E’ il 1968: USA, URSS, Regno Unito e molti altri paesi firmano il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Un negoziato durato anni, iniziato nel ’63 dopo la firma del Trattato per la Messa al Bando Parziale dei Test Nucleari. Una delle tappe più significative di quel processo di “razionalizzazione imperiale” in cui si imbarcarono le due superpotenze una volta che l’URSS riuscì faticosamente a raggiungere la parità nucleare e la dottrina della “Massive Retaliation” americana cessò definitivamente di essere credibile, un processo noto comunemente come “detente” o distensione che vide Washington e Mosca fissare i propri confini – oltre i quali non sarebbe stato saggio avventurarsi – ma anche dietro i quali sarebbe stato necessario un ferreo controllo. Una stabilizzazione del sistema internazionale in preparazione ad una nuova era di confronto, che inizierà alla fine degli anni ’70.
Ciò che pochi oggi sanno – e che Leopoldo Nuti, considerato il massimo esperto italiano sulla vicenda, ci racconta nel suo “La Sfida Nucleare” – è che l’Italia, a dispetto della sua moderna immagine di potenza multilateralista e promotrice di qualsiasi iniziativa internazionale, quel trattato non lo voleva firmare. E non lo firmò fino a 6 mesi dopo, con ben 12 dodici riserve, per poi non ratificarlo in parlamento – e quindi non aderirvi – fino al 1975. Accompagnata dalla Germania.
UN PAESE SCONFITTO PUO’ AVERE L’ATOMICA?
Quella di Italia e Germania è una storia camminata mano nella mano. Si unificano insieme, anche combattendo su fronti diversi contro Francia e Austria, entrambe vedono nella prima guerra mondiale il completamento del loro Risorgimento (questa volta dai lati opposti della barricata) entrambe successivamente vivono il fascismo e la seconda guerra mondiale, perdendola, e subendone le conseguenze.
Entrambe dopo la guerra si rimettono in piedi piuttosto velocemente nella cornice dell’Europa Occidentale a guida americana (per quanto riguarda la Germania Ovest) delle prime iniziative di integrazione europea – anch’esse collegate all’integrazione atlantica – della ricostruzione post-bellica ma anche (soprattutto l’Italia) delle opportunità offerte dall’avere (giocoforza) “le mani nette” sul fronte coloniale, opportunità che istituzioni come l’ENI di Enrico Mattei, in sinergia con la politica, sfrutteranno pienamente.
Con gli anni ’60 diventano attori economici di tutto rispetto nell’arena dei paesi industrializzati, ma questo rinnovato slancio non si traduce in un rinnovato status strategico. Dunque, la ricchezza di questi due paesi rimane di fatto in balia dei detentori dell’hard power, dietro e oltre cortina. Quand’anche si parla di riarmo in funzione antisovietica – peraltro non sempre visto di buon grado a casa, per ragioni questa volta del tutto interne – l’ambito di discussione è se subordinarlo ad una struttura a guida americana, ad una a guida francese (CED) o se evitarlo del tutto. La NATO rimarrà – fino ad oggi – ancora un’organizzazione dedita a tenere i “tedeschi sotto” (certamente i più temibili della coppia).
E dove può manifestarsi nel modo più chiaro questo “fattore sconfitta”, se non nelle questioni riguardanti il sacro graal della potenza militare e della sovranità nazionale, l’arma atomica?
Il nostro paese proverà in ogni modo – scoprendo i limiti imposti dall’esterno alla sua azione, talvolta lambendoli pericolosamente – ad avvicinarsi all’arma atomica.
