GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO? – di Violetta Piccolo   

GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO?

 

– di Violetta Piccolo

Foto: di WU Hong, European Pressphoto Agency

tratta da New York Times, 26 settembre 2014.

Il nome degli Istituti viene direttamente dall’antico saggio Maestro Confucio, con una statua memoriale presso l’Università Qingdao, provincia dello Shandong

A cosa servono gli Istituti Confucio? E cos’è lo Hanban, o forse meglio dovremmo dire l’ex Hanban? Perché tra il 2013-14 e il 2022-23 si sono verificate tutte queste ansietà, molti dubbi e perfino chiusure di  centri culturali che vengono considerati “anomalie” che progressivamente hanno subìto un’accelerazione? Queste le domande con cui iniziamo, dunque, il presente articolo. Solo alcune semplici veloci domande a bruciapelo per poter sollevare fin da subito la questione degli Istituti Confucio e definire il contorno di questo scritto, nel quale si discute di come  esista una sottile e intelligente strategia da parte del governo cinese, che potremmo chiamare una sorta di Geopolitica della lingua, o se si vuole, usando un’espressione di più facile ed immediato intendimento, che si riferisce al politologo Joseph Nye (che più che coniarne una nuova la va dimostrando nei suoi lavori sul potere a partire dal suo testo del 1990 “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power”), un soft power mirato all’uso e alla conoscenza di lingua e cultura cinesi che possano aprire a un lungo e durevole dominio, ma anche che convergono verso un conflitto a livello internazionale a causa dell’interesse più ampio che questi Istituti rivestono verso la politica e altri settori, o per il modus operandi con cui si legano i rapporti e motivi di partnership coi governi stranieri che ospitano i finanziamenti cinesi di questi stessi, inglobando in essi aspetti di influenza strategica di tipo politico-economico-commerciale, velata soprattutto da una esigenza culturale[1]. Sì, soprattutto l’aspetto culturale (come dimostra un paper di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali visitabile online, che riporta le cifre fino al 2020 delle connessioni e dei vari accordi stipulati tra la Cina e l’Italia come caso esclusivo di apertura quasi senza limitazioni, a differenza di altri paesi europei e in particolare a differenza di Stati Uniti e UK, dove alcuni progetti si sono arenati o sono stati chiusi per motivi di sicurezza nazionale, parlando di una Silk Road o Via della Seta di Connessioni – financo concessioni- Accademiche per il caso dell’Italia) è l’esempio di quello che a livello di influenza internazionale la Cina è ora capace di dimostrare e imporre: la sua versione del Beijing Consensus si basa proprio sull’internazionalizzazione della lingua cinese comune o meglio definita putonghua 普通话, ovvero la lingua standardizzata che viene insegnata come lingua ufficiale e che il Partito usa e sfrutta come simbolo nuovo di potenza acquisita sul piano internazionale e diplomatico. Per poter esercitare questo potere “soft” e quindi essere appetibile e attrarre a sé sul piano globale il consenso mondiale, nell’interesse nazionale, ha attivato sul piano della strategia di lungo termine un tipo di sponsorizzazione o marketing della sua cultura, ed attraverso l’intento educativo avvia, così, da decenni il programma dello scambio interculturale attraverso gli Istituti Confucio. Sul magazine statunitense Politico[2] del 16 gennaio 2018 viene citato per questo aspetto strategico degli Istituti proprio una frase riportata dall’ex membro del Politburo nonché responsabile della propaganda Li Changchun, durante un briefing tenutosi a Pechino nel novembre del 2011 in cui ha esplicitamente dichiarato la natura degli Istituti, dicendo “L’Istituto Confucio è un marchio accattivante per l’espansione della nostra cultura all’estero. Ha dato un importante contributo al miglioramento del nostro soft power. Il marchio “Confucio” possiede una naturale attrattiva. Usando la scusa dell’insegnamento della lingua cinese, tutto appare più ragionevole e logico”. L’articolo poi continua affermando della comprensibile esultanza dell’allora ex membro del Politburo dicendo che, come viene riportato al 2018, oltre 500 erano allora gli Istituti presenti nel mondo e oltre un centinaio quelli con base negli Stati Uniti (più corsi di lingua e cultura ad essi collegati anche nelle scuole primarie e secondarie), di fatto i più rilevanti alla George Washington University, la Michigan University e la Iowa University, fra i college più noti. Davvero un risultato notevole, e per di più con tutto rispetto dell’obiettivo centrale progressivamente realizzato: lo shift/passaggio graduale di consegne dal Washington Consensus al Beijing Consensus. Si parla di un crescente interesse fra gli studenti che vi si iscrivono, ed inoltre di problemi e questioni che questa importante crescita esponenziale di adesioni ha portato con sé, tra cui si cita quello dell’appartenenza dei presenti centri culturali all’organizzazione dei campus (di solito la condizione in cui si ritrovano gli Istituti Confucio è embedded, ovvero “incorporata” e dipendente dall’università che la accoglie, pur dovendo dipendere ed essere sostenuti dal governo cinese facendo riferimento al Ministero dell’Educazione, dovrebbero restare indipendenti ed esterni alle università a cui si appoggiano, ma in realtà si impiantano in esse), i quali sono soliti come statuto professare la libertà di ricerca e esercitare il pensiero critico. Ma qui si pone subito il problema da affrontare: gli Istituti Confucio insegnano una versione loro propria della storia e civiltà cinesi, appunto quella della cultura cinese che viene influenzata dalle direttive del governo e non è indipendente ma piuttosto di tipo strettamente collegata alla versione politica che ne dà nei programmi il governo centrale di Pechino, essendo promanazione dell’Ufficio Hanban, ovvero si tratta di una versione della cultura generale decisa e approvata in seno al Ministero dell’Educazione da cui dipende il Quartier generale dell’Istituto Confucio, anche nominato Ufficio del Consiglio Internazionale per la Lingua cinese (in cinese, Hanban[3]汉办, che è l’abbreviazione di guojia Hanyu guoji tuiguang lingdao xiaozu bangongshi 国家汉语国际推广领导小组办公室, anche se l’origine viene da guojia duiwai Hanyu jiaoxue lingdao xiaozu 国家对外汉语教学领导小组, ovvero l’Ufficio nazionale per l’insegnamento della lingua cinese, fondato nel 1987). Il fulcro principale dello Hanban è lo sviluppo dei vari Istituti Confucio, ma ad esso viene collegato anche un altro progetto, ovvero il Chinese Bridge o Hanyu qiao 汉语桥,una specie di competizione per le abilità linguistiche dei non madrelingua. Quindi, in teoria, non dovrebbero esserci conflitti di interessi tra Istituti Confucio e i governi che li ospitano all’estero, ma non è proprio così, poiché il Ministero degli Esteri e delle Finanze cinesi hanno anch’essi un ruolo di indiretto collegamento –quindi, sotto il piano delle influenze anche il governo centrale- con gli Istituti che vengono diretti dallo Hanban e il suo Board. Lo Hanban è formato da numerose suddivisioni, le 3 principali delle quali sono le divisioni degli Istituti Confucio per macroaree di regione, Asia/Africa, America/Oceania e Europa. Lo Hanban,di cui oggi non è più possibile reperire dati online data la chiusura temporanea del sito dovuta alla sua riorganizzazione, nel suo statuto diceva di occuparsi, come istituzione non-profit e organizzazione non governativa (ONG) alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione, di divulgare la cultura e la lingua cinese per contribuire col suo servizio a favorire “la formazione della cultura della diversità e dell’armonia nel mondo”, e lavora con anche le istituzioni straniere a cui si appoggia per contribuire a sviluppare corsi di lingua e cultura cinese all’estero. Dunque, queste le parole chiave che ritroviamo nei suoi intenti statutari: armonia e diversità. Teniamo bene a mente questi due concetti, perché ci serviranno per comprendere dei brevi passaggi, dal concetto millenario antico di potere secondo la tradizione cinese, fino a quello che si costituisce oggi con la creazione del soft power cinese moderno per mezzo delle realizzazioni dei piani di Xi Jinping. Sebbene, oramai, tutti i report che arrivano dal 2017-18 in avanti, soprattutto negli Stati Uniti e in buona parte delle Università europee che contano (o che hanno dipartimenti di lingua e cultura orientale interessati), abbiano chiaramente messo in evidenza una buona dose di mancanze, disorganizzazione e rigida disarmonia, per non parlare di vere e proprie forme di censura/autocensura in particolare su temi sensibili come ad esempio le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan), più che di una vera dedizione alla ricerca di pensiero critico e libertà di ricerca, gli Istituti Confucio sembrano –specialmente in Italia- godere di buona salute. Tuttavia, le ingerenze della Cina e in particolare di questo organo promanazione indiretta di governo che sono gli Istituti Confucio, hanno sollevato problemi fin dal loro iniziale insediamento, nel 2005: problemi che vanno dalle perplessità alle aspre critiche, fino alle chiusure permanenti dei centri di lingua e cultura allora come oggi. O almeno queste sono le lamentele che provengono da una parte dell’accademia europea e americana in generale, a dire il vero non meno direzionata in alcuni ambiti, che si è rivolta a queste istituzioni accogliendole nel proprio alveo. A dare un paio di esemplificazioni della spendibilità del “marchio Confucio” e della commistione di interessi tra il Ministero dell’Educazione, delle Finanze e degli Esteri cinesi per la costituzione dell’organo direttivo Hanban e della diffusione degli Istituti Confucio come dei veri e propri academic malware[4], come li ha definiti il professore emerito di antropologia Marshall Sahlins dell’Università di Chicago, Illinois, sono alcuni report che vengono pubblicati dal GAO[5] (U.S. Government Accountability Office) e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (U.S. Congressional Research Service)[6]. Nel suo lungo articolo pubblicato il 30 ottobre del 2013 per The Nation, il professor emerito di antropologia, dottor Sahlins, dice apertamente che gli IC frenano il libero scambio di idee e censurano il dibattito politico, e dunque si pone la seguente domanda: per quale motivo le università americane li adottano e sponsorizzano? I suoi punti decisivi sugli IC che sono stati installati in USA e in particolare quello dell’Università di Chicago, che mette in luce nel lungo articolo, sono i seguenti:

