L’ANNO DEL DRAGHI O L’ANNO DEL DRAGONE? Il manifesto di Mario, di Giuseppe Germinario

Il 15 dicembre scorso Mario Draghi è stato insignito della ennesima laurea “honoris causa” questa volta dal prestigioso Istituto Universitario Superiore Sant’Anna di Pisa. Più che dalla persona la tesi a corredo del riconoscimento sembra stilata piuttosto dal Presidente della Banca Centrale Europea. https://www.youtube.com/watch?v=8G38JxX6e6s

Un accorgimento più che comprensibile vista la delicatezza dell’incarico ormai a scadenza e l’equilibrismo che deve contraddistinguere una funzione legata all’accordo di ben diciannove paesi aderenti all’euro più i nove restanti paesi dell’UE presenti come soci dell’Istituto.

Una posizione che gli ha consentito a costo zero una imprevista, quasi estorta, manifestazione di orgoglio nazionale; professione di fede per altro a buon mercato. Il suo “orgoglio ancora una volta di essere italiano” di fatto si è risolto in una locuzione un po’ funerea di coraggio rivolta allo studente che lamentava l’esodo di laureati dal paese. Più che uno stimolo, un gesto consolatorio non si sa se legato all’aplomb tecnocratico o alla scarsa offerta di prospettive sottesa nel suo discorso. Se a questo si aggiunge la gag del Draghi immortalato in aereo in qualità di viaggiatore arruolato di buon grado tra i ranghi dei navigatori di classe economica di un qualsiasi aereo di linea comincia a sorgere il sospetto che si inizi a costruire cautamente il personaggio politico incaricato, alla bisogna, di scalzare l’attuale governo comunque poco gradito al vecchio establishment non ostante le prestazioni a dir poco contraddittorie.

Se l’operazione Mario Monti è partita ufficialmente dall’alto dell’investitura a Senatore a Vita, quella di Mario Draghi, tra mille cautele, sembra partire dal basso di un viaggio in terza classe e di una locuzione professorale. Segno del cambiamento dei tempi, ma anche del carattere apparentemente meno schizzinoso del nostro rispetto a un Macron, costretto agli stessi gesti plebei ma sempre col fazzoletto detergente e purificatore in mano.

Un orgoglio nazionale del quale è per altro difficile trovare altra traccia nella prolusione; molto più manifesti sono in quel discorso purtroppo i segni del destino riservato al suo paese natale. Segni per l’appunto; parole quindi tutte da interpretare.

Passando quindi al merito del discorso, la gran parte dei detrattori del Presidente si è limitata a deridere la sua professione di orgoglio e a sindacare sulla buona fede del suo invito a valorizzare le specifiche competenze degli stati nazionali nel determinare i livelli di sviluppo dei paesi europei.

Il personaggio in realtà non va sottovalutato; è inverosimile che si presti ad azioni di piccolo cabotaggio o a svolte strategiche sì, ma con la fanfaronaggine e il pressapochismo di un Matteo Renzi qualsiasi.

La sua prolusione, infatti, per quanto capziosa nella trattazione di numerosi argomenti, è ben ponderata e si prefigge tre obbiettivi chiari.

Irridere ai nostalgici dei bei tempi andati della spesa pubblica in deficit e delle svalutazioni monetarie, sostenere la mancanza di alternative all’attuale politica comunitaria e unitaria in Europa anche a difesa, nel modo migliore possibile, delle prerogative degli stati nazionali, evidenziare il carattere irreversibile delle trasformazioni socioeconomiche che rendono inutile e dispendioso l’utilizzo del vecchio armamentario degli strumenti monetario, svalutazione compresa.

GLOBALIZZAZIONE E MERCATO UNICO EUROPEO

La lectio magistralis inizia con una dotta distinzione e contrapposizione tra globalizzazione e mercato unico europeo (MUE); la prima fautrice di diseguaglianze e di arbìtri senza regole, il secondo attento alle implicazioni sociali legate alla sua introduzione e impegnato quindi a regolamentarlo e ingabbiarlo secondo il rispetto di principi di equità. Un parziale rovesciamento dell’impostazione di umanisti come Habermas, muse ispiratrici del pensiero politicamente corretto, i quali vedevano e si ostinano a sostenere che quella delle unioni regionali è una tappa e un tassello del governo unico mondiale di là da venire, fondato sempre più, man mano che il livello di governo si estende all’universo mondo, su principi morali basici quanto generici quanto in qualche maniera cogenti; reso necessario in ultima istanza dalla formazione di un mercato unico globale al quale le dimensioni del soggetto politico per antonomasia, lo stato, devono tendenzialmente corrispondere per essere efficace. In realtà la globalizzazione e il MUE sono un processo in progressiva formazione del tutto simile, con premesse ideologiche identiche, un identico motore unificante iniziale ma con punti di partenza diversi.

Il grande sviluppo tecnologico degli ultimi trenta anni (i container, i mezzi di trasporto, l’informatica, la telematica, ect) è lo strumento che consente l’interconnessione, l’integrazione e l’allargamento esponenziale (globalizzazione) degli spazi entro cui agiscono gli attori economici in particolare e gli agenti politici in generale, allargando a dismisura spazi e competenze anche degli stati nazionali, specie quelli meglio posizionati e con classi dirigenti più capaci e motivate. Le modalità di sviluppo di queste dinamiche sono partite e incrementate seguendo il principio della regolazione multilaterale dei rapporti fondata sulla supervisione e sull’egemonia unipolare statunitense. Una logica sfuggita di mano, che non è quindi riuscita a imbrigliare per troppo tempo le energie scatenate consentendo l’emersione di formazioni sociali e stati nazionali, abili a sfruttare i margini operativi e sempre più in grado di contrastare e competere con la potenza egemone. Un processo politico comunque ancora lungi dall’essere compiuto e che spinge alla formazione di sfere di influenza, comprese quelle economiche, progressivamente delimitate. Un processo che sta erodendo la base di potenza e di ricchezza che ha consentito la costruzione di solide, coese ed estese formazioni sociali basate sullo stato sociale al centro del sistema originario e sta riducendo la capacità di sviluppo e di contrattazione, quindi il peso politico di quei ceti popolari e soprattutto intermedi professionali e di status la cui forza si fonda su una perimetrazione più rigida e circoscritta delle competenze statali delle formazioni dominanti di un tempo. A livello globale non è mai esistita una reale regolamentazione comune o un principio comune di regolazione dei rapporti sociali propri degli stati sociali; la dinamica di destrutturazione e ridimensionamento da una parte e di formazione nei paesi emergenti di ceti intermedi professionali e di controllo assume quindi l’aspetto di un processo naturale ed anonimo. Nella UE e nel suo mercato unico il soggetto politico fondatore e regolatore è identico, sono sempre gli Stati Uniti. La resilienza di questi però è ben più tenace, solida e persistente. Le dinamiche sono identiche, il processo in generale è analogo, di destrutturazione e di ridimensionamento, ma assume maggiormente le modalità politico-giuridiche di attuazione. La ragione risiede nella relativa omogeneità della condizione socioeconomica iniziale dei sei paesi fondatori al momento, negli anni ‘80/’90, dell’allargamento e nella regolazione istituzionale necessaria del processo di detto allargamento dell’Unione. Un processo le cui modalità erano dettate soprattutto dalla fretta delle mire espansionistiche americane veicolate dalla NATO e dalla capacità tedesca di inserirsi in via subordinata nella gestione profittevole dell’espansione ai danni della Russia. Non tutela dei diritti sociali, come sostenuto da Draghi, ma progressiva liberalizzazione e smantellamento di diritti giuridici e posizioni economiche consolidati, compensata solo parzialmente da una redistribuzione pubblica assistenziale di risorse secondo le capacità dei singoli stati nazionali e secondo la forza politica dei gruppi sociali nazionalmente organizzati. La caduta in pratica della maschera dei principi di equilibrio ordoliberisti e l’innesco delle crescenti sperequazioni e dell’appiattimento verso il basso delle condizioni di vita generali proprie di società in fase di ristrutturazione contestuale a un declino relativo.

L’IRRISIONE DEI NOSTALGICI DEI BEI TEMPI

Nel prosieguo della locuzione Mario Draghi individua finalmente i bersagli delle sue stilettate: i fautori della spesa pubblica in deficit e i sostenitori della sovranità monetaria degli stati nazionali europei, soggetti portanti delle attuali forze sovraniste nazionali in Europa. Per delegittimarli gli tocca risalire dagli anni ‘70/’80 e affidarsi ad una interpretazione manichea di quel periodo. Mario Draghi si concede a questo punto un piccolo vezzo. In soldoni fu un periodo, a detta sua, di titolarità di sovranità monetaria dello stato italiano meramente nominale quando lo SME (serpente monetario) era in realtà agganciato ai capricci e al volere del marco tedesco. Una mezza verità che diventa falsità se si nasconde che quella Unione Europea, come per altro quella attuale, anche se adesso in maniera controversa e contestata, è un sistema che favorisce in primo luogo l’egemonia politica e il sistema economico-finanziario americano; un sistema che sancisce negli stessi trattati la propria subordinazione politico-militare. Una condizione, secondo il suo autorevole parere, comunque ben peggiore dell’attuale determinata da una BCE (banca centrale europea) gestita collettivamente dagli stati europei secondo il loro relativo peso economico. Le affermazioni di sovranità nazionale italiana in quel periodo, esteso sino al ’93, consistettero in ben otto svalutazioni, l’ultima particolarmente drammatica, le quali apportarono puntualmente sussulti benefici del tutto temporanei in un quadro però di progressivo deterioramento economico.

L’altra arma sovranista a doppio taglio si è rivelata la spesa in deficit. Non avrebbe interrotto il calo progressivo dei tassi di sviluppo dei paesi europei, soprattutto di quello italiano in rapporto agli altri, se non, lo riconosce a denti stretti, in alcuni anni e a scapito delle solite generazioni future. Ancora una volta il moralismo che sostituisce un approccio analitico; una religione che sostituisce una politica economica e le sue regole finalizzate ad obbiettivi politico-sociali. La svalutazione di per sé avrebbe pregiudicato la riorganizzazione industriale, lo sviluppo dei settori di punta e gli incrementi necessari di produttività. I deficit di loro avrebbero portato all’incremento dei tassi di interesse, al sacrificio del risparmio dirottato a ripianare il debito, alla affermazione dell’assistenzialismo. Entrambi hanno determinato tassi astronomici di inflazione, il carovita come scandito enfaticamente, a scapito delle condizioni di vita e del potere di acquisto degli strati più popolari. Una rappresentazione volutamente drammatica di un fenomeno di per sé grave e dissestante ma che trovava comunque una compensazione nelle forme indicizzate di tutela dei redditi in una situazione occupazionale, compresa quella precaria e informale, comunque migliore di quella attuale in tempi di stagnazione e deflazione. Un determinismo che per altro non riesce a spiegare come mai l’ultima drammatica svalutazione del ‘92/’93 ha coinciso con un calo netto dell’inflazione e con l’ultima consistente ripresa produttiva; che nasconde il fatto che l’incremento esponenziale dei tassi e del montante reale degli interessi ha coinciso soprattutto con la separazione dei poteri di controllo e di liquidità della Banca d’Italia e con la collocazione a terzi dei titoli pubblici. Ignora artatamente l’induzione al debito di natura parassitaria perpetrata dagli stessi agenti convertiti successivamente alla religione dell’austerità. Glissa sulle possibili alternative di utilizzo delle risorse ricavate dagli incrementi produttivi legati alla svalutazione; sulle dinamiche indotte e sulle scelte politiche consapevoli di trasformazione assistenzialistica e ipertrofica delle partecipazioni statali propedeutiche ad una svendita e ad una privatizzazione scellerata; sul sacrificio consapevole delle poche grandi industrie private innovative come la Olivetti; sul tradimento della piccola e media borghesia contadina specie del centro-sud sacrificata all’intermediazione predatrice grazie al sacrificio dell’intero comparto agroalimentare pubblico e della sua struttura calmieratrice della rete commerciale. Draghi glissa perché fu uno degli artefici e dei complici di quelle scelte dovute al connubio tra un ceto politico approssimativo, senza particolari ambizioni di rinascita nazionale in grado di motivare la nazione, un grande ceto imprenditoriale e manageriale rinunciatario perennemente incapace di egemonizzare una qualche ambizione di sviluppo autonomo, un medio ceto imprenditoriale di settori maturi in buona parte lesto a compiere il salto dimensionale inserendosi nelle pieghe parassitarie delle rendite legate alla gestione dei servizi e delle reti e una rete di intermediari, dai quali lui stesso proviene, pronti a rimediare lucrose parcelle.

IL DIO MERCATO

Per Draghi il verbo illuminante e la panacea risolutrice si riducono al ricorso al mercato, nella fattispecie al mercato unico europeo regolato uniformemente. Una via di fuga che lo conduce, in questa parte così cruciale della sua perorazione, alle acrobazie logiche e alle omissioni rispettivamente le più ardite e complici tanto più da parte di un uomo che ha vissuto dall’interno e ai livelli più alti le vicende legate a quella costruzione. Un edificio, per altro, apparentemente unico; in realtà ancora in gran parte da costruire. Mario Draghi si guarda bene dal rappresentare il mercato come un insieme di spazi e di regole frutto e spesso sommatoria di trattative e pressioni di centri politici, governi nazionali e lobby la cui particolare definizione e conformazione serve ad affermare particolari gerarchie, sistemi di potere e ipoteche di sviluppo. Non potendo offrire comuni magnifiche sorti e progressive, nel corso dell’eloquio esso da strumento diventa progressivamente un fine in sé apparentemente astratto al quale adeguare inesorabilmente le scelte di politica economica. Riconosce a denti stretti che è produttore di diseguaglianze, ma constata che dopo tutto sono fisiologiche e non sono molto dissimili da quelle prodotte da altri mercati unici come quello dello stato federale americano. Si affretta a vantare che con il superamento della crisi del 2008 i differenziali dei tassi di crescita dei paesi europei aderenti all’euro si sono ridotti, ma glissa elegantemente sul fatto che questi tassi, compresi quelli tedeschi, sono risicati e nettamente inferiori a quelli delle maggiori economie e di gran parte dei paesi europei esterni al sistema monetario. L’importante è proseguire sempre e comunque, a prescindere dalle regole fattuali, su questa strada ineluttabile.

I MERITI E LE COSTRIZIONI, LE CONDIZIONI IRREVERSIBILI DEL DIO MERCATO

Come ogni religione che si rispetti, quella del dio mercato prevede un destino, percorsi obbligati, costrizioni, punizioni, l’esercizio virtuoso e gratificazioni; le più significative di queste ultime ai più riservate a tempi di là da venire.

I virtuosi sono quelli predestinati a godere dei benefici sulla terra. Sono quelli che, almeno in buona parte in apparenza, seguono diligentemente le regole austere del buon governo. Sono tutti guarda caso collocati, come una cintura, intorno al paese perno dell’Unione, la Germania. Tutti hanno beneficiato di particolari condizioni: di zone franche necessarie ad ospitare reti finanziarie, logistiche e commerciali; di un trasferimento repentino di fondi europei a discapito di altre zone specie dell’area mediterranea; di attenzioni anche economiche e finanziarie legate alla loro posizione strategica di stati confinanti con la Russia. Condizioni che stanno alimentando nazionalismi radicali alcuni dei quali tanto più urlati ed esibiti quanto più straccioni perché legati strettamente alla copertura politica-militare americana e alla dipendenza economico-finanziaria angloamericana e tedesca. Un dilemma che per la classe dirigente tedesca si sta rivelando un cappio sempre meno districabile per liberare le proprie ambizioni geopolitiche.

Mario Draghi a questo punto si permette anche il vezzo della moral suasion, della persuasione morale autorevole e aggiungo beffarda. Nota che, dopotutto, la politica di deficit non interessa gran che ai residui paesi europei detentori della propria moneta sovrana visto hanno stati di gran lunga con minor debito. Lungi dalla mente del Pontefice dell’euro, la considerazione che è proprio la politica restrittiva, connaturata all’attuale gestione della sua moneta e all’assetto di potere connesso, a costringere al debito e al deficit incontrollato dei paesi subordinati.

Arriva a capovolgere la situazione ed appropriarsi dell’afflato sovranista. Afferma che è compito degli stati nazionali aver cura dei livelli di sviluppo riconquistando la capacità di politiche anticicliche e avviando una volta per tutte le politiche di riforme strutturali. Quelle sacrosante di riforma delle amministrazioni pubbliche. L’esperienza del Governo Renzi ha però rivelato una volta per tutte la mistificazione e l’irrealizzabilità di esse se non accompagnate da un reale processo di rinascita nazionale antitetico a questa Unione Europea, non fosse che per il fatto che il blocco retrogrado e affossatore, al pari delle élite esterofile, è parte integrante di questa alleanza politica europea. Quelle che in realtà sono una liquidazione senza contropartita valida dei residui poteri di controllo e di indirizzo statuali.

Di fatto l’afflato sovranista del Presidente non si spinge oltre il proprio naso, per quanto importante esso sia.

