filoamericane o, tuttalpiù, di scontro e contrattazione tra quelle e il paese europeo dominante a scapito dei restanti. In questo quadro, ribadisce il nostro, l’Italia ha fallito i suoi due obbiettivi: il contenimento della spesa pubblica e (sic!) la rinuncia alla svalutazione della moneta, non si sa bene quale. Prioritario quindi un contenimento del 40% della spesa in dieci anni e un rilancio dei settori strategici, rispettivamente il settore automobilistico e la piccola e media industria. Nessun accenno ai reali settori strategici che fa il paio alla totale mancanza di accenni ad un minimo di autonomia nazionale dalla politica americana. Tra l’altro, alla stessa FIAT il nostro riconosce esplicitamente la piena libertà di scelta senza un minimo di contraddittorio sul futuro dei centri decisionali e di progettazione dell’azienda, non ostante il dispendio di risorse pubbliche tuttora in corso; una azienda, quindi, strategica ma in un paese alla pari con Serbia, Polonia ed altri concorrenti. Tant’è che il nostro prode, richiamandosi alla radicale riforma del sistema bancario di Obama, auspica, come pressochè esclusiva garanzia sul futuro aziendale, un legame della retribuzione dell’a.d. Marchionne ai risultati di lungo periodo dell’azienda da lui gestita; furia francese e ritirata spagnola. Un atteggiamento da valvassino più che da vassallo, con buona probabilità di declassamento a servo della gleba. Riguardo alla riduzione della spesa pubblica, punta all’introduzione di una patrimoniale straordinaria triennale, di una politica di gestione che punti a far lavorare tutti di più con meno risorse finanziarie, di una unica agenzia-moloch che punti a valorizzare l’intero patrimonio pubblico, di “un piano industriale di ristrutturazione del settore pubblico” il quale ultimo, proposto da manager seri può assumere un significato, detto dal nostro assume il carattere di uno slogan vuoto con qualche riflesso inquietante sul destino della industria pubblica.. La riproposizione, in pratica, di intenti moralistici e di strutture già sperimentate nel loro fallimento, ma con un grande equivoco sempre più irrisolvibile: come conciliare la riorganizzazione ed il rigore della spesa con la sopravvivenza di un partito che trae il proprio consenso ormai quasi esclusivo da quegli strati sociali oggetto di intervento. Il tutto si riassume con uno slogan: “fare come la Germania di Schroeder” e, a malincuore, di Merkel. La Germania, infatti, ha costruito la sua solidità economica aumentando le tasse ai cittadini, riducendole alle imprese, tagliando selettivamente la spesa pubblica; ovviamente, non solo e non principalmente, visto l’accordo a lei strafavorevole sul cambio marco-euro, le politiche bancarie di finanziamento dei debiti dei paesi più deboli e la creazione di una vera e propria area di influenza in Europa e, con l’ulteriore prossimo passo, di dirottamento verso i paesi emergenti più promettenti di politiche e risorse un tempo riservate all’hinterland nella comunità europea. Ma l’evidenza dei due punti iniziali è funzionale all’analisi del discorso di Veltroni il quale punta a fare come la Germania, ma poi propone sgravi fiscali alle imprese, alla innovazione delle aziende, alla tutela ambientale, alle energie alternative, un regime fiscale favorevole al genere femminile, alle famiglie e ai giovani. Cioè tutto ed il contrario di tutto con l’aggravante delle deformazioni ideologiche e populistiche legate alle politiche di genere e ai costi insostenibili delle attuali politiche energetiche alternative unilaterali sulle quali solo da pochi mesi si inizia a fare qualche chiarezza. Una caricatura del “change, change, change” dell’Obama d’oltreoceano in una fase di suo deciso ripensamento. Ma se il primo ha rinunciato al suo splendore originario e alla sua retorica per scendere sempre più nel pragmatismo imperiale, il secondo sembra sempre più destinato, in buona compagnia, a trasformarsi in un ombra nell’Ade senza nessun ruolo nemmeno di terza fila. Ormai i nostri subdominanti e gli americani stanno cercando altrove e, nel frattempo, non resta loro che logorare il Cavaliere e trattare. Nella sinistra c’è solo qualche voce isolata disposta a fungere da traino ad una alleanza tra settori produttivi e significativi strati sociali subordinati; ma sembra ininfluente. È sufficiente un gossip o un moto pilotato di indignazione per tacitarla.

