ARCHÉ E I PRINCIPI DI MONTESQUIEU
E principio oriuntur omnia ( Cicerone De re publica)
- Nell’Esprit des lois Montesquieu scriveva “Dopo aver esaminato quali sono le leggi di ogni governo, vediamo ora quelle che sono relative al suo principio. Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere”[1]. L’importanza che il President à mortier annetteva al “principio del governo” era anticipata nel libro I, quando nell’illustrare i fondamenti delle leggi di ciascun popolo scrive “Esse devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili”[2].
Per trovare il principio di ciascun governo prende le mosse dalla natura di esso, e in particolare di chi “esercita la suprema potestà, e, in secondo luogo, di come lo possa fare”[3] e conclude il capitolo “Non mi occorre altro per trovare i tre principi dei governi suddetti; essi ne derivano naturalmente. Comincerò col governo repubblicano e prima parlerò del democratico” del quale indica come principio la virtù. Subito dopo spiega perché “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù… infatti, in una monarchia, dove chi fa eseguire le leggi giudica se stesso al di sopra di esse, si ha bisogno della virtù in misura minore che non in un governo popolare, dove chi fa eseguire le leggi sente che lui stesso vi è sottomesso, e ne porterà il peso”[4].
E, nelle stesse repubbliche, alle democrazie ne occorre assai di più che ai governi aristocratici “i politici greci che vivevano in un governo popolare, riconoscevano nella virtù l’unica forza capace di sostenerlo”; mentre “la virtù è altresì necessaria nel governo aristocratico, sebbene non vi sia richiesta in modo altrettanto assoluto… Per natura della costituzione occorre dunque che quel corpo (l’aristocrazia n.d.r.) possegga virtù”. E questa virtù minore (perché limitata al corpo governante) è la moderazione: “La moderazione è quindi l’anima di questi governi: ma quella… che è fondata sulla virtù, non sulla viltà o sulla pigrizia dell’animo”[5].
Invece nella monarchia “lo Stato vive indipendentemente dall’amor di patria, dal desiderio di vera gloria… da tutte quelle eroiche virtù che troviamo tra gli antichi… Le leggi prendono il posto di queste virtù, ormai inutili… non ignoro affatto che i principi virtuosi non sono rari, ma dico che è assai difficile che in una monarchia il popolo lo sia”[6]. Per cui nelle monarchie il principio, la “molla” che fa funzionare lo Stato, è l’onore, perché “l’ambizione è pericolosa, in una repubblica, ma ha buoni effetti in una monarchia: essa le da la vita, ed ha il vantaggio di non essere pericolosa”[7]. Infine in un governo dispotico “Come in una repubblica occorre la virtù, e nella monarchia l’onore, così nel governo dispotico ci vuole la paura: la virtù non vi è necessaria e l’onore sarebbe pericoloso. Il potere immenso del principe passa tutto intero nelle mani di coloro ai quali egli confida… quando in un governo dispotico il principe dimentica per un momento di levare il braccio, quando non può annientare in un batter d’occhio coloro i quali detengono i primi posti, tutto è perduto… Occorre dunque che il popolo sia giudicato dalle leggi, e i grandi dal capriccio del principe; che la testa dell’ultimo fra i suddtiti sia sicura, e quella dei pascià sempre in pericolo”[8].
- In conclusione secondo Montesquieu:
Il principio (della “forma”) di governo è la molla che lo fa agire.
Tale principio è, in misura diversa, la virtù; questa dev’essere posseduta da chi governa: nelle democrazie da tutti i cittadini, nelle aristocrazie dagli ottimati, nelle monarchie dal re. Non lo scrive, ma anche negli Stati dispotici un barlume di virtù (magari diversa) la deve avere il despota. Onore e timore sono sentimenti che competono ai sudditi. In particolare ai collaboratori dei sovrani.
Il principio è necessario, perché un corpo politico è composto di uomini, è un’istituzione vitale e non può prescindere da ciò che è suscettibile di far agire gli uomini e quindi l’istituzione. Le leggi sono necessarie, ma non sufficienti all’esistenza e vitalità dell’insieme.
Il principio è ciò che “unifica” governanti e governanti: incide sul rapporto comando/obbedienza, ed è a un tempo fattore d’integrazione e di legittimità.