Le politiche anticicliche sarebbero possibili solo una volta messi a posto i conti pubblici e rispettati quindi i parametri di avvicinamento al deficit zero e al debito del 60%.

La strada è tracciata senza possibilità di variazione. La soluzione sta più che nel controllo delle leve e degli azzardi nella dispersione del rischio. I soggetti, sia pubblici che privati, devono collocare il proprio debito e le proprie attività in un ventaglio di operatori quanto più ampio possibile. Aperti alle acquisizioni estere. Mercati finanziari ancora più ampi e aperti quindi. Draghi, evidentemente, in nome di una virtù astratta mostra di girare altrove il proprio naso di fronte alle evidenze e ai cartelli esistenti nel mondo finanziario in stretto collegamento e integrati in centri decisionali politici.

Mercati per di più non soggetti a un controllo pubblico europeo efficace.

Mario Draghi infatti riconosce, ineffabile che l’Unione e l’Autonomia Fiscale Europee, il sistema politico-economico di controllo e azione più efficace, è politicamente irrealizzabile. Non resta che l’Unione Bancaria le cui condizioni si guarda bene da tracciare, comprese la pervasività degli strumenti di controllo e sanzione, la taratura del peso che la composizione dei prodotti speculativi, delle esposizioni in titoli pubblici e in crediti privati necessaria a qualificare la solidità delle banche. L’ennesimo riconoscimento di una struttura di mercato nella quale agiscono le economie europee, ma determinata sostanzialmente da altri.

Infine la costrizione, la camicia di forza.

Mario Draghi vanta con insistenza e soddisfazione il maggior successo della creazione del mercato unico: i notevoli incrementi di produttività consentiti dall’integrazione economica e dalla creazione di catene di valore continentali che contribuiscono alla creazione del prodotto finale. Una strada per consentire la sopravvivenza della piccola industria italiana produttrice di componentistica. L’afflato sovranista del nostro si riduce alla fine ad uno spirito e una politica di sopravvivenza. Glissa omertosamente sul fatto che a determinare le scelte e le strategie economiche sono i detentori del prodotto finale e delle reti e delle politiche commerciali e di investimento strategico; soggetti sempre più assenti dal panorama politico-economico italico.

Segnala che paradossalmente le situazioni di stagnazione e crisi non portano più ad un abbassamento, ma ad un rialzo dei tassi di interesse rendendo inefficaci le politiche sovraniste legate ai tassi di interesse pubblici.

Avverte che tale integrazione annulla progressivamente gli effetti benefici di eventuali svalutazioni rese possibili dal recupero di sovranità monetaria, grazie al peso crescente delle importazioni nel corredo dei magazzini aziendali.

Il quadro del nostro prode convertito al sovranismo pare a questo punto completo.

I FONDAMENTI DI VERITA’ DELLA LECTIO

Non si può ridurre la locuzione di Draghi a un mero pamphlet propagandistico o ad un anatema inquisitoria. Esso poggia su fondamenti di verità fondati su assetti di potere e dinamiche autoavveranti consolidate e potenti.

La considerazione attenta del peso e dell’autorevolezza del personaggio deve indurre a superare la faciloneria con la quale si prospettano soluzioni alternative ed antitetiche e con la quale si adottano le tattiche politiche.

Mario Draghi ci ha detto tra le righe che il processo di integrazione europei crea dinamiche e corpi sociali in grado di neutralizzare le velleità politiche alternative se non si adottano strategie e azioni in grado di neutralizzare e convertire almeno parte di quei corpi. Lo vediamo nelle contraddizioni e nelle resistenze che stanno via via emergendo e si stanno coagulando all’interno delle due forze politiche di governo. In mancanza di forze alternative credibili e in attesa di sviluppi futuri tutti da costruire e al momento improbabili al vecchio establishment non resta in realtà che fare affidamento soprattutto nelle tattiche di infiltrazione e di scompaginamento. I tentennamenti e le giravolte dei leader della compagine non sono solo il frutto di una loro leggerezza ma l’esito di pressioni contrastanti. Il malumore crescente degli imprenditori legati alla catena di valore ostentata da Mario Draghi, le pressioni autonomiste incontrollate delle regioni avulse da un progetto di riordino delle competenze dello stato centrale sono solo due dei potenti fattori destabilizzanti e restauratori in azione.

Una forte e solida classe dirigente politica non può assecondare, ma non può solo reprimere ed osteggiare tali istanze; deve ricondurle almeno in parte al proprio progetto. Sempre che tale progetto esista.

Se i settori di componentistica sono così importanti, bisogna pensare probabilmente ad una riconversione di essi alla creazione di prodotti finali oppure contribuire a creare soggetti aggregatori alternativi. In alternativa alle case automobilistiche tedesche, pensare a cercare altri interlocutori, magari in Cina o nel politicamente più praticabile Giappone, disposti a ricreare una industria automobilistica nazionale.

Se il problema degli operatori agricoli è l’esposizione ai capricci e alle vessazioni della rete commerciale, bisogna pensare a riprendere il controllo almeno parziale di questa rete e a indirizzarla anche secondo gli orientamenti geopolitici nuovi che potrebbero emergere.

Non si tratta di dividersi in maniera manichea tra keynesiani e liberisti. Si tratta piuttosto di poter riacquisire le leve di una politica monetaria e del debito oculata tale da garantire potenza e forza economica nonché coesione e dinamismo sociale; dall’altro di adottare dove necessario criteri privatistici di gestione tali da consentire l’ottimizzazione dell’utilizzo di risorse finalizzato a obbiettivi definiti.

Un mix di uso corrente nei paesi emergenti e in quelli intenti a mantenere le proprie prerogative di influenza, compresi quelli che predicano le virtù delle aperture incondizionate altrui.

L’UE non brilla di successi economici. Vive un declino fatto di imprese, comprese quelle tedesche, mature e sottodimensionate. Un aspetto che Mario Draghi si guarda bene di evidenziare e di analizzare nelle sue cause. La Germania stessa ha visto precipitare in pochi anni otto delle dieci aziende presenti nel Gotha mondiale nelle graduatorie sottostanti. Le poche stelle emergenti e realtà innovative di successo, a rischio di regredire e risolversi rapidamente in buchi neri, come il Consorzio AIRBUS, il progetto Galileo, sono nati non ostante la diffidenza e l’avversione degli apparati della UE e l’attuazione di politiche dirigiste. Rischi di regressione frutto di compromessi nefasti tra tedeschi e americani a danno dei francesi.

Un uso sagace di essi scevro però da trionfalismi un po’ cialtroni che nascondono in realtà pesanti compromessi e cedimenti poco confessabili da parte di un ceto politico ostaggio di sondaggi e consensi elettorali volubili.

Nell’attuale Governo esistono queste forze, ma sono ridotte e isolate. Riescono al meglio ad acuire le contraddizioni nello scenario europeo, ad avviare surrettiziamente politiche di consolidamento e ricostruzione di particolari apparati prontamente inficiati però da tendenze e pratiche opposte, non ancora in grado quindi di costruire autorevolezza ed egemonia.

Pochi spunti tra i tanti necessari a ricostruire prerogative dello stato nazionale non fini a se stesse ma utili a riproporre su basi paritarie e di autonomia politica, rispetto agli altri grandi attori geopolitici, il sistema di relazioni tra i principali paesi europei.

L’obbiettivo è tradurre questa intenzione in strategie, tattiche e obbiettivi praticabili, pena il rischio di liberarsi da sudditanze ormai ataviche per cadere in altre sotto diverse spoglie.

Quanto a Mario Draghi lasciamolo libero di coltivare le proprie ambizioni. Costringiamolo, però, a rivelarsi per quello che è, impedendogli di coprirsi dell’aura di salvatore della patria.

Il Quantitative Easing è il biglietto da visita del nostro prode. È stato lo strumento per salvare la Grecia e soprattutto l’Italia, ma per mantenerli con l’acqua alla gola. Si glissa opportunisticamente sui vantaggi maggiori che ha lucrato ad esempio la Germania con l’ingresso di capitali a costo zero.

È il classico personaggio vocato ad esporre alle peggiori intemperie le istituzioni che rappresenta e i paesi che governa piuttosto che a costruire navigli solidi e porti sicuri.

Il suo passato in Goldman & Sachs rappresenta un retaggio da non dimenticare e un marchio da non rimuovere.

 

la fine di un ordine mondiale, la costruzione di uno nuovo_traduzione e commento di Giuseppe Germinario

Il saggio riprodotto qui in calce è particolarmente interessante per due motivi: la rilevanza dell’autore e gli argomenti addotti. Prende atto del declino di un mondo e di un sistema di relazioni e di dominio. Sembra illudere inizialmente in qualche maniera i lettori sulla possibilità di un sistema di relazioni basato sull’equilibrio di potenze. Conclude la propria analisi riproponendo un multilateralismo fondato ancora una volta sulla supremazia “benevola” degli Stati Uniti. Sul finale, in perfetta continuità, rovescia le responsabilità del disordine sulle ambizioni delle potenze emergenti glissando elegantemente sulle politiche predatorie degli USA operate ai danni della Russia, negli anni ’90 e sull’espansionismo e la destabilizzazione cosciente di intere regioni del globo. La constatazione più amara è che negli Stati Uniti si riesce a discutere di questi momenti di transizione e della posizione da assumere nel contesto. A discutere ben inteso all’interno di un confronto politico cruento di una violenza inaudita e inedita da un secolo e mezzo a questa parte. L’Italia al contrario sembra galleggiare con l’incoscienza di chi non vuol vedere il pericolo tra i flutti. Il merito di Trump e della sua amministrazione sgangherata è di aver saputo porre e imporre la questione nel teatro politico. Il paradosso è che l’individuazione in un senso o nell’altro delle scelte di quel paese comporterà molto probabilmente comunque la sua sconfitta personale ed l’eliminazione probabilmente traumatica. L’editoriale del Washington Post del 22 dicembre https://www.washingtonpost.com/politics/a-rogue-presidency-the-era-of-containing-trump-is-over/2018/12/22/26fc010e-055b-11e9-b5df-5d3874f1ac36_story.html?utm_term=.ed45953c9237 rappresenta un chiaro facinoroso e arrogante avvertimento da prendere maledettamente sul serio. Lo abbiamo detto più volte nei nostri articoli e podcast. Si tratterà di un epilogo che esigerà comunque un fìo particolarmente doloroso.

Una nota che forse vale più di decine di considerazioni. Nella sua recente visita natalizia alle truppe stanziate in Iraq abbiamo visto Trump e una raggiante Melania immersi calorosamente nella truppa.

Anche Bush e Obama hanno fatto questa mossa, ma hanno preteso il contatto con truppe disarmate ed hanno goduto di un atteggiamento molto meno caloroso.

L’ex ambasciatore americano a Damasco ha sostenuto la scelta del ritiro americano dalla Siria; segno che gli stessi apparati non sono poi così monolitici nella loro avversione e che lo scontro politico rischia di non risolversi con un semplice regolamento di conti interno al palazzo_Buona lettura_Giuseppe Germinario

https://www.foreignaffairs.com/articles/2018-12-11/how-world-order-ends?cid=int-nbb&pgtype=hpg

Come finisce un ordine mondiale

E ciò che viene nel suo risveglio

Di Richard Haass

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Un ordine mondiale stabile è una cosa rara. Quando uno emerge, tende a venire dopo una grande convulsione che crea sia le condizioni che il desiderio di qualcosa di nuovo. Richiede una distribuzione stabile del potere e un’ampia accettazione delle regole che regolano la condotta delle relazioni internazionali. Ha bisogno anche di abilità di governo , dal momento che un ordine è fatto, non nato. E non importa quanto siano mature le condizioni iniziali o il desiderio iniziale, il mantenimento richiede diplomazia creativa, istituzioni funzionanti e azioni efficaci per adattarlo quando le circostanze cambiano e lo rafforzano quando arrivano le sfide.

Alla fine, inevitabilmente, anche l’ordine meglio gestito finisce. L’equilibrio del potere su cui si basa tende a dissestarsi. Le istituzioni che lo sostengono non riescono ad adattarsi alle nuove condizioni. Alcuni paesi cadono, e altri emergono, come risultato di mutevoli capacità, voleri vacillanti e crescenti ambizioni. I responsabili della difesa dell’ordine commettono errori sia in ciò che scelgono di fare che in ciò che scelgono di non fare.

Ma se la fine di ogni ordine è inevitabile, i suoi tempi e modi non lo sono. Né è ciò che viene nella sua scia. Gli ordini tendono a scadere in un prolungato deterioramento piuttosto che in un improvviso collasso. E così come il mantenimento dell’ordine dipende da una strategia efficace e da un’azione efficace, una buona politica e una diplomazia proattiva possono aiutare a determinare il modo in cui tale deterioramento si manifesta e ciò che comporta. Eppure, affinché ciò accada, qualcos’altro deve venire prima: riconoscere che il vecchio ordine non ritorna mai e che gli sforzi per resuscitarlo saranno vani. Come per ogni finale, l’accettazione deve venire prima che si possa andare avanti.

Nella ricerca di paralleli con il mondo di oggi, studiosi e professionisti hanno guardato molto lontano come all’ antica Grecia, dove l’ascesa di una nuova potenza ha portato in guerra Atene e Sparta; al periodo dopo la prima guerra mondiale, con gli Stati Uniti isolazionisti e gran parte dell’Europa seduta sulle proprie mani, come la Germania e il Giappone i quali hanno ignorato gli accordi e hanno invaso i loro vicini. Ma il parallelo più illuminante del presente è il Concerto dell’Europa nel diciannovesimo secolo, lo sforzo più importante e di successo per costruire e sostenere l’ordine mondiale fino al nostro tempo. Dal 1815 fino allo scoppio della prima guerra mondiale un secolo dopo, l’ordine stabilito in occasione del Congresso di Vienna ha definito molte relazioni internazionali e impostato (anche se spesso non è riuscito a far rispettare) le regole di base per la condotta internazionale. Fornisce un modello su come gestire collettivamente la sicurezza in un mondo multipolare.

La fine di quell’ordine e ciò che seguì offrì lezioni istruttive per oggi e un avvertimento urgente. Solo perché un ordine è in declino irreversibile non significa che il caos o la calamità siano inevitabili. Ma se il deterioramento è gestito male, la catastrofe potrebbe ben seguire.

FUORI Dalle CENERI

L’ordine globale della seconda metà del ventesimo secolo e la prima parte del ventunesimo nacquero dal naufragio di due guerre mondiali. L’ordine del diciannovesimo secolo seguì una precedente convulsione internazionale: le guerre napoleoniche che, dopo la rivoluzione francese e l’ascesa di Napoleone Bonaparte, devastarono l’Europa per oltre un decennio. Dopo aver sconfitto Napoleone e i suoi eserciti, gli alleati vittoriosi – Austria, Prussia, Russia e Regno Unito, le grandi potenze di quel tempo- si riunirono a Vienna nel 1814 e nel 1815. Al Congresso di Vienna, si impegnarono a garantire che gli eserciti di Francia non minacciassero mai più i loro stati e che i movimenti rivoluzionari non minacciassero mai più le loro monarchie. I poteri vittoriosi fecero anche la scelta saggia di integrare una Francia sconfitta, un percorso molto diverso da quello preso con la Germania dopo la prima guerra mondiale e un po’ differente da quello scelto con la Russia sulla scia della guerra fredda.

Il congresso ha prodotto un sistema noto come Concert of Europe. Pur essendo centrato in Europa, costituiva l’ordine internazionale del suo tempo data la posizione dominante dell’Europa e degli europei nel mondo. C’era una serie di intese condivise sui rapporti tra Stati, soprattutto un accordo per escludere l’invasione di un altro paese o il coinvolgimento negli affari interni di un altro senza il suo permesso. Un ruvido equilibrio militare dissuase qualsiasi Stato dalla tentazione di rovesciare l’ordine; dal tentare in primo luogo (e impedire a qualsiasi stato che provasse di avere successo). I ministri degli esteri si sono incontrati (in quello che è stato definito “congresso”) ogni volta che si è presentato un problema importante. Il concerto è stato conservatore in tutti i sensi. Il trattato di Vienna aveva apportato numerosi adeguamenti territoriali e poi bloccato i confini dell’Europa, permettendo modifiche solo con l’accordo di tutti i firmatari. Ha anche fatto il possibile per sostenere le monarchie e incoraggiare gli altri a venire in loro aiuto (come fece la Francia in Spagna nel 1823) quando furono minacciati dalla rivolta popolare.

JEAN-BAPTISTE ISABEY

Un’incisione del Congresso di Vienna, 1814.

Il concerto ha funzionato non perché ci fosse un accordo completo tra le grandi potenze su ogni punto, ma perché ogni stato aveva le proprie ragioni per sostenere il sistema generale. L’Austria era più preoccupata di resistere alle forze del liberalismo che minacciavano la monarchia dominante. Il Regno Unito si è concentrato sul respingere una nuova sfida dalla Francia, proteggendosi anche contro una potenziale minaccia dalla Russia (il che significava non indebolire la Francia così tanto da non poter aiutare a compensare la minaccia dalla Russia). Ma c’era abbastanza sovrapposizione di interessi e di consenso sulle domande di primo ordine da impedire la guerra tra le principali potenze dell’epoca.