  • L’IC, che viene installato presso la UChicago e in un certo numero di altre scuole, fornisce finanziamenti per progetti di ricerca dei membri della facoltà afferente su temi riguardanti la Cina (ma sono le università tenute a non usare mai soggetti di tipo controverso su cui dibattere)
  • L’IC presso la UChicago così come in altre università o scuole ad esso afferenti è un’istituzione finanziata e supervisionata dal governo centrale cinese. Mentre il Goethe-Institut in Germania o il British Council in UK o Alliance Française in Francia sono organismi indipendenti e che si pongono al di fuori delle università, l’IC è un’entità embedded, cioè incorporata all’interno dell’Università che ha una sua vera e propria autonomia didattica, e unendosi coi suoi privati programmi a quelli dell’ente ospitante, ne influisce su quella che è la finale decisione delle scelte curricolari
  • Un altro punto centrale è che gli IC non sono indipendenti, ma direttamente gestiti dal governo centrale che in accordo ne decide i crismi, in particolare seguendo la sua costituzione e altre regole dello statuto, viene a dipendere direttamente dal Quartier generale di Pechino dello Hanban (il Chinese Language Council International)
  • Sebbene lo Hanban si sia dichiarato alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione cinese, in realtà è presieduto e governato da ufficiali di alto rango del governo centrale che afferiscono a vari dipartimenti oltre che essere presieduto da membri del Politburo (l’ex vice premier del Politburo, l’allora capo dello Hanban LIU Yandong, era quindi a sovrintendere un consorzio di 12 ministeri e commissioni che indirettamente influenzavano il Consiglio direttivo dello Hanban)
  • Lo Hanban è per così dire per sua natura “un’organizzazione pedagogica internazionale che si rivela strumento di operatività del Partito unico della Rep. Popolare cinese
  • Nelle università più accreditate e grandi che ospitano degli IC, lo Hanban diviene responsabile di una parte del curriculum sugli studi cinesi, e nelle realtà più piccole la maggior parte se non tutta la didattica offerta resta sotto il suo controllo. Oltre a fornire tutto il materiale necessario, spesso lo Hanban in questi casi nomina anche direttamente i condirettori della parte cinese dei locali IC
  • I progetti di ricerca sulla Cina che vengono assunti dagli specialisti con i fondi destinati dallo Hanban devono essere approvati da Pechino
  • Gli insegnanti nominati dallo Hanban, così come i programmi accademici e quelli extracurricolari degli IC, vengono periodicamente valutati per essere approvati da Pechino, e le università ospitanti sono costrette ad accettare la loro estrinseca supervisione.
  • Lo Hanban si riserva di punire con azioni legali qualsiasi attività condotta sotto il nome degli IC senza suo permesso o autorizzazione. Anche se lo Hanban ha sottoscritto accordi che ne garantiscono un’eccezione, tuttavia lo fa solo per le università che vuole avere nella lista per motivi di nomea, quelle più prestigiose come Stanford o Chicago all’interno del progetto IC nel mondo.