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

Tra i dirigenti del PD il più consapevole dell’attuale condizione della classe dirigente, in particolare quella del proprio partito, è apparso Andrea Orlando, attuale Ministro della Giustizia  (http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-andrea-orlando-4/  – dal 3° al 5° minuto). Nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 19 scorso ha giustificato il distruttivo livello di conflittualità e la personalizzazione dello scontro nel partito con la divaricazione crescente tra le categorie concettuali interpretative della realtà adottate e la realtà stessa nonché con la totale assenza, diversamente da Stati Uniti e Germania, di idonei luoghi di riflessione sulle strategie politiche da adottare. Una constatazione banale ma non scontata su una condizione che al momento sta investendo clamorosamente il Partito Democratico ma che non tarderà ad aggredire le altre forze politiche, compresa la Lega e con la parziale probabile eccezione almeno temporanea del M5S, man mano che ci si avvicinerà alle prossime inderogabili scadenze politiche; al netto di per altro consuete operazioni di trasformismo, tanto più costose per la credibilità dei protagonisti quanto più radicali sono le opzioni politiche presenti sul campo.

Uno smarrimento che deve aver colto persino un iperdecisionista, stando almeno alla sua persistente maschera, come Matteo Renzi, spinto ciò non ostante ad anticipare il suo consueto pellegrinaggio estivo in California.  Ha motivato il suo viaggio improvviso come una necessaria vacanza e un indispensabile momento di depurazione; successivamente lo ha giustificato come un momento di apprendimento di brillanti politiche di sviluppo da mutuare nel proprio paese. Si spera che la sua non sia la tardiva acculturazione e l’infatuazione di un neofita, di un parvenu pronto a mutuare pedissequamente da quel paese le politiche liberal/liberiste un po’ come i futuristi italiani negli anni ’20/’30 fantasticavano su un mondo futuro che scoprirono con meraviglia nei loro viaggi già esistere negli Stati Uniti di quegli anni.

Una impronta che si sta invece confermando; attuazione in realtà di narrazioni piuttosto che di politiche economiche concrete di quel paese, perfettamente in linea con quanto fatto dalla nostra classe dirigente degli ultimi trenta anni. Narrazioni le quali omettono accuratamente il presupposto fondamentale del successo di quelle politiche liberiste: la detenzione di quella potenza e di quella egemonia necessarie che gli Stati Uniti stanno relativamente perdendo ed esercitate sì anche dal nostro paese, ma non meno di duemila anni fa e mai più riacquisite.

Il motivo reale del viaggio sembra in realtà essere molto più prosaico e purtroppo in linea con le propensioni della quasi totalità della nostra classe dirigente; si tratta di chiedere lumi e direttive.

Gli incontri in corso non escono però dalla ristretta cerchia delle abituali frequentazioni americane sino ad ora coltivate; sono esattamente le stesse di questi ultimi quattro anni. Tanto furbo e baldanzoso, il nostro continua imperterrito a prestare ascolto a chi lo ha mandato o istigato allo sbaraglio, facendosi pagare profumatamente alcuni di essi per di più le improvvide consulenze; con grave sfregio dei principi di meritocrazia, neppure uno sconto legato ai deludenti risultati conseguiti.

Eppure qualcosa è con ogni evidenza cambiato ultimamente negli Stati Uniti e un vero leader dovrebbe saper cogliere ed approfittare delle eventuali opportunità offerte da un nuovo corso politico.

Al momento della stesura dell’articolo il viaggio dell’ex premier non è ancora terminato; rimane ancora qualche spiraglio, ma tutto sta per concludersi con ogni evidenza all’interno del cerchio tradizionale degli habituè.

Il nostro in verità ci ha abituati a dosi insolite, a volte eccessive, di spregiudicatezza, del tutto inusuali nel gruppo dirigente così compassato ed ingessato del suo partito.