Il concerto durò tecnicamente un secolo, fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma aveva smesso di svolgere un ruolo significativo molto prima di allora. Le ondate rivoluzionarie che hanno travolto l’Europa nel 1830 e nel 1848 hanno rivelato i limiti di ciò che i membri potevano fare per mantenere l’ordine esistente all’interno degli stati di fronte alla pressione dell’opinione pubblica. Poi, più consequenzialmente, arrivò la guerra di Crimea. In apparenza si combatteva per il destino dei cristiani che vivevano all’interno dell’Impero ottomano, in realtà il confronto era molto più incentrato su chi avrebbe controllato il territorio di quell’impero decadente. Il conflitto ha contrapposto Francia, Regno Unito e Impero ottomano alla Russia. Durò due anni e mezzo, dal 1853 al 1856. Fu una guerra costosa che mise in evidenza i limiti della capacità del concerto di impedire una guerra di grande potenza; la grande potenza che aveva reso possibile il concerto non esisteva più. Le guerre successive tra Austria e Prussia e la Prussia e la Francia dimostrarono che il conflitto di grande potenza era tornato nel cuore dell’Europa dopo una lunga pausa. Le cose sembravano stabilizzarsi per un po’ di tempo, ma era un’illusione. Sotto la superficie, il potere tedesco stava montando e gli imperi stavano marcendo. La combinazione pose le basi per la prima guerra mondiale e la fine di quello che era stato il concerto.

CHE COSA METTONO L’ORDINE?

Quali lezioni si possono trarre da questa storia? Come qualsiasi altra cosa, l’ascesa e la caduta delle grandi potenze determinano la fattibilità dell’ordine prevalente, dal momento che i cambiamenti di forza economica, coesione politica e potere militare modellano ciò che gli stati possono e sono disposti a fare oltre i loro confini. Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo, una potente e unificata Germania e un moderno Giappone sorsero, l’impero ottomano e la Russia zarista declinarono, e la Francia e il Regno Unito diventarono più forti ma non abbastanza forti. Quei cambiamenti hanno capovolto l’equilibrio di potere che era stato il fondamento del concerto. La Germania, in particolare, è arrivata a considerare lo status quo incoerente con i suoi interessi.

Anche i cambiamenti nel contesto tecnologico e politico hanno influito su questo equilibrio sottostante. Sotto il concerto, le richieste popolari di partecipazione democratica e le ondate di nazionalismo minacciavano lo status quo all’interno dei paesi, mentre nuove forme di trasporto, comunicazione e armamenti trasformavano la politica, l’economia e la guerra. Le condizioni che hanno contribuito a dare origine al concerto sono state gradualmente annullate.

Poiché gli ordini tendono a terminare con un piagnisteo piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente ai responsabili delle decisioni finché non si è evoluto considerevolmente.

Tuttavia sarebbe eccessivamente deterministico attribuire la storia alle sole condizioni sottostanti. L’arte del governo conta ancora. Che il concerto sia nato e sia durato finché ha messo in evidenza che le persone fanno la differenza. I diplomatici che lo fabbricarono – Metternich d’Austria, Talleyrand di Francia, Castlereagh del Regno Unito – furono eccezionali. Il fatto che il concerto abbia preservato la pace nonostante il divario tra due paesi relativamente liberali, la Francia e il Regno Unito e i loro partner più conservatori mostrano che i paesi con diversi sistemi e preferenze politici possono lavorare insieme per mantenere l’ordine internazionale. Il piccolo che si rivela buono o cattivo nella storia è inevitabile. La guerra di Crimea avrebbe potuto essere evitata se sulla scena fossero stati presenti leader più capaci e attenti. Non è affatto chiaro che le azioni russe abbiano giustificato una risposta militare da parte della Francia e del Regno Unito sulla natura e sulla scala che ha avuto luogo. Il fatto che i paesi abbiano fatto ciò che hanno fatto sottolinea anche il potere e i pericoli del nazionalismo. La prima guerra mondiale è scoppiata in gran parte perché i successori del cancelliere tedesco Otto von Bismarck non sono stati in grado di disciplinare il potere del moderno stato tedesco che ha fatto così troppo da provocare.

Altre due lezioni si distinguono. Innanzitutto, non sono solo i problemi principali che possono causare il deterioramento di un ordine. Il sodalizio di grande potenza del concerto si è conclusa non a causa di disaccordi sull’ordine sociale e politico in Europa, ma a causa della competizione alla periferia. E in secondo luogo, poiché gli ordini tendono a finire con un gemito piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente per i responsabili delle decisioni finché non è avanzato considerevolmente. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, quando divenne evidente che il Concerto dell’Europa non si svolgeva più, era troppo tardi per salvarlo o addirittura per gestire la sua dissoluzione.

UN RACCONTO DI DUE ORDINI

L’ordine globale costruito all’indomani della seconda guerra mondiale consisteva in due ordini paralleli per gran parte della sua storia. Uno è nato dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Al suo centro c’era un equilibrio approssimativo della forza militare in Europa e in Asia, sostenuto dalla deterrenza nucleare. Le due parti hanno mostrato un certo grado di moderazione nella loro rivalità. Il “Rollback” – il linguaggio della Guerra Fredda per quello che oggi viene chiamato “cambio di regime” – è stato respinto sia come irrealizzabile sia perché imprudente. Entrambe le parti hanno seguito regole informali della strada che includevano un sano rispetto reciproco per i cortili altrui e gli alleati. Alla fine raggiunsero una comprensione dell’ordine politico in Europa, l’arena principale della competizione della Guerra Fredda, e nel 1975 codificarono quella comprensione reciproca negli Accordi di Helsinki. Anche in un mondo diviso, i due centri di potere concordavano su come si sarebbe condotta la competizione; il loro era un ordine basato su mezzi piuttosto che fini. L’esistenza di solo due centri di potere ha reso più agevole raggiungere un simile accordo.

L’altro ordine post-seconda guerra mondiale era l’ordine liberale che operava a fianco dell’ordine della guerra fredda. Le democrazie sono state le principali partecipanti a questo sforzo che ha usato gli aiuti e il commercio per rafforzare i legami e promuovere il rispetto dello stato di diritto all’interno e tra i paesi. La dimensione economica di questo ordine è stata progettata per creare un mondo (o, più esattamente, la metà non comunista) definito dal commercio, dallo sviluppo e da operazioni monetarie ben funzionanti. Il libero scambio sarebbe diventato un motore di crescita economica e vincolerebbe i paesi in modo che la guerra venisse giudicata troppo costosa per il salario; il dollaro è stato accettato come valuta globale de facto.

La dimensione diplomatica dell’ordine ha dato risalto all’ONU. L’idea era che un forum globale permanente potesse prevenire o risolvere le controversie internazionali. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, con cinque membri permanenti di grande potenza e posti aggiuntivi per un membro in rotazione, orchestrerebbe le relazioni internazionali. Eppure l’ordine dipendeva tanto dalla volontà del mondo non comunista (e degli alleati statunitensi in particolare) di accettare il primato americano. A quanto pare erano pronti a farlo, poiché gli Stati Uniti erano considerati il ​​più delle volte come un egemone relativamente benigno, uno ammirato tanto per quello che era a casa quanto per quello che faceva all’estero.

Entrambi questi ordini servivano gli interessi degli Stati Uniti. La pace di fondo è stata mantenuta in Europa e in Asia a un prezzo che una crescente economia americana avrebbe potuto facilmente permettersi. L’aumento del commercio internazionale e le opportunità di investimento hanno contribuito alla crescita economica degli Stati Uniti. Nel corso del tempo, più paesi si sono uniti ai ranghi delle democrazie. Né l’ordine riflette un perfetto consenso; piuttosto ognuno ha offerto un consenso sufficiente in modo che non fosse direttamente messo in discussione. Laddove la politica estera degli Stati Uniti si è messa nei guai, come in Vietnam e in Iraq, non è stato per impegni di alleanza o considerazioni di ordine, ma per decisioni sconsiderate di perseguire costose guerre di scelta.

SEGNI DI DECADIMENTO

Oggi, entrambi gli ordini si sono deteriorati. Anche se la Guerra Fredda si è conclusa molto tempo fa, l’ordine che ha creato si è frammentato in modo più polverizzato in parte perché gli sforzi occidentali di integrare la Russia nell’ordine mondiale liberale hanno ottenuto ben poco. Un segno del deterioramento dell’ordine della Guerra Fredda è stata l’invasione del Kuwait del 1990 da parte di Saddam Hussein, cosa che Mosca probabilmente avrebbe evitato negli anni precedenti con la motivazione che era troppo rischioso. Sebbene la deterrenza nucleare sia ancora valida, alcuni degli accordi per il controllo degli armamenti sono stati infranti e altri sono sfilacciati.

Sebbene la Russia abbia evitato qualsiasi sfida militare diretta alla NATO, ha comunque mostrato una crescente volontà di perturbare lo status quo: attraverso il suo uso della forza in Georgia nel 2008 e in Ucraina dal 2014, il suo intervento militare spesso indiscriminato in Siria e il suo uso aggressivo della guerra informatica per tentare di influenzare i risultati politici negli Stati Uniti e in Europa. Tutti questi rappresentano un rifiuto dei principali vincoli associati al vecchio ordine. Dal punto di vista russo, si potrebbe dire lo stesso dell’allargamento della NATO, un’iniziativa chiaramente in contrasto con il detto di Winston Churchill “In vittoria, magnanimità”. La Russia ha anche giudicato la guerra del 2003 in Iraq e l’intervento militare NATO del 2011 in Libia, intrapresa in nome dell’umanitarismo, ma evolutisi rapidamente in cambiamenti di regime.

L’ordine liberale mostra gli stessi segni di deterioramento. L’autoritarismo è in aumento non solo nei posti più ovvi, come la Cina e la Russia, ma anche nelle Filippine, in Turchia e nell’Europa orientale. Il commercio globale è cresciuto, ma recenti cicli di negoziati commerciali si sono conclusi senza accordo e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) si è dimostrata incapace di affrontare le sfide più urgenti di oggi, comprese le barriere non miranti e il furto di proprietà intellettuale. Il risentimento nei confronti dello sfruttamento del dollaro da parte degli Stati Uniti per imporre sanzioni aumenta, così come la preoccupazione per l’accumulo di debito del paese.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU è di scarsa rilevanza per la maggior parte dei conflitti mondiali e gli accordi internazionali non sono riusciti in modo più ampio a far fronte alle sfide associate alla globalizzazione. La composizione del Consiglio di sicurezza ha sempre meno somiglianze con la reale distribuzione del potere. Il mondo si è messo a verbale, come contro il genocidio e ha affermato il diritto di intervenire quando i governi non riescono a mantenersi rispettando la “responsabilità di proteggere” i loro cittadini, ma il discorso non si è tradotto in azione. Il Trattato di non proliferazione nucleare consente solo a cinque stati di avere armi nucleari, ma ora ce ne sono nove (e molti altri che potrebbero seguirne l’esempio se decidessero di farlo). L’UE, l’accordo regionale di gran lunga più significativo, sta lottando con la Brexit e con le dispute sulla migrazione e la sovranità. E in tutto il mondo, i paesi sono tentati di resistere alla supremazia americana

BAZ RATNER / REUTERS

Soldati russi in corrieri militari corazzati su una strada vicino a Sebastopoli, Crimea, marzo 2014.

SPOSTAMENTI DI POTENZA

Perché sta succedendo tutto questo? È istruttivo guardare indietro alla graduale fine del concerto d’Europa. L’ordine mondiale di oggi ha faticato a far fronte all’avvicendamento di potere: l’ascesa della Cina, l’apparizione di diverse potenze medie (Iran e Corea del Nord, in particolare) che rifiutano importanti aspetti dell’ordine e l’emergere di attori non statali (dai cartelli della droga alle reti terroristiche ) che possono rappresentare una seria minaccia per l’ordine all’interno e tra gli stati.

Anche il contesto tecnologico e politico è cambiato in modo importante. La globalizzazione ha avuto effetti destabilizzanti che vanno dal cambiamento climatico alla diffusione della tecnologia in molte più mani che mai, incluso una serie di gruppi e persone intente a sconvolgere l’ordine. Il nazionalismo e il populismo sono aumentati – il risultato di una maggiore disuguaglianza all’interno dei paesi, la dislocazione associata alla crisi finanziaria del 2008, la perdita di posti di lavoro causata dal commercio e dalla tecnologia, l’aumento dei flussi di migranti e rifugiati e il potere dei social media di diffondere l’odio.

Nel frattempo, l’arte di governo efficace è carente. Le istituzioni non sono riuscite ad adattarsi. Nessuno oggi progetterebbe un Consiglio di sicurezza dell’ONU che assomiglia a quello attuale; ma una vera riforma è impossibile dal momento che chi perde l’influenza blocca qualsiasi cambiamento. Gli sforzi per costruire quadri efficaci per affrontare le sfide della globalizzazione, compresi i cambiamenti climatici e gli attacchi informatici, sono venuti meno. Gli errori all’interno dell’UE, ovvero le decisioni di stabilire una moneta comune senza creare una politica fiscale comune o un’unione bancaria e di consentire un’immigrazione quasi illimitata in Germania, hanno creato una forte reazione contro i governi esistenti, le frontiere aperte e la stessa UE.

Gli Stati Uniti, da parte sua, si sono impegnati con costosi sforzi per cercare di ricostruire l’Afghanistan, invadere l’Iraq e perseguire il cambio di regime in Libia. Ma ha anche fatto un passo indietro dal mantenere l’ordine globale e in alcuni casi si è reso colpevole di costose iniziative coperte. Nella maggior parte dei casi, la riluttanza degli Stati Uniti ad agire non ha riguardato le questioni centrali ma quelle periferiche che i leader hanno cancellato perché non valevano il costo, come il conflitto in Siria, dove gli Stati Uniti non hanno risposto significativamente quando la Siria ha usato per la prima volta armi chimiche o fare di più per aiutare i gruppi anti-regime. Questa riluttanza ha aumentato la propensione degli altri a ignorare le preoccupazioni degli Stati Uniti e ad agire in modo indipendente. L’intervento militare a guida saudita nello Yemen è un esempio calzante. Le azioni russe in Siria e in Ucraina dovrebbero essere viste anche in questa luce; è interessante notare che la Crimea ha segnato la fine effettiva del Concerto d’Europa e ha segnato una battuta d’arresto drammatica nell’ordine attuale. I dubbi circa l’affidabilità degli Stati Uniti si sono moltiplicati sotto l’amministrazione Trump, grazie al suo ritiro dai numerosi patti internazionali e il suo approccio condizionale verso gli inviolabili impegni di alleanza degli Stati Uniti in Europa e in Asia.

GESTIONE DEL DETERIORAMENTO

Dati questi cambiamenti, sarà impossibile far risorgere il vecchio ordine. Sarebbe anche insufficiente, grazie all’emergere di nuove sfide. Una volta riconosciuto, il lungo deterioramento del Concerto dell’Europa dovrebbe servire da lezione e da avvertimento.

Per gli Stati Uniti tenere a mente che l’avvertimento significherebbe rafforzare alcuni aspetti del vecchio ordine e integrarli con misure che spiegano il cambiamento delle dinamiche di potere e i nuovi problemi globali. Gli Stati Uniti dovrebbero imporre il controllo degli armamenti e gli accordi di non proliferazione; rafforzare le sue alleanze in Europa e in Asia; rafforzare gli stati deboli che non possono competere con terroristi, cartelli e bande; e contro l’interferenza dei poteri autoritari nel processo democratico. Tuttavia, non dovrebbe rinunciare a cercare di integrare Cina e Russia in aspetti regionali e globali dell’ordine. Tali sforzi implicheranno necessariamente un mix di compromessi, incentivi e pushback. Il giudizio che i tentativi di integrare la Cina e la Russia sono per lo più falliti non dovrebbe essere un motivo per respingere gli sforzi futuri.

Gli Stati Uniti devono anche rivolgersi ad altri per affrontare i problemi della globalizzazione, in particolare i cambiamenti climatici, il commercio e le operazioni informatiche. Questi richiederanno di non risuscitare il vecchio ordine ma di costruirne uno nuovo. Gli sforzi per limitare e adattarsi ai cambiamenti climatici devono essere più ambiziosi. L’OMC deve essere modificata per affrontare le questioni sollevate dall’appropriazione della tecnologia da parte della Cina, la fornitura di sussidi alle imprese nazionali e l’uso di ostacoli non chiari al commercio. Le regole della strada sono necessarie per regolare il cyberspazio. Insieme, questo equivale a un invito per un concerto dei nostri giorni. Tale chiamata è ambiziosa ma necessaria.