Poi il professore continua dicendo che lo stabilire questi criteri per una vera indagine giornalistica o etnografica su come si possano studiare dal di dentro gli IC è difficile, in quanto “(n)onostante tutta l’attenzione che gli Istituti Confucio hanno attirato negli Stati Uniti e altrove, non c’è stata praticamente nessuna seria indagine giornalistica o etnografica sui loro particolari, su come vengono formati gli insegnanti cinesi o come vengono scelti i contenuti dei corsi e dei libri di testo. Una difficoltà è stata che gli IC sono una specie di bersaglio mobile. Non solo i funzionari cinesi sono disposti a essere flessibili nei loro negoziati con le istituzioni d’élite, ma anche la strategia generale Hanban è cambiata negli ultimi anni. Nonostante la sua portata globale, il programma dell’IC apparentemente non sta raggiungendo gli obiettivi politici di dare lustro all’immagine e aumentare l’influenza della Repubblica popolare. A differenza del Libretto rosso di Mao nell’era della liberazione del Terzo mondo, l’attuale regime cinese è difficile da vendere. Avere l’apparenza di un sistema politico attraente è una condizione necessaria per il successo del “soft power”, come ha scritto Joseph Nye, che ha coniato la frase. L’iniziativa rinnovata dell’Istituto Confucio è quella di impegnarsi meno nella lingua e nella cultura e più nell’insegnamento e nella ricerca di base dell’università ospitante. Tuttavia, i principi di funzionamento del programma IC rimangono quelli della sua costituzione e regolamento, insieme agli accordi modello negoziati con le università partecipanti. Di routine e assiduamente, Hanban vuole che gli Istituti Confucio tengano eventi e offrano istruzione sotto l’egida delle università ospitanti che mettono in buona luce la RPC, confermando così l’osservazione spesso citata del membro del Politburo Li Changchun secondo cui gli Istituti Confucio sono “un importante parte del sistema di propaganda all’estero della Cina””. Quindi, dal suo scritto si evince proprio quella che lui chiama una condizione di Trojan horse accademici, i quali come unico scopo hanno quello di imbellirsi con l’associarsi e il compenetrarsi negli atenei più prestigiosi, a volte persino creando casi di intelligence e spionaggio, poiché specialmente complicata viene a delinearsi la loro funzione vera. D’altronde, come lamenta non solo lui ma hanno lamentato anche altri docenti qui in Italia – tra tutti forse l’unica voce dissonante e contraria a continuare la partnership con gli IC è stata quella dell’illustre sinologo ex direttore del Dipartimento di Lingue orientali a Ca’Foscari, Maurizio Scarpari- , è molto più che probabile che gli Istituti Confucio si servano delle loro ingenti somme di finanziamento per stuzzicare in modo allettante le università ad accettare una collaborazione (di fatto, con i finanziamenti che lo Hanban mette a disposizione per gli IC, questi ultimi possono garantire di conseguenza di finanziare vari progetti insieme all’università, andando meno ad impattare sulle finanze dirette delle accademie). Questo ovviamente viene direzionato dallo Hanban, di modo che l’università resti impigliata in un vincolo esterno a cui difficilmente può rispondere direttamente o che può  integrare, cioè le direttive del governo centrale, quelle del regime cinese, che non sono assimilabili alla direzione e al modo in cui si governa l’università di riferimento. Più o meno in linea in seguito, nel 2017-18 fino al 2020-22 saranno le indagini fatte negli Stati Uniti, e che, come abbiamo detto, coinvolgono gli IC: sono alcuni dei maggiori casi di investigazione redatti, che provengono principalmente dal GAO e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (Congressional Research Service).La domanda che sorge piuttosto spontanea, quindi, è: a chi rendono davvero servizio, infine, questi centri culturali? Spendiamo qui due parole utili per capire di cosa stiamo parlando e inquadrare gli avvenimenti che hanno portato a questo diretto conflitto. Di fatto, negli Stati Uniti la questione della diffidenza e la minaccia di chiusura degli Istituti Confucio è sempre stata presente fin dal loro concepimento, avvenuto nel 2004 con l’installazione del primo istituto presso l’Università del Maryland, e mai del tutto sopita. Ma una decina di anni dopo, nel settembre del 2014, scoppia il caso: all’Università di Chicago, Illinois, vengono fatte diverse rimostranze e si decide di chiudere e ritirare la partecipazione con l’Istituto Confucio a loro riferito, dato che l’Università era ormai entrata in conflitto aperto con la censura di temi quali la storia di Taiwan e in un caso specifico con la censura da parte della ex direttrice dello Hanban  di allora, la signora XU Lin, in occasione di una conferenza tenutasi presso un’università a Braga in Portogallo pochi mesi prima, e poi successivamente nell’aprile dello stesso anno, altre vive contestazioni per l’anniversario dei dieci anni dall’installazione in USA del primo Istituto. Tematica quella di Taiwan ritenuta dalla direttrice “troppo sensibile” anche solo per il semplice fatto di nominarla, attraverso la partecipazione al convegno della Foundation Jiang Jingguo di Taiwan, quindi, non discutibile o presentabile in alcun caso, secondo la visione specifica data dal governo di Pechino,  seguendo i dettami di governo per i suoi curriculum e programmi educativi  definiti, di fatto dando avvio ad una lunga serie di polemiche e di frustrazioni all’interno delle Università coinvolte (le quali hanno sempre sostenuto, secondo il principio della libertà accademica didattica, di esercitare il dibattito aperto secondo il pensiero critico e democratico). Questo caso ha aperto la via per una petizione da parte dell’Università di Chicago, provocando l’inizio del primo di una serie di scontri che poi si verificherà anche da noi in Europa, ed è emblematico di come viene ormai trattato il problema degli Istituti Confucio e della sua diretta influenza nelle questioni di libera proposta didattica degli atenei, che entra non poche volte in aperto conflitto con quanto la propaganda di regime vuole difendere e diffondere: ciò ha portato in definitiva alla ribalta la questione a livello internazionale, suggerendo un atteggiamento di rifiuto e totale chiusura. Un altro caso che spiega e risponde alle nostre domande iniziali in apertura del presente articolo è quello riferito all’Università di Vrije a Bruxelles: il professor SONG Xinning docente presso l’IC della stessa università e a capo dell’Istituto Confucio in essa dislocato, si ritrova coinvolto alla fine del 2019 e fino agli inizi del 2020 in un caso di accusa di spionaggio, e per lui si richiede la revoca del visto internazionale per tutti i 26 Paesi dell’UE. L’accusa è tanto forte da scomodare addirittura il diritto internazionale, e infatti il caso finisce in Tribunale, ma ai primi mesi dell’anno 2020, come riporta il South China Morning Post verrà assolto[7] per mancanza di prove fondate dal Council for Alien Law Litigation sito sempre a Bruxelles, in Belgio. Nel frattempo che l’IC dell’università veniva chiuso, però, e il professore, che ha sempre sostenuto di non avere mai avuto nulla a che fare con lo spionaggio o il reclutamento di elementi tra gli studenti per recare danno alla comunità belga, pur riuscendo a venire assolto per il dettaglio che le indagini fatte non hanno trovato abbastanza prove schiaccianti del suo coinvolgimento in questo affaire, tuttavia l’Università di Vrije (VUB) prendeva la decisione di sospenderlo dato che il Belgio non gli garantiva più il visto d’ingresso per alcuni anni. Il professore è comunque stato assolto anche da questa condanna, in quanto il ban di otto anni del suo visto per l’ingresso in Belgio non si poteva applicare secondo un cavillo della legge belga vigente. Questi spiacevoli incidenti, se così li vogliamo chiamare, sono la dimostrazione cristallina che la difficoltà di integrare gli IC nel contesto del mondo liberale è effettivo, così come effettiva è l’incapacità delle università stesse di prendere decisioni e provvedimenti prima che questi eventuali episodi si manifestino. In ogni caso, è evidente una notevole carenza di reciprocità. Non è facile in Cina poter godere degli stessi eventuali benefici di cui gode qui in Occidente la compagine degli Istituti Confucio, né come nel caso del professor SONG potersi avvalere di una legislazione equa ed equilibrata da vedere tanto agilmente ritirare un’accusa diffamatoria vincendo la causa contro lo Stato belga. Oltre  a questa considerazione, potremmo farne un’altra di molto semplice e logica, ovvero il fatto che lo Hanban, esattamente come nel caso del professor SONG, attraverso degli escamotage oppure attraverso la propria capacità di risoluzione del conflitto con l’intervento di tribunali ad hoc o leggi speciali o comunque per mezzo della sua rinomata influenza, è in grado di rigenerarsi facendo un’opera di riorganizzazione al suo interno e rinominandosi sotto altre forme. E difatti, proprio questo è quello che è accaduto ultimamente con gli IC che hanno subìto questo sciame di chiusure, costringendo lo Hanban a sospendere momentaneamente la propria pagina online e, come messo in luce da un articolo dello storico Edward Lee per l’Heritage Foundation o quello di Lin Yang per VOA News citando Rachelle Peterson come co-autrice dell’aggiornamento del rapporto del NAS del 2021, rinominandosi e nel corso del 2022 riapparendo sotto la dicitura di Ministry of Education Center for Language Exchange and Cooperation[8] (quindi tentanto un rebranding all’americana del suo marchio Hanban cinese iniziale), secondo quanto riportato dallo stesso NAS, la National Association of Scholars degli Stati Uniti. Questo è quanto viene riportato da VOA News nelle parole della ricercatrice e docente Rachelle Peterson:  “Rachelle Peterson, ricercatrice senior presso la National Association of Scholars e co-autrice del rapporto, ha affermato in una discussione del 21 giugno ospitata dalla Heritage Foundation che la chiusura degli Istituti Confucio è “una storia di successo perché gli Stati Uniti hanno riconosciuto la minaccia posta dagli Istituti Confucio e hanno affrontato quella minaccia”. Tuttavia, ha detto, “È anche una storia di avvertimento perché in questo momento il governo cinese sta cercando di eludere queste politiche. In termini militari, questa sarebbe chiamata una “manovra di aggiramento”. Il governo cinese scommette che se toglie il nome, Istituto Confucio, e modifica la struttura di un programma, nessuno si renderà conto che l’influenza del governo cinese rimane viva e vegeta nell’istruzione superiore americana”.Il 1° luglio 2021, un giorno dopo la chiusura del suo Istituto Confucio, il College of William and Mary ha istituito la W&M-BNU Collaborative Partnership con la Beijing Normal University, secondo la scuola. L’università cinese era l’ex partner dell’Istituto Confucio della scuola americana, fornendo i programmi che l’Istituto Confucio offriva. Secondo Peterson, non è cambiato nulla tranne il nome.” Nel merito della questione pertanto rimaniamo dello stesso avviso ugualmente dei professori Perry Link e Jonathan Sullivan citati nell’articolo di VOA News, rispettivamente il primo docente emerito di lingua cinese all’Università di Princeton e della California presso Riverside e il secondo politologo nonché specialista di studi cinesi all’Università di Nottingham, UK, che si distinguono tra le molte voci fuori dal coro dei pro-chiusura quanto agli Istituti Confucio, dimostrando che per quanto possibile andrebbe fatto un lavoro diverso di contrattazione con le università e non la scelta d’emblée di chiudere degli indispensabili centri che forniscono , per quanto limitatamente nelle loro clausole di tipo censorio, l’unico punto di riferimento a cui attingere per conoscere e davvero venire a contatto con la cultura e la civilizzazione cinese, altrimenti molto difficilmente reperibile quand’anche fornita nelle università. Il grado di miglioramento interno alle università non sempre consente di fare a meno di queste strutture addende che di fatto in buona parte anche le finanziano.Come nasce quindi questa storia di infinite aperture e chiusure e riaperture o camuffamenti? Da dove proviene questo bailamme e come si è giunti a tutto ciò?