Le ragioni sono principalmente due, e sono entrambe condivise con la Germania. Una riguarda la possibilità di un’invasione del Patto di Varsavia: l’Italia è un paese di frontiera nella guerra fredda, e non può essere sicura – soprattutto dopo la fine della Massive Retaliation – che gli Stati Uniti rischieranno una guerra (convenzionale o nucleare) con l’URSS per difenderla, ma non può neanche sperare di difendersi da sola con le sue esigue forze convenzionali. Washington ha da sempre un problema di credibilità strutturale, causato dall’estrema sicurezza di cui gode il suo territorio, difeso da due grandi oceani e ricco di risorse in grado di consentire l’autarchia. In sostanza, sconta il vantaggio di potersi ritirare dai suoi impegni senza subire conseguenze irreversibili.
La seconda invece, derivante dalla prima, una questione di bilanciamento all’interno dell’alleanza: se sono solo le armi – convenzionali e nucleari – statunitensi a poter garantire la sicurezza dell’Italia, il paese rimane di fatto in uno status di protettorato permanente, incapace di adottare una politica estera indipendente, se necessario in rottura con Washington. Non è assolutamente un caso che durante la crisi del sistema valutario di Bretton Woods alla fine degli anni ’60 l’unico paese a pretendere le sue spedizioni di oro dalla Fed – nonostante le forti pressioni americane per convertire i propri dollari in titoli, come tutte le altre banche centrali – sia la Francia. Non è un caso che nel ’73 – in occasione della crisi transatlantica scatenata dalla Guerra del Kippur – sia la Francia l’unico paese a voler andare fino in fondo, rigettando la costituzione dell’IEA e spingendo sul dialogo euro-arabo nonostante la minaccia americana di ritirare le truppe dal continente: Parigi, forte del proprio deterrente nucleare, è l’unica capitale pronta a dire “fate pure”.
Perciò tentiamo di avvicinarci all’arma nucleare da 4 diverse angolazioni, tutte quelle possibili: tramite il rapporto bilaterale con gli USA, tramite la NATO, tramite l’integrazione europea… e infine tramite l’estremamente controversa “opzione nazionale“.
Nel 1959, accettammo di buon grado lo schieramento di missili nucleari a medio raggio americani Jupiter in due siti a Gioia del Colle, in Puglia. Con una gittata di oltre 3000km, il momento in cui l’Italia si sia più avvicinata a possedere un’arma atomica strategica in tutta la sua storia.
Sì, perché i missili Jupiter erano quasi più italiani di quanto non fossero americani: spiega Nuti – citando il generale Graziani – che le testate nucleari (che secondo il sistema della doppia chiave, sarebbero dovute essere custodite dagli USA, mentre all’Italia spettava il controllo del vettore) fossero permanentemente montate sui missili in posizione da combattimento, pronti ad essere lanciati in soli 15 minuti.
Inoltre, la loro collocazione in una base interamente gestita dall’aeronautica italiana ne avrebbe concretamente reso possibile l’uso anche contro il parere americano, in caso di estrema emergenza. Lo spiega Holifield, segretario del comitato congressuale americano responsabile delle armi atomiche, dopo un’ispezione in un’altra base Jupiter in Europa nel 1960, causando uno scandalo politico: “La cosa più simile a quello che dovrebbe essere il loro possesso da parte degli Stati Uniti, è il fatto che là fuori ci sono 7 uomini e un carrello collegato elettricamente con quel coso. Sei di loro sono di un’altra nazionalità, e il settimo, che ha la chiave, è americano. Tutto quello che devono fare per prendersi la chiave è dargli una botta in testa con uno sfollagente“. Una scelta deliberata secondo Nuti, orientata verso la condivisione nucleare con gli alleati NATO, aggirando la legge statunitense.
L’amministrazione Heisenhower – agendo nella cornice della supremazia nucleare sull’URSS – puntava molto sulla condivisione nucleare con gli alleati, nel suo “minimalismo strategico”: un contenimento dell’Unione Sovietica improntato quasi esclusivamente sull’arma nucleare; anche condivisa con gli alleati – per rendere più credibile la deterrenza – risultava preferibile rispetto ai costi esorbitanti che avrebbe implicato una difesa convenzionale dei nuovi territori dove l’impero americano aveva estesa la sua influenza. Sarà però un’impostazione strategica destinata a finire con l’amministrazione Kennedy, resa impraticabile dall’ascesa dell’URSS come potenza nucleare a pieno titolo.