Gli Stati Uniti devono mostrare moderazione e riprendere un certo grado di rispetto per riconquistare la propria reputazione di attore benevolo. Ciò richiederà alcune nette distinzioni dal modo in cui la politica estera degli Stati Uniti è stata praticata negli ultimi anni: per cominciare, non invadere più incautamente altri paesi e non più armare la politica economica degli Stati Uniti attraverso l’uso eccessivo di sanzioni e tariffe. Ma più di ogni altra cosa, l’attuale e riflessiva opposizione al multilateralismo deve essere ripensata. È una cosa che un ordine mondiale può svelare lentamente; è tutt’altra cosa per il paese che ha avuto una grande mano nel costruirlo per prendere l’iniziativa per smantellarlo.

Tutto ciò richiede anche che gli Stati Uniti mettano la propria casa in ordine – riducendo il debito pubblico, ricostruendo le infrastrutture, migliorando l’istruzione pubblica, investendo di più nella rete di sicurezza sociale, adottando un sistema di immigrazione intelligente che permetta agli stranieri di talento di venire e rimanere, affrontando disfunzione politica rendendo meno difficile votare e rovinando il frangente. Gli Stati Uniti non possono promuovere efficacemente l’ordine all’estero se sono divisi in casa, distratti da problemi interni e privi di risorse.

Le alternative principali a un ordine mondiale modernizzato supportato dagli Stati Uniti appaiono improbabili, poco attraenti o entrambe. Un ordine guidato dalla Cina, ad esempio, sarebbe di natura illiberale, caratterizzato da sistemi politici interni autoritari e da economie stataliste che premiano il mantenimento della stabilità interna. Ci sarebbe un ritorno alle sfere di influenza, con la Cina che tentava di dominare la sua regione, probabilmente con il risultato di scontri con altre potenze regionali, come India, Giappone e Vietnam le quali probabilmente avrebbero costruito le loro forze convenzionali o addirittura nucleari.

Un nuovo ordine democratico, basato su regole, modellato e guidato da potenze medie in Europa e in Asia, così come il Canada, per quanto un concetto attraente, semplicemente mancherebbe della capacità militare e della volontà politica interna di arrivare molto lontano. Un’alternativa più probabile è un mondo con poco ordine, un mondo di più profondo disordine. Il protezionismo, il nazionalismo e il populismo guadagnerebbero e la democrazia perderebbe. Il conflitto all’interno e oltre i confini diventerebbe più comune e la rivalità tra grandi potenze aumenterebbe. La cooperazione sulle sfide globali sarebbe quasi del tutto esclusa. Se questa immagine sembra familiare, è perché corrisponde sempre più al mondo di oggi.

Il deterioramento di un ordine mondiale può innescare tendenze che provocano catastrofi. La prima guerra mondiale è scoppiata circa 60 anni dopo che il Concerto dell’Europa era stato demolito a tutti gli effetti in Crimea. Quello che vediamo oggi assomiglia alla metà del diciannovesimo secolo in modi importanti: l’ordine post guerra mondiale, post-guerra fredda non può essere ripristinato, ma il mondo non è ancora sull’orlo di una crisi sistemica. Ora è il momento di assicurarsi che non si concretizzi mai, che si tratti di un crollo delle relazioni USA-Cina, uno scontro con la Russia, una conflagrazione in Medio Oriente o gli effetti cumulativi dei cambiamenti climatici. La buona notizia è che è tutt’altro che inevitabile che il mondo alla fine arriverà a una catastrofe; la cattiva notizia è che è tutt’altro che certo che non lo farà.

 

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Gilet Gialli-Contributo alla rottura in corso_traduzione di Giuseppe Germinario

Contributo alla rottura in corso, tratto da lundi matin

una interessante analisi sociologica del movimento, delle sue potenzialità, delle sue novità e contraddizioni Giuseppe Germinario

Fonte: lundi matin , 07-12-2018

“Mirare giusto, allora, ma anche durare, prima di tutto. ”

Questo testo ci sembra la migliore analisi sociologica e politica finora prodotta sul movimento dei giubbotti gialli e sugli attuali eventi. Ringraziamo calorosamente gli autori. (Per completare, esortiamo i nostri lettori a leggere Prochaine station : destitution et Gilets jaunes : la classe moyenne peut-elle être révolutionnaire ?.

 

“Finirò per diventare un comunista …”

Brigitte Bardot (intervista a Le Parisien , 1 ° dicembre 2018)

“Bella come un’insurrezione impura” 
(graffiti osservabili il 24 novembre su una facciata degli Champs-Elysees

decomposto

Benché possa ben presto rivelarsi fragile, uno dei principali meriti dell’attuale mobilitazione rimane per il momento di aver rispedito al Museo Grévin la retorica e il repertorio pratico dei movimenti di sinistra del secolo scorso, pur chiedendo più giustizia e uguaglianza, senza riprodurre la rivendicazione anti-fiscale della destra e dell’estrema destra del dopoguerra. Dopo il naufragio dei socialdemocratici segnato in Francia dall’elezione di Macron, ecco ora quello di comunisti, (in) soumis, sinistra, anarchici, membri della “ultra sinistra” e altri professionisti della lotta di classe o portavoce radical chic: e la maggior parte di loro, dopo essere stati schizzinosi o aver arricciato il ​​naso, corrono ora, sconfitti, a tutta velocità dietro il movimento, con i loro piccoli gruppi, sindacati, partiti , compulsare interventi e post sul blog. Benvenuti nel cortile di casa!

Il ritardo è evidente, la parata è funerea. Tutti possono percepire che gli appelli, le tribune, le mozioni, le petizioni, i percorsi  piazza della Repubblica-Bastille annunciati in Prefettura, i loro servizi di ordine e la loro “processione di testa”, i tavoli di consultazione e negoziazione tra rappresentanti e governatori, il piccolo teatro di rappresentatività tra i leader o i delegati e la “base”, la presa di posizione attraverso la stampa o in assemblea generale – in breve, che le ultime rovine dello stato sociale, o meglio, delle sue forme di protesta sono andate in fumo: che non solo sono inutili ma soprattutto obsolete e ridicole, vocaboli di una lingua morta ma che rischia bene, tuttavia, di essere parlata ancora a lungo dai fantasmi che verranno a perseguitarli. Si può sempre contare su burocrati, apprendisti e professionali, sull’esercito di intellettuali organici del nulla per fare i ventriloqui, giocare il grande gioco del partito, immaginarsi come l’avanguardia di un movimento del quale sono in realtà le spazzole dei tergicristalli

Quindi, ecco che offrono slogan, costituzioni, editti con regole di comportamento collettivo, sollecitano l’inversione dei rapporti di forza, discettano dottamente sulla situazione più o meno pre-rivoluzionaria, si infiltrano in dimostrazioni e incontri , chiedono la convergenza delle lotte e anche lo sciopero generale … Queste pratiche e discorsi erano già vuoti, incantatori nel corso dei movimenti di ferrovieri e studenti dell’anno scorso. Lo sono più che mai oggi. Perché la tenacia e il successo iniziale dei “gilet gialli” illuminano crudelmente la serie di disfatte quasi sistematiche di questi ultimi anni in Francia, e la decadenza generale in cui tutte le correnti di sinistra, così orgogliosi comunque del loro patrimonio e della loro singolarità così come stupidamente eroici nella loro postura, sono affondate gradualmente per cinquanta anni. Lungi dall’essere un ostacolo è proprio la tanto criticata impurità ideologica della mobilitazione che ha finora favorito la sua estensione e annichilito tutti i volontarismi unificatori provenienti da organizzazioni o militanti specializzati. Ai professionisti dell’ordine sinistrorso e del disordine insurrezionalista, il movimento delle “giacche gialle” non offre che un invito a partire, una partecipazione finalmente libera come rinuncia ai collettivi istituiti con la pesantezza materiale e ideologica del passato. è proprio la tanto criticata impurità ideologica della mobilitazione che ha finora favorito la sua estensione ed è scaduta tutti i volontari unificanti provenienti da organizzazioni o militanti specializzati. Professionisti dell’ordine insurrezionalista di sinistra e disordine, il movimento delle “giacche gialle” affronta quindi un invito al viaggio, la partecipazione a finalmente libero come dépris essere una delle collettivo stabiliti tanto la pesantezza materiale e ideologica del passato. è proprio la tanto criticata impurità ideologica della mobilitazione che ha finora favorito la sua estensione ed è scaduta tutti i volontari unificanti provenienti da organizzazioni o militanti specializzati. Professionisti dell’ordine insurrezionalista di sinistra e disordine, il movimento delle “giacche gialle” affronta quindi un invito al viaggio, la partecipazione a finalmente libero come dépris essere una delle collettivo stabiliti tanto la pesantezza materiale e ideologica del passato.

A CAVALLO

La mobilitazione in corso non ha bisogno di essere gonfiata – o piuttosto messa in competizione, se si può leggere tra le righe delle dichiarazioni rivendicazioniste dei piccoli leader indigenti – da movimenti esistenti o paralleli. Nelle rotatorie e nelle strade, bloccando o tumultuando, si incontrano e si scontrano forze eterogenee, politicamente diverse, persino opposte (sebbene spesso sociologicamente vicine). Più che sugli ideali o sulla coscienza di classe condivisa, e ancor più che sui video o sui messaggi scambiati sui social network, il movimento è prima di tutto legato alle passioni locali, antiche o quotidiane, con connessioni esterne a luoghi di lavoro; caffè, associazioni, club sportivi, edifici, quartieri. Perché la religiosità dell’ideologia progressista (con i suoi miti banali e i rituali scontati) è loro violentemente estranea, “giacche gialle” non sembrano dare certezze, interpretazioni esaurienti del loro malessere comune nelle prime due settimane di movimento. Con flessibilità e adattamento al rischio di rottura e dissoluzione, tengono la strada, bloccano le rotatorie e i caselli autostradali senza solidi pregiudizi, senza certezze imposte, scevri dall’intellettualismo e  dall’idealismo patologico di sinistra e dei sinistrorsi e delle loro suggestioni di proletariato, soggetto storico e classe universale.

Il movimento è situato a cavallo di due periodi del capitalismo e dei suoi modi di governo. Nel suo contenuto, più che nella sua forma, porta segni del passato ma rivela anche un possibile futuro di lotte o insurrezioni. La critica della tassa, la richiesta di ridistribuzione, la correzione delle disuguaglianze, sono indirizzate a uno Stato regolatore, quando questo è in gran parte scomparso. Il movimento vuole sia meno tasse che più stato. Attacca quest’ultimo solo nella misura in cui si è ritirato dalle aree urbane e semi-rurali. E quando si arrivò al potere d’acquisto, fino agli ultimi giorni, lo fa ignorando gli stipendi più che la tassazione, non ostante questi determinino maggiormente il livello generale. Tratto notevole del momento attuale: nessuno ha pensato, al governo, a dare la colpa ai padroni per la loro politica salariale. Tale restrizione, tatticamente incomprensibile, esprime meglio di qualsiasi discorso, gli interessi che serviranno, fino alla loro perdita, i leader politici dell’attuale regime.

Perché sfida i partiti, si esprime al di fuori dei sindacati – e anche, nei suoi primi giorni, contro di loro – il movimento attacca anche l’intero sistema di rappresentazione degli interessi scaturiti dalla Seconda Guerra Mondiale e poi nella Quinta Repubblica – una serie di meccanismi di delega legati alla gestione keynesiana del capitalismo. Ricacciando la sinistra e i sinistri nel folklore o nella formalina, le “giacche gialle” richiamano un pò le aspirazioni di autonomia espresse nel maggio 68. Ma sono anche molto uno in linea con il programma di distruzione dei sindacati e delle istituzioni democratiche attuate sotto il capitalismo a partire dagli anni 70. O meglio: sono il residuo irriducibile, del quale certuni profetizzavano la risorgenza. Volta a volta Keynesiani, libertari e neoliberali: il movimento porta con sé le stimmate di queste idee politiche moribonde e le ambivalenze dell’epoca.

Tuttavia, propone, seppure in forma paradossale, la prima politicizzazione di massa della questione ecologica in questo paese. Ecco perché sarebbe sbagliato voler ricondurre la mobilitazione solo alle condizioni di classi, statuti, professioni, e contrapporre troppo semplicemente i problemi della fine del mese alla questione della fine del mondo. Questo vecchio riflesso è anche un residuo del vecchio regime di regolazione e protesta. Nel movimento dei “giubbotti gialli” il lavoro non è l’epicentro; non più, forse, di quanto sia in realtà il potere d’acquisto. Ciò che si manifesta, oltre alle ingiustizie ecologiche (i ricchi distruggono molto più il pianeta che i poveri, anche mangiando biologico e smistando i loro rifiuti, ma è sui secondi che viene fatta pesare la “transizione ecologica” ) sono soprattutto le enormi differenze, poco o non politicizzate fino ad allora, esistenti in relazione alla circolazione. Piuttosto che esprimersi in nome di una posizione sociale, in questo senso si rende la mobilità (nei suoi vari regimi, vincolati o scelti, esplosi o concentrati) allo stesso tempo il motivo principale delle mobilitazioni e, bloccandola , lo strumento cardinale del conflitto.

I TRE GILET

In termini di mobilitazione concreta, la prima qualità del movimento era inventare una nuova tattica e una nuova drammaturgia della lotta sociale. Mezzi scarsi, perfettamente attuati, sono stati sufficienti a creare un livello di crisi politica raramente raggiunto in Francia negli ultimi decenni. La logica dei numeri e la convergenza, consustanziale alle forme di mobilitazione del periodo keynesiano, non è più la questione decisiva: non c’è bisogno di fare affidamento su studenti delle scuole superiori, studenti, inattivi, pensionati, sulla loro disponibilità e il loro tempo, né la speranza che una cassa centrale di risonanza, i media, Parigi, arrivi a dare al movimento il suo potere e la sua legittimità. La combinazione unica di una proliferazione di piccoli gruppi, anche in luoghi senza una vita politica spontanea per quasi mezzo secolo, le pratiche di blocchi e l’ovvio, naturale, ancestrale ricorso alla sommossa, portato al cuore persino dei centri urbani dipartimentali, regionali e nazionali hanno soppiantato, almeno per un periodo, il repertorio dello sciopero con le sue figure imposte e prestabilite.

Al di là di questo tratto comune, tre tendenze pratiche e tattiche sembrano dividere il movimento al momento e precostituire il suo futuro. Il primo è elettoralista nel suo cuore, “cittadino” ai suoi margini. Chiama già alla formazione di un movimento politico inedito, alla formazione di liste per le prossime elezioni europee e, probabilmente, al sogno di un destino simile a quello del movimento Cinque Stelle in Italia, o di Podemos in Spagna o del Tea Party negli Stati Uniti. Si tratta di pesare sul gioco politico esistente con rappresentanti dotati delle caratteristiche sociali il meno distanti possibili da quelle dei rappresentati. I più radicali, in questo campo, non sono soddisfatti delle attuali istituzioni politiche e chiedono quanto prima di essere trasformate in profondità: vogliono sì il loro referendum o la loro “veglia notturna”, ma nei grandi stadi dove una nuova democrazia deliberativa sarebbe quindi praticata e inventata

Una seconda polarità del movimento è apertamente negoziatrice. Ha parlato domenica scorsa alla stampa chiedendo discussioni con il governo e accettando, prima del ritiro, i suoi inviti. Le corrisponde una frazione più o meno ribelle di parlamentari e politici della maggioranza, con rappresentanti dell’opposizione, sindacalisti, capi o sottodirettori del partito, che chiedono cambiamenti di rotta o addirittura di trasformazioni in profondità e gli Stati Generali su tassazione, ecologia, disuguaglianza e altri temi caldi. Questo polo domina i dibattiti in questa terza settimana ma rimane fortemente contestato all’interno del movimento che non vede come un nuovo accordo di Grenelle, a fortiori senza sindacati o rappresentanti legittimi, e probabilmente diluito nel tempo, potrebbe rispondere alla rabbia. Dopo una falsa partenza, il tempo è diventato il principale vantaggio di questo governo che spera di affogare la fronda nelle vacanze e porre fine alla discussione per diversi mesi. È anche noto che in altre circostanze gli stati generali non erano sufficienti per colmare le fratture.

Il terzo nucleo del movimento è soprattutto un “liberatore” e, nei suoi margini, insurrezionalista e persino rivoluzionario. Parla nel weekend a Parigi e nelle prefetture e chiede le dimissioni immediate di Macron senza nessun altro programma. Ha ottenuto risultati senza precedenti in Francia da diversi decenni raggiungendo i ricchi quartieri occidentali della capitale e rispondendo alla polizia con entusiasmo senza precedenti nonostante la repressione poliziesca, le numerose vittime di violenza, le mani strappate, le facce gonfie. Alcune cifre danno un’idea delle violenze in corso: in una giornata parigina, il 1 ° dicembre, la polizia ha sparato molte più granate che in tutto 2017 ( Liberazione3 dicembre 2018). La natura molto acuta degli scontri serve anche a squalificare le folle del movimento. Questa strategia è fallita la settimana scorsa. È di nuovo oggetto di propaganda di massa questa settimana. Qualunque cosa accada, le migliori prospettive per questo segmento del movimento ricordano quelle delle insurrezioni arabe del 2011, quando una mobilitazione politicamente molto eterogenea, proveniente da reti sociali, in gran parte distaccata dalle tradizionali forze politiche, fece cadere diversi regimi autoritari, ma senza riuscire ad andare oltre e affermare una positività rivoluzionaria.

