L’impossibile ritorno al passato, con Gianfranco Campa

Più che un ritorno al passato, le velleità restauratrici di una classe dirigente americana assediata e senza bussola. Più che ordine, confusione dove i colpi di mano disordinati dei vari centri di potere sembrano prevalere su ogni disegno. Man mano che Biden esibisce i propri campioni destinati ad occupare le caselle fondamentali del proprio staff, diventa evidente la fonte di ispirazione del suo mandato. Il problema sarà nella capacità di sintesi di quegli interessi e di quelle ambizioni_Giuseppe Germinario

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Conte 2 e 1/2…quasi 3, di Giuseppe Germinario

Ad un Matteo che langue e che rischia di fermarsi sulla soglia del traguardo o tuttalpiù di giungere alla meta vincitore, ma spossato, da alcuni anni nello scenario politico italiano si avvicenda un altro Matteo pronto a risorgere improvvisamente dalle ceneri. Entrambi amano l’azzardo e il colpo di scena, in particolare l’abbandono ostentato del palcoscenico.

Matteo I soprattutto perché è un istintivo. Diciotto mesi fa ha abbandonato la scialuppa di Giuseppi, sicuro di poter raccogliere a giorni il frutto elettorale della sua azione politica e fiducioso delle rassicurazioni del suo alter ego, Matteo II. Mal gliene incolse. Aveva sottovalutato la spregiudicatezza del suo clone e il trasformismo ecumenico e senza patemi e remore di Giuseppe Conte. Tutto sommato, però, gli è andata bene. Ha potuto conservare ancora per tempo in un unico consesso le due anime poco armoniche che ormai costituiscono il suo partito eludendo quelle scelte obbligate e dirimenti che di lì a poco la contingenza politica lo avrebbe costretto a prendere; le due anime essendo quella storica, localistica, fornita di radici territoriali e sociali ben delimitate e di una classe dirigente con una qualche esperienza amministrativa; quella nazionale tanto appariscente e conclamata, quanto priva di contenuti solidi e di portatori all’altezza della situazione sino a rischiare di scivolare ripetutamente nell’effimero.

Matteo II soprattutto perché è un beffardo. Il suo azzardo è molto più calcolato e cinico, ma non sufficientemente mimetizzato; ostentato, al contrario, attraverso la sua insopprimibile e compiaciuta fisiognomica. Una caratteristica che lo ha costretto dalle stelle alle stalle in una parabola strettissima e fulminante di appena quattro anni. Il suo è sembrato un epilogo dal sapore definitivo, corroborato dallo scarso proselitismo ottenuto dalla scelta di abbandonare il PD. La scelta di abbandonare la compagine governativa di Giuseppe II senza determinarne la rumorosa caduta è parso ai più come il classico salto della chimera, tanto effimero da far ripiombare nel giro di poche ore il nostro nell’anonimato. E i più hanno avvallato la tesi di una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi, confortati tanto più dai sondaggi impietosi ai danni di Italia Viva.

A ben vedere la similitudine potrebbe però indurre ad un giudizio troppo frettoloso.

La scelta di abbandonare i tre ministeri si è compiuta dopo almeno sette mesi di confronto interno al Governo la cui virulenza è stata percepita solo grazie ai continui rinvii ai quali ci ha adusi il buon Giuseppe. L’argomentazione della scelta è stata per altro particolarmente articolata e scandita da frequenti preavvisi, senza la sicumera e l’arroganza manifestata dal protagonista durante le altrettanto rapide ascesa e caduta di quattro anni fa. Una volta registrata la chiusura di Giuseppe Conte ad una riapertura del confronto, la scelta dell’astensione è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dovuta alla scarsa compattezza del gruppo parlamentare; una ragione dal peso piuttosto relativo rispetto al vantaggio offerto da una tattica di logoramento degli schieramenti e dei partiti la quale richiede tempi più appropriati.

Matteo Renzi ha messo in conto la possibile perdita di una parte del suo gruppo parlamentare esterno allo zoccolo duro dei fedeli. Matteo Renzi sa benissimo che per almeno ancora qualche anno ha scarsissime possibilità di conseguire un qualche incarico da Presidente, da ministro o da capo di partito grazie alla sua rovinosa caduta ancora troppo recente e all’impopolarità della quale è vittima. Ha al suo attivo la possibilità e l’obbligo di ricambiare il favore e il riconoscimento esclusivo di una cena offerta in suo onore alla Casa Bianca da quello stesso establishment che ha appena ripreso il sopravvento negli Stati Uniti. Può puntare quindi ad incarichi di apparato di alto livello e di prestigio e puntare o prestarsi a condurre o essere compartecipe nel frattempo di strategie di medio periodo senza l’ossessione della difesa quotidiana delle posizioni di potere.

L’obbiettivo di fondo di Renzi è quello di promuovere e pervenire al dissolvimento finale del M5S e ad una scomposizione e ricomposizione delle restanti forze politiche, ad eccezione probabilmente di Fratelli d’Italia, tale da creare da una parte una forza politica dichiaratamente, apertamente e coerentemente europeista nella sua attuale configurazione e nel suo attuale indirizzo politico, ossequiosa alla NATO con un blocco sociale composto dalle forze più integrate ed efficentiste in esse e corroborate dalla forza d’urto e di consenso di gran parte del terzo settore contrapposta eventualmente a forze sterilmente protestatarie; componente quest’ultima, della cui formazione non può ovviamente farsi carico.

Da questo punto di vista la forza degli argomenti da lui esibiti nel criticare l’azione di governo è tutta dalla sua parte. I sessantadue punti correttivi del Recovery Fund https://www.italiaviva.it/le_62_considerazioni_di_italia_viva_sulla_proposta_italiana_per_il_recovery_fund da lui presentati sono senz’altro un notevole passo avanti dal punto di vista dell’efficacia intrinseca dell’intervento rispetto all’ipotesi originaria ufficiosa fatta circolare da Conte; è però una efficacia tutta interna alla logica delle politiche comunitarie così come illustrate in almeno un paio di articoli su questo blog. http://italiaeilmondo.com/2020/12/31/tre-piani-a-confronto-e-il-bluff-di-giuseppe-germinario/Una logica che non garantisce assolutamente una politica economica ed industriale tale da garantire autonomia e peso strategico al paese; http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ che è propedeutica ad un ulteriore pedissequo allineamento alle future scelte interventiste della nuova amministrazione americana condotte con la copertura del multilateralismo, della difesa dei diritti umani, del catastrofismo ambientalista e della cooperazione internazionale attraverso il sistema di alleanze rinvigorito dopo quattro anni di condotte alterne.

Su questo Renzi ha buon gioco nell’asfaltare Giuseppe Conte; come ha buon gioco nell’accusarlo apertamente di essere del tutto inadeguato a svolgere il proprio compito di Capo di Governo.

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha fatto di tutto per confortare l’azione di Matteo II.

La qualità penosa dei suoi quattro interventi alla Camera e al Senato di lunedì e martedì, conditi con il suo patetico appello finale culminato con il pietoso grido di angoscia “aiutateci”, non ha fatto che rinforzare questo suo giudizio. Un giudizio già suffragato dalla evidente carenza di capacità programmatica e dalla incapacità di controllo e indirizzo della macchina amministrativa; un limite quest’ultimo, per la verità caratteristico di gran parte delle compagini governative succedutesi. Interventi, quindi che hanno evidenziato la sua totale incapacità di indirizzo ed autorevolezza che potesse giustificare e coprire in qualche maniere le nefandezze in corso per raggiungere entro poche settimane una incerta maggioranza assoluta; la sua ingenuità e il suo provincialismo nel prestarsi ostentatamente ad operazioni di sottogoverno; l’inesistenza e l’insulsaggine della principale forza politica, il M5S, ormai principale responsabile della condizione di paralisi ed inadeguatezza politica. Un atteggiamento tipico, ben coltivato negli ambienti più gretti della curia romana della quale è espressione il nostro avvocato del popolo.

L’obbiettivo di fondo della residua compagine di governo, impersonata da Conte, in realtà non è sostanzialmente diverso da quello dichiarato da Renzi.

Cambia nella qualità di presentazione, più abborracciata, e nella credibilità del protagonista ormai avvitato nella terza operazione trasformistica della sua breve ma intensa carriera di Capo di Governo dallo scarso pedigree e dalla “inesistente gavetta”; cambia nei tempi più lunghi richiesti dal processo di trasformazione e di assorbimento, eventualmente sotto altre spoglie, del M5S nell’alveo conformista; cambia nell’entità dei costi richiesti in termini di assistenzialismo e di dispendio insensato di risorse da tale politica trasformista; cambia nell’entità dei rischi di contaminazione che il PD corre, nel suo impegno di traghettamento del M5S, grazie all’immagine scialba di figure della levatura di Gualtieri, Orlando e Zingaretti e al bagaglio culturale del loro mentore Bettini.