Mentre D’Alema, tanto per citare il più importante, ha circoscritto il proprio sodalizio alla famiglia Clinton e attraverso questa ha potuto tessere altre relazioni in quel paese e costruirsi un futuro con la propria fondazione e il proprio think-thank, Renzi, in questo facilitato dall’assenza di retaggi ingombranti legati al passato comunista, ha potuto coltivare anche ambienti americani neocon. Lo stretto sodalizio consolidatosi attorno alla presidenza Obama tra la sinistra dei diritti umani e la destra neoconservatrice interventista, esportatrice di democrazia gli ha offerto le chiavi, ma lui non ha esitato ad aprire le porte lasciate socchiuse da quei circoli americani.

L’eventuale protrarsi della Presidenza Trump, ma su linee coerenti con le intenzioni programmatiche, rischia di logorare o far saltare quel sodalizio così nefasto per il genere umano ma così propedeutico alle carriere politiche nostrane.

Purtroppo per lui, Renzi è stato l’unico statista europeo rimasto impigliato al carro dell’Imperatore Obama sino alla fine del mandato in attesa che salisse la Presidenta (mi scuso per l’omaggio alla sintassi boldriniana) predestinata; un destino beffardo gli ha assegnato il posto di unico apostolo al desco della sua ultima cena.

Mal gliene incolse! Da allora quelli che parevano occasionali incidenti su di un sentiero luminoso si sono trasformati in disastri tali da compromettere la marcia trionfale.

La stella di Renzi ha ormai oltrepassato il proprio azimut e la sua parabola volge ormai verso la fase discendente.

Si è imposto a ragione l’obbiettivo fondamentale di modernizzare e razionalizzare il sistema politico, istituzionale ed amministrativo del paese; è partito acquisendo una base di consenso all’interno del partito intorno al 30% e coagulando un altro 50% di forze lottizzate, espressione di interessi ed esperienze locali, dallo scarso respiro nazionale; ha raccolto in pratica e confezionato i frutti avvelenati della riorganizzazione del partito avviata da Veltroni e Bersani (http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/lassemblea-programmatica-del-pd-del-45-febbraio-2011-di-giuseppe-germinario/   http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/dal-lingotto1-al-lingotto2_-dai-sussulti-ai-singulti-di-giuseppe-germinario-31-01-2011/ ) . Nel frattempo non è riuscito a coagulare il consenso necessario a dar forza al suo programma e l’adesione di quei centri di potere potenzialmente più disponibili alle riforme in grado di garantire più coerenza al progetto. Non gli è rimasto ben presto che giostrare con le forze in campo sino a rimanere vittima delle proprie stesse trame; sino a mettere a nudo l’origine stessa della propria investitura, non molto diversa dall’avvento del podestà straniero Mario Monti.

La forza e il successo di un programma di riorganizzazione di un sistema deriva dalla capacità di un leader e di una classe dirigente di renderlo funzionale ad una prospettiva di autorevolezza e di sviluppo tale da mobilitare energie sufficienti preparate e determinate. Renzi al contrario ha ritenuto che la riorganizzazione “motu proprio” avrebbe innescato la dinamica di efficienza della macchina istituzionale e di sviluppo dell’economia; un impulso tutt’al più coadiuvato da un programma di sostanziale liberalizzazione del mercato del lavoro, di distribuzione impersonale di incentivi, di ulteriori privatizzazioni e collocamenti azionari esteri che avrebbero liberato le virtù intrinseche di sviluppo economico del mercato.

In realtà l’economia tende ancora a ristagnare, il mercato del lavoro più che ridurre ha modificato le caratteristiche del proprio precariato. Nei vari comparti economici i provvedimenti hanno effettivamente avviato, al prezzo di un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale, un processo di razionalizzazione e di parziale ammodernamento ma con il drammatico risultato della ulteriore perdita di controllo dei gruppi industriali strategici e di maggiore dimensione e con il rafforzamento relativo di settori marginali o complementari nella catena di valore internazionale. Così facendo ha ulteriormente indebolito proprio quei “poteri forti” dei quali avrebbe bisogno per dare forza ad un vero programma di rinascita nazionale.

Un peccato originale che riduce ad una rappresentazione macchiettistica il suo proposito di “partito della nazione”. Sacrifica la condizione di alcune categorie arroccate nella difesa fine a se stessa di diritti e prerogative in nome di una visione apparentemente astratta del bene comune e dei meccanismi “naturali” tesi a garantirlo.