Il programma Jupiter dunque durerà poco, e nel 1963 i missili nucleari “italiani” – operativi da fine 1960 – saranno sacrificati sull’altare della crisi dei missili di Cuba – insieme a quelli turchi – per essere sostituiti da missili Polaris nel Mediterraneo – ad esclusivo controllo statunitense – causando sia malumori che velati sospiri di sollievo a Roma. Contemporaneamente, Washington a Nassau decide di fornire i Polaris esclusivamente al Regno Unito, una mossa male accolta sia in Francia che nel resto d’Europa, che contribuì all’uscita di Parigi dalla NATO e all’indurimento del veto nei confronti dell’integrazione europea di Londra. Sintomatica di una nuova era nucleare, in cui l’arma atomica – soprattutto strategica – non sarebbe più stata condivisa con facilità.
Restano le armi nucleari tattiche, una componente più fumosa della deterrenza nucleare, meno documentata e poco coinvolta nella contesa politica. Tattiche che sono ancora presenti nelle basi italiane.
All’inizio degli anni ’60, in Italia sono presenti (con vari gradi di controllo statunitense, da quello operativo fino a quello della sola custodia formale delle testate) due battaglioni di lanciarazzi nucleari Honest John – gittata massima 50km – due battaglioni di lanciarazzi nucleari Corporal, mine nucleari da utilizzare nel Gorizia Gap, 24 obici M-115 dotati di proiettili nucleari, e persino un centinaio di missili anti-aerei nucleari Nike-Hercules, pensati per colpire concentrazioni di bombardieri ma spendibili anche in funzione terra-terra con un raggio massimo di circa 170km. Tutte armi utilizzabili in un teatro di operazioni locale, alcune forse – come i Jupiter – senza approvazione statunitense.
Con la fine del programma Jupiter e lo spostamento della deterrenza nucleare americana in mare – con i Polaris – l’Italia comunque non si arrenderà ad essere esclusa da ogni tipo di controllo sulle armi atomiche strategiche necessarie alla sua difesa.
La nuova idea è quella di creare una forza nucleare NATO – a carattere però multinazionale e non sovranazionale, dato importante, con unità controllate dai singoli paesi membri – armata di missili Polaris, basata nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico. A Roma questa iniziativa è presa estremamente sul serio, con la riconversione dell’Incrociatore (ereditato dalla Regia Marina) Giuseppe Garibaldi in una delle prima navi lanciamissili al mondo, la prima che avrebbe ospitato delle testate nucleari. Il progetto era quello di creare altre unità simili, e di imbarcarvi missili Polaris armati con testate nucleari, con equipaggi interamente italiani – solo una minima presenza formale americana – nell’ambito di una forza nucleare a comando NATO.
E’ una prospettiva che Washington intrattiene – o fa finta di intrattenere – ma superata dai tempi: l’era della condivisione nucleare è giunta al capolinea con la crisi dei missili di Cuba e il primo ban sui test nucleari, inizia l’era della razionalizzazione delle due sfere d’influenza. Questo significa un più ferreo controllo da parte di Washington (e Parigi, Londra) sul proprio arsenale nucleare: il sogno della “forza nucleare NATO” svanirà, sostituito dall’annacquato Nuclear Planning Group, dotato del solo compito di studiare i possibili bersagli di armi nucleari strategiche saldamente in mano a Washington. E’ qui che l’Italia inizia a guardare ad alternative più radicali.
LA FIRMA DEL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE E L’OPZIONE EUROPEA
Morte le opzioni di condivisione bilaterale – o multilaterale – dell’arsenale atomico americano, salvo le sempre presenti armi nucleari tattiche, Italia e Germania si avviano ai negoziati che porteranno al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) con atteggiamento estremamente guardingo.