Come i pensatori politici “classici”, Montesquieu vede istituzioni fatte di uomini, dove taluni comandano ed altri obbediscono: è lungi dal pensatore francese credere che basti una bella costituzione, con tanto di commoventi enunciazioni di principi, e miriadi di leggi di attuazione (altrettanto commoventi) per fare uno Stato vitale. Le leggi non bastano: per costituirlo e conservarlo occorre la molla che le fa vivere. Anzi tra le leggi e il principio (la molla) vi dev’essere coerenza: sarebbe da sprovveduti costituire un governo democratico senza un minimo di virtù, e ancor più un governo dispotico senza la paura[9].
In tale contesto un ruolo di estremo rilievo riveste la virtù, in primo luogo perché ricorre – anche se non necessaria in egual misura per tutti – nelle tre forme di governo non dispotiche; e in questo Montesquieu si riallaccia al pensiero politico antico, per il quale era naturale legare il destino e la fortuna delle polis alla virtù dei cittadini; e non alla sola “bontà” delle leggi[10]. Se come scrive Montesquieu in apertura dell’Esprit des lois “Le leggi… sono i rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose; e, in questo senso, tutti gli esseri hanno le proprie leggi: le divinità, gli animali, l’uomo” fin dall’inizio dell’opera fissa – per così dire – il rapporto tra esistente e normativo: in cui il primo determina il secondo assai più di quanto quello possa fare sul primo.
In questo senso i principi del governo sono la molla indispensabile per la comunità: la quale non vivendo di sole regole, anche le migliori possibili, deve fondarsi su un principio (generale) che la determini ad agire. Perché sul piano storico – e non solo – esistere significa agire: e l’agire chiede di mobilitare la/le volontà umane; vale la regola tomista omne agens agit propter finem che, oltre un secolo dopo Montesquieu un grande giurista come Jhering avrebbe individuato nel collegamento tra scopo ed interesse.
- Poco tempo dopo la morte di Montesquieu iniziò ad enfatizzarsi la figura del legislateur, di colui (coloro) che da (danno) regole certe alla comunità; e delle stesse regole – fissate in leggi – che, piuttosto d’essere scoperte studiando la “natura delle cose”, sono il prodotto (prevalente od esclusivo) della volontà umana. È questa a dare leggi alle cose, e non viceversa. Il rapporto tra l’esistente ed il normativo comincia a pendere a favore del secondo. Le costituzioni moderne frutto della ragione (dell’equità, della giustizia, ma in effetti della volontà) umana ne sono il frutto più evidente. Quella costituzione che non è tale se, come scriveva Thomas Paine, non la si può mettere in tasca: scritta, frutto di una deliberazione pubblica, a seguito (per lo più) di una discussione libera e razionale. Tuttavia per lungo tempo non andarono smarriti i collegamenti principali che ancoravano il normativo all’esistente, in particolare alla volontà e alla virtù nei cittadini. Anzi la rivoluzione francese, ed i giacobini in particolare, fecero della virtù un elemento necessario e primario del nuovo regime politico: segno che i collegamenti col reale erano ancora robusti.
Successivamente, come scrive Ernst Forsthoff “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane, e per conseguenza anche dalla virtù. Nell’opera di Georg Jellinek, che ben rappresenta il periodo a cavallo dei due secoli, non se ne parla più”[11].
Per cui quella successiva “è divenuta una dottrina dello Stato senza virtù”. Probabilmente, anzi a seguire Forsthoff sicuramente, il tutto è stata una conseguenza del positivismo giuridico (inteso in senso lato), per cui la dottrina dello Stato è la dottrina del di esso sistema istituzionale e funzionale, e prescinde dalle qualità umane. In questo si può ravvisare anche un prevalere di aspetti “tecnici”, e, in particolare “tecnico-normativi”; Carl Schmitt scriveva che già nel pensiero di Machiavelli era chiaro l’aspetto tecnico di conquista e conservazione del potere: ma tale tecnica non prescindeva né dalle qualità né dai rapporti umani. Mentre la “tecnica” normativistica contemporanea sottintende di fare a meno – o di ridurre ai minimi termini . le une e gli altri.