L’uno, Matteo II, foriero quindi di una esibizione aperta di obbiettivi capace magari inizialmente di mobilitare ed accelerare le scelte, salvo poi esibire rapidamente la vacuità dei vantaggi che queste scelte così allineate possono offrire ad un blocco sociale sufficientemente coeso ed esteso che possa garantire la sopravvivenza sia pure ulteriormente subordinata del paese.

L’altro, Giuseppi 2 e ½..quasi 3, più attendista e mimetizzato, probabilmente anche più annebbiato nel perseguimento delle stesse scelte di fondo ma più spalleggiato nei corridoi.

L’uno alfiere, paladino e combattente in tutto simile ai patrioti, o presunti tali, della disfida di Barletta, i quali per difendere l’onore degli italiani contro gli spagnoli non trovano di meglio che assumere armi e difesa al soldo dei francesi.

L’altro impegnato, con la complicità di élites sempre più compiacenti ed un relativo favore popolare masochistico, nel predisporre e trasformare ulteriormente in un acquitrino, in una palude un territorio ormai sempre più ben disposto alle incursioni e ai saccheggi.

A noi la scelta in una battaglia talmente feroce da nascondere probabilmente una posta in palio ben più rilevante sotto la pressione di fazioni che vanno al di là dei confini europei e attraversano l’Atlantico. Quando l’oggetto del contendere arriva ad investire apertamente i servizi di intelligence vuol dire che ci si sta avvicinando ad un livello di scontro simile a quello statunitense, con qualche vena parodistica in più ma con un desiderio di regolare i conti per interposta persona analogo. Su questo ha ragione a chiedere lumi il senatore Adolfo d’Urso, voce nel deserto.

Chissà se alla fine la tenzone tra i due si potrà concludere su chi dovrà offrire all’osteria. Possibile, ma poco probabile.

Russia: la geopolitica dell’energia _ Di Cédric Tellenne

La Russia è il secondo attore di rilievo nella geopolitica globale dell’energia: accumula le riserve di energie diverse con un potenziale totale maggiore di quello della zona Medio Oriente-Golfo e la utilizza come leva di influenza globale.


 

Dopo decenni di abbandono e saccheggi organizzati durante il periodo di Mikhail Gorbachev e Boris Eltsin , che hanno lasciato incruento il settore energetico, è Vladimir Putin che lo prende in mano per, in un primo passo, raddrizzarlo, con la rinazionalizzazione di Gazprom e Rosneft, ma anche per mettere in riga gli oligarchi (Mikhail Khodorkovsky) e usarla come fonte di arricchimento e leva di influenza in Eurasia e nel mondo. Negli anni 2010 la seconda, più delicata fase dovrebbe portare all’internazionalizzazione delle compagnie russe, con padronanza delle rotte continentali (tube) e molteplici accordi bilaterali e multilaterali.

La cornucopia russa e i suoi limiti  (1)

L’80% delle esportazioni del Paese è fornito da tre combustibili fossili: petrolio (62,5%), gas (14,5%) e carbone (3%). Per il petrolio, la Russia ha riserve accertate dell’ordine del 6% del totale mondiale, forse un po’ sopravvalutate; comunque sono un “segreto di stato” secondo un recente decreto presidenziale. Quello che è certo è che la Russia è il terzo produttore mondiale dopo Stati Uniti e Arabia Saudita. Con il gas è il primo per le riserve (20%), per la produzione e per l’export. Inoltre, avrebbe notevoli riserve di petrolio e gas di scisto (qualificati dalla formazione Bazhenov nella Siberia occidentale).

Questa è la sua forza, ma è anche una potenziale fonte di debolezza: a $ 75, la Russia è ricca; a $ 30, come è avvenuto durante la crisi globale, è indebolito. Inoltre, cerca di pesare con tutto il suo peso sui mercati mondiali: da un accordo del 2016, rinnovato nel 2018, è associato all’Arabia Saudita e all’OPEC, oltre a una dozzina di NOPEP ( non OPEC), per limitare la loro produzione di petrolio al fine di sostenere il prezzo di un barile sul mercato del petrolio. Una clausola non ufficiale nell’accordo difende l’attuale livello di produzione iraniana, quindi contro lo spirito generale del testo, per sostenere il regime dei mullah e mantenere le amicizie russe, a scapito degli interessi sauditi.

Oltre alle produzioni russe, ci sono quelle delle ex repubbliche dell’Asia centrale, come il Kazakistan, partner essenziale della Russia nella Shanghai Cooperation Organization, e dell’Unione eurasiatica. Nel Caucaso, l’Azerbaigian del clan Aliev, che trae le sue risorse anche dal Mar Caspio, conta come un partner abbastanza affidabile dell’Occidente.

Leggi anche:  L’Unione può riconnettersi con la Russia?

Controllo statale

Per il petrolio, lo stato russo controlla quasi il 50% della produzione con i giganti Rosneft e Gazpromneft . Forgia partnership straniere, perché la prospezione è stata a lungo insufficiente, e lo stesso per la manutenzione delle infrastrutture: si trattava per lo più di partnership occidentali fino al 2014 (Total, Exxon). Dal 2014, con la vicenda Ucraina e le sanzioni occidentali, hanno acquisito importanza i partner cinese e indiano, con quest’ultimo ad esempio lo sfruttamento dei giacimenti di Vankor dal 2016 (nella Siberia occidentale).

Per quanto riguarda il gas, la nuova El Dorado russa con le principali risorse mondiali, l’unica società pubblica Gazprom (stato di maggioranza al 50% + 1) genera il 75% delle esportazioni del Paese. È la più grande azienda di gas del mondo, controlla il 20% delle riserve totali di gas. Ci sono altre società esportatrici private come Novatek, il principale attore russo nell’Artico (GNL), mentre Gazprom si sta concentrando su altri progetti come i gasdotti: Force dalla Siberia alla Cina, North Stream II nel Baltico, Turkish Stream, Poseïdon nell’Adriatico. I giacimenti giganti sono sfruttati nella Siberia nord-occidentale, ma anche il deposito di Yamal-Kara-Barents o quello di Sakhalin. Le imprese straniere collaborano con la Russia, come con il petrolio: Total è partner di Novatek a Yamal, in associazione con cinesi e sudcoreani che forniscono attrezzature.

La Russia vende anche carbone (principalmente ai paesi in Europa e Asia), centrali nucleari e combustibili (Rosatom), energia idroelettrica.

Un’arma politica

Il Cremlino utilizza l’energia come mezzo di pressione sul suo ambiente circostante, come dimostrato dall’affare ucraino del gas nel gennaio 2006 che porta ad un aumento dei prezzi di consegna a questo paese, una minaccia usata anche contro la Moldova e il Regno Unito. Georgia, persino Bielorussia. È la minaccia costante delle “guerre del gas”. Potrebbe mettere l’Europa in una posizione di dipendenza, che già trae circa il 25% del suo petrolio e il 40% del gas dalla Russia. Per ora è Vladimir Putinche si lamenta dell’aggressività dell’Europa, perché questa pone la Russia sotto un regime di sanzioni internazionali e rifiuta l’espansione di Gazprom, come dimostra il blocco dell’acquisizione dell’azienda britannica Centrica. La Russia fornisce idrocarburi anche a Cina e Giappone, cercando di diventare un fornitore chiave.

Si sviluppa così una vera e propria “geopolitica dei tubi”: gasdotti North Stream I inaugurati nel 2011 (sotto il Baltico, verso la Germania, con EON e GDF-Suez), South Stream (abbandonato nel 2014) e sostituito da Turk Stream, da Dalla Russia alla Turchia poi alla Grecia, progetto White Stream II da Baku alla Romania attraverso la Georgia, condutture dalla Siberia orientale a est. Più lontano, l’Africa è anche nel mirino dei russi: ad esempio, Gazprom e Sonatrach hanno stabilito un’alleanza nel 2006, in seguito a un viaggio di Vladimir Poutine ad Algeri. In questa occasione, l’Algeria ha ordinato massicciamente armi russe.

La Russia non ha tutte le carte in mano

È prima di tutto un problema di investimenti  : Gazprom non investe abbastanza e la sua produzione non aumenta al ritmo della domanda, le infrastrutture di trasporto sono vecchie. Così il giacimento di Chtokman, nel mare di Barents, che doveva essere il più grande del mondo, viene scomposto perché richiede ingenti investimenti, il suo sfruttamento viene costantemente rimandato. Questo è il motivo per cui Mosca sta forgiando molte partnership internazionali, anche con occidentali (Total in Yamal). Allo stesso tempo c’è un problema di finanziamento, a causa dell’embargo: non puoi nemmeno fare transazioni in dollari.

È quindi un problema di cooperazione internazionale: se la Russia ora arriva a un’intesa con l’OPEC, un cartello del gas del genere è improbabile (“gas OPEC” è un vecchio serpente marino) e la Russia potrebbe essere influenzato dalle esportazioni pianificate di gas di scisto dagli Stati Uniti.