Due nazioni ormai cardinali nel sistema economico delle nazioni industrializzate, vedono (giustamente) il TNP come l’istituzionalizzazione del loro status di potenze sconfitte, la ratifica permanente della loro condizione di minorità rispetto non solo a USA e URSS, ma anche (argomento forse ancora più sentito) rispetto a Francia e Regno Unito. L’Ambasciatore Roberto Ducci riassumerà le perplessità italiane con una formula succinta ed elegante, definendo il TNP “Il trattato col quale si pretende che coloro che hanno fatto voto di castità si evirino“.
Convinte però di non poter fare molto altre (sicuramente consce delle possibili conseguenze di una vera e propria opposizione) Roma e Berlino tentano di apportare modifiche al trattato, in mancanza delle quali la firma – secondo l’ambasciatore a Berlino, Luciolli – sarebbe stata “Una capitolazione totale“: una durata non illimitata (25 anni, diventerà illimitata nel 1995) maggiori obblighi di disarmo per i paesi nucleari (ignorata) minori restrizioni per l’uso civile (parzialmente accolta) e infine l’importante (accolta, col tempo) sostituzione dell’agenzia europea EURATOM all’IAEA per i paesi membri. Con quest’ultima modifica al trattato, è evidente che Italia e Germania vogliano tenere la porta aperta all’opzione nucleare strategica che sembra più realistica: un’atomica tinteggiata – come scrive Caracciolo in “La pace è finita“, rimarcando l’attualità di questo proposito – “con qualche mano di vernice gialla e blu“. L’integrazione europea è sempre stato il veicolo delle ambizioni italiane e tedesche di tornare potenza – un’ambizione, va detto, non condivisa da quasi nessun altro paese membro – ma la prospettiva è senz’altro lontana e incerta. Lo è oggi, lo era a maggior ragione negli anni ’60.
Roma e Berlino infatti non si rassegneranno, e fino al ’75 non ratificheranno il TNP. A casa nostra, si accarezzerà anche l’ipotesi più controversa e inconfessabile: quella nazionale.
Già nel 1967 – prima della firma del TNP – a porte chiuse i toni si fanno accesi, scrive Nuti:
“Quando il 20 febbraio si riunì il Consiglio Supremo di Difesa per discutere sul problema della non-proliferazione e di un’eventuale scelta nucleare nazionale, Fanfani [allora Ministro degli Esteri N.d.R.] constatò una radicata e diffusa ostilità nei confronti del trattato da parte di quasi tutti i principali esponenti del governo, in particolare per quanto riguardava la ‘discriminazione illimitata proposta dal TNP tra non-nucleari e nucleari’. Saragat [PDR N.d.R.] in particolare, sembrò anche in quell’occasione assumere una posizione dai connotati fortemente nazionalistici, quasi favorevole a un’opzione nucleare nazionale, ma anche gli altri partecipanti alla riunione non nascosero le loro riserve.“
E in effetti, il Capo di Stato Maggiore – Generale Aldo Rossi – aveva dato il via libera nel 1964 allo studio in gran segreto di un deterrente nucleare italiano.
VERSO LA RATIFICA: LO SPORCO DIBATTITO
Il dibattito si farà molto più acceso – e sporco – in Italia nei 6 e rotti anni che separeranno la firma dalla ratifica.
Un lungo periodo di attesa giunge al termine quando finalmente – nel 1973 – viene completata la tanto voluta intesa tra EURATOM e IAEA: adesso ogni “scusa” cade, ed è il momento di decidere o meno per la ratifica. I paesi del Benelux – che fino a questo punto avevano agito di concerto con Italia e Germania, essendo in una situazione simile dal punto di vista della deterrenza nucleare – ratificheranno immediatamente, lasciando fuori solo Roma e Berlino.