Tuttavia, come scrive Forsthoff, il successo del positivismo è stato tale “che il diritto tedesco, né prima né dopo, ha mai più raggiunto o mantenuto, nella giurisdizione e nell’amministrazione, un livello così alto”; e questo è stato possibile in buona parte, grazie alle qualità (alle “virtù”) della burocrazia professionale tedesca, frutto, in particolare, dell’alleanza “tra un illuminismo di stampo storico e l’eredità della Riforma”; per cui “questo sistema giuridico, apparentemente spogliato da ogni riferimento etico e bloccato al piano puramente tecnico, aveva pur sempre una sua etica, in quanto si basava su specifiche virtù umane, senza le quali esso non potrebbe essere compreso”[12]. Per cui pensare che uno Stato possa reggersi solo in forza della bontà delle leggi, è fare un’affermazione parzialmente vera (e quindi in parte falsa). Nessuna “buona costituzione” può funzionare bene, se non è adatta alla situazione oggettiva e alle forze reali esistenti, in cui rientrano, in misura determinante, le qualità morali (le virtù) di chi governa, o meglio esercita funzioni pubbliche (a partire dal voto).
- Anche le constatazioni di Forsthoff dovrebbero essere aggiornate in base a quello che si pensa – per lo più – in questi anni, nel tardo dopoguerra, diventato un (terzo) dopoguerra (fredda).
Oggigiorno chi parlasse di virtù, muoverebbe al riso (o al sorriso), e non solo per il non edificante spettacolo offerto dalle elites dirigenti, ma, ancor più, perché nessuno pensa più alle virtù come fattore di sostegno della comunità, e della democrazia in primo luogo. Gli si risponderebbe che bastano buone leggi, e lo si considererebbe un tipo bizzarro. Ma a chi scrive, e data la considerazione riconosciuta dal pensiero occidentale al necessario rapporto tra virtù e buona istituzione, appare bizzarro chi sostiene il contrario; e la prima replica che viene in mente è il tacitiano corruptissima res publica, plurimae leges, d’altra parte ampiamente confermato in Italia nell’ultimo mezzo secolo. In secondo luogo se tanti pensatori, da Platone ad Aristotele, da Cicerone a Machiavelli, da Montesquieu a Mably (per citarne una minima parte) hanno ritenuto il contrario, non si capisce perché si dovrebbe condividere l’idea che ad uno Stato bastino le buone leggi e, soprattutto, non abbisogni di una certa dose di virtù (e soprattutto quale esperienza di quale unità politica la corrobori).
In gran parte questo è l’esito della fase estrema della funzionalizzazione e tecnicizzazione del diritto, la concezione più coerente della quale è il neopositivismo giuridico. Presupposto (e condizione generale) del quale è concepire il mondo come universo di norme, dove non esistono persone (o soggetti di diritto), ma centri d’imputazione di rapporti giuridici; non esistono gerarchie di uomini ma gradazione di norme; non diritti soggettivi, ma norme da applicare; non il sovrano, ma la grundnorm, e così via in una coerente dis-umanizzazione (e de-concretizzazione) della visione del mondo. L’unico elemento umano rimane la “conoscenza del giurista”; nella quale tale concezione si rivela come ideologia di un gruppo sociale particolare, dei funzionari della fase decadente dello Stato borghese di diritto[13].
In tale concezione tutto ciò che è “extra-normativo” non è giuridico (e quindi irrilevante): al massimo si arriva al richiamo ai “valori costituzionali”.
Questo sembra abbia la funzione di soddisfare (al minimo) la necessità di fondare l’esistenza collettiva su qualcosa che è comunque non normativo, e così di “guadagnare il terreno di una legittimità riconosciuta” superando la mera legalità[14]. Cioè costituisce l’eccezione rispetto alla visione per lo più condivisa (dai giuristi).
- In realtà la concezione “classica” (all’interno della quale collocare la teoria dei principi di Montesquieu) era la risposta alla domanda: quand’è che l’ordinamento è vitale (in primo luogo) e giusto?
La risposta – data da oltre due millenni di riflessione politica coniuga fattori “esistenziali” e “fattuali” con altri di carattere più propriamente “normativo” e giuridico, con i primi che prevalgono sui secondi. Le qualità personali, le credenze, la legittimità, l’autorità ne costituiscono (ma non ne esauriscono) i capisaldi essenziali[15].
Se invece si chiede risposta alla domanda di come si deve interpretare correttamente (validamente) una norma giuridica, e più in generale come si atteggia la conoscenza del giurista rispetto al sistema normativo – cioè una domanda diversa – e a contenuto ridotto, la risposta che danno i normativisti, coll’espungere dall’orizzonte del giurista (pratico) ogni elemento “fattuale” ha una sua correttezza. Per la quale tuttavia, come notato, in particolare per il carattere formale di tale teoria del diritto (e simili)[16], esiste (e si verifica) il rischio che “riducendo il diritto a proposizioni logiche prescindendo dal loro contenuto, se ne perda per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato, o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema”[17].
