Gli archetipi della successione, di Cesare Semovigo

Gli archetipi della successione
La scena ucraina, a metà 2025, è divenuta la sintesi cosciente della crisi del modello occidentale: mutazione accelerata, tensione tra sopravvivenza della forma e bisogno di mutamento. Dopo il ciclo delle grandi controffensive e delle narrazioni d’acciaio, il sistema di Kiev appare prigioniero della necessità archetipica di un simbolo e un garante — ma non necessariamente l’attore che lo interpreta deve essere lo stesso uomo.
Volodymyr Zelensky verso la sua consacrazione ad Archetipo
La sopravvivenza della “causa Ucraina”, agli occhi di alleati e società, passa anche dalla sua presenza — come funzione simbolica, come “capitale residuo”, come garanzia della resistenza esistenziale. Action man.
Arrivato a un consenso dimezzato e polarizzato, con pressioni ormai evidenti dagli alleati per una successione ordinata, la sua esfiltrazione (logistica o almeno politica) diventa opzione concreta oltre la sua incolumità effettiva. La necessità di mantenere intatto il simbolo — anche fosse su un altro scacchiere, in ruoli internazionali, o attraverso una “uscita alta” — viene discussa a porte chiuse, nelle ambasciate e nelle società di consulenza strategica occidentali.
In una riunione a luci basse, un consigliere occidentale avrebbe osservato: “In questa fase, Zelensky può salvare più da remoto che da vicino: l’icona funziona solo se resta intatta”.
Valeriy Zaluzhny è, nel frattempo, stato oggetto di una delle “mosse di parcheggio” più cariche di presagio della storia recente: spedito a Londra con le insegne di ambasciatore ben prima della transizione aperta, quando il suo consenso in patria superava quello del presidente.
Il sistema lo ha già scelto come “designated survivor”: una figura che resta inattiva su carta, ma pronta e in regia, circondata da reti alleate e operatori della diaspora, capace di tornare “funzionale” sia nel caso di crisi interna, sia come soluzione gradita agli sponsor euro-atlantici.
Negli incontri UE-NATO a Kiev, è circolata la battuta — “In Ucraina il più potente è quello che non parla” — parte il brindisi, per alcuni imbarazzo e per altri un sollievo.
Le profonde divergenze tra Zelensky e Zaluzhny — su strategia, mobilitazione, perfino sulla narrazione pubblica della guerra — sono state il motore segreto della recente “putsch bianco”, dove la sostituzione ha permesso, almeno per ora, di non spezzare la cornice della legittimità. La nuova fase vede Zaluzhny a Londra come garanzia di continuità, pronto a rientrare se e quando il sistema (interno o esterno) giudicherà esausta la traiettoria di Zelya.
Nel frattempo, il conflitto intraoccidentale, soprattutto tra l’asse UK-FR e la prudenza tedesca, si acuisce e modula ogni gioco ucraino: armi, tempistiche negoziali, retoriche di coesione, tutto è oggetto di scambio e bilanciamento continuo, fattore che disorienta Kiev e complica qualsiasi transizione lineare del potere, se non abilmente sceneggiata. Niente scherzi, l’imprevisto mette ansia. Meglio preparare un copione prepagato. Caro.

Sul Mar Nero, la costante presenza dei tre assetti EW (guerra elettronica top gamma e ricognizione: olandese, francese, britannico) evidenzia il massimo livello di vigilanza alleata e funge da monito operativo e politico: è sia deterrente verso Mosca che rassicurazione attiva verso i partner interni e la società civile, in modo che nessun vuoto di potere passi inosservato e nessuna crisi resti senza supervisione.
Un giovane analista della Nato ha sussurrato: “Questi aerei non scrutano solo i radar russi. Cercano anche il segnale che Kiev cambia pagina, per avvertire chi e chi di dovere”.
Macro : risonanza del futuribile
Più in generale, questa fase sancisce il passaggio dall’idea di crisi isolata a quella di sistema di crisi concatenate. Tutto il Mar Nero, il Baltico, il Caucaso risuonano della stessa incertezza: i polverieri congelati possono riattivarsi, ma il focus — come in un laboratorio da guerra fredda — rimane su Kiev, case study eurasiatico di successione archetipale pilotata.
La dialettica tra la funzione simbolica (esfiltrare e salvare Zelya, investirlo di ruolo internazionale, mantenendo così intatto il racconto della “giusta causa occidentale”) e quella “tecnico-militare” (parcheggiare e poi rilanciare Zaluzhny come erede legittimo e praticabile) è la grammatica segreta della governance ucraina odierna, e — di riflesso — della postura occidentale nei confronti dell’intero fronte euroasiatico.
A Bruxelles circola una vecchia massima diplomatica: “È bene lasciare sempre una stanza con due uscite.” In queste settimane, la frase rimbalza tra appunti riservati e messaggi cifrati, mentre la partita sui nomi tiene col fiato sospeso anche chi conta su altri tavoli.
Le crisi regionali — dalla tensione a Kaliningrad ai nuovi attriti caucasici, alla partita energetica del Mediterraneo — compongono un cortile allargato in cui ogni cambio-mossa a Kiev produce eco e riverberi: una risonanza di aspettative, sorveglianze e accelerazioni che renderà impossibile, nelle prossime settimane, separare il destino dei singoli attori da quello del sistema complessivo.
La “transizione soft” pianificata — con esfiltrazione di Zelya e riattivazione di Zaluzhny — è oggi tanto una soluzione tecnica quanto un gesto rituale, che serve a rassicurare ciascun livello (interno, alleato, mediatico) e a prolungare l’utilità agonistica e simbolica di una crisi che, nella realtà, è ormai più sistemica che internazionale.

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