Fallisce così il proposito di conquistare i voti del centrodestra, conservando l’essenziale dei voti del centrosinistra; il conflitto aperto in sede europea con la Germania si riduce a schermaglie verbali centrate su pochi decimali di deficit da destinare a spese improduttive e di redistribuzione assistenziale di risorse con il risultato di ricondurre puntualmente la conflittualità latente tra gli stati europei nella logica di controllo della potenza egemone americana.

Il risultato è l’isolamento politico in Europa compensato dall’ulteriore subordinazione all’alleato d’oltreatlantico ma senza le coperture che la Presidenza Obama pareva disposto a concedere al nostro; una struttura economica e finanziaria ormai terreno di conquista dei tre principali paesi del mondo occidentale componenti dell’Alleanza Atlantica; un leader politico sempre teso a strappare voti e consensi nel campo berlusconiano ma per garantirsi la mera sopravvivenza piuttosto che la fondazione di un grande partito maggioritario.

La scissione controvoglia della sinistra clintoniana del PD, pronta per altro a rientrare una volta regolato il contenzioso con l’intruso, apre lo spazio a numerose opzioni e contribuisce a rimettere in campo politici ormai da tempo sulla via del tramonto, a destra come a sinistra; mette a nudo tatticismi sterili e povertà di proposta politica addirittura maggiori rispetto a quanto espresso dal segretario dimissionario del PD.

Di questo si tratterà nella seconda parte dell’articolo.

Renzi, al contrario, corre seri rischi di sparire dalla scena politica soffocato nelle spire dell’attuale paralisi istituzionale.

Una volta liberatosi in parte della propria fronda interna, ha tuttavia diverse frecce ancora a disposizione del proprio trasformismo teso a rilanciare il suo nazionalismo verbale di facciata ed il suo efficientismo apparentemente fine a se stesso, magari torcendo a proprio profitto il consenso raccolto dai dissidenti. Un trasformismo evidenziato e reso inevitabile dalla totale assenza di analisi delle cause della sconfitta referendaria che non vada oltre la consueta giustificazione legata ai difetti di comunicazione del messaggio.

Una possibile resurrezione a patto però che si realizzino due condizioni:

  • che riesca a controllare la propria indole e trarre frutto dall’esperienza;
  • che a livello internazionale l’anomalia della Presidenza Trump sia ricondotta in qualche maniera nell’alveo del tradizionale scontro e della discreta collusione tra democratici e neoconservatori americani

Il prossimo rientro di Renzi ci offrirà qualche indizio sui prossimi passi da cogliere una volta caduta definitivamente la maschera delle elezioni anticipate; l’esito delle elezioni francesi aprirà le danze a corte e consentirà di cogliere più chiaramente i ruoli degli attori e la posta in palio anche qui in Italia. Sarà, probabilmente, la raccomandazione più accorata che il vecchio establishment americano, restio ad abbandonare più che la scena le leve dello stato profondo, deve aver suggerito al nostro solerte viaggiatore.

I BUOI OLTRE LA STALLA, di Giuseppe Germinario

Nell’attuale compagine governativa pare finalmente emergere il paladino di un protezionismo mirato, il fautore della “messa in sicurezza del paese”: Carlo Calenda. Il ministro aveva evidenziato al pubblico le proprie doti di chiarezza e determinazione (https://www.youtube.com/watch?v=MW0ERHOqqr4 ) già nel suo primo intervento da ministro del Governo Renzi all’assemblea di Confindustria. L’intervista al Corriere della Sera del 1° gennaio (  http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_01/calenda-una-rete-protezione-difendere-interessi-nazionali-2ecfb74e-d05c-11e6-a287-5b1c5604d8ca.shtml  ) sembra infine tracciare chiaramente il nuovo orientamento  delle forze dette progressiste, della possibile grande coalizione che si va profilando con le prossime elezioni o quantomeno del perpetuarsi dell’attuale gioco politico nelle mutate condizioni del contesto interno e internazionale. Più che i punti salienti dell’intervista, facilmente desumibili dal testo, mi paiono significative piuttosto quelle espressioni che delimitano l’orizzonte culturale e politico, quindi la sostanziale inadeguatezza della attuale classe dirigente, della quale Calenda mi pare uno dei migliori esponenti, ad affrontare le sfide in atto. L’Italia anello debole dell’Europa “rischia di esserlo se si interrompe il percorso che ha iniziato a portarci fuori dalla crisi, e mettere in sicurezza il Paese, dopo la sconfitta sulle riforme istituzionali, richiede un cambiamento di strategia“; “entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo”; “questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico”; “dovremmo da subito lavorare al progetto di una nuova Europa con i Paesi fondatori, ma oggi la priorità è vincere i populismi”; i settori prioritari sono “L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita”; “Nessuna forza politica, da sola, potrà portare il fardello delle scelte che si renderanno necessarie. La stessa legge elettorale va disegnata tenendo presente questo scenario, che “chiamerà” probabilmente una grande coalizione.”; “Questo esecutivo assolverà al suo compito se sarà il ponte tra la stagione importantissima di rottura del governo Renzi e quella di messa in sicurezza del Paese che dovrà portare avanti il prossimo esecutivo, mi auguro sempre con Renzi alla guida”.