Entrando per un momento nel merito del caso, si deve ricordare che il New York Times, attraverso il suo sito online e blog sulla Cina “Sinosphere. Dispatches from China”, racconta così l’accaduto iniziale incidente del 2014[9], quello che ha dato avvio a tutto questo, come lo abbiamo definito, “sciame” di chiusure, alla volta del decimo anniversario dalla apertura dell’Istituto Confucio negli Stati Uniti presso la suddetta Università del Maryland nel 2004 e la scelta di quella di Chicago di poter chiudere l’Istituto sospendendo le negoziazioni per il rinnovo del contratto presso l’università:

“L’Università di Chicago  ha sospeso le negoziazioni per il rinnovo dei suoi accordi e del contratto con L’Istituto Confucio, che è il centro di lingua e cultura  parte di un network globale affiliato al governo cinese, in una battuta d’arresto in seguito al controverso programma in vista del suo [dell’Istituzione dei primi centri Confucio in USA, nda] decimo anniversario, sabato scorso.

Secondo una dichiarazione rilasciata martedì riguardo l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago, stabilitosi nel 2010, l’università afferma che esso e i suoi partner cinesi “si sono intrattenuti per diversi mesi in uno sforzo collettivo di buona fede e fermo progresso verso un nuovo accordo per il contratto.”

“Tuttavia, i commenti pubblicati di recente sull’Università di Chicago in un articolo riguardante il direttore generale dello Hanban –l’organizzazione sotto cui il Ministero dell’Educazione cinese sorveglia l’Istituto- “sono incompatibili con una equa e continuata partnership con esso”, afferma la  stessa dichiarazione. Questo è un riferimento all’intervista con XU Lin, la direttrice dello Hanban e capo esecutivo del Quartier generale dell’Istituto Confucio. La signora XU è classificata in qualità di viceministro del governo centrale.”

E poi il NYT così continua:

“Negli ultimi anni, un crescente numero di intellettuali e studiosi negli Stati Uniti e in Europa hanno espresso viva preoccupazione per il fatto che gli Istituti Confucio dislocati in giro per il mondo riflettano troppo da vicino l’ideologia del Partito comunista cinese, dichiarando che gli istituti non devono avere parte in nessun modo al tipo di programmazione centrale educativa svolta nelle università che tengono in conto della libertà accademica”. […] “Nel 2007, la missione dello Hanban era stata definita da LI Changchun, l’allora capo della propaganda del Partito a quel tempo, come “una parte importante del modello di propaganda cinese all’estero”, una frase che include l’educazione e la cultura tanto quanto l’ideologia politica e riflette la spinta cinese in questi recenti anni a proiettare all’esterno la sua crescente potenza. L’Istituto Confucio risponde di essere meramente impegnato ad insegnare la lingua e la cultura cinese al mondo. L’intervista con la signora XU è apparsa in un articolo pubblicato il 19 Settembre [dell’anno 2014, nda] nel quotidiano cinese Jiefang Daily, che è diretto dall’Ufficio per le News del Comitato del Partito comunista di Shanghai. L’articolo a tutta pagina, intitolato “La Difficoltà della Cultura Riposa in una Carenza di Consapevolezza”, descrive un incidente che si dice occorso nel tardo mese di Aprile, dopo che oltre 100 membri della facoltà dell’università hanno chiesto attraverso una petizione che la collaborazione con l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago venisse interrotta.

L’istituto aveva troppa influenza nel determinare “quello che valeva la pena insegnare, e quello che valeva la pena ricercare” nonché “quel che conta in quanto vera conoscenza”, come nel mese iniziale di Maggio riportò al giornale dell’università, il Chicago Maroon, il professore di Storia delle Religioni presso il dipartimento Divinity School e uno degli organizzatori della petizione, Bruce Lincoln.

“Molti hanno percepito la durezza di XU Lin”, ha scritto in modo ammirato il Jiefang Daily, citando quella che si dice essere la lettera che la signora XU ha inviato al rettore dell’Università di Chicago in risposta alla petizione. “Con una sola frase ha sentenziato ‘Dovesse il vostro college decidere di ritirarsi, sarei d’accordo’”, ha dichiarato l’articolo. In cinese la frase contiene connotazioni di sfida. E così continua: “Il suo [della sig.ra XU, nda] atteggiamento ha reso nervosa la controparte. Il college ha risposto sbrigativamente che continuerà a gestire in modo appropriato l’Istituto Confucio”. L’articolo [del Jiefang Daily, nda] riporta che la signora Xu ha dichiarato le stesse cose in una conversazione telefonica con l’ufficio del presidente dell’università a Pechino. La portavoce dell’Università di Chicago, Sarah Nolan, ha declinato l’invito a commentare con una email. HU Zhiping, il vice capo dell’Istituto Confucio, ha dichiarato in una email il venerdì: “Lo Hanban esprime il suo disappunto per la decisione dell’Università di Chicago, che è stata presa prima che i veri fatti in merito alla questione venissero stabiliti. L’Istituto Confucio è un programma condiviso sino-americano, entrambe le parti hanno il diritto di fare una scelta”.