È anche una questione di equilibrio di potere: l’Europa sta cercando di reagire per evitare un’eccessiva dipendenza dalla Russia (con oleodotti dal Caspio attraverso la Turchia). Altri paesi stanno cercando di sfuggire alle strade russe, come il Turkmenistan che inizia ad esportare gas in India e Pakistan attraverso l’Afghanistan (accordo del 2012).

Par ailleurs, la Russie dépend de l’Europe autant que cette dernière dépend d’elle. Il lui faut exporter son gaz et avoir un client principal est un facteur de faiblesse ; en 2015 80 % de ses exportations de gaz se faisaient vers l’ouest. C’est pourquoi elle se tourne vers l’Asie, et en particulier la Chine. Comme l’expliquait Poutine, un gazoduc a deux extrémités.

 

  1. La solita formula della “cornucopia” va qualificata come sottolinea Pascal Marchand in Russia oltre il bene e il male , Le Cavalier bleu, 2017. In primo luogo perché le notevoli riserve del Paese sono spesso difficili da trovare. evidenziare. In secondo luogo, perché le sanzioni ostacolano l’acquisizione delle tecnologie e il finanziamento necessario per questo sviluppo. Infine, per quanto riguarda i minerali, Pascal Marchand ricorda che la Russia ha solo due posizioni dominanti su scala mondiale, palladio e diamanti.

https://www.revueconflits.com/russie-energies-petrole-abondance-poutine-tellenne/

Sete di vendetta_con Gianfranco Campa

Nel tentativo di restaurazione in corso negli Stati Uniti, sembra prevalere un cieco sentimento di vendetta. Non si tratta più di sopprimere un esempio e un simbolo. Un obbiettivo che rivela di per sè ottusità ed incomprensione delle reali forze in campo in questo ormai più che quinquennale feroce scontro politico; ma di una azione di cieca rivalsa. Segno che il re è sempre più nudo. Il modo migliore per far emergere in maniera disordinata i centri di potere e le forze più oscure ed arroganti di quel paese. Non è un caso che Trump, più che stigmatizzare il loro comportamento, lo ha definito “un grave errore”. Può sembrare una affermazione banale e riduttiva; è il segno invece della sua consapevolezza di quale sia il baratro verso il quale costoro stanno trascinando il proprio paese_Giuseppe Germinario

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Per una nuova integrazione economica franco-italiana, di Alessandro Aresu

Un punto centrale della collocazione internazionale dell’Italia, divisa ed assorbita dalla anglosfera, dall’influsso transalpino e da quello tedesco secondo una precisa scala gerarchica, potenzialmente disfunzionale. Il problema, soprattutto verso una potenza di dimensioni paragonabili con quella italiana, è ancora di più la qualità, la capacità e l’ambizione della nostra classe dirigente, nemmeno capace di selezionare decentemente i propri interlocutori d’oltr’Alpe, vedi l’affare Telecom_Giuseppe Germinario

Marcello De Cecco era un personaggio unico sia per la sua curiosità che per la diversità dei suoi interessi. È morto nel 20161. Economista e storico abruzzese, come il grande banchiere umanista Raffaele Mattioli, De Cecco ha saputo coniugare nella sua carriera apertura internazionale e divulgazione giornalistica. Attento osservatore degli squilibri nella zona euro e delle ambiguità dell’ondata di privatizzazioni italiane degli anni Novanta, De Cecco è anche all’origine dell’idea che qui analizzeremo e riprenderemo: l’integrazione economica franco-italiana.

Questo il titolo di un articolo ormai dimenticato del ricercatore italiano pubblicato su Le Monde nel 19932. L’articolo prende come punto di partenza il “terremoto” geopolitico e monetario dei primi anni 90. Alla fine della Guerra Fredda, De Cecco ha visto una tendenza neogolliana tra i leader tedeschi. La Germania si preparava ad “affrontare il mare aperto della politica internazionale” investendo massicciamente nelle sue regioni orientali. La priorità per Francia e Italia era capire il nuovo ruolo svolto dalla Germania. Secondo De Cecco, “un’Europa balcanizzata è perfetta per la nuova Germania”: il più alto livello di integrazione economica potrebbe essere raggiunto dall’ex Germania dell’Est formando un nodo strategico più ampio a livello dell’Europa centro-orientale, prima in ambito geoeconomico, poi in altre aree di integrazione. Il vecchio equilibrio integrazionista, fondata su una Germania divisa, era già obsoleta. L’unico modo per bilanciare il nuovo gigante, secondo De Cecco: “un’altra entità di dimensioni paragonabili alla Germania. Questa nuova entità può essere formata solo da una più profonda integrazione economica tra Italia e Francia. ” Perché ? “Da un punto di vista industriale, l’Italia è una Germania in scala ridotta. Ma, dove è debole, l’industria francese è forte. ”

La “nuova entità economica latina” non è germanofoba, ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita.

ALESSANDRO ARESU

Nel 1993, questa sostanziale parità in termini di punti di forza rendeva difficile il perseguimento, ma le integrazioni e le fusioni aziendali sembravano ancora possibili nei settori automobilistico, chimico, aeronautico e persino l’industria dell’acciaio. De Cecco ha anche ricordato il percorso già intrapreso nell’industria alimentare e nell’elettronica. Ha accusato i francesi di non avere la volontà politica di concretizzare i progetti industriali di cui sopra. E ha invitato gli “orgogliosi cugini transalpini” ad abbandonare gli stereotipi offensivi dei mafiosi e dei mangiatori di spaghetti italiani. Era quindi il momento di capire che una più profonda integrazione con una più ampia economia tedesca e con un centro di gravità allargato avrebbe portato a un’erosione della “individualità economica” della Francia. L’opzione italiana, invece, ha costituito la via ideale per la potenza francese, che ha saputo dispiegare anche la sua “capacità di costruzione e gestione delle infrastrutture” all’interno di uno spazio geopolitico. Su questo punto, il dono profetico di De Cecco ci riporta subito al nostro presente: il “ nuova entità economica latina Non è germanofobico ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita. De Cecco ha avanzato un argomento politico: “Non è possibile credere, anzi, che italiani e francesi si sottometteranno tranquillamente alla necessità di chiudere sempre più fabbriche nei due Paesi, che saranno, s «restano divisi, schiacciati dalla produttività della rinnovata industria tedesca, rafforzati dai bassi salari dei paesi dell’Est, a cui le aziende tedesche stanno già trasferendo la produzione. “L’integrazione franco-italiana potrebbe dialogare su un piano di parità con la Germania, potrebbe concentrarsi sul” collegamento ferroviario rapido Torino-Lione, alla gestione congiunta dei porti del Mediterraneo, che oggi hanno una concorrenza assurda, agli accordi tra le acciaierie di Taranto e Fos, le più moderne d’Europa, alla creazione di grandi holding franco-italiane in aeronautica, chimica, petrolifera e, soprattutto, nel settore automobilistico. Per questo De Cecco ha fatto appello alla “tradizionale capacità visionaria dei leader francesi” che “non può restare fissa sull’asse Parigi-Bonn”.

È proprio l’attualità delle questioni industriali sollevate da De Cecco che dovrebbe portarci a interrogarci sul nostro presente. Tra gli altri attori globali, i progetti industriali e geoeconomici sono ancora quelli di trent’anni fa? Leggendo questo articolo visionario, l’impressione di aver perso tempo è opprimente. Un’impressione diversa da quella che si può avere negli Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan: luoghi che non hanno mai smesso di inventare il futuro. Non credo che De Cecco conoscesse nel 1993 il testo di Alexandre Kojève sull’impero latino, riapparso nel 19903, ma non posso escluderlo: in ogni caso si è avverata la sua profezia sullo scenario europeo di un allargamento della sfera economica tedesca e centro-orientale, mentre non è apparso alcuno “spazio latino”. . Non credo nemmeno che i “leader francesi visionari” – attori politici, industriali o finanziari – abbiano letto il testo di De Cecco mentre organizzavano le loro “campagne italiane”. Ma questa bottiglia in mare può permetterci di ottenere una fotografia di un momento importante per le nostre nazioni, in una svolta nella storia europea.

L’unione tra Francia e Italia rappresenta oggi circa il 26% del PIL dell’Unione, il 22,4% dei posti di lavoro e il 23,2% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il peso dell’Italia nell’economia europea è diminuito nell’ultimo decennio, quello della Francia è rimasto stabile, quello della Germania è aumentato. Il volume degli scambi tra Italia e Francia nel 2019 è stato di 86 miliardi di euro.

Ma per riportare in vita queste figure, torniamo alla nostra storia, e al grande Abruzzo della finanza italiana, Raffaele Mattioli, che in particolare ha contribuito a finanziare gli studi di Marcello De Cecco a Cambridge.4, classe 1939. Nel 1939 il giovane banchiere Enrico Cuccia sposò la figlia di Alberto Beneduce, ideatore dell’IRI, il cui nome era – in realtà – Idea Nuova Socialista. Mattioli offrì a Cuccia una mappa gigante (circa tre metri per due metri e mezzo) della Parigi del XVIII secolo, quando Michel Etienne Turgot lavorava come prevosto dei mercanti.5. Cuccia ha sempre tenuto il Piano di Parigi nel suo ufficio in Mediobanca, la banca di investimento del capitalismo italiano, che rappresentava anche un legame con il sistema francese, in particolare grazie alla grande amicizia tra lo stesso Cuccia e André Meyer, lo storico leader di Lazard negli Stati Uniti.