Alla luce di queste dichiarazioni l’intenzione di “fare sistema” e l’obbiettivo di “ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo” appaiono rispettivamente meno realistica e poco coerente.

Appaiono più che altro un ripiego legato al soprassalto di nazionalismo economico e all’ondata di populismo; esauritosi il primo e sconfitto il secondo non resterebbe che riprendere coerentemente le politiche comunitarie di creazione di un mercato unico nel rispetto delle regole stesse di mercato.

Da dirigente e manager, più spesso da politico e da ministro, abbiamo ascoltato Calenda difendere il liberismo dal suo peggior nemico: il dogmatismo liberista. Critica giustamente, anche se tardivamente, l’assunzione pedissequa di un modello economico astratto, associato negli ultimi venti anni alla retorica magnifica e progressiva della globalizzazione, ma ritiene l’intervento politico di regolamentazione e l’intervento pubblico diretto nelle scelte gestionali e di investimento un evento straordinario, un espediente o uno strumento temporaneo teso a ripristinare il mercato. Di fatto quel dogma che cerca di cacciare dalla porta rientra surrettiziamente dalla finestra. Un dogma che impedisce di vedere il mercato come una combinazione infinita e variabile di dirigismo e di libertà di iniziativa, di protezioni e di spontaneità, di regolamentazione della circolazione e delle caratteristiche dei prodotti e delle merci, di tutela della proprietà e del patrimonio la cui particolare peculiarità dipende da determinati rapporti di forza politici/economici che delimitano la formazione di una o più aree di influenza. Paradossalmente la “libertà” e la “spontaneità” di scelta e circolazione individuale si liberano con la vittoria egemonica di centri strategici, di un paese e di una formazione sociale in grado di stabilire un perimetro di influenza, le regole di funzionamento e le necessarie trasgressioni, il grado e gli ambiti di liberismo e dirigismo.

In base a questa dinamica fondamentale i paladini del dogma liberista e della globalizzazione, sia gli oltranzisti che i pragmatici, solitamente diventano i sostenitori della politica di potenza nei paesi egemoni e della sudditanza nella periferia della sfera di influenza.

Può sembrare una diatriba puramente accademica; spesso assume le vesti di una discussione riguardante la mera correttezza o i meri errori, l’irrazionalità di scelte ed indirizzi. In realtà è un paradigma la cui ostinata adozione comporta delle profonde implicazioni, tutte negative, in termini di adeguata analisi politica e di perseguimento di strategie e di obbiettivi altrettanto adeguati all’attuale lunga congiuntura che stiamo attraversando; una adeguatezza che si deve misurare rispetto al livello di autorevolezza, di forza, di benessere e coesione che una classe dirigente degna di questo nome intende realisticamente raggiungere per sé e per il proprio paese.