Il quadro non sarebbe completo senza ricordare che la possibilità neofascista attraversa i tre campi del movimento. L’estrema destra è presente in ciascuno di essi. L’identità e la tensione autoritaria sono anche uno scenario possibile per tutte le tendenze: per alleanza (come in Italia) o per assorbimento tra gli elettoralisti; per disgusto o reazione in caso di prevalenza dei negoziatori;per contraccolpo o controrivoluzione, se dovessero prevalere i putschisti di sinistra o gli insorgenti. L’estrema destra in agguato! Le anime buone vengono massacrate. È abbastanza per offuscare il movimento? L’eventualità neofascista è in realtà iscritta in Francia dopo l’elezione di Macron: è la conseguenza necessaria doppia e più probabile. Si sta svolgendo ovunque oggi come logica continuazione del mantenimento dell’ordine economico e poliziesco neoliberista in un contesto di crisi sociale, come dimostra la svolta autoritaria di un numero significativo di paesi dal 2008. L’esistenza di un tale pericolo non è piacevole ma è la prova evidente che siamo a un bivio, in Francia, in Europa, oltre. Nei periodi critici, la storia è sempre incerta, magmatica, puristi e igienisti della mente e della politica stanno lottando. Se non sono ancora illiberali, i “giubbotti gialli” sono già antiliberali. Ma chi può dire che non sperano in nuove libertà? L’esistenza di tale pericolo non è piacevole ma è la prova evidente che siamo a un bivio, in Francia, in Europa, oltre. Nei periodi critici, la storia è sempre incerta, magmatica, puristi e igienisti della mente e della politica stanno lottando. Se non sono ancora illiberali, i “giubbotti gialli” sono già antiliberali. Ma chi può dire che non sperano in nuove libertà?

MAGLIE DEBOLI

Con questa misura, allora, il moto insurrezionale è ancora insignificante, anche se ciò che ha avuto luogo il 24 novembre e il 1 °Dicembre a Parigi e IN alcune città di provincia hanno avuto un significato storico. A volte è stato dimenticato che i francesi si sono ribellati violentemente, il più delle volte contro la tassazione e la concentrazione del potere, per quasi quattro secoli. È la tolleranza per la distruzione e la violenza di strada che si è indebolita considerevolmente negli ultimi cento anni. Tuttavia, dal 2016 e la nuova, fragile compressione tra “sacrifici di teste” e assemblee, la demonizzazione delle rivolte è andata diminuendo. Questa caratteristica è rafforzata nei giorni scorsi dallo scontro tra cittadini ordinari e la brutalità della polizia esacerbata. Una linea d’azione tattica potrebbe essere quella di sfruttare questo vantaggio, forse temporaneo, per superare il movimento e ottenere precisione negli obiettivi mirati.

La presa dei Palazzi della Repubblica non avrà luogo. Per il momento, ci sono tutti i tipi di risorse in riserva: il licenziamento del governo, lo stato di emergenza, l’esercito e così via. Andiamo anche all’epilogo del nostro lutto di ogni sinistra: la rivoluzione stessa, intesa come un evento, non è più una necessità, né un orizzonte assoluto. La lotta ora può esistere solo nel lungo periodo, vale a dire anche attaccando in via prioritaria le parti più deboli dei dispositivi strategici del potere in atto: i media e la polizia, tanto per cominciare.

I media sono davvero divisi nei confronti del movimento. Alcuni sostengono l’antifiscalismo dei “giubbotti gialli” per ingrassare gli interessi di classe dei loro proprietari mentre temono la violenza popolare. Altri, ideologicamente più vicini al governo, in affinità sociale con la figura incarnata da Macron, sono comunque trattenuti dal loro pubblico, che sostiene i “giubbotti gialli”, quando non ne fa parte. In una congiuntura fluida, le rappresentazioni sono una delle armi di guerra decisive. Ma i social network e vari siti di protesta correggono solo parzialmente la tendenza monopolistica dei media audiovisivi tradizionali quando non sono essi stessi vinti da spudorate contro-verità. Ci piace immaginare che alcuni dei “giubbotti gialli” vengano inseriti il ​​più rapidamente possibile in una o più stazioni radiofoniche e televisive, se possibile nazionali, associando i giornalisti controcorrente e facciano trasparire meglio gli attuali sviluppi storici. A meno di non dover prima aumentare gli strumenti di contro-informazione che abbiamo già.

Il dispositivo di polizia è paradossalmente l’altro anello debole del potere in atto. È una macchina usurata, sovrasfruttata, con parti e armi spesso arrugginite le cui ruote umane hanno condizioni socio-economiche molto vicine a quelle dei “giubbotti gialli”. Questa vicinanza potrebbe dividere i ranghi dei primi, i loro sindacati, a condizione di far leva dove si è accumulata la sofferenza, per ammorbidire la base. Il compito sembra duro, difficile, forse impossibile, ma nessuna insurrezione è avvenuta senza almeno un’inversione parziale dell’apparato repressivo. La temporalità è stretta. Non siamo immuni dal fatto che questo sabato il dispositivo deciso dal Ministero degli Interni sia più insidioso, evitando i conflitti frontali a favore di arresti mirati: alla tedesca, per così dire – in modo da contenere la tensione fino alla mancanza di respiro. Ma sarà sufficiente quando la radicalizzazione di massa si è verificata nelle ultime due settimane contro le normali pratiche di polizia?  Un piccolo sindacato (Vigi) sta già chiedendo uno sciopero indefinito da sabato. Altre organizzazioni sindacali di dipendenti pubblici (nell’istruzione, nei dipartimenti per i vigili del fuoco e di salvataggio, tutti i servizi pubblici) hanno fatto simili richieste per i prossimi giorni e la prossima settimana. L’apparato statale mostra le sue prime crepe.

*
Mirare giusto allora, ma prima di tutto durare. Parigi è una rivolta, ma anche Parigi è un’esca. Una spettacolare vetrina. La scala del movimento è locale. Speriamo che rimanga e moltiplica i suoi punti di esistenza così come gli incontri tenuti lì. La generalizzazione della prospettiva di assemblee “popolari” locali, come a Saint-Nazaire o Commercy, che potrebbero aggregare gruppi diversi dai “giubbotti gialli” mobilitati, andrebbe in questa direzione. Richiede risorse, energia, forza, aiuto reciproco. Le scatole di chiusura, sia hardware che digitali, potrebbero essere installate. Politicamente, il ruolo delle associazioni amiche e persino degli eletti locali a favore del movimento deve essere determinato, come quello della transizione verso il nuovo anno.Tutte queste prospettive, già esorbitanti, sono tuttavia piccole cose di fronte alle domande future che dovranno affrontare il movimento, come quelle delle aziende e dell’ecologia, rimaste per la maggior parte al limite dell’attuale effervescenza mentre sono al cuore di tutte le affermazioni. Sarà necessario tornare ad esso. Il giorno dell’8 dicembre è solo il quarto atto di mobilitazione. Tutte le buone tragedie ne hanno cinque.

Agenti licenziati dal partito immaginario

6 dicembre 2018

[Foto: Boby ]

QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

interrogativi inquietanti, di Giuseppe Germinario

Oggi Maria Angela Zappia Caillaux, diplomatica, rappresentante permanente dell’Italia all’ONU dal 31 luglio 2018, in quota quindi del Governo Conte e del Ministro degli Esteri Moavero, già ministro plenipotenziario e rappresentante permanente alla NATO nonchè consigliere diplomatico di Matteo Renzi, ha votato in rappresentanza dell’Italia a favore del Migration Global Compact, il documento con il quale si tenta di orientare e regolare, sarebbe meglio dire incentivare, i fenomeni migratori, in contrasto tra l’altro con la posizione statunitense.

I contenuti del documento saranno trattati in altre occasioni.

Oggi interessa ottenere risposta piuttosto a queste domande:

  1. Con quale avvallo la diplomatica ha manifestato il proprio voto? Quello del Ministro Moavero, del Presidente della Repubblica Mattarella, del Capo di Governo Conte?
  2. Nel caso di adesione improvvida, il Presidente Conte e il Ministro Moavero sono pronti e disponibili a sconfessare l’iniziativa del diplomatico e a rimuoverla?
  3. Come si esprimerà a proposito il Parlamento nella prossima votazione sull’argomento? Si assisterà ad un inedito schieramento favorevole al documento e ad una clamorosa rottura della compagine di governo su un tema così dirimente? 
  4. Se confermato si tenterà di ricacciare la Lega nell’alveo del centrodestra e il M5S o parte di esso in quello di centrosinistra sotto mutate spoglie; in alternativa si cerca di relegare quest’ultimo o parte di esso al ruolo di opposizione di comodo? Con questo, quindi, ricondurre lo scontro e il confronto politico nell’alveo classico destra/sinistra con stella polare il ritorno al classico europeismo condiviso?

PS- Per correttezza il voto ha riguardato il Global Compact sui rifugiati. Si tratta comunque di un documento parallello al GMC che comunque agisce e interferisce con esso, compresa l’esplicita accettazione di immigrati come rifugiati sulla base  di una “autocertificazione” sino a prova contraria. Esattamente come avviene ora. Da qui il dissenso USA e russo

Uyghur: nuovi fronti ad Oriente, a cura di Giuseppe Germinario

Uyghur: Il Partito Islamico del Turkestan, in rotta verso la globalizzazione della lotta, con un focus prioritario, Cina e buddisti.

Fonte: Madaniya, René Naba , 03-12-2018

Questo interessante articolo rivela ormai un dato di fondo. La pressione occidentale rimane costante nelle zone grige, lungo i margini dei confini degli avversari strategici, ma con due pesanti incognite: l’esistenza di zone di contesa lontane  da quei bordi, marginalmente in America Latina e soprattutto in Africa; l’accerchiamento non più di un solo paese, la Russia, ma di un altro colosso, la Cina, suscettibile di produrre e consolidare un sodalizio inedito al centro del continente asiatico con una possibile opzione del terzo gigante, l’India. Come vero collante di questo possibile esito, più che l’insorgenza del movimento islamico integralista prospettata dal saggista, un mero strumento e corollario, potrebbe fungere l’acceso, inedito e feroce confronto politico in corso apertamente da ormai due anni negli Stati Uniti e la conseguente incapacità di individuare ed affrontare con una politica coerente l’avversario geopolitico principale. A  quel punto ci si dovrà chiedere chi saranno alla fine in realtà gli accerchiati. Buona lettura_Giuseppe Germinario

1 – Turchia e Stati Uniti, padrini nascosti della PIT

Dopo otto anni di presenza in Siria, in particolare nel nord, nella zona di Aleppo-Idlib, il movimento jihadista del Turkestan si appresta a dare un impulso trans-regionale alla lotta, al di là della Siria , con obbiettivo prioritario: la Cina.
Tale almeno è la sostanza del discorso mobilitatore del predicatore Abu Azzam Zir tenuto in occasione del Festival Fitr nel mese di giugno 2018, mettendo in evidenza la “ingiustizia” subita dal Turkestan nei suoi due versanti, il versante occidentale ( Russia) e il lato orientale (Cina).

Tuttavia, il progetto TIP potrebbe essere vanificato, da un lato, dal maggiore coinvolgimento della Cina nella guerra siriana e, dall’altro, dalla possibile modifica della precedente relazione strategica tra la Turchia e gli Stati Uniti, due ex soci della guerra fredda, ora in conflitto.
Secondo il discorso del predicatore di Abu Zir Azzam, la mobilitazione verso la Siria è stata congelata. Il Partito islamista del Turkestan (PIT) si prepara a lanciare la Jihad contro i buddisti. I jihadisti uiguri in Siria rimarranno sul posto fino a quando la loro missione non sarà completata, ma le nuove reclute verranno inviate su altri fronti.

Nel giugno 2017, la Turchia e gli Stati Uniti, i padrini occulti PIT, hanno incoraggiato questo orientamento con il pretesto di preservare i combattenti di questa formazione per assegnarli ad altri teatri di operazioni contro gli avversari degli Stati Uniti coagulatisi all’interno dei BRICS (Cina e Russia), polo di protesta per l’egemonia americana nel mondo.

2- La duplicità della Turchia: verso una zona turca in Siria sul modello di Cipro del Nord?

Ansioso di preservare i suoi allievi, “Hayat Al Tahrir Cham”, già Jabhat Un Nosra sotto filiale di Al Qaeda, in particolare gli uiguri del partito islamista del Turkestan, strattonati d’altronde tra alleanze conflittuali, il neoislamista Recep Tayyip Erdogan -Membro del gruppo di Astana (Russia, Iran, Turchia), allo stesso tempo membro della NATO, ha proposto la costruzione di una grande area per ospitare i jihadisti in una zona sotto l’autorità della Turchia per procedere alla cernita tra i gruppi islamici inclusi nella lista nera del terrorismo jihadista e raggruppate sotto la sigla VSO (opposizione siriana convalidato dal Ovest). Un’operazione in linea di principio per consentire all’esercito turco per separare il bene dal male secondo lo schema della NATO.

In altre parole, per liberare i siriani pentiti e per tenere i combattenti stranieri (ceceni, uiguri) sotto il gomito per introdurli di contrabbando in altri teatri di operazioni.

Approfittando del dispiegamento delle forze Usa nel nord della Siria nel perimetro della base aerea di Manbij, così come nella zona di Idlib, la Turchia ha approfittato di questa fase preliminare dell’offensiva per spostare  i suo sostenitori, per lo più uiguri e al Moharjirine (migranti) sotto “Hayat Tahrir come Ham” tendenza salafita jihadista; il gruppo è stato incluso nella lista nera del terrorismo dalle Nazioni Unite nel 2013.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dato la sua approvazione alla proposta turca al vertice di Sochi del 17 settembre, ansiosa di preservare la nuova alleanza con la Turchia di fronte a una guerra ibrida da parte degli Stati Uniti.

Il bracconaggio della Turchia è la carta principale della Russia nei suoi negoziati con la coalizione occidentale al punto che Mosca sembra così ansiosa di incoraggiare questa sconnessione strategica dell’asse Turchia Stati Uniti, sino a promettere la consegna del sistema balistico SSS 400 per il 2019.
Ankara spera, nel frattempo, conservando la maggior parte della sua forza di interdizione nella zona, con un obiettivo di fondo teso allo sviluppo nella zona di Idlib di un’enclave turca sul modello della Repubblica turca di Cipro. Per fare questo, si prevede di condurre un cambiamento demografico nella zona in modo da formare una sorta di barriera umana con cittadini siriani sotto la sfera d’influenza dei Fratelli Musulmani considerati come de facto sotto la propria autorità. In questa zona l’ambizione era di concentrare un terreno fertile jihadista da poter gestire secondo le esigenze della propria strategia.
Il DMZ concesso temporaneamente in Turchia si estende su una fascia ampia oltre 15 km lungo il confine siriano-turco nella zona di Idlib, che copre l’area di dispiegamento delle forze curde sostenute dagli Stati Uniti.

Con la disposizione di Sochi, la Russia ha voluto dare tempo per testare le reali intenzioni della Turchia tra cui il modus operandi che utilizza per eliminare, se non almeno neutralizzare “Hayat Al Tahrir Cham”, in conformità con le raccomandazioni dell’ONU che considera “terrorista” il franchise di Al Qaida in Siria.

Manna per la Turchia, la decapitazione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul, 2 ottobre 2018, ha permesso ad Ankara l’avvio della campagna mediatica metodica contro l’Arabia Saudita per assicurare il ritiro di Riyadh dalla gestione del dossier siriano e chiedere, allo stesso tempo, l’inclusione dei jihadisti protetti nella commissione di redazione della futura costituzione siriana dalla quale erano stati precedentemente esclusi.

Il presidente Erdogan ha fatto della guerra in Siria una questione personale, che lo costringe a una certa rigidità sotto pena di sconfessione, non riuscendo a raggiungere un duplice obiettivo: la garanzia di interessi turchi in progetti di ricostruzione in Siria e soprattutto la neutralizzazione politica e militare dei curdi siriani, i protetti degli alleati americani. Una quadratura di un cerchio in modo vizioso che porta la Turchia ad esercitare un ampio strappo al punto di rottura … .. fino al punto di smembramento.

Sulla duplicità della Turchia nella guerra siriana, vedi questi collegamenti:

3- Terminologia marxista come vestizione legale al punto di svolta

L’abito ideologico della svolta del PIT è stato tratto dalla terminologia marxista. Al termine di un dibattito interno di diversi mesi, gli avvocati di questa formazione hanno deciso di dare una dimensione globale alla loro lotta privilegiando il nemico vicino (Cina) a quello lontano (Siria).
La concorrenza giurisprudenziale è stata stabilita tra i prescrittori rivali Abdel Rahman Al Chami, vicino a Jabhat An Nosra, la frangia siriana di Al Qaida e Abdel Halim Al Zarkaoui, vicino a Daech.