E proprio questo è il punto: restringendo il problema dell’ordinamento a quello della corretta applicazione delle norme, si espungono dall’orizzonte giuridico gli elementi principali e determinanti, e comunque gran parte di ciò che ne fa necessariamente parte. Ovvero sia l’aspetto dell’unità, dell’azione e della coesione del gruppo sociale, sia quello dell’applicazione del diritto (attraverso la coazione organizzata e la violenza legittima); per cui il normativismo è stato da molti considerato come una gnoseologia giuridica, e lo è, perché, coerentemente, elimina dall’orizzonte giuridico tutto ciò che è “fattuale”.
Di converso e nella linea del pensiero politico classico, troviamo (tra gli altri) i giuristi istituzionisti, i quali ovviamente prendono in considerazione (massima) l’ordinamento e tutti quei fattori esistenziali che ne condizionano e determinano la forma e l’azione, con particolare riguardo alla situazione concreta.
Hauriou, il quale nel Précis de droit constitutionnel critica ripetutamente Kelsen, iniziando dall’errore, che stigmatizza, di assimilare “l’ordine oggettivo all’ordine statico” e subordinare “strettamente il dinamico allo statico”[18]. Mentre “ciò che gli uomini chiamano stabilità non è l’immobilità, ma il movimento coordinato (d’ensemble) lento ed uniforme che lascia sussistere una certa forma generale delle cose…”. A dare il senso e comprenderlo è del tutto inadatto il sistema di Kelsen essenzialmente statico, in cui non c’è posto per la libertà umana.
Santi Romano con la costante attenzione che ha dato dalla gioventù fino a poco prima di morire ai problemi del mutamento, della legittimazione e della crisi degli ordinamenti è, parimenti, esemplare di una concezione dinamica e vitalistica del diritto. Tornando a Montequieu, questi aveva ben chiaro che una comunità umana vive nella storia, nello spazio e (anche) nel tempo: lo stesso si può dire di Hauriou e Romano, che hanno il senso del diritto “bidimensionale”.
Un sistema statico è invece, per così dire, a parafrasare Marcuse, un diritto ad una dimensione, giacché non tiene conto del tempo – e conseguentemente della storia; (come di tante altre cose).
In questo senso la critica di Hauriou ai sistemi “statici”, che si convertono in una contemplazione delle regole è penetrante[19].
- Ciò stante occorre vedere quale fosse il concetto di virtù per Montesquieu e se è ancora necessaria oggigiorno:
“La virtù in una repubblica è cosa semplicissima. È l’amore della repubblica: è un sentimento e non una serie di nozioni…”[20]. Tuttavia data l’equivocità del termine, Montesquieu fin dall’avertissement all’Esprit des lois tiene a definirlo, delineandone il carattere pubblico e politico e non privato (cioè “non politico”) precisando:
“Ciò che chiamo virtù nella repubblica è l’amore della patria… Non è una virtù morale né cristiana, è la virtù politica; essa è la molla che fa agire (mouvoir) il governo repubblicano…”[21].
Coerentemente a quanto ritenuto già da Platone (la tesi di Callicle nel Gorgia) e da Aristotele, la virtù politica è connotato del cittadino (del civis), cioè dell’uomo pubblico, non del bonus paterfamilias, cioè dell’uomo privato: distinzione essenziale, mantenuta dal pensiero filosofico e in particolare dalla teologia cristiana, da Lutero a Bellarmino. E che, coerentemente alla generale confusione di pubblico e privato, oggigiorno spesso non viene più capita, al punto che, a sentire qualche rozzo demagogo, basterebbe un qualsiasi brav’uomo (purché privatamente onesto) a guidare uno Stato. Cosa che (non nuova, ma spesso ripetuta) suscitava il sarcasmo di Croce, come d’ “ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli…”. Sicuramente di quel tipo di virtù privata non c’è necessità: non che guasti, ma sicuramente lo Stato può esistere ed agire anche se i costumi sessuali sono rilassati e quelli commerciali non proprio adamantini.
Invece dell’altra, di quella che Montesquieu chiamava virtù politica se ne sente il bisogno, in misura proporzionale a quanto si è ridotta da oltre cinquant’anni.
Come si sente la necessità della lezione di Montesquieu sui principi di governo come sentimenti e come molle per far agire l’istituzione statale. La contraria tesi, tanto ripetuta che siano sufficienti delle buone regole (leggi) è viziata di (almeno) tre errori.