Il New York Times, infine, conclude riportando che XU Lin, l’allora direttrice dell’Istituto Confucio, aveva anche in passato già attratto delle critiche e dei nervosismi presso la UChicago. Nel luglio dello stesso 2014, infatti, aveva deciso di rimuovere da una conferenza fatta presso l’Università di Minho in Portogallo diverse pagine delle proposte al meeting della European Association of Chinese Studies, secondo il report sul sito web della stessa Associazione, in quanto la signora XU obiettava che il testo menzionasse la Fondazione Jiang Jingguo di Taiwan come co-sponsor della suddetta conferenza, e questo ha creato l’incidente che ha acceso la miccia sul caso e le seguenti rimostranze e chiusure nei confronti degli Istituti Confucio, anche nei confronti dell’UChicago. Come infatti riprende anche il NYT, la Cina ha un problema di censura su argomenti sensibili come Taiwan, in quanto isola “ribelle” mai rientrata finora come provincia alla madrepatria e di fatto non ha mai previsto di non poter usare la forza, il suo potenziale hard power militare, per forzarla a essere riconquistata. Questa mossa della signora XU è stata definita come “azione arbitraria” e “non autorizzata”, quindi un atto di censura che l’Associazione Europea riporta come atto sgradito in quanto ordinato deliberatamente dall’ex direttrice, facendo rimuovere dal suo entourage tutto il materiale usato nella conferenza e facendolo portare in un appartamento di uno degli insegnanti dell’Istituto Confucio dell’Università di Minho, in Portogallo. L’incidente è stato risolto solo allorché Roger Greatrex, dell’Università di Lund e presidente dell’Associazione, ha ordinato che le copie degli originali della conferenza venissero ristampati e redistribuiti, secondo quanto affermato dalla stessa Associazione. Quello che è più rimarcabile sono le parole usate per spiegare l’accaduto da questa ex direttrice dell’Istituto, che ha apertamente dichiarato nell’articolo del Jiefang Daily che l’Istituto Confucio ha come missione la necessità di “costruire un treno spirituale ad alta velocità, usando la cultura come percorso definito”, facendo ricorso, dunque, con una espressione idiomatica alla metafora del treno ad alta velocità fiore all’occhiello delle recenti costruzioni e infrastrutture cinesi. Usando, dunque, un linguaggio simbolico, ha apertamente dichiarato quelle che sono le reali capacità del soft power cinese o wenhua ruan shili 文化软实力, ovvero un parallelo tra cultura e altri settori collegati ad esso, come le infrastrutture. Tutto questo perché in Cina oramai oltre allo sviluppo economico enorme che da 30-40anni ha reso possibile intorno al 2014-15 con lo sforzo cinese il sorpasso del PPP (ovvero, l’indice Purchasing Power Parity) americano, la grande conquista operata dall’era di Xi Jinping e la sua dottrina è quella di aver dato vita ad una pratica concreta del soft power in salsa cinese. Ovviamente, questo comporta che siamo sempre costretti a soffermarci un istante a definire di preciso di volta in volta cosa sia, in base a come vengono letti i messaggi tra le righe, e cosa rappresenti questo soft power; ma è imprescindibile sapere due cose generali: la prima e più importante è che la cultura e la lingua sono i veicoli determinanti e preferiti per ottenere un potere di attrazione verso la Cina dall’esterno e quindi il consenso verso la sua potenza, cosa che determina fortemente dunque la strategia geopolitica cinese in base al terzo aspetto più di livello immateriale, che invera i classici primi due fondanti aspetti della teoria del soft power di tipo più direttamente concreto anche secondo la descrizione di Nye, ovvero la supremazia economico-finanziaria e quella politico-diplomatica; la seconda è che così facendo, in fondo, è logico immaginare il motivo per cui così si declina la strategia del soft power cinese, nel senso che si determina di volta in volta a seconda delle opportunità e delle occasioni, non esistendo una teoria definita precisa ad esso afferente, ma essendo comunque pur assimilabile in certi aspetti a quella generica teoria del soft power di Nye, ne viene influenzata più direttamente da una versione che ripercorre la strada della cultura millenaria cinese con il suo focus centrato nei tempi classici antichi. Studiare quindi il soft power cinese comporta il grande sforzo di conoscerne quantomeno il più possibile se non a menadito la lingua e la cultura moderne, nonché quella più elitista basata sui classici. Se volessimo usare quindi questa espressione idiomatica finale della ex direttrice dello Hanban cinese, che ha concluso l’articolo del NYT che riportava “Solo la cultura può introdurre allo spirito. Non si può usare solo l’educazione per entrare nello spirito di qualcuno”,  potremmo definire meglio attraverso la spiegazione dei classici il suo significato più preciso. Perché questa signora ha dichiarato che solo la cultura può introdurre davvero allo spirito di qualcuno o qualcosa? Ebbene, poiché le radici profonde di questo spirito cinese, e quindi l’essenza del significato e della portata delle sue strategie, riposano sulla grande cultura e conoscenza – come detto- dei classici, quantomeno ma non solo quelli delle “Cento scuole” filosofiche antiche o in cinese 百家 baijia.
Di fatto, noi che qui trattiamo l’assetto dei citati Istituti e della loro quasi scomparsa o progressivo declino, potremmo anche dare ragione ad un passo del Laozi (opera mistica ma di fatto prettamente rivolta alla conduzione del potere o potenza, al sovrano, all’uomo di governo) citato proprio in un testo del Nye, il quale tuttavia mantiene una prospettiva di ricerca sul potere insita nella tradizione dei termini differenziati tipicamente occidentale e non in quella tradizionalmente sinica, per quanto comparativamente assimilabile al concetto espresso qui, in cui il Maestro Lao Dan definisce la regola celeste e cosa comporti essere un vero sovrano ed esercitare il potere (o meglio il vero attributo del saggio) col tipico adagio poetico che nel testo si lascia così intendere: “Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena. Poi viene quello che amano e stimano. Poi quello che temono. Infine quello che disprezzano”. In questo senso, Laozi o Lao Dan individua al primo posto il vero saggio o sovrano, invertendo, seppur in modalità complementare, i termini A e B dialettici e contrapposti tipici della tradizione logocentrica occidentale, che è ribaltata ed assente in quella taoista cinese come insegna l’illustre Angus C. Graham, nel suo monumentale “Disputers of the Tao. Philosophycal Argument in Ancient China”: ovvero, colui che si pone al di fuori dell’esistente apparire, dell’esserci (il termine B), quello è il vero sovrano; mentre, al contrario, il più basso dei termini, ovvero A, viene attribuito al peggior sovrano, quello che non riesce veramente a servire il popolo a causa della sua presenza “forte”, entrante. Infatti, secondo la regola taoista, il pieno è vuoto, così come vuoto è ciò che è pieno; quindi il potere deve essere “soft” per potersi esercitare nella maniera che più è efficace, poiché l’efficace è il sottile, anche quando la strategia posta in essere deve ammetterne una qualificazione “diminuita” per potersi “accrescere” e verificarsi, innalzando al più alto livello, pertanto, ciò che non è visibile o apparentemente più rozzo e insignificante/debole, ma almeno al suo massimo della potenza percepibile[10]. Una tal concezione pervade quasi tutta la tradizione filosofica e il pensiero o la mentalità sinica da millenni. Tornano utili, quindi, le raccomandazioni iniziali quanto al modo sinico di esprimere consenso e potere, tanto più se i concetti chiave come vedremo a breve hanno a che fare con armonia e integrazione degli opposti/delle diversità. Non solo in Laozi, ma anche nel Xunzi, il famoso Trattato sull’Arte della guerra, possiamo rintracciare vari rimandi ai concetti di “inganno” centrali per l’esercizio di un potere pacifico e soprattutto per poter quindi vincere guerre senza troppi spargimenti di sangue, o quantomeno il meno possibile facendo ricorso all’hard power, risparmiando così le energie e le armi. Infatti, come riporta The Diplomat in un articolo risalente al 31 marzo del 2015[11], il caso classico dell’Arte della guerra è stato usato dalla Chinese Academy of Military Science per ospitare il nono simposio internazionale del 2014 sull’Arte della Guerra di Xunzi, dal titolo “L’Arte della Guerra di Xunzi e la Pace, la Cooperazione e lo Sviluppo”. Questo mostra che la tendenza che sta maturando da tempo nell’élite, poiché la descrizione della conferenza era che l’opera di Xunzi dimostrava “(che) la ricerca dello sviluppo attraverso la sicurezza, la cooperazione e la crescita a sommatoria win-win è la strada giusta per giungere alla pace nel mondo”, sta diventando in questi ultimi tempi la via realizzata dei progetti strategici messi in atto da lungo corso da Pechino. In particolare la diffusione della sua millenaria cultura e lo sviluppo di strategie e policy ad esse collegate. Infatti, oggi effettivamente il testo del Xunzi potrebbe  bene rappresentare e descrivere la politica di sviluppo pacifico perseguita dal PCC finora, tanto che la sua figura potrebbe essere assimilata quasi ad un ufficiale dell’odierna compagine governativa, come rileva lo stesso quotidiano. In effetti, come viene puntualmente riferito, lo stesso allora ambasciatore cinese in UK, LIU Xiaoming, vedeva nell’uso dell’Arte della Guerra l’opera di riferimento del pensiero strategico cinese in grado di creare una fiducia reciproca e un collegamento con lo UK Joint Services Command and Staff College, e durante un discorso rilasciato nel 2012 per un meeting con questa istituzione accademica militare britannica diceva che “la Cina detiene il potere di deterrenza e la saggezza sufficiente a vincere senza dover combattere. Ma se necessario, la Cina avrà anche il coraggio e le capacità di vincere attraverso la battaglia. Questa è l’essenza dell’Arte della Guerra e l’odierno spirito della strategia militare cinese”. Questo è un rimando importante, dato che lo stesso HU Jintao nell’incontro col Presidente George W. Bush nel 2006 gli aveva regalato una copia di seta del Trattato e dato che nel 2011, durante una visita, la Beijing Renmin Daxue 北京人民大学o Università del Popolo di Pechino ha donato una copia di questo all’Ammiraglio Michael Mullen. Di fatto, non sono solo i cinesi gli unici ad aver analizzato e visto nel Xunzi un Trattato che può essere usato in tal maniera: a proposito di soft power e descrizione della strategia politica da adottare, il Xunzi rimane un testo spesso citato anche fra gli Occidentali come prettamente strategico, infatti riportando un estratto del quotidiano possiamo comprendere bene che:

“(Nel suo libro “The Power to Lead”) Joseph Nye descrive Xunzi come un brillante guerriero che ha compreso l’importanza di attrazione del soft power. Un altro esempio proviene dall’ex Primo Ministro australiano Kevin Rudd, il quale ha tenuto un discorso durante la Conferenza su Xunzi del 2014 a Qingdao. Nel suo discorso, Rudd sollecitava la Cina e gli Stati Uniti incoraggiandoli ad evitare la trappola di Tucidide del conflitto tra potenza in ascesa e potenza dello status quo e piuttosto a formare un nuovo tipo di relazione tra grandi potenze basato su comuni interessi, cooperazione e costruzione di mutua fiducia nel lungo periodo. Per delineare questa richiesta alla mutua fiducia e cooperazione tra Stati Uniti e Cina con l’uso dell’Arte della Guerra, le conclusioni del discorso riportavano l’ammonimento di Xunzi secondo cui “L’arte della guerra è di vitale importanza per lo stato. È una questione di vita o di morte, la via della salvezza o della rovina. Pertanto è una materia di indagine che non può mai in nessun caso venire meno”, e in seguito suggeriva che in questi tempi moderni la parola stato venisse sostituita con quella di mondo”.