I legami instaurati tra istituzioni finanziarie come le banche rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano.

ALESSANDRO ARESU

Mediobanca è un hub finanziario: tra i partner francesi, oltre a Lazard, ci sono stati più recentemente player come Dassault, Groupama, Bolloré, la banca d’affari italiana che ha acquisito nel 2019 la francese Messier Maris. La storia delle banche italiane ha avuto diversi altri esempi. I legami che si instaurano tra le istituzioni finanziarie rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano. Possiamo ad esempio citare il finanziamento di missioni di interesse generale, che è sempre più importante nel nostro tempo. Nel 1816 la creazione della Caisse des Dépôts et Consignations fu opera del Conte Corvetto, ministro delle finanze francese nato a Genova. Il mondo italiano è stato quindi diviso e frammentato, rispetto alle opportunità offerte dalla Francia. La sua “sorellina” italiana, la Cassa Depositi e Prestiti, nasce nel 1850, prima dell’Unità d’Italia. Anche Roma si è rivolta a Parigi su questi temi negli ultimi tempi, quando ha cercato di integrare nel sistema italiano le lezioni del modello Bpifrance.

Oggi viviamo in un contesto diverso da quello di Cuccia e Lazard, e da quello di De Cecco. Viviamo all’ombra del conflitto tra Stati Uniti e Cina e vediamo nel capitalismo politico la progressiva espansione della sicurezza nazionale6. La Germania si è evoluta nella gestione di questa crisi, rispetto alla crisi precedente che ha indebolito tutti gli europei. Ma resta da dimostrare la capacità di realizzare progetti europei nel nostro continente. Dobbiamo raccogliere grandi sfide, come quelle che Emmanuel Macron ha esposto nella sua intervista con il Grande Continente . Quando si tratta di salute, digitalizzazione, sostenibilità, questo decennio porterà vincitori e vinti e cambierà le nostre società. Il fiume impetuoso dell’innovazione minaccia di mandare alla deriva gli europei, dopo un decennio di addormentarsi e perdere opportunità.

Borsa-Euronext, FCA-PSA, Fincantieri-STX, Essilor-Luxottica-Mediobanca-Unicredit-Generali, Tim-Vivendi-Mediaset, Crédit Agricole-Creval, Leonardo-Thales, Stm: questi sono, tra gli altri, industriali e a cui partecipano Francia e Italia.

L’Italia è la grande sconfitta nei trent’anni che ci separano da Maastricht e dal progetto De Cecco. È ovvio. Noi italiani dobbiamo riflettere sulla nostra debolezza. Il fenomeno delle multinazionali “tascabili”, che è comunque il nostro capitalismo medio, come descritto negli studi di Giuseppe Berta7e Dario Di Vico, devono affrontare disagi senza precedenti. La riluttanza finanziaria e organizzativa del motore essenziale del nostro sistema economico, le medie imprese con capacità internazionale, non è sostenibile nel medio termine. Inoltre, l’azionista Stato italiano si è ritirato da alcune aree (telecomunicazioni, autostrade) dove il settore privato non ha ottenuto buoni risultati. In questa fase lo Stato, attraverso strumenti finanziari e fondi sovrani, torna in prima linea. Alcuni imprenditori italiani si rivolgono alla Francia con una strategia di lunga data, a partire da Leonardo Del Vecchio, mentre è innegabile il coinvolgimento finanziario e industriale francese nel nostro Paese.

A mio avviso, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante.

ALESSANDRO ARESU

A mio parere, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante. Il sistema finanziario italiano non ha potuto trarre alcun reale beneficio dagli insegnamenti di Antoine Bernheim, nonostante quest’ultimo sia stato a capo di Generali da molti anni. È il suo sostegno ad Arnault e Bolloré che gli è valso giustamente il soprannome di “padrino del capitalismo francese”8. Tuttavia, noi italiani non avevamo un Thierry Breton nazionale per unificare i nostri servizi di sistema informativo. Alla fine degli anni ’90 Telecom Italia era di gran lunga la migliore azienda di telecomunicazioni in Europa. Un “complotto automobilistico” italiano lo ha seriamente indebolito modificando gli equilibri di potere. Ma le grandi società di telecomunicazioni europee devono affrontare gli stessi problemi di redditività se vogliono essere competitive in termini di frontiere tecnologiche, e queste domande riguardano anche i francesi.

L’Italia ha perso, ma la Francia non ha certo “vinto”. La pandemia ha solo confermato il fatto che i due paesi hanno difficoltà comuni. In assenza di un equilibrio di potere tra i due Paesi, negli ultimi anni è emersa una strategia offensiva, in quanto i francesi hanno esercitato maggiori pressioni sull’Italia, attraverso una serie di acquisizioni e operazioni in diversi settori industriali. . Ma questo non è stato fatto senza resistenza: tutti i paesi sono impegnati in una “corsa alla sicurezza nazionale”, che è e sarà rafforzata dalla pandemia. Nessuna strategia industriale su scala bilaterale o continentale può funzionare senza un tessuto di fiducia. Altrimenti prevarrà la resistenza all’integrazione ei mercati europei non avranno un governo industriale autonomo,

Inoltre, dovremo anche trattare tutti con la Germania dopo l’era Merkel , una situazione che non si era mai vista prima. Nello sviluppo della costruzione europea è secondo me impossibile che, in un futuro irrigidimento della posizione tedesca, la Francia lasci sola l’Italia ad affrontare il suo destino. Troppi legami uniscono i due paesi. I sentimenti degli italiani per la Francia oscillano tra complesso di inferiorità e fastidio. Si tratta di un problema reale, a cui è legata la convinzione degli italiani che l’opzione francese potrebbe essere messa in discussione da un improbabile ingresso dell’Italia nell’Anglosfera.. Sul piano geopolitico, la Francia ha spesso agito in sottile o aperto contrasto con l’Italia, senza trarne alcun reale vantaggio. Basti pensare alla guerra in Libia. La colpa è della Francia, la sconfitta è di entrambi. Sul nostro terreno di gioco nessuno ha i mezzi per comportarsi da “padrone”: siamo ridotti a fare appello agli Emirati sul terreno. Ma possiamo davvero continuare così? No, soprattutto perché le storiche divergenze tra le nostre aziende in campo energetico stanno affrontando un terremoto tecnologico e finanziario. Devono anche affrontare nuovi “campioni” in nuove arene.

Su quali basi possiamo ricostruire l ‘“integrazione economica franco-italiana”? Non tornerò qui nei dettagli di tutte le pratiche industriali e finanziarie aperte, ma le traccerò.

Primo punto: dobbiamo parlare francamente dei nostri contrasti, invece di tornare ai vecchi “file” o perdere tempo. Ce lo deve insegnare soprattutto la vicenda Fincantieri-STX e il susseguirsi di alti e bassi nel settore delle telecomunicazioni: non dobbiamo tardare a mettere sul tavolo i nostri interessi senza dare alla situazione il tempo di deteriorarsi. Altrimenti, continueremmo a riempire sempre di più le tasche degli avvocati. Una forma di sostegno economico indiretto, certo, ma che non è esattamente ciò di cui hanno bisogno le nostre economie.

Dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera. Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale.

ALESSANDRO ARESU

Secondo punto: i gruppi che saranno il risultato di una nuova unione franco-italiana non possono essere guidati solo da francesi. Certo, la Francia è un’economia più grande dell’Italia e ha un sistema istituzionale migliore. Non c’è bisogno di negarlo. L’Italia, invece, ha ancora dei punti di forza e non può essere “acquisita” dal sistema francese, in particolare perché in settori strategici è tecnicamente impossibile farlo senza un accordo. Altrimenti, le reazioni renderebbero le relazioni disfunzionali. Quando parlo di gruppi, intendo anche le aree che contano davvero: alta tecnologia, elettronica, ingegneria dei sistemi, difesa e sicurezza, infrastrutture, finanza.

Terzo punto: dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera . Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale. L’ opzione “latina” di De Cecco può avere senso solo se, in questi campi logistici, economici e geopolitici, la collaborazione italo-francese darà i suoi frutti. Una collaborazione che può essere svolta anche nel campo della finanza sostenibile, in un percorso già avviato dalla Francia con Finance in Common , che potrebbe essere ripreso dal G20 sotto la Presidenza italiana.