Il nazionalismo economico appare quindi un incidente e un accidente della storia da rimuovere al più presto per riprendere il cammino verso la costruzione di una comunità globale quando in realtà pervade le vicende politiche e il conflitto economico sin dalla prima formazione degli stati nazionali sia nella forma a prevalenza liberista propugnata dalle formazioni dominanti, sia a quella a prevalenza protezionistica delle formazioni in ascesa o in posizione difensiva nell’agone internazionale. Nella fattispecie dell’Unione Europea il nazionalismo economico appare solo oggi agli occhi dei liberisti dogmatici, ma solo perché è finalmente caduta la maschera della retorica europeista basata sulla distruzione degli stati nazionali che celava sotto mentite spoglie il dominio politico dello stato nazionale americano frutto di una schiacciante vittoria militare e il conflitto e la regolazione continua di esso tra gli stati nazionali componenti l’Unione. Una retorica nefasta che ha illuso e neutralizzato le ambizioni delle formazioni più fragili; che ha bloccato sul nascere, con la retorica della costruzione del mercato comune dei consumatori propedeutica alla unione politica, l’opzione di De Gaulle, negli anni ’60, di una concomitante costruzione europea fondata sugli stati nazionali, sulla creazione concordata di grandi aziende, frutto di accordi, compartecipazioni, integrazioni paragonabili a quelle americane, sulla fondazione di una politica estera autonoma. Una retorica che interpreta come contingente ciò che in realtà sarà strutturale e pervicace ancora per lungo tempo.

Se il nazionalismo economico va contenuto e neutralizzato, l’avversario da battere in questo frangente è il populismo o sedicente tale. Anche in questo caso si assiste ad una sorta di dissociazione dell’azione politica strategica dall’attuale contingenza quasi che la lotta al populismo debba comportare una sospensione del programma di integrazione europea.

Il “reddito d’inclusione” come gli altri singoli e parziali provvedimenti redistributivi assumono la caratteristica di un rozzo strattagemma dal sapore assistenziale teso a fronteggiare la deriva politica.

Gli investimenti, per altro radi, sono proposti come semplice volano per rilanciare la domanda. L’aspetto strategico di questi ultimi e la loro possibilità di realizzazione ottimale sono sicuramente inficiati dal tramonto del progetto di riorganizzazione istituzionale ed amministrativo legato all’esito referendario. È la stessa loro natura, però, legata quasi esclusivamente all’ammodernamento delle infrastrutture che potrà certamente migliorare l’efficienza del sistema ma che non determinerà di per sé una direzione di sviluppo che interrompa l’attuale processo di declassamento.

Si arriva quindi al cuore degli argomenti e degli indirizzi posti da Calenda.

Ricostruire una rete” solo per contrastare “distorsioni e manipolazioni del mercato” significa di per sé precludersi una gamma di interventi “assertivi” più volte utilizzati in passato nei momenti di costruzione e di crisi dell’economia del paese.

TRE QUESITI AL NOSTRO MINISTRO

Il proclama, però, glissa clamorosamente su tre importanti questioni alla mancata o erronea risposta delle quali corrisponde esattamente la velleità del progetto.

  1. Quali strumenti si intende utilizzare per trattenere in Italia il risparmio e le riserve che con l’attuale struttura finanziaria continuano a migrare massicciamente all’estero e a rientrare parzialmente, in mano però a gestori estranei al controllo nazionale? Il collocamento azionario di Poste Italiane, la sua sempre più marcata scissione dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), l’ingresso di fondi esteri nella stessa CDP, il fallimento della costituzione di una banca per il Mezzogiorno, il fantasma di una banca di credito alle piccole e medie imprese, l’utilizzo della CDP per indebolire la forza ed il controllo delle grandi aziende strategiche residue piuttosto che il loro rafforzamento, l’attività di raccolta delle banche ormai largamente legata al collocamento di titoli di terzi e al ruolo di collettori sono scelte in netto contrasto con il proclama.
  2. Come si intende esercitare il necessario controllo e condizionamento sulle scelte di quelle aziende strategiche e leader nei vari settori che dovrebbero partecipare alla rete? L’indifferenza se non la compiaciuta e reiterata connivenza che Calenda, così come Renzi, Monti e la quasi totalità della classe dirigente degli ultimi trenta anni hanno ostentato nella inesorabile cessione all’estero della proprietà e controllo non solo delle aziende strategiche del settore finanziario, energetico, delle infrastrutture e dell’alta tecnologia ma ultimamente anche delle aziende leader di numerosi distretti industriali e della rete commerciale e logistica mi sembra faccia a pugni con il sussulto di sovranismo verbale ed estemporaneo del nostro ministro. In alcuni casi queste cessioni hanno determinato uno sviluppo dell’attività produttiva, nella grande maggioranza di casi un rapido ridimensionamento ed impoverimento; comunque un incremento di spese di risorse pregiate, comprese le attività di ricerca, utilizzate come incentivi e destinate ad essere valorizzate altrove e una subordinazione a strategie decise altrove. Le vicende della FIAT, della TELECOM, dell’industria degli elettrodomestici tra le tante parlano da sole.
  3. Come si intende costruire quella necessaria rete di agenzie funzionali ai grandi progetti di intervento infrastrutturale e di investimento diretto un tempo presenti, pur tra innumerevoli carenze, e smantellata sciaguratamente a partire dalla metà degli anni ’80 in concomitanza con il processo di regionalizzazione delle competenze?