D’altro canto, quanto a esposizione del soft power e all’attiva adesione al servire il popolo o wei renmin fuwu 为人民服务di tradizione maoista che riprende il motto per un’arte del governo così come nel Xunzi si trova quella della guerra a difesa dello Stato, altrettanto avviene nella linea filosofica del confucianesimo nel più classico dei sensi, anche se in parte distintamente dalla visione mistico-poetica taoista, con un accento focalizzato più nettamente sull’arte del buon governo in senso morale, dell’educazione e della benevolenza all’attivo servizio del bene del popolo. Non stupisce,dunque, se per parlare degli Istituti Confucio ci accingiamo a citare un passo del Maestro che ne chiarifica aspetti essenziali. D’altronde, come poter inquadrare contestualmente il concetto del soft power cinese tanto quanto le recenti vicende accadute tra il 2019 e queste prime fasi del 2023 per la grande quantità di chiusure (soprattutto negli Stati Uniti) o decise manifestazioni di insofferenza che in Occidente (in Europa sono stati chiusi diversi centri soprattutto in Svezia, Finlandia, Belgio, Portogallo e ora se ne minaccia la chiusura in UK) hanno subìto i centri culturali dedicati dallo Hanban, contrariamente alla diffusione capillare degli Istituti Confucio che aveva inizialmente preso piede, è cosa di trattazione presente in vari giornali esteri e disvelato in base a due principali traiettorie o sommari punti di vista: il solito, tipico o pro o contro, che noi qui vorremmo cautamente evitare; eppure sta avvenendo con grande velocità nel mondo sia accademico che politico una difficile battaglia, esponendoci forse per la prima volta dopo l’inizio della guerra in Ucraina a quella versione realizzata della visione multipolare integrata che i cinesi da decenni vanno inseguendo per il loro ideale nuovo ordine mondiale. Ma a quanto pare non corrisposto da un vero dibattito in Italia, dove attualmente vige un riserbo assoluto e un silenzio quasi tombale sulla questione, in particolare quella degli IC. In Italia questi Istituti sembrano non essere stati toccati da questo fenomeno, o almeno apparentemente. Anzi, pare che ai 12 centri già presenti se ne possano aggiungere degli altri, quindi nuove aperture. Eppure, nel 2019 il caso scoppiò con una serie di pubblicazioni in forma di botta e risposta tra accademici e sinologi delle università italiane, nello specifico a prendere la parola furono per loro stessa iniziativa Stefania Stafutti, Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, rispettivamente delle Università di Torino e Ca’Foscari di Venezia. Inizialmente con una presa di posizione verso le rivolte degli studenti represse duramente ad Hong Kong a partire dal marzo-aprile del 2019 contro la decisione del governo hongkonghese di creare una nuova legge sull’estradizione dei latitanti dopo il caso dell’uccisione di Poon Hiu-ala da parte del suo fidanzato Chan Tong-kai a Taiwan, per i Paesi verso cui Hong Kong non ha questi accordi (nella fattispecie nessun accordo con la Cina continentale né con Taiwan, nda), la sinologa docente dell’Università di Torino e a capo dell’Istituto Confucio ad essa collegato Stafutti faceva appello diretto al Presidente Xi Jinping per una mediazione di pace tra le fazioni, invocando la missione culturale democratica svolta dalle istituzioni accademiche che si occupano di Cina e la studiano da vicino. Da quel momento ad intervenire nel dibattito tra accademici è sorta la preoccupazione sollevata dall’ex docente del Dipartimento di Lingue orientali di Ca’Foscari e sinologo Maurizio Scarpari per una deriva dovuta all’influenza negativa su temi sensibili da parte degli Istituti Confucio radicati nelle Università italiane che non ammettono per quanto attiene la politica estera visioni difformi da quella indirizzata dal governo centrale, ponendo seri problemi di interferenza con il corso dell’insegnamento curricolare e dello svolgimento delle tesi di laurea nelle stesse università ospitanti, tanto da far parlare per la prima volta in Italia di autocensura verso questo tipo di tematiche anche in  seno alle istituzioni accademiche italiane. Il professor Scarpari ha continuato spesso ad intervenire cercando di farsi comprendere dalle istituzioni accademiche italiane, e soprattutto avviando un serio dibattito iniziale tra docenti e studiosi della materia, ma a quanto pare le sue sollecitazioni sono state lasciate cadere nel vuoto. Particolari, per il modo sferzante, puntuale e incisivo, sono i suoi interventi al Corriere della Sera, su Formiche.net e sul blog Sinosfere[12], pur essendo un sostenitore dell’avvio verso la chiusura di questi centri, lo abbiamo voluto citare per l’ovvia ragione che la loro influenza sarebbe deleteria per la continua interferenza nell’attività di ricerca e didattica e, come unico motivo, il professore adduce la necessità di un limite del loro finanziamento nelle università, di fatto lasciate in mano a personale non abbastanza preparato per gestire le contrattazioni coi centri a loro collegati. Il professore sostiene, inoltre, che se non fosse per gli ingenti finanziamenti che gli IC portano con sé, difficilmente ci sarebbe tutta questa facile e spinta operazione di attirare a sé un IC nella propria università, e che questo avviene sulla base proprio delle competenze che il direttore di riferimento dell’IC preposto ha nei confronti della materia e di come sa o meno gestire l’Istituto. In gran parte in Italia gli IC se più o meno buoni nella loro qualità e scelta dei programmi dipende molto da chi all’interno dell’università collegata li gestisce, questo in definitiva è ciò che fa qui la differenza. Ma da noi, a quanto pare, governo e dibattito si sono arenati sul tema da tempo. In altre parti del Continente europeo, però, la musica cambia, come in UK ad esempio. Che detiene il primato insieme agli Stati Uniti di numero di Istituti sul suo suolo. In Francia sono 18, in Gran Bretagna sono 30. Il caso in specie poi si riferisce qui alle recenti prese di posizione del governo britannico[13] con la decisione (ancora da confermare) da parte del nuovo PM  Rishi Sunak di voler chiudere tutti e 30 i centri di lingua e cultura cinesi. Ma per quale motivo? E perché questo declino apparente tanto repentino? Secondo il recente (ottobre del 2022) articolo del The Telegraph, perché un report britannico ha messo in luce nelle sue investigazioni che solo 4 su 30 fra gli istituti rende davvero un servizio di tipo linguistico e culturale. Per districare la situazione della partnership con gli IC in UK si sta considerando una nuova legislazione con un emendamento alla legge sull’ Higher Education (Freedom of Speech) Bill, ma a quanto pare sembra una scelta arbitraria. Al contrario, una soluzione più sbrigativa e permanente pare sia all’ordine del giorno, ovvero la scelta fatta dal Primo Ministro Rishi Sunak di mettere ai voti un totale scioglimento dei vari IC. Dopo aver tacciato la Cina come “minaccia numero uno” per la sicurezza interna e globale, ha promesso di “cacciare fuori dalle nostre università il PCC”. Con le seguenti parole “Quando è troppo, è troppo. Per troppo tempo i politici britannici e nel mondo hanno steso il tappeto rosso e chiuso gli occhi di fronte alle ambizioni e alle nefande attività cinesi. E questo cambierà dal giorno uno a partire da quando sarò Primo Ministro”, ha promesso di mettere un freno e congelare la situazione cogli IC in Gran Bretagna, quindi la cosiddetta “cattiva influenza” di Pechino pare avere i giorni contati in UK. Questa tuttavia, ci sembra geopoliticamente parlando la tattica peggiore, proprio perché come già evidenziato gli IC verranno comunque rinominati e gli interessi verso questo Beijing Consensus difficilmente avrà termine a breve, date le ingenti poste in gioco.