Quarto punto: dobbiamo anticipare il terremoto nella catena del valore tedesca, nei suoi collegamenti con la produzione italiana di componenti e robotica industriale, che è ancora un settore di eccellenza. Dobbiamo coordinare gli investimenti in nuove catene di approvvigionamento di elettricità e tecnologie all’avanguardia in relazione ai mercati europei e alle catene di approvvigionamento manifatturiere, anche attraverso relazioni più strette con università, politecnici e centri di ricerca. Ricerca. Non diciamo mai più che dobbiamo creare una DARPA o BARDA europea se non siamo in grado di farlo entro un anno, se non siamo in grado di riguadagnare la nostra ambizione,

Dal 2018 Francia e Italia discutono del Trattato del Quirinale. Tutti questi elementi possono far parte di un nuovo patto tra Italia e Francia, di cui dovremmo discutere il più rapidamente possibile, mentre siamo ancora di fronte alla tempesta del coronavirus e delle sue incognite. Dovremo essere pronti almeno per ottobre 2023, quando festeggeremo i trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di De Cecco.

FONTI
  1. Questo testo inedito riprende diversi studi sui rapporti economici e geopolitici tra Francia e Italia, pubblicati dal 2016 sulle riviste italiane Limes , Atlante Treccani , L’Espresso .
  2. Marcello De Cecco, “Per un’integrazione economica franco-italiana”, Le Monde , 2/10/1993. Sui progetti franco-italiani dei primi anni ’90 si legge la testimonianza di Paolo Savona, Come un incubo e come un sogno. Memorialia e moralia di mezzo secolo di storia , Rubbettino, 2018.
  3. Alexandre Kojève, L’empire latin (1945), in “Le regole del gioco”, I, 1990, 1
  4. Secondo la testimonianza di De Cecco in La figura e opera di Raffaele Mattioli , Ricciardi, 1999
  5. Cfr. L’opera di Giorgio La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca , Feltrinelli, 2014 o l’articolo di Fulvio Coltorti, “La Biblioteca storica di Mediobanca”, 8/10/2014, http: //www.archiviostoricomediobanca .mbres.it / documenti / FC_presentazione% 20della% 20Biblioteca% 20Mediobanca.pdf
  6. Alessandro Aresu, L’ Europa deve imparare il capitalismo politico , Le Grand Continent, 10 novembre 2020
  7. Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? , il Mulino, 2016
  8. Pierre de Gasquet, Antoine Bernheim: il padrino del capitalismo francese , Grasset, 2011.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/01/12/integration-economique-franco-italienne/?mc_cid=7aaa6f21c8&mc_eid=4c8205a2e9

guerra e pace_con Gianfranco Campa

è tempo di proclami di pace, ma non troppo convinti e di feroci regolamenti di conti. I vincitori, o presunti tali, vogliono estirpare e rimuovere l’esempio. Pensano così di risolvere gran parte del problema. Il problema reale sono però le decine di milioni di persone attaccate a quell’esempio le quali potranno trovare nuovi leader, magari più adeguati. Quell’esempio, tra l’altro, ha allignato in quattro anni significativamente in alcuni centri di potere e decisionali. Dalla sua ha anche un contesto geopolitico sempre più inaccessibile alle velleità unipolari. La vecchia leadership non pare molto attrezzata ad affrontare le novità; non farà che acuire le divisioni e mettere in forse ancora di più la stessa coesione del paese. Grandi pericoli attraverseranno il mondo, ma grandi spazi si apriranno per chi vorrà coglierli. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vcm17m-guerra-e-pace-con-gianfranco-campa.html

 

la trappola…e il tramonto di un Presidente, di Giuseppe Germinario

Ieri, 6 gennaio, era il giorno annunciato; il punto di svolta di cinque anni di scontro politico negli Stati Uniti. Questo punto di svolta non è stato l’assemblea riunita del Congresso Americano che doveva certificare e che oggi 7 gennaio ha certificato l’elezione del nuovo presidente. È stata invece la manifestazione e la sua conduzione; soprattutto l’obbiettivo politico strategico che ha, meglio avrebbe dovuto informare e guidare quella iniziativa così impegnativa.

Due punti fermi:

  • il vicepresidente Pence aveva la facoltà di rinviare la certificazione del voto negli stati contestati a quegli stati stessi; entro due mesi questi ultimi avrebbero dovuto decidere entro due mesi se confermare o meno il responso

  • gli indizi che l’elezione di Biden sia il frutto di un broglio elettorale in quantità industriale sono pesantissimi. In Italia, ovviamente, non disponiamo delle prove come spesso e volentieri ci viene rimproverato strumentalmente; quelle sono in possesso dei manipolatori e del collegio di avvocati che ha contestato quelle modalità di svolgimento. Del resto Trump era stato avvertito con dovizia di particolari sin da giugno scorso di quello che si stava tramando

La manifestazione a Washington avrebbe dovuto essere uno straordinario momento di pressione e delegittimazione di una classe dirigente e di un ceto decadente e fatiscente al quale è legato con un cordone ombelicale una classe dirigente europea altrettanto fatiscente. Si è rivelata una trappola tanto tragica quanto scontata, almeno per chi ha esperienza di queste cose.

È molto probabile che, con l’assenza di un dissuasivo apparato di sicurezza appena sufficiente, si sia incentivata ed istigata la parte più radicale e irrazionale di quel movimento e di quella manifestazione; è certo però che quel movimento soffre di una carenza di guida e di strategia, di obbiettivi politici di fondo chiari che apre varchi enormi a quelle componenti irrazionali e sterilmente radicali che in più occasioni, sin dagli albori, avevano rivelato il loro cieco anarchismo. Non è un caso che il gruppo che aveva concepito e portato al successo la prima candidatura di Trump, valutando tra l’altro questo, si era immediatamente sciolto al momento dell’insediamento di “the Donald”. È quindi in quel movimento e in quella manifestazione, in chi la ha condotta che risiede la responsabilità politica di questo epilogo, compreso l’incredibile invito esplicito del Presidente ai manifestanti di raggiungere la sede del Congresso.

Questo epilogo rappresenta molto probabilmente la fine della carriera politica di Donald Trump; molto probabilmente rappresenterà la fine civile tragica del personaggio, se non a prezzo, ma non è detto che sia sufficiente, di un umiliante ritorno a Canossa, molto più degradante di quello subito ed accettato da Berlusconi. Osservando il personaggio, un epilogo quest’ultimo improbabile.

L’epilogo cruciale della manifestazione è avvenuto nel momento di una sconfitta tattica pesante, la conferma dell’elezione di Biden, ma di una situazione strategica abbastanza favorevole al movimento di Trump. Le elezioni avevano rivelato il radicamento del movimento in territori pregiudizialmente ostici sino a pochi anni fa; in comunità etniche, comprese la nera, sino ad ora appannaggio e riserva elettorale e di consenso esclusiva dei democratici; in ceti sociali sino a qualche anno fa inaccessibili al richiamo del partito repubblicano. Per raggiungere questo risultato Trump è stato capace di rivoluzionare quel partito senza però aver avuto la capacità ed il tempo di sostituire sufficientemente ed adeguatamente il suo gruppo dirigente.

Il punto di forza di questo movimento è stato ed è ancora il suo patriottismo e il nazionalismo. Due virtù che prevedevano una riconsiderazione della politica internazionale, una avversione al globalismo o quantomeno alle sue modalità di esercizio e il tentativo di ricostruire una formazione sociale più coesa ed economicamente più equilibrata.

Due virtù che però hanno guardato al passato remoto degli Stati Uniti, alla sua costituzione originaria varata da George Washington nel ‘700.

Non è, storicamente, una novità. Spesso i movimenti rivoluzionari e di trasformazione si sono attaccati al passato sotto una veste apparentemente reazionaria e conservatrice che comprendeva in essa contenuti programmatici adeguati alle esigenze di rinnovamento e alle trasformazioni in corso.

Questo movimento e i suoi gruppi dirigenti così approssimativi hanno una particolare difficoltà a coniugare questi aspetti.

La situazione degli Stati Uniti è particolarmente precaria e difficile: i competitori nello scacchiere geopolitico si stanno moltiplicando e stanno mettendo in discussione dall’interno il circuito costruito in questi ultimi quarant’anni. Un circuito, associato all’ideologia neocon e politicamente corretta strette in un paradossale sodalizio, che ha accelerato i processi interni a quel paese di polarizzazione geografica, di frammentazione ed isolamento etnici agli antipodi dell’ideale originario di “melting pot”, di degrado di intere aree geografiche e metropolitane, di scomposizione e degrado di ceti medi tipici di una fase regressiva.

Una situazione che avrebbe dovuto ancor di più spingere le menti di quel movimento a pazientare, a tessere con maggior convinzione una trama che accentuasse ulteriormente l’erosione della base sociale democratica e neocon, che tentasse un dialogo almeno larvato con le espressioni politiche dissenzienti di quella area ormai sempre più riottosa, a dispetto dell’opportunismo e del trasformismo dei suoi capi, a cominciare da Sanders e Cortez, ad accettare le logiche di appartenenza ad un partito contrapposto artificialmente all’altro.