– Il discorso mobilitante di Azzam Abu Zir
Il predicatore ha fatto un’irruzione politica sostenuta da un discorso militante in onda in occasione del Festival Fitr nel mese di giugno 2018, mettendo in evidenza la “ingiustizia” subita dal Turkestan nei suoi due versanti , il versante occidentale (Russia) e il versante orientale (Cina). Facendo appello al boicottaggio commerciale della Cina, ha elencato gli abusi storici subiti dagli uiguri cinesi, citando lo “stupro di musulmano” e “l’obbligo di mangiare carne di maiale.”

“Il partito islamico del Turkestan si sta preparando per la Jihad contro i buddisti”, questo link per gli arabi

3- La guerra siriana, il rivelatore del PIT

Se la guerra siriana ha elevato Hezbollah al rango di stratega e spinto la formazione sciita al ruolo di interlocutore diretto del comando militare russo, allo stesso tempo ha rivelato il Partito islamico del Turkestan, come parte del campo jihadista nel campo di battaglia della Siria settentrionale, al confine con la Turchia.

La battaglia per la conquista di Aleppo, nel dicembre 2016, ha così conferito a Hezbollah il ruolo di stratega statuale piuttosto che semplice esecutore della strategia iraniana, un attore maggiore militare contro Israele e la Siria. Anticipando le risposte jihadiste, non esitando a condurre battaglie di strada, la pulizia degli edifici più pulito, Hezbollah ha avuto la consacrazione dei suoi piani di battaglia condotti per otto anni in Siria  nelle accademie militari russo. Un successo ottenuto a costo di pesanti sacrifici.

Il rovescio della medaglia. Diversi leader della formazione, tra cui Moustapha Badredddine, il capo dell’ala militare di Hezbollah, Jihad Mughniyeh, il figlio del fondatore del l’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, Samir Kintar, ex doyen di prigionieri politici arabi in Israele hanno perso la vita in Siria. Nel campo avverso il comandante Abu Omar Saraqeb che ha guidato la più grande coalizione di ribelli e jihadisti in Siria, responsabile della conquista di Jisr Al Shughour, anche, è morto nel teatro delle operazioni come pure Omar Al Shishani, il comandante jihadista del Fronte Nord.

4- Rafforzamento della presenza militare russa e l’importante svolta strategica della Cina nel Mediterraneo

Dal suo intervento militare diretto a sostegno del presidente siriano Bashar Al Assad, la Russia ha aumentato significativamente la sua presenza in Siria, dove ora ha due basi; la base aerea di Hemeimine, a sud-est della città di Lattaquieh e l’importante base navale di Tartous.

Rompendo il monopolio delle aree detenute dalla NATO nella zona dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il sistema di difesa russo include missili da crociera, batterie dei missili S.400 TRIUMPH, con base a Hemeimine, il cui raggio di  azione copre l’intero Mediterraneo orientale (Siria, Turchia, Cipro, Libano Israele), garantendo la protezione di fatto non solo dello spazio aereo della Siria, ma anche della zona di schieramento di Hezbollah nel Libano meridionale.

Allo stesso tempo, la Cina ha stabilito due punti di ancoraggio nel Mediterraneo; Tartous (Siria) e Cherchell (Algeria); una svolta strategica importante del Regno di Mezzo in quest’area dall’inizio dei tempi.

5 – Cina: la Siria, un ricettacolo per il terrorismo globale

Il fermento Jihadista-Uighur in Siria e in paesi lontani dalla Cina ha indotto Pechino, nel marzo 2018, a schierare con discrezione truppe in Siria con il motivo ufficiale di tutoraggio di reparti dell’esercito siriano fornendo loro supporto logistico e medico.
Pechino ha giustificato questo atteggiamento proattivo con la sua connessione ideologica con il potere baathista a causa della sua natura secolare, così come con la presenza nel nord della Siria di un grande contingente di combattenti uighuri.

In tal modo, la Cina mira a fronteggiare i jihadisti Uighur, che vuole neutralizzare dal loro possibile ritorno in Cina, a conferma quindi dei legami tra separatisti islamici nelle Filippine e nel Mayanmar e i gruppi islamici che operano in Siria, come dimostra l’arresto di agenti dello Stato islamico (Daesh) in Malesia nel marzo 2018, a Singapore nel giugno 2018.

La fase di graduale inserimento della Cina nel teatro siriano, dove ha già ottenuto impianti navali nel campo di applicazione della base navale russa di Tartus mira consolidare la sua posizione tra i tre maggiori investitori e finanziatori della ricostruzione in Siria assieme a Russia e Iran.

Oltre a Tartous, la Cina ha costruito la sua prima base navale all’estero in Gibuti nel 2017. Adiacente al porto Doraleh e alla zona libera di Gibuti – costruito dalla Cina-tale base dovrebbe ospitare inizialmente 400 uomini. Ma, secondo diverse fonti, sono circa 10.000 gli uomini che potrebbero stabilirsi lì entro il 2026, quando l’esercito cinese trasformerà questo enclave in un avamposto militare della Cina in Africa.

In seguito all’inaugurazione della base navale cinese a Gibuti, una nave portacontainer gigante ha scaricato materiale per i progetti di ricostruzione siriani il 17 agosto nel porto di Tripoli (Nord Libano).

Con una lunghezza di 300 metri, per una larghezza di 40 metri, la nave portacontainer “Nerval”, appartenente alla società francese CGM-CMA, ha scaricato migliaia di contenitori di materiali dalla Cina e dall’Indonesia, per essere trasportati lungo la rotta verso la Siria.

In sovrapposizione, la Cina ha partecipato alle manovre navali russe al largo del Mediterraneo all’inizio di settembre, le più importanti manovre della flotta russa nella storia navale mondiale. Ha inviato truppe in Siria, per la prima volta nella sua storia nel marzo 2018, per sostenere le forze del governo siriano durante la conquista di Idbib, tra l’altro decrittando le comunicazioni tra i jihadisti uighur al fine di neutralizzarle.

Per quanto riguarda la Cina, la Siria funge da ricettacolo del terrorismo globale, anche per l’interno cinese. Ansioso di alleviare lo sforzo russo e sostenere lo sforzo bellico siriano, la Cina ha concesso un aiuto militare da 7 miliardi di dollari alla Siria le cui forze combattono nella battaglia di Aleppo, i jihadisti uiguri (musulmani di lingua turca nella Cina nord-occidentale), dove circa 5.000 famiglie, quasi quindicimila persone, si trovano ad est di Aleppo.

6- La problematica uigura

L’uso degli uiguri da parte degli americani risponde al loro desiderio di avere una leva contro Pechino, in quanto “la Cina e gli Stati Uniti sono impegnati, a lungo termine, lungo una rotta di collisione.

I precedenti storici indicano che una potenza in ascesa e un potente in declino sono vocati principalmente a confronto “, dice l’ex primo ministro francese Dominique de Villepin, soprattutto in un momento in cui la fase diplomatica internazionale è in fase di transizione verso un mondo post-occidentale. L’obiettivo di fondo è quello di contrastare l’implementazione della “2a strada della seta”.

Musulmani turcofoni, gli Uighur vivono nella provincia di Xinjiang nel lontano occidente della Cina, al confine con otto paesi (Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Tagikistan, Pakistan e India). Molti uiguri hanno combattuto in Siria sotto la bandiera del Turkistan Islamic Party (Sharqi Turkestan), alias Xinjiang, una lotta armata separatista il cui obiettivo è la creazione di uno “Stato islamico Uighur” nello Xinjiang.

I combattenti uyghur sono stati assistiti dai servizi di intelligence turchi per il loro trasferimento in Siria attraverso la Turchia. Questo ha generato tensioni tra i servizi intelligence turchi e cinesi di intelligence con la Cina preoccupata per il ruolo dei turchi nel sostenere i combattenti uiguri in Siria e per il supporto che potrebbero fornire per i prossimi combattimenti nello Xinjiang.

La comunità uigura in Turchia conta 20.000 membri, alcuni dei quali lavorano per l’Associazione di solidarietà e istruzione del Turkestan orientale, che fornisce aiuti umanitari ai siriani e viene osservata dalla Cina. Un video dell’IPO di gennaio 2017 afferma che la sua brigata siriana ha combattuto con il fronte di al-Nusra nel 2013 nelle province di Raqqa, Hassakeh e Aleppo.
Nel mese di giugno 2014, il gruppo jihadista ha formalizzato la propria presenza in Siria: la sua brigata sul posto, guidata da Abu al-Ridha Turkestani, un interlocutore arabo, probabilmente un siriano, ha sostenuto un attacco suicida a Urumqi nel maggio 2014 e un attacco VBIED in Piazza Tiananmen nell’ottobre 2013.

Il gruppo ha giurato fedeltà al mullah Omar dei talebani. Ventidue uiguri sono stati detenuti a Guantanamo Bay e rilasciati per mancanza di prove. Seguendo l’esempio di Emirato islamico del Caucaso, il cui ramo siriano operava sotto Jaysh Muhaajireen Wal-Ansar, il PIT ha creato la sua propria filiale in Siria, che opera in collaborazione con Jabhat Un Nosra tra le province di Idlib e Latakia.

7 – L’ambiente jihadista dell’India e il suo passaggio verso Israele.

La distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani nel marzo 2001, sei mesi prima del raid dell’11 settembre contro i simboli della superpotenza americana, era un innesco che porta l’India ad abbandonare la sua tradizionale politica di amicizia con il Paesi arabi, in particolare l’Egitto, suo principale partner nel Movimento dei non allineati, per avvicinarsi a Israele.

L’ambiente jihadista in India ha anche portato i suoi leader ad avvicinarsi agli Stati Uniti in un contesto segnato dalla scomparsa del partner sovietico, insieme ad un aumento della cooperazione sino-pakistana che ha portato al trasferimento di tecnologia nucleare a Islamabad e il lancio di un programma nucleare pakistano con sussidi sauditi.

La nuova alleanza con Stati Uniti e Israele è stata suggellata sulla base di una convergenza di interessi e un approccio sostanzialmente simile di paesi che si presentano come democrazie che condividono la stessa visione del mondo plurale, avendo lo stesso nemico comune, “Islam radicale”.
Il riavvicinamento ad Israele ha determinato una normalizzazione delle relazioni israelo-indiano nel 1992 materializzato nella prima visita di un leader israeliano a New Delhi nel 2003, nella persona del primo ministro Ariel Sharon, anno dell’invasione americana dell’Iraq.

La terza potenza regionale con Cina e Giappone, l’India è in una posizione ambivalente nel mantenere stretti legami con le superpotenze per mantenersi nelle prime fila della leadership mondiale, senza allentare i suoi legami. con il Terzo Mondo, di cui è stata a lungo uno dei leader. La sua presenza nei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) risponde a questa logica.

Gli Uiguri, dalla memoria degli osservatori, non sono mai morti per la Palestina. Ma molti sono stati contro la Siria, seguendo una deviazione settaria dalla loro ideologia.

Agli occhi degli strateghi del Pentagono, la strumentalizzazione dell’irredentismo uighur dovrebbe avere lo stesso effetto destabilizzante sulla Cina del jihadismo ceceno sulla Russia di Putin. Ma un possibile aumento del Partito islamico del Turkestan potrebbe avviare una redistribuzione delle carte; le principali vittime potrebbero essere gli stessi jihadisti uiguri, come gli islamisti in Siria.

A voler servire troppo come “carne di cannone” di mercenari in combattimenti decisi da sponsor motivati esclusivamente dalla ragion di stato, il destino degli ausiliari è inevitabilmente segnato: tacchino ripieno di un gigantesco inganno.

8 La defezione di tre paesi musulmani alleati dell’Occidente

Di fronte a una tale configurazione, il Pakistan, pyrotecnico vigile del fuoco del jihadismo globale per decenni sembrava avviare una drastica revisione delle sue alleanze, rinunciando al suo precedente ruolo di guardia del corpo della dinastia wahhabita per un ruolo più gratificante di partner della Cina, potenza planetaria in via di realizzazione, attraverso il progetto OBOR. Due altri paesi musulmani, una volta alleati dell’Occidente, hanno seguito le sue orme: Malesia e, probabilmente, nel medio termine, la Turchia colpita da sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti.

Se l’ipotesi del movimento jihadista antibuddhista dovesse materializzarsi, essa potrebbe avviare una gigantesca  tettonica a placche sino a suggellare un’alleanza de facto tra la Cina e l’India, i due stati continenti di Asia, non musulmani, per sconfiggere l’idra islamista che si aggira intorno a loro.

Fonte: Madaniya, René Naba , 03-12-2018

LA PIATTAFORMA DEI “GILET GIALLI”, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la piattaforma rivendicativa, tradotta in italiano, del movimento dei “gilets jaunes”. Il manifesto ha tutte le caratteristiche di una sommatoria corrispondente al fondersi progressivo di istanze e movimenti diversi e giustapposti. Parlare di movimento spontaneo, però, appare un ennesimo cedimento all’inguaribile e sterile romanticismo politico. Gli impulsi dal basso sembrano, anzi sono senz’altro prorompenti e incontenibili; sono alla ricerca di una guida. L’impressione è che siano raccolti dall’iniziativa promossa da gruppi esterni all’establishment francese, sia di governo che di opposizione; al di fuori quindi del loro controllo e della loro percezione, ma che sono in via di coordinamento.Se riusciranno ad avere addentellati importanti all’interno degli apparati di sicurezza e ad accompagnare un percorso per il momento parallelo al dibattito che sta investendo, piuttosto che il Front National, la componente repubblicana dello schieramento politico, colpita duramente, anche giudizialmente, durante le primarie presidenziali di tre anni fa, ma non sgominata, potranno conquistarsi un futuro duraturo. Il pericolo di “golpe”, ventilato dal Governo di Macron, è senz’altro strumentale e pretestuoso, serve a giustificare eventuali atti di forza del nostro Iupiter a rischio di spodestamento; rivela però implicitamente l’esistenza di un movimento carsico che sta cercando la via per emergere. La proposta di nomina del Generale De Villiers, inviso a Macron, a capo del governo, apparentemente astrusa dal contesto “spontaneo” del movimento, vale forse più di mille congetture complottistiche. 

Nota a margine_ Dovesse all’attuale Governo Conte mancare la capacità, il coraggio e la determinazione per condurre in prima persona il confronto e lo scontro con la Commissione Europea e con i centri politici nazionali europei che la sostengono, abbia esso almeno l’accortezza di prendere tempo. Che siano magari gli altri, nella fattispecie aggiunta i francesi, a toglierci una parte delle castagne dal fuoco, pur con tutti i pegni che saremmo costretti a pagare in futuro in forme diverse dalle attuali_Giuseppe Germinario

ANCORA UNA NOTA_PRIMA CHE IL GALLO CANTI. di Pierluigi Fagan https://www.facebook.com/pierluigi.fagan?__tn__=%2CdC-R-R&eid=ARBMM9e7oV9qkI1KWBvzeBq-lZZ8Gy80s0DQo9D7wYTAR6sHHflqVSo70egs1TkwmK0XHDbecNppaDT1&hc_ref=ARRuj9ryOiA7Z1iXNNXNAaMldbz8f9sAEt1Ltb-btEZnaZhW6E5Zj9LKUubugXEf3yc&fref=nf Una volta tanto un commento ex ante. Sono tutti in attesa di vedere come si svolgerà il saturday bloody saturday francese. Vorrei introdurre una variabile d’analisi prima che accadano i fatti. Il filmato di ieri su gli studenti a Mantes-la-Jolie inginocchiati e con le mani in testa, è figlio di un eccesso repressivo poliziesco spontaneo o non spontaneo? Davvero ci sono responsabili delle forze dell’ordine che hanno trovato normale mettere ragazzi in ginocchio e poi farli filmare col clima che si respira nel Paese? C’è forse qualcuno in Francia che ha interesse a che oggi succeda l’ira-di-dio? C’è forse qualcuno che ha avuto interesse a far circolare voci su “tentativi di colpo di stato”, poliziotti uccisi, assalti da rivolta ottocentesca? Macron ha parecchi nemici, sociali e politici e non si può escludere che nelle forze armate ci sia qualcuno che ha interesse ad esacerbare la situazione? E’ un confine precario quello tra spontaneità ed eterodirezione, ne sappiamo ben qualcosa noi in Italia se pensiamo a gli anni ’70. Vedremo …

LE BALLE SUI “GILET GIALLI”, a cura di Giorgio Ballario https://www.facebook.com/giorgio.ballario/posts/10218026905052107

Questa è la piattaforma rivendicativa del composito movimento dei “gilets jaunes”. Una protesta dilagante che i mezzi d’informazione italiani continuano a presentare come una generica “protesta contro il rincaro di carburanti”.
Eppure, leggendo i punti del documento, si vede che c’è molto di più. Moltissimo. Poi si può essere d’accordo o no, pensare che gran parte di queste rivendicazioni siano antistoriche o poco attuabili, ma bollare il fenomeno come semplice rivolta contro il caro-carburante è estremamente miope. O forse sarebbe meglio dire colpevolmente miope?