La contesa non investe – perlomeno inizialmente – l’opinione pubblica, ma si consuma nel nostro paese tramite una serie di dichiarazioni, riunioni coperte dal segreto di stato, articoli scritti sotto pseudonimo, campagne di disinformazione.
Con il primo test nucleare dell’India – paese non firmatario del TNP – la fronda dello stato profondo italiano contraria alla ratifica del trattato prende coraggio, denotando un evidente fallimento del regime di non proliferazione: apre le danze Roberto Gaja – Segretario Generale del Ministero degli Esteri – scrivendo un articolo sotto pseudonimo, in cui esorterà Roma a non ratificare il trattato a meno che all’Italia (come ad altri paesi) non venisse riconosciuto il ruolo di “paese soglia” che effettivamente ricopriva, sotto il regime del trattato. Sì, perché l’Italia, ai (bei) tempi era il terzo produttore di energia nucleare civile della NATO (dopo USA e Regno Unito, più della Francia) e aveva la capacità di produrre materiale fissile adatto a far partire un programma nucleare militare nel giro di pochi mesi, grazie all’impianto EUREX I di Saluggia, che dagli anni ’80 sarebbe stato coadiuvato dall’impianto EUREX II in grado di produrre abbastanza materiale fissile da sostenere un programma nucleare in piena regola. Come evidenziavano Aldo Moro e altri membri di spicco della Democrazia Cristiana, l’Italia non partecipava alla “contesa nucleare” solo perché non voleva, non perché non poteva. Molti in Italia (tra gli addetti ai lavori) ritenevano che questa capacità dovesse essere mantenuta, per esercitarla nel caso di mutate condizioni internazionali.
Addirittura – a TNP già firmato – l’Italia svilupperà un suo missile a medio raggio indigeno al 100%, l’Alfa – con gittata di 1600km – abbandonandolo, dopo 3 test avvenuti con successo, solo dopo la ratifica.
Proseguirà il pezzo grosso del CNEN (Centro Nazionale per l’Energia Nucleare) Achille Albonetti su La Discussione – organo stampa della DC – evidenziando il fatto che l’Italia si stesse mettendo in condizione di minorità nel suo teatro geopolitico prioritario – il Mediterraneo – ratificando il TNP senza che lo facessero anche Albania, Algeria, Francia, Egitto, Libia, Spagna, Turchia e Israele (che nel ’74 aveva già l’arma nucleare, anche se forse Albonetti non lo sapeva).
Poi la vicenda diventerà ulteriormente fumosa, coinvolgendo questa volta anche i media mainstream.
La rivista Politica e Strategia, edita dall’Istituto per gli Studi Strategici e della Difesa (ISSED) del Generale dell’Aeronautica Dullio Fanali – che appena 2 anni dopo diventerà una delle principali persone d’interesse nello scandalo Lockheed – pubblicherà nel settembre 1974 un’edizione speciale tutta dedita alla proliferazione nucleare italiana, contenente articoli che spazieranno da posizioni di pacata critica al TNP ad ardite ipotesi di deterrente nucleare nazionale.
Immediatamente, partirà una vera e propria macchina del fango mediatica contro il milieu contrario alla ratifica del trattato – da parte di testate di area comunista e socialista – ricca di riferimenti all’eversione nera che da pochi anni aveva iniziato a scuotere il paese: il quotidiano di area comunista Paese Sera titolerà “Tattica e nera. L’H sognata dai golpisti“, il settimanale di area socialista L’Europeo scriverà “I Mau-Mau delle ambasciate” – alludendo al movimento di guerrigliero/terroristico in Kenya – Il Manifesto invece “La ‘diplomazia nera‘ preme per l’atomica italiana“. In particolare il dito venne puntato contro Albonetti, considerato il “capofila” di una cordata di diplomatici, politici, industriali e militari favorevoli all’atomica italiana e collegati (secondo questa campagna) con trame eversive. Il direttore del CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare), l’Ammiraglio Avogadro di Valdengo, rassegna le sue dimissioni: tra le speculazioni che circolano, l’opzione che sia venuta alla luce la pianificazione segreta di un test nucleare dimostrativo come quello indiano, utilizzando uranio arricchito ottenuto dalla Francia un decennio prima per un progetto di nave a propulsione nucleare, o processato all’impianto EUREX di Saluggia.