Sull’onda dell’euforia del momento Trump e chi per lui ha scelto una strada diversa, a cominciare dalla polemica sulla natura socialista di quelle forze avverse, quando in realtà si trattava di una natura egualitaria, per altro per alcuni settori specifici della società (studenti, emarginati) che tuttalpiù sfociava facilmente in forme di assistenzialismo. Per non parlare della connotazione religiosa e messianica offerta per altri aspetti dello scontro politico. Una strada comprensibile, per le caratteristiche intrinseche del proprio movimento e per i limiti ancor più gravi dei suoi leader, ma non giustificabile, specie in una fase nella quale stanno emergendo tutte le contraddizioni che stanno mettendo a rischio la coesione e l’esistenza dello stesso partito democratico americano.

A questo si è aggiunta una ingenuità inspiegabile per un leader che ha conosciuto quattro anni di scontro politico della virulenza vissuta da Donald Trump; quello di aver fondato le aspettative di rivalsa prevalentemente su una azione legale, per quanto fondata giuridicamente, quando in realtà si tratta di uno scontro politico talmente esistenziale da coinvolgere apparati di potere ben più pervasivi, potenti ed operativi nel loro intreccio di legami.

Tutti limiti che rischiano di trasformare un movimento fondato su principi di unità nazionale e di patriottismo ostentato in un movimento in fase di ripiego disposto ad accettare e promuovere ipotesi di secessione dagli esiti tragici per se stesso e per il paese nella sua unitarietà.

Viene in particolare alla luce il limite di fondo di rappresentazione della realtà che sta guidando un movimento per altro ancora così eterogeneo e frammentato. Una rappresentazione che raffigura il conflitto insanabile tra un basso, la base popolare e produttiva ed un alto, raffigurato in un establishment arroccato, chiuso ed autoreferenziale. Quell’establishment sta scivolando sicuramente lungo questo declivio; ma è appunto un processo tutt’altro che compiuto o in fase di esaurimento. Dispone ancora del controllo pressoché totale dei centri di comando degli apparati coercitivi ed amministrativi, anche se meno nella loro base esecutiva; e una disarticolazione, un indebolimento e una sostituzione di quei centri è una parte fondamentale dell’azione politica, specie quella più “riservata”. Dispone per altro ancora di una discreta capacità di aggregazione di una parte significativa della base sociale e soprattutto del controllo maggioritario dei settori tecnologici più avanzati e delle prospettive di futuro che, nel bene e nel male, questi possono offrire.

Sta di fatto che gli Stati Uniti sono una nazione politicamente divisa in due e socialmente polarizzata sia verticalmente che orizzontalmente; una frammentazione sociale che rischia di portare ad una frammentazione politica.

Il successo di un movimento politico così alternativo non può prescindere da una azione di erosione in quei tre ambiti sucitati e dal superamento di una fase e concezione spontaneistica che induce a sottovalutare l’importanza della formazione di gruppo dirigente politico, di una élite adeguati.

Il successo più o meno pianificato della trappola dell’assalto al Campidoglio richiederà molto probabilmente il sacrificio, probabilmente tragico, di un leader; porrà certamente il movimento e i nuovi leader che la fucina del conflitto sta facendo emergere di fronte ad un bivio non più eludibile. Dalla strada che sapranno o saranno indotti a prendere dipenderà la natura e la modalità di svolgimento di un conflitto particolarmente virulento e destabilizzante, tutt’altro però che sopito e messo a tacere. Ne vedremo sicuramente delle belle, anche tragicamente belle, non solo lì, ma anche nelle implicazioni più contorte, anche qui, nel nostro paese così provincialotto e perennemente in attesa delle decisioni altrui.

QI al ribasso, di Christophe Lavé

Ci sono tanti altri fattori collaterali, ma questo è importante_Giuseppe Germinario
′′ Il QI medio della popolazione mondiale, che è sempre cresciuto dal dopoguerra alla fine degli anni ‘ 90, è in calo negli ultimi venti anni…
È il rovesciamento dell’effetto Flynn.
Sembra che il livello di intelligenza misurato dai test stia diminuendo nei paesi più sviluppati.
Molti possono essere le cause di questo fenomeno.
Una potrebbe essere l’impoverimento del linguaggio.
Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso.
La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte dal futuro, partecipante passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, attualmente limitato: incapace di proiezioni nel tempo.
La semplificazione dei tutori, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di ′′ colpi mortali ′′ alla precisione e alla varietà dell’espressione.
Solo un esempio: cancellare la parola ′′ fanciulla ′′ (ormai desuetto) non significa solo abbandonare l’estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l’idea che non ci siano fasi intermedie tra una bambina e una donna.
Meno parole e meno verbi coniugati coinvolgono meno capacità di esprimere emozioni e meno possibilità di elaborazione di un pensiero.
Gli studi hanno dimostrato che la violenza nelle sfere pubbliche e private deriva direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole.
Non ci sono parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, più scompare il pensiero.
La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell – ′′ 1984 “; Ray Bradbury – ′′ Fahrenheit 451 ′′) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari abbiano sempre ostacolato il pensiero, riducendo il numero e del numero significato delle parole.
Se non ci sono pensieri, non ci sono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole.
Come si può costruire un pensiero ipotetico deduttivo senza condizionale?
Come si può considerare il futuro senza coniugare il futuro?
Come si può catturare una tempesta, una successione di elementi nel tempo, che siano passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che è potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è davvero accaduto?
Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri alunni. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicato. Specialmente se è complicato.
Perché in questo sforzo c’è la libertà.
Coloro che affermano la necessità di semplificare l’ortografia, di scontare la lingua dei suoi ′′ difetti “, di abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana ..
Non esiste libertà senza necessità.
Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza
Fonti
Christophe Clavé
Laureato a Sciences-Po Paris, titolare di un MBA, allenatore professionista, Christophe Clavé ha trascorso 25 anni in azienda, come DRH e poi Direttore Generale. È stato anche incaricato del corso Strategia e Politiche d’Impresa a HEC Parigi per 5 anni.
Tratto da facebook

  

La svolta realistica dell’ecologia politica, di Pierre Charbonnier

Proseguiamo con la pubblicazione di questo terzo articolo, il primo e il secondo hanno trattato delle posizioni politiche di Trump e Biden, il dibattito sui nuovi temi e sui nuovi oggetti di scontro nel confronto geopolitico. Il tema dell’ambientalismo è e sarà sempre più uno dei fili di conduzione che disegneranno gli scenari prossimi venturi. Già il Forum Economico Mondiale di tre anni fa e quello del 2019 hanno iniziato a porre ed imporre il tema. Abbiamo visto la loro versione dozzinale, popolare e manipolatoria nel fenomeno Greta Turnberg e quella culturale divulgativa, ma di basso livello espressa da autori, tali Hariri e Schwab. Il Forum e la musa ispiratrice di questo lancio, tale George Soros, non sono però che due degli attori e agenti di influenza e nemmeno i più importanti. L’articolo qui sotto lo dice chiaramente: l’ambientalismo è diventato un tema, uno strumento e una linea di ispirazione di centri decisionali strategici e di stati nazionali. L’impostazione offerta però da Charbonnier pecca, a mio avviso, su diversi punti. Il confronto geopolitico non può essere ridotto ad uno scontro tra capitalismo fossile, rappresentato dagli Stati Uniti e centro decisionale politico-statale rappresentato dalla Cina. Primo perché la forma capitalistica americana non ha più prevalentemente questo aspetto e ne sta pagando pesantemente le conseguenze in termini di coesione sociale della propria formazione sociale e di vulnerabilità geopolitica, semplicemente perché Ha trasferito all’estero, soprattutto beffardamente in Cina queste attività; né la Cina potrà facilmente sganciarsi dal sistema di predazione ed estrazione intensiva di materie prime e minerali che sostengono la sua economia, parte integrante queste ultime dei problemi ecologico-ambientali. Del resto la questione è mal posta se i contendenti da una parte risultano essere un centro politico-statuale, la Cina e dall’altro un centro di potere capitalistico, gli Stati Uniti. Questo solo perché si tende a rimuovere, si fatica a riconoscere nella Cina l’esistenza di un modo di produzione prettamente capitalistico, anche se dalle caratteristiche diverse plasmate dal regime politico, dalla particolare formazione sociale e dal passato sociopolitico dalle cui ceneri è sorto. Ma anche perché si tende troppo ad assimilare ed indentificare pedissequamente l’appartenenza e la condotta dei centri decisionali strategici politici statunitensi con il business se non addirittura con la sola finanza; questi ultimi in realtà sono solo parte dei primi e non è detto che siano il più delle volte componente determinante. Secondo perché è ancora tutta da dimostrare l’incapacità del rapporto sociale di produzione capitalistico di adattarsi agli imput ambientali, se non addirittura l’improbabilità a farne occasione di business sistematico attraverso anche lo sviluppo tecnologico. Del resto l’umanità ha vissuto altre fasi di crisi ambientale e la fase capitalistica ne ha vissute già almeno tre nella sua breve vita. Chi si ricorda della letteratura legata al famoso “fumo di Londra”? Sono temi che ci troveremo ad affrontare ed imposti nel prossimo futuro. Una dinamica che ci dice che la forma capitalistica è tutt’altro che morta, che i centri decisionali strategici si sono già posti il problema di assumere una postura positiva e creativa nel proporre ed imporre i propri punti di vista e su questi ci si dovrà confrontare in futuro. Giusto l’appello dell’autore, quindi, a superare l’atteggiamento ecumenico ed accomodante del movimento ambientalista sinistrorso. Non vedo proprio come nelle attuali condizioni possa assumere una postura alternativa e, forse nelle aspirazioni dell’autore, antisistemica; tanto più che il livello di confronto e scontro tra movimenti è diverso da quello tra stati e centri decisionali strategici. La netta impressione è che, volenti o nolenti, i primi siano al momento parte integrante ed integrata delle dinamiche tra i secondi. Non solo! Allo stato rischiano di cadere nell’infatuazione globalista funzionale alla creazione di un nuovo mondo unipolare o più realisticamente ad egemonia prevalente, magari con cambio della guardia annesso. Si tratta comunque di una dinamica di confronto da osservare con estrema attenzione; una dinamica che non a caso sta interessando oltre alla Cina, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna dando ad essa un titolo ben più impegnativo: il Grande Reset_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La svolta realistica dell’ecologia politica

Perché gli ambientalisti devono imparare a parlare la lingua della geopolitica.