—– —— ——

• Eliminazione del crescente fenomeno dei senzatetto con una lotta senza quartiere alla povertà.

• Più progressività nelle imposte sul reddito, vale a dire più scaglioni.

• SMIC (il salario minimo francese) a 1.300 euro netti.

• Promuovere le piccole imprese nei villaggi e nei centri urbani. Fermare la costruzione di grandi aree commerciali intorno alle principali città che uccidono le piccole imprese. Più parcheggi gratuiti nei centri urbani.

• Ampio piano di isolamento termico delle abitazioni per promuovere interventi ecologici facendo al contempo risparmiare le famiglie.

• Tasse: che i grandi (MacDonald, Google, Amazon, Carrefour, ecc.) paghino TANTO e i piccoli (artigiani, piccole imprese) poco.

• Lo stesso sistema di sicurezza sociale per tutti (compresi gli artigiani e le partite IVA). Fine della RSI (piano sociale per i lavoratori indipendenti).

• Il sistema pensionistico deve rimanere solidale e quindi socializzato. Nessun pensionamento a punti (In Francia è stata introdotta una riforma del sistema pensionistico che prevede il calcolo in base a un sistema di punti. Ogni anno l’importo dei contributi versati in relazione ad uno stipendio o ad un reddito di riferimento viene convertito in punti, a seconda del valore di acquisto unitario del punto applicabile all’esercizio in questione).

• Fine dell’aumento delle tasse sul carburante.

• Nessuna pensione inferiore a 1.200 euro.

• Qualsiasi rappresentante eletto avrà diritto al salario medio. Le spese di trasporto saranno monitorate e rimborsate se giustificate. Diritto al buono per il ristorante e ai chèque-vacances (simili ai ticket usati da noi come retribuzioni.

• I salari di tutti i francesi, nonché delle pensioni e delle indennità devono essere indicizzati all’inflazione (tipo la nostra vecchia scala mobile).

• Proteggere l’industria francese: proibire le delocalizzazioni. Proteggere il nostro settore industriale vuol dire proteggere il nostro know-how e il nostro lavoro.

• Fine del lavoro distaccato. È anormale che una persona che lavora in territorio francese non benefici dello stesso stipendio e degli stessi diritti. Chiunque sia autorizzato a lavorare in territorio francese deve essere alla pari con un cittadino francese e il suo datore di lavoro deve contribuire allo stesso livello di un datore di lavoro francese.

• Per la sicurezza del lavoro: limitare ulteriormente il numero di contratti a tempo determinato per le grandi aziende. Vogliamo più CDI (contratti a tempo indeterminato).

• Fine del CICE (Credito d’imposta per la competitività e l’occupazione). Usare questi soldi per il lancio di un’industria automobilistica francese a idrogeno (che è veramente rispettosa dell’ambiente, a differenza della macchina elettrica).

• Fine della politica di austerità. Smettiamo di rimborsare gli interessi sul debito dichiarati illegittimi e iniziamo a rimborsare il debito senza prendere i soldi dai poveri e dai meno poveri, ma perseguendo gli $80 miliardi di evasione fiscale.

• Affrontare le cause della migrazione forzata.

• I richiedenti asilo siano trattati bene. Dobbiamo loro alloggio, sicurezza, cibo e istruzione per i minori. Collaborare con l’ONU affinché i campi di accoglienza siano aperti in molti Paesi del mondo, in attesa dell’esito della domanda di asilo.

• Che i richiedenti asilo respinti siano rinviati al loro Paese di origine.

• Che sia implementata una vera politica di integrazione. Vivere in Francia significa diventare francese (corso di francese, corso di storia francese e corso di educazione civica con certificazione alla fine del corso).

• Salario massimo fissato a 15.000 euro.

• Creare lavoro per i disoccupati.

• Aumento dei fondi per i disabili.

• Limitazione degli affitti. Alloggi in affitto a costi più moderati (soprattutto per studenti e lavoratori precari).

• Divieto di vendere le proprietà appartenenti alla Francia (dighe, aeroporti, ecc.)

• Mezzi adeguati concessi al sistema giudiziario, alla polizia, alla gendarmeria e all’esercito. Che gli straordinari delle forze dell’ordine siano pagati o recuperati.

• Tutto il denaro guadagnato dai pedaggi autostradali sarà utilizzato per la manutenzione di autostrade e strade in Francia e per la sicurezza stradale.

• Poiché il prezzo del gas e dell’elettricità è aumentato in seguito alle privatizzazioni, vogliamo che siano nuovamente nazionalizzati e che i prezzi scendano in modo significativo.

• Cessazione immediata della chiusura di piccole linee di trasporto, uffici postali, scuole e degli asili nido.

• Pensare al benessere dei nostri anziani. Divieto di fare soldi sugli anziani. L’era dell’oro grigio è finita. Inizia l’era del benessere grigio.

• Massimo 25 studenti per classe dalla scuola materna alla dodicesima classe.

• Risorse adeguate destinate alla psichiatria.

• Il referendum popolare deve entrare nella Costituzione. Creare un sito leggibile ed efficace, sotto la supervisione di un organismo di controllo indipendente in cui le persone possano presentare una proposta di legge. Se questo disegno di legge ottiene 700.000 firme, questo disegno di legge dovrà essere discusso, completato e modificato dall’Assemblea Nazionale, che avrà l’obbligo (un anno dopo il giorno in cui sono state ottenute le 700.000 firme) di inviarlo al voto di tutti i francesi.

• Ritorno a un termine di 7 anni per il Presidente della Repubblica. L’elezione dei deputati a due anni dall’elezione del Presidente della Repubblica ha permesso di inviare un
segnale positivo o negativo al Presidente della Repubblica sulla sua politica. Ha aiutato a far sentire la voce della gente.

• Pensionamento a 60 anni e per tutti coloro che hanno lavorato usando il fisico (muratore o macellaio per esempio) diritto alla pensione a 55 anni.

• Un bambino di 6 anni non si mantiene solo, continuazione del sistema di aiuto PAJEMPLOI (servizio sociale dedicato all’infanzia attualmente valido fino ai 6 anni di età) fino a quando il bambino ha 10 anni.

• Promuovere il trasporto di merci su rotaia.

• Nessuna prelievo alla fonte.

• Fine delle indennità presidenziali per la vita.

• Vietare ai commercianti di pagare una tassa quando i loro clienti usano la carta di credito. Tassa sull’olio combustibile marino e sul cherosene.

[Il documento originale si trova a questo link dell’Huffington Post francese: https://www.huffingtonpost.fr/…/les-gilets-jaunes-publien…/…]

Due o tre cose delle quali sono abbastanza sicuro a proposito di “giubbotti gialli”, traduzione a cura di Giuseppe Germinario

Due o tre cose delle quali sono abbastanza sicuro a proposito di “giubbotti gialli”

Fonte: The Parisian, Laurent Mucchielli , 04-12-2018

Diversamente dalla maggior parte dei commentatori che possono essere ascoltati quotidianamente sui media, è difficile per un ricercatore parlare di un argomento che non ha esaminato. L’indagine sulle scienze sociali non ha molto a che fare con i report televisivi che possono essere visti o rivisti in pochi clic su Internet, o con il resoconto riportato qui e là dai giornalisti e che non non può assumere rappresentatività a livello nazionale, o anche a livello locale.

Piuttosto che precipitarsi ad affibbiare presunte parole sapienti su cose sconosciute, o fornire eventuali interpretazioni tutt’altro che adeguate sulle interpretazioni degli autori piuttosto che sulla realtà che sostengono di illuminare, vogliamo qui condividere solo alcune lezioni apprese dall’esperienza di un sociologo nel passato recente, lavorando su varie forme di violenza sociale e politica (incluse le rivolte), nonché sulle strategie di sicurezza (incluse le forze dell’ordine) schierate contro di loro dalle autorità pubbliche.

Rimuovi la fascinazione-ribellione-repulsione per la violenza

“Violenza” non è una categoria di analisi, né un insieme omogeneo di comportamenti. È una categoria morale. La violenza è ciò che non è buono. Pertanto, comprendiamo che lo spettacolo della violenza produce effetti di sorprendente fascinazione-repulsione che impediscono il ragionamento. In effetti, le analisi che sono generalmente sviluppate partendo da lì sono, in realtà, banali, quindi prive di interesse.

Che alcune persone siano capaci di comportamenti violenti è banale. Siamo tutti in grado di farlo in determinate circostanze. E in questo caso, le circostanze sono soddisfatte. Sono queste circostanze e non la violenza che deve essere analizzata.

Che nelle grandi manifestazioni a Parigi dei due ultimi sabati si sono infiltrati piccoli gruppi intenzionati a saldare i conti con lo Stato (i “teppisti” ) o a trarre altro vantaggio da questo disturbo alle loro tasche (saccheggiatori) è banale. Succede quasi sempre (ricordo che la legge “anti-devastatori” risale al 1970). E rimane marginale – senza offesa per coloro che vorrebbero distinguere i “buoni dimostranti” (tradurre: i bravi ragazzi) dai “cattivi manifestanti” (traducete: i cattivi). Questa divisione manichea è infantile.

In questi tipi di eventi, le circostanze sono decisive e tale manifestante altrimenti “buon padre” può trovarsi in stato di fermo per aver gettato un sanpietrino su CRS quando non era venuto a protestare per far questo Questa è la prima volta nella sua vita che gli è successo (vedi gli articoli sui profili molto diversi delle persone presentate ai tribunali di Parigi e nelle province ). Da qui l’importanza delle strategie  di polizia che saranno discusse alla fine di questo testo.

Questa concentrazione di discorso politico e giornalistico (con alcune notevoli eccezioni) sulla “violenza” è quindi un ostacolo – volontario o involontario – all’analisi della situazione. Questo è il modo per delegittimare i manifestanti a livello globale. La situazione è un classico. Lo abbiamo visto in innumerevoli occasioni in passato con le rivolte nei sobborghi. Ed è un po la stessa cosa che accade qui, con la differenza principale che i rivoltosi vengono a sfidare il potere nei bellissimi quartieri della capitale piuttosto che autodistruggersi nel loro angolo.

Iperpoliticizzazione, una prima trappola che impedisce il pensiero

Il successo del movimento dei giubbotti gialli può solo suscitare la bramosia nel mondo della competizione politica ed elettorale. Tutti questi tentativi di recuperare la rabbia espressa sono facilmente identificabili e devono essere scartati. È ovvio che la rabbia è spontanea, che è contestuale alle denunce dell’aumento del prezzo dei carburanti messe in rete e propagate nei social network da persone che non hanno, in nessun momento, agito in nome di un qualsiasi movimento politico o persino di qualsiasi ideologia.

Per le stesse ragioni, è necessario scartare i discorsi di coloro che traggono profitto da questi tentativi di recupero politico per mettere in cattiva luce il movimento. Del tipo: “i gilet gialli sono infiltrati dall’estrema destra” (o dall’estrema sinistra). Questo movimento è un movimento popolare, nel senso delle classi popolari e delle piccole classi medie che costituiscono la maggioranza della popolazione.

Che alcune delle persone che compongono i giubbotti gialli abbiano votato per Marine Le Pen o Jean-Luc Mélenchon nelle ultime elezioni presidenziali è incidentale. I più precari di loro si sono, inoltre, probabilmente piuttosto astenuti. Ricordiamo, infatti, che l’ astensione nel secondo turno nel 2017 , ha raggiunto una media del 25% – che era senza precedenti nella V °Repubblica (così come il numero di schede bianche e nulle) – ha raggiunto il 32% tra i lavoratori, il 34% tra le persone che guadagnano meno di 1 250 euro al mese e il 35% tra i disoccupati.

Seconda trappola da evitare: depoliticizzazione

Dopo la iperpoliticizzazione, la depoliticizzazione. È indubbiamente una variante dello stesso disprezzo della classe (almeno della stessa distanza sociale) che fa dire ad alcuni commentatori che i giubbotti gialli non hanno, al contrario, nessuna coscienza politica e non riescono nient’altro da dire che “L’essenza è diventata troppo costosa” (vedi in questo senso il primo studio del contenuto elettronico dei siti gialli di magliette ).

Tali giudizi, da un lato, sottovalutano l’importanza di questi cambiamenti di prezzo nella vita quotidiana di alcuni dei nostri concittadini, nonché l’importanza per loro della automobile sia per lavorare nei giorni feriali sia per camminare con la famiglia nei fine settimana. D’altra parte, ignorano l’interesse per la cosa politica che abita la maggior parte dei nostri concittadini, anche se non sempre hanno le facilitazioni linguistiche o la sicurezza necessaria per parlare davanti a una telecamera o parlare ad un incontro pubblico.

sondaggi di opinione indicano regolarmente che il problema non è la mancanza di idee politiche dei nostri concittadini, ma il crescente divario – se non l’abisso – tra le idee di competizione elettorale e il risultato politico del governo, dando alla maggioranza di questi stessi cittadini l’impressione che i politici li prendano in giro e che la democrazia non funzioni.

Il fatto che i commentatori del dibattito pubblico – eletti, giornalisti di riviste, editorialisti, “esperti” – siano quasi tutti parigini non è insignificante. Aiuta a spiegare la sottovalutazione del ruolo generale e del budget dell’auto di cui abbiamo appena parlato. Ma probabilmente spiega anche la sottovalutazione del sostegno ricevuto dal movimento dei giubbotti gialli nella popolazione. I sondaggi sono certamente chiari su questo argomento, ma il risultato di un sondaggio rimane un’informazione in sé astratta.

Per chi guida ogni giorno e, naturalmente, soffre di tutti gli ingorghi causati dalle occupazioni delle rotatorie, l’ampio supporto per i giubbotti gialli è una prova concreta che si percepisce (suonando il clacson) e si osserva (per la presenza di un giubbotto giallo posto dietro il parabrezza delle macchine, i richiami del faro e il saluto della mano dato dagli automobilisti al passaggio delle barriere). Di nuovo, come nelle rivolte , se solo una minoranza agisce, la maggioranza le approva in modo più passivo. E questa approvazione gioca un ruolo molto importante nel senso di legittimità morale sentita da chi agisce.

Prendi sul serio i cittadini, rimetti l’evento nelle strutture

La rabbia dei giubbotti gialli deve quindi essere presa sul serio. E questa non dovrebbe sorprendere. Fa parte di un’evoluzione che è sia economica (il declino o la stagnazione del potere d’acquisto) che sociale (l’allargamento delle disuguaglianze, le difficoltà degli alloggi, l’accesso all’università, la scomparsa di servizi pubblici di prossimità …), territoriali (lo smantellamento reale o presunto degli abitanti delle periferie, il peri-urbano e il rurale) e politico.

Quest’ultima (l’evoluzione politica) è duplice perché nello stesso tempo consiste nel crescente discredito delle élite (sia politiche che giornalistiche del resto) che nella crisi dell’offerta politica che ha portato, nel 2017, ad un parossismo tale che forse non abbiamo pensato abbastanza alle conseguenze.

Che Emmanuel Macron sia stato eletto di default o da una combinazione di circostanze è la prova che la sua messa in scena di un presidenzialismo esacerbato lo rende solo più grottesco e fastidioso. Ma, di passaggio, le formazioni politiche classiche di sinistra e di destra sembrano essersi affondate durevolmente e con esse parte della loro unione e dei loro collegamenti associativi. Quindi la distanza è massima tra, da un lato un potere politico percepito come appropriazione delle istituzioni da parte di una piccola élite parigina di tecnocrati e rentiers del mondo economico e finanziario e dall’altro un “popolo” o una “base” colta più che mai senza organismi intermedi e senza mediazione con questo potere politico.

Il disordine dei funzionari locali eletti – che si esprime in particolare nelle loro conferenze annuali – è in questo senso rivelatore e inquietante. È passato troppo lontano e inosservato o è stato troppo rapidamente ridotto a semplici problemi fiscali. Che un sindaco su due dichiari di essere esaurito e non intenda correre di nuovo nelle prossime elezioni municipali, nel 2020, è un fatto che può essere preso anche come segnale di allarme.

Per placare la rabbia piuttosto che esacerbarla

In un tale contesto, le cose sembrano meno cercare di calmare la rabbia piuttosto che esacerbarla. E da questo punto di vista, anche se le informazioni che possono essere raccolte su questo argomento sono parziali, due cose sembrano ancora abbastanza chiare.

Il primo è che il potere politico farebbe bene a dare alle proprie forze di polizia la stessa strategia di istruzioni di chiara moderazione e de-escalation  data alle forze locali, polizia e gendarmeria attraverso prefetture. Il contrasto è infatti sorprendente tra inerzia o la relativa benevolenza della polizia e gendarmi sulle rotatorie delle nostre città e dei villaggi, da un lato, e quello che è successo negli ultimi due sabati a Parigi.