Nell’intervista non troviamo né le giuste domande e questo va a scapito dei professionisti dell’informazione, né tantomeno le risposte adeguate e convincenti.

IL CAVALLO DI BATTAGLIA. L’INDUSTRIA 4.0

Il limite dell’orizzonte interpretativo di Calenda si svela proprio nel progetto fondativo della sua azione: il programma di sviluppo dell’industria 4.0.

L’enfasi e le aspettative sono del tutto giustificate.

L’implementazione dell’industria 4.0 è iniziata ormai da parecchi anni prima negli USA poi in alcuni paesi dell’Europa Centrale.

È un processo che si realizzerà ancora attraverso lunghi anni; che segnerà in maniera diversa i vari settori produttivi; che cambierà i modelli di organizzazione aziendale; che porterà ad una maggiore integrazione delle attività sia nella verticale che nell’orizzontale delle relazioni gestionali; che sconvolgerà una delle basi sulle quali si forma la stratificazione sociale, in particolare la formazione degli strati intermedi professionali e di quelli con competenze elementari.

È un modello operativo concepito per le grandi imprese e le grandi unità amministrative e gestionali.

Manca sino ad ora una definizione rigorosa di industria 4.0; riguarda comunque un processo di digitalizzazione ed informatizzazione che preveda la costruzione di reti informatiche e telematiche, l’acquisizione ed elaborazione dati e la conseguente trasmissione digitale di comandi operativi e adattivi nelle varie fasi comprese quelle produttive (internet delle cose) secondo processi modulari predeterminati ed introiettati nei software applicativi.

Il controllo e l’elaborazione nei primi due ambiti sono appannaggio pressoché esclusivo dell’impresa americana e senza una integrazione e concentrazione dell’industria e della ricerca europea, tutt’altro che promossa dalle istituzioni comunitarie e dai suoi governi nazionali costitutivi, difficilmente potrà essere scalfita seriamente. Rimangono gli ultimi due ambiti; in questi il nostro paese soffre di ulteriori handicap legati alla dimensione ridotta delle aziende, alla perdita di controllo dei distretti industriali, alla merceologia dei prodotti legati soprattutto alla componentistica specie meccanica piuttosto che al prodotto finito, a settori tradizionali di produzione piuttosto che innovativi.

Un contesto quindi che rende se non impossibile più problematica e costosa l’implementazione dei processi, che tende a concentrarla nei settori dedicati all’esportazione.

Una condizione che richiederebbe un intervento politico ancora più assertivo (un termine ormai ricorrente nel linguaggio di Calenda) rispetto ad altri paesi nella ricerca, nella creazione di piattaforme industriali adeguate, nel coordinamento del processo di integrazione, nella trasmissione delle competenze informali  nelle piccole aziende, nel sostegno delle necessarie figure professionali che in altri contesti sono le stesse grandi aziende a creare e tutelare.

Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, il Governo Renzi pur avendo ancora una volta centrato il problema, lo ha ridotto ad una mera tutela assistenziale e normativa di alcune categorie professionali autonome esterne agli attuali ordini.

Affermare al contrario il carattere indifferenziato del processo di informatizzazione, l’irrilevanza quindi di settori strategici; supportare genericamente l’industria attraverso “sistemi automatici” e neutri di incentivazione nei processi di innovazione ed internazionalizzazione; celare dietro l’importanza dei settori complementari nel garantire la coesione della formazione sociale la necessità dello sviluppo dei settori strategici comporta di conseguenza assecondare la tendenza “spontanea” al declassamento dell’economia italiana, alla concentrazione degli investimenti, nel migliore dei casi, nel mero ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi digitalizzati secondo standard stabiliti dalle aziende leader e da quelle in grado di progettare e collocare i prodotti finiti, alla drammatica concentrazione degli investimenti in un numero limitato di aziende. Tale scelta, altrettanto unilaterale di quella delle elargizioni ad personam può contribuire nel migliore dei casi all’ammodernamento dell’apparato produttivo residuo, almeno di quelle aziende che dispongono dei capitali necessari ad anticipare l’investimento. I quattro competence center al contrario sono pressoché irrilevanti nel qualificare almeno alcuni dei settori di punta, come del resto ben evidenziato dall’economista Mariana Mazzucato.