Il 22 settembre, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha annunciato un piano per ridurre le emissioni di gas a effetto serra mirato a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060. Questo paese a volte è considerato il “camino del mondo”, il primo emettitore di CO 2 , la prima potenza industriale planetaria, sembra dunque intraprendere un percorso di sviluppo fino ad ora sconosciuto. Perché è davvero una scelta di sviluppo, e in nessun caso di rinuncia; e anche se si tratta davvero di attuare gli impegni presi nell’Accordo di Parigi del 2015, essi assumono un significato politico inaspettato nel contesto attuale.

In un testo pubblicato pochi giorni dopo, lo storico Adam Tooze ha spiegato i diversi significati geopolitici di questo annuncio, che considera un punto di svolta importante nell’ordine internazionale. Il peso economico, ecologico e strategico di questo Paese è infatti sufficiente a fare di questo annuncio – anche indipendentemente dalla sua successiva attuazione – una leva archimedea che dovrebbe provocare un profondo riallineamento delle politiche industriali e commerciali contemporanee.

In Europa, e ancor di più in Francia, questi annunci sono stati accolti con la massima cautela, anche in un certo silenzio. Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare. Vorrei qui cercare di andare oltre la riluttanza a vedere tutta la portata di questi annunci, per considerare come possono trasformare il rapporto tra ecologia e potere, così come è stato concepito finora nelle nostre province occidentali. .

Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare.

PIETRA DI CARBONE

Il primo punto che va sottolineato, e che è solo implicitamente esposto da Adam Tooze, è il monumentale paradosso storico che consiste nel portare avanti nel 2020 una dimostrazione di potere politico intraprendendo un programma di disarmo fossile. Dall’avvento delle società industriali, e ancor più dall’era post-seconda guerra mondiale, la capacità di mobilitare risorse , e ancor più risorse energetiche, è stata identificata quasi perfettamente con l’influenza sulla scena politica globale. Carbone e petrolio non sono solo i primi motori di una capacità produttiva che deve generare alti livelli di consumo e una relativa pacificazione dei rapporti di classe, ma anche le sfide delle proiezioni transfrontaliere di potenza destinate a garantire una fornitura continua a prezzi bassi. L’ordine politico derivante dalla seconda guerra mondiale, totalmente ossessionato dalla ricerca di stabilità (in assenza di vera pace) dopo l’episodio del fascismo, ha trovato nello schieramento delle forze produttive uno strumento di ineguagliabile potere che consente sia di calmare le tensioni interne nelle società industriali, sia di mantenere lo status quo tra queste nazioni e i nuovi attori derivanti dalla decolonizzazione.

È questa dinamica storica che spiega la riluttanza a seguire il percorso di una rivoluzione ecologica. Se l’imperativo climatico è stato esposto in dettaglio dalle scienze del sistema Terra, l’inerzia del paradigma evoluzionista e il suo effetto macchia sulle relazioni internazionali così come sulle relazioni di classe hanno a lungo paralizzato la biforcazione verde. Ci si chiede come si possa salvaguardare il “modello sociale”, francese o no, se ci si priva di un motore essenziale di crescita, e dall’altra parte del mondo ci si chiede come potranno essere capaci le richieste di sviluppo di accontentarsi di un pianeta che mostra i suoi limiti.

Di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, davanti alle ambiguità del piano europeo di ripresa ecologica, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica di potere senza il supporto di combustibili fossili.

PIETRA DI CARBONE

L’annuncio del presidente cinese rompe questa logica, ed è per questo che riveste un’importanza storica: di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, di fronte alle ambiguità del piano di ripresa ecologica europea, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica energetica senza il supporto dei combustibili fossili. In questo contesto ovviamente il piano per finanziare un’infrastruttura produttiva a basse emissioni di carbonio non significa che la Cina stia abbandonando il suo sogno di sviluppo e influenza geostrategica. Sta semplicemente annunciando che ora baserà il suo potere – sia il suo motore economico che la sua base strategica – su altre possibilità materiali. Questi sono ancora poco conosciuti e ovviamente lasceranno gran parte al nucleare1, ma contengono i semi di un cambiamento nelle relazioni di potere tra la Cina e il mondo.

La Cina sta così facendo un doppio colpo. Risponde prima alla scienza e immagina un futuro in cui il riscaldamento globale è limitato, e allo stesso tempo consolida la sua legittimità interna ed esterna apparendo come un attore responsabile, in linea con gli obiettivi annunciati durante l’Accordo di Parigi. . Adam Tooze, storico delle economie di guerra, ha perfettamente gettato luce sul carattere sia realistico che morale di questo annuncio: non possiamo accontentarci di un dibattito che si opponga a intenzioni egoistiche orientate al guadagno di potere e altro puro, finalizzato a un bene comune globale. Entrambe le dimensioni sono presenti nell’annuncio della Cina e dobbiamo prepararci affinché siano costantemente intrecciate l’una con l’altra negli anni a venire.

Ma ha anche senso in termini di filosofia politica, ed è senza dubbio quello che ci è mancato in Europa. Se, come ho suggerito in Abbondanza e libertà, la composizione degli interessi umani nella sfera politica è sempre sostenuta da possibilità materiali, allora dobbiamo ammettere che stiamo attraversando un cambiamento fondamentale in questi assemblaggi geo-ecologici. Mentre da tempo ci siamo posti la questione della perpetuazione di un potere politico legittimo, vale a dire di una democratizzazione del capitalismo, nel contesto di un cambiamento energetico ed ecologico percepito come necessario senza sapere esattamente come attuarlo, dobbiamo ora accettare l’idea che questi cambiamenti alimenteranno piuttosto processi di relegittimazione e consolidamento del potere. Questo rovesciamento assolutamente cruciale della materialità delle politiche moderne si sta verificando davanti ai nostri occhi: dare forma a politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo degli interessi condivisi., ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra. Se l’escalation delle politiche di produttività basate sui combustibili fossili, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, potesse essere paragonata a una guerra latente, anche il processo di disarmo e smantellamento di questa infrastruttura sarà profondamente conflittuale.

La formazione di politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo di interessi condivisi, ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra.

PIERRE CHARBONNIER

Il secondo punto da sottolineare riguarda più direttamente il movimento per il clima e l’ecologia, l’universo rosso-verde o rosa-verde, così come esiste in Europa e negli Stati Uniti. Negli ultimi anni si è assistito al riavvicinamento tra l’immaginario politico della sinistra sociale classica, erede del movimento operaio, e quello dell’ecologia politica, spinto dal potere crescente dell’imperativo climatico. Se il compromesso intellettuale tra questi due mondi rimane piuttosto fragile, visto che si può discutere l’allineamento tra lo sfruttamento dell’uomo e la natura, sta prendendo forma un patto strategico attorno alla riattivazione dell’interventismo economico, in una serie di riferimenti al dopoguerra. Il Green New Deal, nelle sue versioni americana ed europea, è oggetto di significative variazioni, terreno comune delle sinistre occidentali.

Ma la forza del Green New Deal è anche la sua debolezza. Questo piano di ricostruzione economica e sociale intende superare l’ostacolo che la questione occupazionale costituiva subordinando la transizione energetica a un’esigenza di ridistribuzione, controllo dei canali di investimento e perfino garanzia di occupazione. Così definito, questo progetto corre il rischio di perpetuare le disuguaglianze strutturali tra Nord e Sud, poiché i paesi cosiddetti “in via di sviluppo” saranno probabilmente privati ​​dei mezzi per finanziare tali piani, quando i loro partner del Nord potranno reinvestire il loro capitale tecnologico e scientifico in una ristrutturazione che aumenterà il loro “vantaggio” e la loro sicurezza. Questo è un paradosso, peraltro, sottolineato di recente da Tooze,

Almeno dagli anni ’90, l’ambientalismo occidentale è stato oggetto di aspre critiche, in particolare dall’India. Ramachandra Guha, ad esempio, ha svelato le radici razziste e coloniali dell’immaginazione Wilderness ., che ha permesso ai nordamericani di lavare via la loro cattiva coscienza urbana e industriale nei parchi naturali creati dallo sgombero delle comunità indigene. Questo tumulto coloniale, che accompagna le politiche ambientali dei ricchi, continua in un modo con il paradosso del Green New Deal. Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare e compensare. Sappiamo quindi che la superiorità morale dell’ecologia dipende da poco e che è da costruire piuttosto che da postulare, perché molto spesso si tratta di idee pacifiche forgiate in un mondo violento.

Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare. compensare.

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E anche qui la decisione cinese capovolge il gioco. Infatti, il piano di uscita dai combustibili fossili annunciato da Xi Jinping non si basa su un argomento morale riguardante i depredamenti ambientali causati dal regime estrattivo e industriale, né una risposta alle manifestazioni della società civile o il desiderio di inquadrare o abolire il regime di sfruttamento del capitalismo. Cerca solo di modificare la base materiale, in una prospettiva che si potrebbe dire eco-modernista, non contraddittoria con il mantenimento delle ambizioni di potere. Risulta, a causa del peso dell’economia cinese su scala globale, che questo piano deciso verticalmente avrebbe conseguenze benefiche per il clima globale, e quindi per tutta l’umanità (questo è ciò che la differenzia da un piano simile che verrebbe deciso, ad esempio, in Francia), ma è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con cui il presidente e i cinesi possono giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale – più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euro-americano. In altre parole, mentre la Cina è desiderosa di presentarsi nelle arene internazionali nel campo dei paesi “in via di sviluppo”, e quindi legittimata a rivendicare un recupero economico rispetto al Nord, è davvero in una posizione di leader mondiale quale è quando assume posture attraverso questi annunci; in realtà è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con le quali il presidente cinese sa giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale, più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euroamericano.

La svolta realistica nell'ecologia politica Charbonnier manifesta le dottrine geopolitiche Xi Jinping Cina cambiamento climatico energia elettricità petrolio piano di ripresa europeo

In Europa siamo abituati a pensare, ed è così anche per me, che la questione ecologica stia subentrando a un movimento di emancipazione senza fiato. In altre parole, ritradurrebbe le richieste sociali di uguaglianza e libertà inserendole in un nuovo sistema di produzione e consumo che offrirebbe minori opportunità di sfruttamento economico e anomia individualista. Si tratta, insomma, di favorire l’emergere di una nuova tipologia sociale, rompendo con quella che ha accompagnato il periodo di rapida crescita, e affidandosi ad essa per riattivare un processo di democratizzazione e inclusione sociale ormai impantanato. Questo progetto può essere utilizzato per squalificare gli annunci cinesi, sostenendo che non sono all’altezza del lavoro, o che risolvono il problema con mezzi autoritari. Forse. Ma adottando questa strategia (e credo che sia la mentalità dominante in questi ambiti), rischiamo di non comprendere appieno in quali acque geopolitiche e ideologiche stiamo navigando, che lo vogliamo o no, e quindi non riescono a cogliere il significato storico del nostro progetto.

Sarebbe infatti riduttivo immaginare che il conflitto in cui siamo presi si opponga da un lato a un capitalismo sfruttatore, alienante ed estrattivo, e dall’altro a un’ecologia politica di riconciliazione tra umani e tra umani e non umani. . Questa sarebbe la conseguenza della fusione del lessico controculturale dell’ambientalismo e del lessico della critica sociale nell’universo rosso-verde: un’alternativa semplicistica tra ecologia e barbarie. Piuttosto, ora ci troviamo in una situazione in cui coesiste un capitalismo fossile che invecchia, impigliato nelle sue contraddizioni sociali e materiali, un capitalismo di stato nel processo di decarbonizzazione accelerata e, forse, un percorso più impegnativo e radicale, che sarebbe la reinvenzione del senso di progresso e del valore sociale della produzione. Se accettiamo di descrivere la situazione in questi termini, ovviamente ancora molto rudimentali, la sinistra rossoverde europea assume un altro significato. Perché non è più intrappolato in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto all’interno del quale incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico.

L’ecologia politica perde il proprio statuto di contro-modello unico; perde la capacità di imporsi nel dibattito come forma politica antiegemonica. Le conseguenze sono di due ordini. Perché non è più preso in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto in cui incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico, investito di una missione universale.

L’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica.

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In altre parole, l’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica. E le conseguenze sono duplici. Innanzitutto, che tipo di alleanza stringerà con il modello cinese per salvaguardare almeno l’essenziale sul rigoroso livello climatico – a rischio di non avere più “mani pulite”? E simmetricamente, come farà sentire la sua specificità rispetto a questo nuovo paradigma?

Per la sinistra socio-ecologica europea la posta in gioco è sapere se gli annunci cinesi hanno in qualche modo “rubato la scena”, incarnando ormai la via centrale per uscire dalla situazione di stallo climatico, o se per gioco a tre bande più complesse e che impegna anche il rapporto di Trump con gli Stati Uniti, aprono una breccia in cui bisogna precipitarsi senza indugio. Questa rottura è semplicemente il definitivo indebolimento sulla scena economica e politica globale del capitalismo fossile, dello stile di vita americano, che risulta essere l’attore più fragile tra i tre sopra descritti, e quindi l’apertura di un dibattito più diretto tra Cina e noi. Per dirla più semplicemente: quali forme politiche sostenere contro la biforcazione ecologica? Perché se teniamo presente il carattere autoritario e verticale del percorso di decarbonizzazione cinese, dunque che il suo focus per il momento esclusivamente sulla dimensione climatica dei temi a scapito delle altre dimensioni dell’imperativo ecologico globale (biodiversità, salute, inquinamento dell’acqua e del suolo), resta aperto un ampio spazio politico. L’integrazione delle rivendicazioni democratiche nella biforcazione ecologica e la volontà di imporre una frenata d’emergenza sull’illimitatezza economica possono essere i due supporti di un’escalation che lungi dall’essere moralizzante, sarà pienamente politica.

L’ecologia europea deve fare la sua svolta realistica. Deve abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su una scena politica complessa.

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L’ecologia europea deve quindi fare la sua svolta realistica. Ciò non significa che debba entrare in un dibattito aggressivo e marziale con altri attori geopolitici, ma che debba abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su un scena politica complessa.

Dopo tutto, questa dimensione è sempre esistita nella storia della questione sociale. Anche se queste sono cose che non sempre ci piace ricordare, la costruzione di sistemi di protezione è iniziata in Prussia – e in un certo senso Xi Jinping è una sorta di Bismarck dell’ecologia: non non era così ansioso di ascoltare e sostenere le richieste di giustizia ambientale per metterle a tacere. Dopo la guerra, i progressi del diritto sociale in Europa sono incomprensibili se non parte del gioco geopolitico che combina lo spettro del fascismo, la guerra da estinguere, la possibilità bolscevica e l’influenza americana. Come disse un rappresentante laburista britannico nel 1952, il servizio sanitario nazionale è un sottoprodotto del Blitz2. Insomma, l’emancipazione non si conquista sempre, e nemmeno principalmente, con espressioni di generosità morale: è anche questione di potere. La figura di Lenin sembra in questi anni essere oggetto di un ritorno nel pensiero critico, forse proprio perché l’ecologia non ha ancora trovato il suo Lenin.

In un certo senso Xi Jinping è un po ‘il Bismarck dell’ecologia: non desiderava tanto ascoltare le richieste di giustizia ambientale, perché le mettesse a tacere.

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L’ecologia può quindi accettare abbastanza di parlare di strategia, conflitto, sicurezza, può presentarsi come una dinamica di costruzione di una forma politica che assume l’idea di potere, senza ricadere sulle sue esigenze democratiche e sociali e senza perdere di vista il suo ideale di limitazione della sfera economica – al di là dello stretto problema delle emissioni di gas serra. Al contrario: è probabile che queste richieste vengano realizzate solo se investite in riflessioni e pratiche specificamente politiche. Ma affinché ciò sia possibile, dobbiamo lasciarci alle spalle la tendenza a invocare valori più elevati, perché non abbiamo il monopolio sulla critica del paradigma dello sviluppo fossile, né abbiamo la massa economica critica che ci consente di affermarci come attori di portata universale. Si sta formando una nuova arena in cui non abbiamo altra scelta che entrare.

Tre piani a confronto….e il bluff, di Giuseppe Germinario

Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.

Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.

Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.

In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.

Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/discorso-fine-anno-angela-merkel-10867389/

Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “

Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.

Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.

È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.

Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.

https://www.facebook.com/watch/?ref=search&v=394576961851749&external_log_id=0989f68c-cfe2-4d54-8bf2-12a64db07927&q=matteo%20renzi

I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.

Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.

Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.

Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.

Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.

Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.

Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.

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