Comprendiamoci bene: che la situazione sia particolarmente complicata per la polizia di Parigi è ovvia. Hanno poche informazioni a monte, devono gestire moltitudini di piccoli e diversi gruppi in parte imprevedibili, intervenire sulle zone occidentali di Parigi che non sono i soliti luoghi delle manifestazioni; giustamente temono l’infiltrazione di “picchiatori” e saccheggiatori … Ma è la risposta giusta sparare per primi?

Molti rapporti di giubbotti gialli riportano che lo scorso sabato a Parigi sono stati attaccati con gas lacrimogeni dagli ufficiali di polizia nelle prime ore del mattino, anche quando andavano tranquillamente ai punti di raccolta autorizzati dalla prefettura di polizia. Questo si chiama provocazione. E il risultato è necessariamente rendere questi manifestanti ancora più arrabbiati, per non dire in preda alla rabbia.

Qual è la strategia? Tenersi a distanza o la provocazione? La conduzione o la trappola? Controllo o carica? Vorremmo sapere, piuttosto che ascoltare semplicemente i giornalisti, trasmettere la fatica e la sofferenza (comprensibile) della polizia. Come al solito, conosciamo il numero di feriti tra la polizia, ma ci concentriamo molto meno su quello dei manifestanti (che non hanno un sindacato che possa elencare esaustivamente).

Eppure il numero di granate sparate è apparentemente inedito ( 14.000 in un giorno secondo AFP ), e notare che il CRS e gendarmi continuano a fare ampio uso di armi da fuoco Flash-ball e altri lanciatori di proiettili di gomma la cui pericolosità e, in definitiva inutilità sono riconosciuti non solo da parte degli scienziati, ma anche – per molti anni – dal Difensore dei diritti (il quale ha chiaramente chiesto di porre fine al loro impiego in tutti gli eventi ) e persino dall’Ispettorato generale della polizia nazionale (IGPN, nella sua relazione del 2015 ).

Sabato 1 ° dicembre è possibile che, travolti il precedente Sabato, CRS e gendarmi abbiano voluto invece dare una dimostrazione di forza. Se tale direttiva fosse stata data politicamente, sarebbe un errore. E se tale direttiva non fosse stata data politicamente, allora ci si chiede chi è a capo della polizia?

Infine, una seconda cosa sembra abbastanza chiara; il potere politico non deve aspettarsi (speranza?) un peggioramento della situazione per fare l’unica cosa che porterà pace e permettergli di riprendere in mano la situazione e preparare in seguito più serenamente la transizione ecologica essenziale (che è, purtroppo, più di due mesi quasi): dare ragione evidente ai giubbotti gialli sulle loro richieste immediate sul potere d’acquisto.

L’assenza di interlocutori organizzati non può essere una scusa e l’annuncio di future consultazioni non può che essere inudibile. Emmanuel Macron ha consapevolmente personalizzato il suo potere; è forse il momento per lui di assumerlo fino alla fine facendo un vero mea culpa sulla sua politica economica e sociale.

Fonte: The Parisian, Laurent Mucchielli , 04-12-2018

In memoria di George HW Bush, a cura di Giuseppe Germinario

A modo nostro commemoriamo la scomparsa di George HW Bush, già Presidente degli Stati Uniti d’America, nel momento di massimo fulgore di quella potenza_Giuseppe Germinario

George HW Bush, la CIA e un caso di terrorismo di stato

Di Robert Parry (Originariamente pubblicato il 23 settembre 2000)

All’inizio dell’autunno del 1976, dopo che uno scherano del governo cileno aveva ucciso un dissidente cileno e una donna americana con un’autobomba a Washington, la CIA di George HW Bush redasse un falso rapporto che liberava da ogni responsabilità la dittatura militare del Cile e indirizzava le indagini dell’FBI nella direzione sbagliata.

La falsa valutazione della CIA, diffusa attraverso la rivista Newsweek e altri organi di informazione statunitensi, è stata propinata nonostante la consapevolezza da parte della CIA della partecipazione del Cile all’operazione Condor, una campagna transfrontaliera rivolta contro i dissidenti politici e gli stessi sospetti della CIA sul fatto che la giunta cilena fosse dietro l’attentato terroristico a Washington.

Poi, il vicepresidente George HW Bush in un incontro alla Casa Bianca il 12 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

Poi, il vicepresidente George HW Bush in un incontro alla Casa Bianca il 12 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In un rapporto di 21 pagine presentato al Congresso il 18 settembre 2000, la CIA ha riconosciuto ufficialmente per la prima volta che la mente dell’attentato terroristico, il capo dell’intelligence cileno Manuel Contreras, era una risorsa pagata della CIA.

Il rapporto della CIA è stato rilasciato quasi 24 anni dopo l’omicidio dell’ex diplomatico cileno Orlando Letelier e del collaboratore americano Ronni Moffitt, che è morto il 21 settembre 1976, quando una bomba telecomandata ha squarciato l’auto di Letelier mentre guidavano lungo la Massachusetts Avenue, una arteria maestosa di Washington nota come Embassy Row.

Nel rapporto, la CIA ha anche riconosciuto pubblicamente per la prima volta che consultò Contreras nell’ottobre del 1976 sull’omicidio di Letelier. Il rapporto ha aggiunto che la CIA era a conoscenza del presunto ruolo del governo cileno negli omicidi e ha incluso quel sospetto in un canale informativo interno lo stesso mese.

“Il primo rapporto dell’intelligence contenente questa accusa era datato 6 ottobre 1976,” poco più di due settimane dopo l’attentato” secondo le rivelazioni della CIA.

Ciononostante, la CIA – allora sotto la guida del direttore George HW Bush – fece filtrare ad uso pubblico una valutazione che cancellava la responsabilità del temuto servizio di intelligence del governo cileno, DINA, allora gestito da Contreras.

Basandosi sulla parola della CIA di Bush, Newsweek ha riferito che “la polizia segreta cilena non era coinvolta” nell’assassinio di Letelier. “L’agenzia [dell’intelligence centrale] ha motivato la sua decisione con il fatto che la bomba era troppo rudimentale per essere opera di esperti e perché l’omicidio, mentre i governanti del Cile corteggiavano il sostegno degli Stati Uniti, poteva solo danneggiare il regime di Santiago.” [ Newsweek , 11 ottobre , 1976]

Bush, che in seguito divenne il 41 ° presidente degli Stati Uniti (ed è il padre del 43 ° presidente), non ha mai spiegato il suo ruolo nel depistaggio della storia della falsa copertura servita a deviare l’attenzione dai veri terroristi. Né Bush ha spiegato quello che sapeva sull’operazione di intelligence cilena nelle settimane precedenti alla morte di Letelier e Moffitt.

Schivare la divulgazione

Come corrispondente di Newsweek nel 1988, una dozzina di anni dopo l’attentato di Letelier, quando l’anziano Bush era candidato alla presidenza, preparai una storia dettagliata sulla gestione del caso Letelier da parte di Bush.

La bozza di storia includeva il primo resoconto da fonti di intelligence statunitensi che qualificava   Contreras come una risorsa della CIA a metà degli anni ’70. Ho anche appreso che la CIA aveva consultato Contreras sull’assassinio del Letelier, informazioni che la CIA non avrebbe poi confermato.

Le fonti mi hanno rivelato che la CIA ha inviato il suo capo della stazione di Santiago, Wiley Gilstrap, per parlare con Contreras dopo l’attentato. Gilstrap quindi tornò al quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, assicurando a Contreras che il governo cileno non era coinvolto. Contreras disse a Gilstrap che i killer più probabili erano i comunisti che volevano fare di Letelier un martire.

Il diplomatico cileno Orlando Letelier, che è stato assassinato insieme al collega Ronni Moffitt, quando i terroristi di destra hanno fatto esplodere la sua auto a Washington, DC

Il diplomatico cileno Orlando Letelier, assassinato insieme al collega Ronni Moffitt, quando i terroristi di destra hanno fatto esplodere la sua auto a Washington, DC, il 21 settembre 1976.

La mia narrazione descriveva anche come la CIA di Bush fosse stata preavvisata nel 1976 sui piani segreti di DINA di inviare agenti, incluso l’assassino Michael Townley, negli Stati Uniti con passaporti falsi.

Dopo aver appreso di questa strana missione, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Paraguay, George Landau, telegrafava a Bush asserendo dal Cile che Townley e un altro agente stavano viaggiando verso la sede della CIA per un incontro con il deputato di Bush, Vernon Walters. Landau inoltrò anche copie dei passaporti falsi alla CIA.

Walters rispose che non era a conoscenza di un appuntamento programmato con questi agenti cileni. Landau annullò immediatamente i visti, ma Townley cambiò semplicemente i suoi piani e proseguì per andare negli Stati Uniti. Dopo essere arrivato, ha arruolato alcuni cubani-americani di destra nella trama di Letelier e si è recato a Washington per piazzare la bomba sotto la macchina di Letelier.

La CIA non ha mai spiegato quale azione aveva intrapreso, se del caso, dopo aver ricevuto l’avvertimento di Landau. Un seguito naturale sarebbe stato contattare DINA e chiedere cosa fosse in corso o se un messaggio sul viaggio fosse stato indirizzato male. Il rapporto della CIA nel 2000 non menzionava questi aspetti del caso.

Dopo l’assassinio, Bush promise la piena collaborazione della CIA nel rintracciare gli assassini di Letelier-Moffitt. La CIA invece intraprese azioni contrarie, come piazzare il falso esonero e nascondere le prove che avrebbero compromesso la giunta cilena.

“Nulla di ciò che l’agenzia ci ha dato ci ha aiutato a risolvere questo caso”, ha detto il procuratore federale Eugene Propper in un’intervista del 1988 per la storia che stavo preparando per Newsweek . La CIA non offrì mai il cablo dell’ambasciatore Landau sulla sospetta missione di DINA né copie dei passaporti falsi che includevano una foto di Townley, l’assassino principale. Né la CIA di Bush ha divulgato la sua conoscenza dell’esistenza dell’operazione Condor.

Gli agenti dell’FBI a Washington e in America Latina hanno risolto il caso due anni dopo. Scoprirono l’Operazione Condor da soli e rintracciarono l’assassino Townley e i suoi complici negli Stati Uniti.

Nel 1988, quando l’allora vicepresidente Bush stava citando il suo lavoro della CIA come una parte importante della sua esperienza governativa, gli sottoposi alcune domande sulle sue azioni nei giorni precedenti e successivi al bombardamento di Letelier. Il capo dello staff di Bush, Craig Fuller, ha risposto, dicendo che Bush “non fornirà commenti sulle questioni specifiche sollevate nella sua lettera”.

Come si è scoperto, la campagna di Bush aveva poco da temere dalle mie scoperte. Quando ho presentato il mio progetto di ricostruzione – con il suo account esclusivo del ruolo di Contreras come risorsa della CIA – gli editori di Newsweek si sono rifiutati di pubblicare la storia. Il capo dell’ufficio di Washington, Evan Thomas, mi ha detto che l’editore Maynard Parker mi aveva persino accusato di essere “in procinto di cacciare Bush”.

L’ammissione della CIA

Ventiquattro anni dopo l’assassinio di Letelier e dodici anni dopo che Newsweek aveva stroncato il primo resoconto del rapporto Contreras-CIA, la CIA ha ammesso di aver pagato Contreras come risorsa di intelligence e di aver consultato l’assassino di Letelier.

Tuttavia, nella relazione abbozzata del 2000, l’agenzia di spionaggio ha cercato di raffigurarsi come vittima piuttosto che complice. Secondo il rapporto, la CIA era critica rispetto all’accusa degli abusi di violazione dei diritti umani di Contreras e scettica sulla sua credibilità. La CIA ha detto che il suo scetticismo precede il contatto dell’agenzia di spionaggio con lui sugli omicidi di Letelier-Moffitt.

Poi - Vice Presidente George HW Bush con il direttore della CIA William Casey alla Casa Bianca l'11 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

Poi – Vice Presidente George HW Bush con il direttore della CIA William Casey alla Casa Bianca l’11 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

“La relazione, anche se corretta, non è stata cordiale e serena, soprattutto perché è emersa l’evidenza del ruolo di Contreras negli abusi dei diritti umani”, ha riferito la CIA. “Nel dicembre 1974, la CIA concluse che Contreras non avrebbe migliorato le sue prestazioni in materia di diritti umani. …

“Nell’aprile del 1975, i rapporti di intelligence mostravano che era il principale ostacolo a una ragionevole politica sui diritti umani all’interno della Junta, ma un comitato di agenzie [all’interno dell’amministrazione Ford] aveva ordinato alla CIA di proseguire la sua relazione con Contreras”.

Il rapporto della CIA ha aggiunto che “un pagamento una tantum è stato dato a Contreras” nel 1975, un periodo in cui la CIA aveva sentito parlare dell’operazione Condor, un programma transfrontaliero gestito dalle dittature militari del Sud America per dare la caccia ai dissidenti rifugiati in altri paesi.

“La CIA cercò da Contreras informazioni sulle prove emerse nel 1975 da uno sforzo dell’intelligence cooperativa Southern Cone -” Operazione Condor “- basato sulla cooperazione informale nel tracciare e, almeno in alcuni casi, uccidere gli oppositori politici. Nell’ottobre 1976, vi erano sufficienti informazioni che la CIA aveva deciso di rivolgersi a Contreras in merito. Contreras ha confermato l’esistenza di Condor come rete di condivisione dell’intelligence, ma ha negato di avere un ruolo nelle uccisioni extra-giudiziarie “.

Inoltre, nell’ottobre del 1976, la CIA disse che “elaborò” come avrebbe aiutato l’FBI nelle sue indagini sull’assassinio di Letelier, avvenuto il mese precedente. La relazione dell’agenzia di spionaggio non ha tuttavia fornito dettagli su ciò che ha fatto. Il rapporto aggiunse solo che Contreras era già tra i sospettati di omicidio nell’autunno del 1976.

“A quel tempo, il possibile ruolo di Contreras nell’assassinio di Letelier è diventato un problema”, ha affermato il rapporto della CIA. “Alla fine del 1976, i contatti con Contreras erano molto rari.”

Anche se la CIA ha riconosciuto la probabilità che DINA fosse dietro l’assassinio di Letelier, non c’è mai stato alcun indizio che la CIA di Bush abbia cercato di correggere la falsa impressione creata dalle sue fughe sui media attraverso le quali confermava l’innocenza di DINA.

Dopo che Bush lasciò la CIA con l’insediamento di Jimmy Carter nel 1977, l’agenzia di spionaggio prese le distanze da Contreras, secondo il nuovo rapporto. “Durante il 1977, la CIA incontrò Contreras circa una mezza dozzina di volte; tre di questi contatti hanno richiesto informazioni sull’assassinio di Letelier “, ha dichiarato il rapporto della CIA.

“Il 3 novembre 1977, Contreras è stata trasferito a una funzione estranea all’intelligence, quindi la CIA ha interrotto tutti i contatti con lui”, ha aggiunto il rapporto. “Dopo una breve resistenza per mantenere il potere, Contreras si è dimesso dall’esercito nel 1978. Nel frattempo, la CIA ha raccolto informazioni dettagliate e dettagliate sul coinvolgimento di Contreras nell’ordinare l’assassinio di Letelier”.

Misteri rimanenti

Sebbene il rapporto della CIA nel 2000 contenesse la prima ammissione ufficiale di una relazione con Contreras, non fece luce sulle azioni di Bush e del suo vice, Walters, nei giorni precedenti e successivi all’assassinio del Letelier. Inoltre, non ha offerto alcuna spiegazione sul perché la CIA di Bush avesse diffuso false informazioni sulla stampa americana cancellando le responsabilità della dittatura militare del Cile.

Mentre forniva il riassunto di 21 pagine sul suo rapporto con la dittatura militare del Cile, la CIA rifiutò di rilasciare documenti di un quarto di secolo prima con la motivazione che le rivelazioni avrebbero potuto mettere a repentaglio le “fonti e metodi” della CIA in contrasto con l’ordine specifico di Bill Clinton di rilasciare quante più informazioni possibili.

Forse la CIA stava giocando sul tempo. Con il quartier generale della CIA ufficialmente chiamato George Bush Center for Intelligence e con i veterani degli anni Reagan-Bush che ancora dominavano la gerarchia della CIA, l’agenzia di spionaggio avrebbe potuto sperare che l’elezione del governatore del Texas George W. Bush lo avrebbe liberato dalle richieste di apertura dei report al popolo americano.

Da parte sua, l’ex presidente George HW Bush dichiarò la sua intenzione di assumere un ruolo più attivo nella campagna elettorale per l’elezione di suo figlio. In Florida, il 22 settembre 2000, Bush ha detto di essere “assolutamente convinto” che se suo figlio sarà eletto presidente, “ristabiliremo il rispetto, l’onore e la decenza che la Casa Bianca merita”.

Il giornalista investigativo Robert Parry ha indagato molte delle storie Iran-Contra per l’Associated Press e Newsweek negli anni ’80. Puoi comprare il suo ultimo libro, America’s Stolen Narrative, o in  stampa qui  o come e-book (da  Amazon  e  barnesandnoble.com ).

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