IL RITORNO ALL’OVILE

Il Ministro sembra quindi assecondare la tendenza storica dell’industria italiana a coprire i settori e le tecnologie mature e complementari e a scoraggiare sul nascere quei sussulti di leadership che in alcuni frangenti sono emersi ma che sono stati prontamente soffocati con la complicità dei settori più retrivi dell’imprenditoria. Il declino dell’Olivetti, dell’industria nucleare, della chimica fine sono lì a testimoniare la ricorrenza di questi sussulti ma anche la mancanza di autorità e maturità politica necessarie a stabilizzarli. Calenda sembra voler in realtà stroncare sul nascere la loro possibilità di emersione. La sua ritrosia ad abbandonare gli stereotipi del dogmatismo liberista lo porta ad esaltare le ambizioni di un progetto velleitario che comporterà la dilapidazione e la dispersione delle poche risorse nei vari meandri dei settori economici e nelle mani di centri strategici concorrenti ed avversari; diventa patetica se confrontata con la capacità organizzativa americana, avviata già dagli anni ’90 ad integrare strettamente il ruolo pubblico e privato nel settore dell’innovazione attraverso numerose agenzie, con la guasconeria francese che da oltre sei anni ha creato addirittura il Ministero della Guerra Economica, con il carattere tetragono dell’organizzazione industriale tedesca già in corsa da oltre dieci anni su questi processi.

Ho accennato all’inizio di inadeguatezza di questa classe dirigente, ma il termine è sin troppo giustificativo ed assolutorio. Si tratta, piuttosto, di una incapacità che trova alimento, forza e giustificazione in quei centri e settori che non trovano di meglio che trarre potere e profitto da quei settori ed interstizi sempre più ristretti concessi dai centri e dalle formazioni dominanti. Il predominio americano ed il bipolarismo imperante sino agli anni ’80 ha consentito una certa benevolenza del predominante ed una rarefazione dei competitori. Il multipolarismo incipiente può aprire teoricamente nuove opportunità e nuove libertà; rischia al contrario di attirare un maggior numero di predatori sulle prede magari ancora pasciute ma disarmate rispetto al livello di conflitto raggiunto.

Calenda anche su questo sembra avere le idee chiare. Nell’intervento citato all’inizio prende atto della fine della visione idealistica del processo di globalizzazione. Invita quindi gli imprenditori ad essere selettivi ed oculati nel cogliere le opportunità; suggerisce loro di voltare gli occhi verso gli Stati Uniti, glissa elegantemente sugli ingenti danni subiti per la sciagurata subordinazione nel sostegno alle sanzioni contro la Russia, all’intervento in Libia, alla destabilizzazione della Siria e all’ostracismo all’Iran, tutti principali partner economici del nostro paese ovviamente nel rispetto di quelle regole diplomatiche e di mercato che hanno consentito alla inglese BP di sostituire l’ENI nella partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, alle aziende meccaniche tedesche la Breda-Ansaldo italiana nella ristrutturazione delle ferrovie regionali, all’americana FCA la FIAT nella produzione di automobili.

Viva Farinetti, abbasso Mattei. Viva il mercato, abbasso il paese. Tanta nobiltà d’animo comporta sacrifici ma va certamente ricompensata. Ci stanno pensando i nuovi benefattori d’oltre alpe, offrendo presidenze, consulenze e titoli onorifici. Montezemolo, il mentore di Calenda e Tronchetti-Provera ne sono fulgido esempio tra tanti.

Desta meraviglia quindi l’improvvida esaltazione della conversione del Ministro da parte di uno studioso accorto come Giulio Sapelli (  http://www.ilfoglio.it/politica/2017/01/04/news/calenda-economia-premier-subito-113597/ ). Spero che si ravveda prima che Calenda rischi davvero di diventare Premier

 

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