Esponenti della sinistra presentarono interrogazioni parlamentari al governo. Infine, una petizione per la ratifica immediata del TNP da parte di 142 scienziati guidati dal “ragazzo di Via Panisperna” Ugo Amaldi, contribuì a scandalizzare l’opinione pubblica.
Cosa succede dietro le quinte? E’ impossibile dirlo, un altro grande mistero italiano. Che esistesse in quegli anni un milieu eversivo legato sia a settori delle istituzioni sia ai movimenti neofascisti è un dato di fatto. Ma estremamente chiari sono anche i suoi rapporti – o meglio dire la sua simbiosi, ormai diventata innegabile, da Borghese a Fiore, passando per Edgardo Sogno – con Londra e Washington, due capitali estremamente contrarie ad ogni ipotesi nucleare nazionale. D’altro canto, un’altra potenza fermamente contraria – ancor più di Londra e Washington – all’atomica italiana era l’Unione Sovietica, con cui il PCI (ed i media intorno ad esso gravitanti) mantenevano ancora stretti rapporti, nonostante la conversione all’atlantismo in fieri sotto la direzione di Berlinguer, che con Mosca romperà al punto da diventare (forse) vittima di un attentato dei servizi segreti bulgari.
E comunque, il milieu contrario alla ratifica del TNP era davvero sovrapponibile a quello dell’eversione nera/golpista/angloamericana? Su questo punto è facile oggi rispondere di no. Alcuni suoi esponenti – come Fanali – saranno lambiti dalle inchieste sull’area golpista, altri – ambasciatori come Gaja, Ducci, Quaroni, burocrati come Albonetti – ne rimarranno del tutto estranei.
La campagna di pressione da parte della sinistra fu promossa da Mosca? Londra e Washington furono coinvolte, in una convergenza d’interessi con l’URSS nel belpaese – volta a mantenere intatto l’assetto di Yalta/Helsinki – che avrà occasione di manifestarsi anche altre volte durante la distensione? Domande a cui invece non è possibile dare risposta. Forse si trattò solo della reazione isterica di un paese spaventato, sia dagli eventi degli anni precedenti, sia dalle armi in generale, sia dall’idea stessa di ritornare potenza. Anche questo è possibile.
Fattostà che al governo e alla coalizione parlamentare non rimane altra scelta: dietro la pressione dell’opinione pubblica “benpensante” ma anche dei governi alleati (come Nuti scriverà di aver appreso in una discussione riservata con un diplomatico britannico) l’Italia ratifica il TNP nel maggio 1975. Insieme alla Germania.
GLI EUROMISSILI E IL TRAMONTO DELL’OPZIONE NAZIONALE
Armi nucleari strategiche verranno schierate nuovamente in Italia – i cosiddetti “euromissili” Pershing e Cruise – nel 1983, nel contesto di un confronto bipolare ripartito a pieno regime dopo la razionalizzazione, tra guerre per procura in Afghanistan e Angola, superamento senza precedenti dei “confini di Yalta” con il supporto a Solidarnosc in Polonia, guerra commerciale, fine della stabilità strategica nucleare e incidenti estremamente pericolosi.