Il primo dei quali è la riduzione del diritto a gnoseologia giuridica, come tecnica di applicazione delle norme al caso concreto. A questa concezione si addice la critica sopra riportata che così se ne perde “qualche pezzo troppo importante”. Mentre il diritto è essenzialmente un sistema di regolazione dell’azione. E’ l’orientamento che da alle azioni umane l’aspetto decisivo per comprendere l’essenza del diritto.
In secondo luogo, e conseguentemente che le regole non bastano: queste possono disciplinare, permettere, comandare le azioni, ma senza trascurare mai che l’“oggetto” ne è l’agire umano.
E soprattutto, infine, che per sostenere il fenomeno giuridico originario, cioè l’istituzione occorre far leva (anche) sul sentimento che fa “agire il governo”.
Uno Stato che non agisce, che non fa leva sul sentimento (cioè sul principio) è un’istituzione in cancrena: esistere, nella storia, significa agire. Agire non vuol dire (soltanto) applicare delle regole, ma soprattutto avere ciò che con termini diversi di concetti simili è stato chiamato virtù, amore della patria, senso dello Stato.
Senza il quale – o carente il quale – lo Stato cade o decade.
Certo si può rispondere come don Abbondio che la virtù è come il coraggio: se uno non ce l’ha non se lo può dare: ma occorre replicare che un primo passo per (tentare di ) averlo è pensare che sia necessario. Cioè il contrario degli idola correnti.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] Lib. III, cap. I a cura di S. Cotta, Torino 1965, p. 83 (i corsivi sono nostri).
[2] Op. cit., p. 64.
[3] Op. cit., Lib. III, cap. 2 (i corsivi sono nostri).
[4] Op. cit., Lib. III, cap. 3.
[5] V. Lib. III, cap. 4. Si noti che in una nota, cancellata, Montesquieu prendeva ad esempio di aristocrazie non virtuose proprio quelle italiane, che languiscono e sembra che tutti ne ignorino l’esistenza, dovuta più che altro alla gelosia che susciterebbe la loro distruzione; del resto avvenuta circa mezzo secolo dopo, con la rivoluzione francese. Giudizio che si potrebbe adattare ad altre elites governanti italiane, anche contemporanee (i corsivi sono nostri).
[6] Lib. III, cap. 5 (i corsivi sono nostri).
[7] Lib. III, cap. 7 (i corsivi sono nostri).
[8] Lib. III, cap. 9 (i corsivi sono nostri).
[9] A tale proposito Montesquieu aveva in qualche misura previsto alcuni tratti del totalitarismo del XX secolo, il quale, come scriveva, tra gli altri, Wittvogel per il comunismo, presentava diverse analogie col dispotismo orientale ed il “modo di produzione asiatico”.
[10] V. per la riflessione filosofica sulla polis greca Gianfranco Lami, Socrate, Platone, Aristotele, Soveria Mannelli 2005.
[11] V. E. Forsthoff nella raccolta di saggi tradotti in italiano Stato di diritto in trasformazione, Milano 1973, p. 12.
[12] Op. cit., p. 18.
[13] Per uno sviluppo di questa tesi ci permettiamo di rinviare – dati i limiti di questa comunicazione – al nostro scritto Normativismo, funzionarismo, nichilismo in Behemoth n. 43 (gennaio-giugno 2008) e in Empresas politicas(n. 10-11 2008, p. 55 ss.).
[14] v. Carl Schmitt Die Tyrannei der Werte, trad. it. La tirannia dei valori, Roma 1987, Antonio Pellicani Editore, p. 38-39.
[15] In realtà nessun ordinamento è stato salvato (conservato) solo dalla propria superiore razionalità e giustizia. L’impero romano con la sua sapienza giuridica, la sua ars boni et equi, e il suo ordinamento razionale, fu travolto da popolazioni assai meno civili, ma tanto più decise a difendere la loro esistenza.
[16] Anche non condividendo i presupposti del neo-positivismo giuridico, teoria che enfatizzava il ruolo delle regole, il ruolo della c.d. ingegneria costituzionale, rischiano di cadere in errori e rischi simili.
[17] V. O. De Bertolis S.I., La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà Cattolica, quaderno 3687.
[18] Op. cit., p. 6.
[19] Mentre per gli ordinamenti umani vale l’aforisma di Eraclito “che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”.
[20] L’esprit des lois V, cap. 1.
[21] Avertissement (i corsivi sono nostri).
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