Questa volta però con delle differenze: non solo i missili americani sono meno ben accetti in Europa rispetto agli anni ’60 – un’Europa che si è imbarcata nelle sue “Ostpolitik” e arriva vicina ad una guerra commerciale con gli USA per partecipare alla costruzione del gasdotto Yamal – ma sono anche privi del lasco sistema a “doppia chiave” che rendeva i Jupiter degli anni ’60 un sistema d’arma quasi più italiano che americano, racconta Nuti:
“Gli americani […] non si mossero dalle loro posizioni iniziali, dal momento che ritenevano impossibile installare fisicamente sui missili una doppia chiave, e non desiderabile la partecipazione italiana alla catena di comando” […] “L’ex ministro della Difesa Lagorio conferma l’esistenza di questo negoziato e racconta di essersi adoperato a più riprese durante il suo mandato perché i missili fossero gestiti congiuntamente secondo il meccanismo della doppia chiave, sul modello proprio di quanto era accaduto con i missili Jupiter […] La disponibilità americana a negoziare sarebbe continuata fin quando il presidente Raegan non manifestò in proposito la sua netta ostilità in una lettera al Presidente del Consiglio Fanfani […] aggiunge nelle sue memorie che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Santini, gli avrebbe suggerito di risolvere il problema, nel caso in cui non si fosse riusciti a trovare una soluzione concordata e si fosse davvero verificato un disaccordo con gli americani circa l’impiego dei missili, bloccandoli nei loro rifugi con il ricorso alla forza“
In sostanza, se prima ci si chiedeva se gli americani sarebbero riusciti a fermare un lancio di missili Jupiter da parte di un’Italia “uscita dal seminato” ora ci si chiedeva se l’Italia sarebbe riuscita a fermare un lancio di missili Cruise – controllati interamente dal 487th Tactical Missile Wing americano di stanza a Comiso, in Sicilia – nel caso in cui gli americani avessero deciso di procedere contro il parere di Roma. Un completo ribaltamento dei rapporti di forza – per quanto concerneva la catena di comando – che di fatto sobbarcava sull’Italia tutti i costi dell’ospitare armi nucleari sul suo territorio (essere un bersaglio per le armi nucleari sovietiche o di altri avversari degli Stati Uniti) senza però conferirgliene i benefici (disporre in qualche misura di un proprio deterrente nucleare strategico). Sintomatico dei nuovi rapporti di forza – più sbilanciati verso Washington – che si instaureranno tra Italia e Stati Uniti con la fine della guerra fredda, e con il (conseguente) cambio di regime che avverrà sull’onda di tangentopoli, dello sgretolamento del PCI e dell’MSI.
Gli “euromissili”, comunque, verranno rimossi già nel 1987.
Per quanto riguarda le altre “opzioni nucleari” nella disponibilità di Roma – anche dopo la ratifica del TNP – l’Italia rimarrà di fatto un “paese soglia” – dotato di un’avanzata industria nucleare civile e di strutture convertibili in breve tempo ad uso militare – per altri 15 anni, fino a quando il referendum dell’87 – promosso da radicali, socialisti e ambientalisti sull’onda del disastro di Chernobyl, sostenuto poi anche da DC e PCI – non renderà di fatto impossibile la costruzione di nuove centrali (e addirittura impedirà ad ENEL di partecipare in progetti di nucleare all’estero, come a voler spargere sale sulle rovine del programma nucleare italiano) e il governo nel 1990 deciderà di chiudere tutti e 4 gli impianti già esistenti.
Tramontata ogni ipotesi di atomica nazionale, ad oggi rimangono aperte come strade soltanto la futuribile – quanto incerta – opzione europea, e l’eventuale utilizzo di armi nucleari tattiche americane a corto raggio, ad ora presenti nella sola variante di bombe gravitazionali B-61 sganciabili da jet Tornado o F-35A di stanza a Ghedi ed Aviano.
L’Italia è certamente più lontana dall’atomica oggi rispetto agli anni ’60, ’70, ’80. Questo dato, unito a quello di forze convenzionali tenute al minimo (e forse al di sotto, se si esclude la marina) livello di guardia, dice già tutto sulle reali possibilità di autonomia strategica del paese, al netto dei (per quanto auspicabili) sogni europei.
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