Cosa di meglio, dunque, per introdurre il nostro punto sulla questione geopolitica della lingua come strumento di diffusione e veicolo della millenaria civiltà e del complesso della cultura cinese attraverso la creazione degli Istituti Confucio se non partire dalle parole medesime del “filosofo” o meglio Maestro di quel pensiero che più ha influenzato e condizionato questa parte di mondo nei successivi secoli a venire per poi ai giorni nostri giungere fino a noi? Di fatto questo scopo – ecco il motivo per cui si parla qui di geopolitica della lingua, cercando di rintracciare la complessità e le difficoltà del rapporto tra la diffusione della cultura cinese e le strategie messe in atto dal governo cinese come sforzo per la sua implementazione e influenza nel mondo dando loro spazio attraverso il finanziamento di queste istituzioni da parte del Ministero dell’Educazione e lo Hanban- sono stati chiamati a perseguire tali centri culturali, a partire dalla loro fondazione nel non troppo lontano 2004, anno in cui il primo Istituto Confucio sotto l’era di Hu Jintao fece la sua comparsa a Seoul, Corea del sud, e per primo ospite presso l’Università del Maryland negli Stati Uniti.[14] Nota è la posizione del Maestro su cosa debba appartenere all’uomo nobile o 君子 junzi e quali siano le primarie qualità che gli appartengono sia per educazione acquisita, il wen, che per naturale inclinazione, ovverosia il zhi, e come di conseguenza si debba comportare. Di fatti così si narra in un noto passo del Lunyu o Dialoghi, uno dei più noti tra i 13 Classici confuciani: 7.“Zigong domandò in che cosa consistesse l’arte del governo. Il Maestro disse: “Viveri a sufficienza, un esercito adeguato e la fiducia del popolo”. Zigong domandò: Dovendo rinunciare a una delle tre condizioni, a quale rinuncereste?” “All’esercito”.”Dovendo anche rinunciare a una delle due rimanenti, a quale rinuncereste?” “Ai viveri. Fin dai tempi antichi la morte è parte di noi, ma se non vi fosse la fiducia del popolo, mancherebbe ogni fondamento”. 8. “Ji Zicheng domandò: “L’uomo nobile di animo (君子) è tale per inclinazione naturale (), che necessità avrebbe dell’educazione ()? Zigong replicò: “Ahimè, come potete pronunciare simili parole sull’uomo nobile di animo! Nemmeno una quadriga di cavalli riuscirebbe a fermare la vostra lingua! L’educazione è importante  quanto l’inclinazione naturale! L’inclinazione naturale è importante quanto l’educazione! Proprio come la pelle di una tigre o di un leopardo sono preziosi quanto la pelle di un cane o di una capra!”[15] Per la summa del pensiero confuciano, pertanto, si può notare come siano di rilevante importanza sia l’innata predisposizione naturale che l’educazione/la cultura nel rendere l’uomo nobile d’animo, di alto valore: questo è il concetto di Principe a cui si rimanda anche in altri testi di filosofi successivi suoi discepoli (come Mencio all’interno del Mengzi) e che dimostra inevitabilmente come siano condizioni sine qua non un uomo possa essere in grado di gestire il buon governo. Saper governare, dunque, significa essere in possesso delle qualità del Principe. Non solo: di vitale importanza è per la sua stessa sopravvivenza il saper ottenere la fiducia del popolo, attraverso il 仁ren o benevolenza, pena la revoca del mandato o tianxia*geming天下革命 (*geming è un termine da cui deriva la parola moderna di “rivoluzione”). Dunque, per quale motivo abbiamo dovuto citare questo passaggio dei Lunyu e a quale scopo questa digressione sui termini confuciani più importanti nella concezione del “servire il popolo”, ovvero servirlo attraverso la conoscenza e l’educazione per ottenerne la fiducia (questo implica il conferimento o la revoca del Mandato Celeste o 天命 tianming per un sovrano o per chi svolge cariche governative, ancora oggi molto presente nella mentalità cinese), dovrebbe esserci di una qualche utilità? Presto detto: oltre ad essere nello specifico una summa che bene rappresenta il pensiero confuciano, in cui risiede la centralità dei concetti di Principe e di creazione dell’armonia cosmica che stiamo discutendo per il suo uso in seno alle nuove concezioni del soft power cinese o wenhua ruanshili 文化软实力, la formula è la metafora con cui sarebbe stato bello si fossero avverati i migliori auspici per una lunga vita degli stessi Istituti Confucio nel mondo, ma è stato davvero possibile tutto ciò? In parte di sicuro, perché lo straordinario lavoro di diffusione e finanziamento ingente da parte del governo (esperti stimano una cifra che si aggira intorno ai 10 mld di dollari all’anno di spesa complessiva) ha portato alle seguenti cifre: al 2019-20, c’erano dai 525 ai 550 Istituti Confucio e all’incirca 1.113 classi per i corsi alle scuole primarie e secondarie nel mondo, in particolare concentrate tra Europa e Stati Uniti, per un totale di oltre 150 Paesi coinvolti nel progetto con circa all’attivo 8-9 milioni stimabili di discenti in tutto il globo. Se si guarda ai soli USA (oltre 100 IC complessivamente), citando l’ultimo report del Servizio di Ricerca del Congresso americano, le cifre al 2020 salgono, per poi decrescere sensibilmente a causa delle progressive chiusure: si parla di oltre 160 Paesi coinvolti nel mondo (le stime sono diverse poiché se da una parte alcune sedi vengono chiuse, da altre se ne aprono rapidamente), e dell’impatto di queste istituzioni sul sistema educativo negli States che al 2019 includeva poco meno di 100 di questi Istituti su suolo americano. Questo fino a  una progressiva ma decisa decrescita nel periodo afferente al 2020-22. Il caso viene dibattuto dal report effettuato dal già citato GAO[16], ovvero lo United States Government Accountability Office, organo del Senato USA, attraverso testimonianze redatte per la Sottocommissione permanente alle investigazioni del Comitato sulla Sicurezza nazionale e gli Affari governativi, rilasciata a fine febbraio del 2019. Nel rapporto si sottolinea che, come in quello di Rachelle Peterson del 2017, vanno ricercate le cause della disaffezione e poca fiducia verso questi centri nei contratti stipulati dalle università con essi. In tutto, il rapporto GAO riuscirà a rintracciarne una novantina su tutte le oltre 100 sedi presenti. Nel rapporto si contestano agli Istituti di essere parte di una rete quasi “aggressiva”, di poter arrivare a minacciare o silenziare personale e studenti, di interferire nella didattica delle università e scuole ad essi collegati e di non informare su buona parte delle clausole che i contratti con essi stipulati comportano, o di tenerli perfino secretati mantenendo il totale riserbo all’esterno, di reclutare personale o metterne parte di esso a disposizione per compiere atti di spionaggio. Inoltre, questa continua pratica di sabotaggio della credibilità e fiducia, ha reso difficile il reperimento delle informazioni e della redazione del report finale che è stato presentato in audizione al Senato USA (le stesse preoccupazioni e difficoltà erano state accertate dalla stessa Rachelle Peterson nel suo rapporto del 2017, poi aggiornato al 2021, per il NAS). Tuttavia, potremmo anche azzardare l’ipotesi che in parte questi auspicati risultati non si sono verificati o non più come durante gli entusiasmi nell’iniziale fase dell’apertura delle sedi, perché a quanto pare a causa delle più recenti (ma, in realtà, le questioni risalgono a partire già dall’incidente accaduto presso l’Università di Chicago nel settembre del 2014, e di cui si è discusso sopra in questo nostro articolo, nda) manifestazioni di insofferenza verso queste istituzioni viene quasi da dire che per certo non sono più congeniali o ben viste da numerose istituzioni accademiche e dai governi che in generale hanno preso parte a questa diffusione culturale in Europa e negli Stati Uniti: eppure, sarebbe ingiustificato non ammettere, al di là delle revoche e chiusure, anche il ruolo di prestigio e di divulgazione culturale associato e promosso attraverso di essi tra le migliori realtà istituzionali  e universitarie presenti nel mondo. Questo è anche quello che viene dibattuto nel recente podcast dell’inserto al quotidiano britannico The Spectator, nel quale il ventennale responsabile diplomatico in Cina e RUSI think tank Senior fellow Charles Parton, esperto di spionaggio internazionale in UK, afferma ,quanto agli Istituti Confucio, che questi siano comunque una necessità per i paesi che vengono coinvolti dal progetto di scambio, che non ci sia bisogno di un’eccessiva critica nei confronti di queste istituzioni fino alla loro dismissione completa o alla loro rappresentazione come il “male assoluto”, ma piuttosto che rimangano importanti per conoscere meglio, quand’anche divulgassero della propaganda di regime, il senso generale della cultura da cui derivano e a cui si dedicano, che pur sempre vada compresa nella sua complessità e non debba essere per forza l’unica fonte a cui attingere informazioni sulla Cina, visto che in Cina e al suo esterno esistono ormai oggi svariate fonti diverse di cui beneficiare per l’approccio di tanti temi sulla sua stessa cultura, perfino quelli sensibili come la questione del Tibet o la storia dell’Incidente (come viene definito sbrigativamente e propagandisticamente in Cina) o Massacro (come viene etichettato più enfaticamente e altrettanto in maniera propagandistica in dissenso con la visione di Beijing qui da noi) di Tian’An Men. Possono, al contrario, essere considerati delle vere “mine vaganti” in quanto al loro vero scopo, soprattutto in seno alle Università e le Accademie di più alto livello e prestigio, il che diviene sempre più ampio e difficile da controllare, dato che svolgono un’attività connessa direttamente con l’Ufficio di Propaganda e il Ministero dell’Educazione cinese, quindi alle dirette dipendenze del governo centrale e non come tutti gli altri soggetti non-profit tra i centri culturali che popolano il resto d’Europa in qualità di “istituti culturali” per la diffusione delle lingue, anche quando in parte fornitori degli stessi interessi nazionali direttamente ad essi collegati, come ad esempio promozioni del Paese che servono ad ottenere legami anche diplomatici, ma che diversamente non sono promanazione diretta del governo. Nel caso degli Istituti Confucio, invece, si ha un intento meno esclusivamente limitato alla sola questione dell’insegnamento o della semplice sponsorizzazione nazionale, che resta piuttosto velata da un travestimento in incognito come già riportato dalle parole dell’ex membro del Politburo LI Changchun. Il loro servizio si amplia e non di poco, arrivando a scambi anche in seno alle attività accademiche connesse con le università e i college a cui si interfacciano, svolgendo attività di tipo disciplinare complesse, che possono variare dalla tecnologia alla medicina, alla scienza, e condurre quindi a spionaggio o altre forme di interferenza come quelle sulla proprietà intellettuale. Parton illustra come non siano esattamente uguali ai nostri centri culturali, per quanto per una parte ne svolgano una stessa funzione e siano comunque legati al governo di riferimento, come nel caso del British Council o di Alliance Française o dell’Istituto Cervantes o della Società Dante Alighieri. E, in base a questo principio del servizio, la Cina lo ha fin dall’inizio usato e tenuto in gran conto, spingendo verso un’intensa opera di lobby e integrazione. Forse perfino troppa integrazione, soprattutto poiché – e questa è la parte più preoccupante- gli Istituti Confucio sono parte della più ampia strategia facente capo allo United Front Strategy o in cinese lianhe chenxian zhanlue 联合陈线战略. La Strategia del Fronte Unito è una strategia politica del PCC che coinvolge reti di gruppi e di individui chiave che sono influenzati o direttamente controllati dal Partito, ed utilizzati per promuovere i propri interessi. Alcuni suoi elementi possono essere fatti infiltrare nelle università esattamente come quanto già accaduto per la CIA nelle università degli Stati Uniti. Storicamente è stato un fronte popolare a partire dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949 ed ha incluso anche gli altri otto partiti legalmente autorizzati dal Parlamento cinese, ovvero l’Assemblea nazionale del popolo, e organizzazioni popolari che hanno una rappresentanza nominale all’interno della stessa e nella Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC). Sotto il segretario generale del PCC Xi Jinping il Fronte Unito e i suoi obiettivi di influenza si sono espansi in dimensione e portata. La principale strategia in questo momento è segnata dall’identificazione di un principale nemico a cui mirare (ovvero gli USA, che sono attualmente il principale nemico sul fronte internazionale e diplomatico delle relazioni internazionali), e renderlo in effetti neutralizzato o diminuito formando intorno ad esso un “vuoto” diplomatico di consenso, utilizzando la leva dei satelliti o paesi più neutrali nei confronti del PCC e del governo cinese e spostando il loro asse da quello gravitante intorno gli USA a quello che aderisce o si allinea alla sfera e linea del PCC. Perché? Per i motivi adotti all’inizio di questo articolo, ovvero la sua politica interna tutta strenuamente indirizzata verso il文化软实力wenhua ruan shili, ovvero il Soft Power cinese per la conquista del primato internazionale nel centenario dalla fondazione del PCC e della Repubblica popolare. Infatti, il governo cinese sotto Xi Jinping ha come obiettivo quello di raggiungere il massimo della potenza entro il 2050 (il centenario della fondazione della Rep.Popolare sarà nel 2049) e in particolare in questo primo secolo del millennio; e per raggiungere l’obiettivo di accumulare conoscenze di tipo scientifico e tecnologico atte a mostrarne la supremazia politica interna e esterna a livello internazionale, pertanto, come già detto, attraverso il Ministero dell’Educazione, ha programmato e finanziato un metodo per infiltrarsi, in oltre 500 diverse realtà accademiche e culturali, con questi istituti integrandoli nel comparto educativo di prestigiose realtà accademiche, soprattutto di lingua inglese e dunque americane e britanniche, per cui  –all’incirca tra i 535  e i 550 al momento di massimo picco della loro diffusione nel periodo 2019-20 – poter, secondo la loro stessa definizione, svolgere alcuni punti chiave della missione di influenza culturale (o come afferma lo stesso Parton perfino per compiere dello spionaggio a livello accademico su mandato dello United Front), che secondo il seguente report, Outsourced to China (2017), di Rachelle Peterson[17] e altre fonti ad esso assimilabili, riporta attraverso lo Hanban a questi sommari punti chiave:

  • Sulla Libertà Intellettuale si deve ricordare che gli insegnanti vengono reclutati e pagati dal PCC, in quanto gli IC sono afferenti al Ministero dell’educazione attraverso lo Hanban, che li ritiene responsabili del programma svolto e del tipo di insegnamento tanto da definire fin da subito censurati i temi sensibili che toccano le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan) o la Rivoluzione Culturale e punibili o perseguibili quelli che ne trattano
  • Quanto ai contratti tra università e strutture afferenti allo Hanban, per quanto attiene alla trasparenza, raramente vengono resi pubblici e consultabili. Questo crea un grosso problema per poter raccogliere anche dati sensibili per le ricerche sul campo sugli IC e il loro finanziamento
  • Quanto alle connessioni tra strutture e all’esercizio del pensiero critico, gli IC coprono tutte le spese collegate alla fornitura del materiale didattico e offrono anche borse di studio agli studenti americani per studiare all’estero. Ma con tali incentivi finanziari, piuttosto ingenti, le università ad essi collegate spesso fanno difficoltà a potersi porre in una condizione di libero pensiero, libero dibattito e di libera critica
  • Quanto a soft power gli IC evitando di trattare argomenti sensibili, censurano la possibilità di intervenire su argomenti scomodi quali il trattamento delle minoranze uigure e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, presentano come territori indiscussi Taiwan e la regione del Tibet , di conseguenza, trattando così gli argomenti suddetti, sviluppano una generazione di studenti americani che ha conoscenze selettive riguardo un grande paese e un maggior avversario.

 

  • Gli IC pretendono di essere assimilabili a centri culturali tipicamente in attività nel mondo, quali il British Council o l’Alliance Française, ma pur fingendo di esserlo, in realtà sono una macchina della propaganda di regime finanziata e diretta dal governo centrale cinese.  Il report del NAS raccomanda prudenza, quindi, per non aprire più su suolo americano IC affiliati alle università.

Tuttavia, al contrario, nell’ex pagina dedicata allo Hanban, si poteva leggere che la missione degli Istituti Confucio erano strettamente collegati al loro Statuto o Costituzione con queste principali finalità:

  • Fondazione del NOCFL o “China National Office for Teaching Chinese as a Foreign Language” nel 1987(Hanban Directorate), al fine di attivare la mutua conoscenza e amicizia, nonché promuovere una migliore comprensione tra il popolo cinese e i popoli nel mondo, attraverso lo studio della lingua, e per promuovere la cooperazione tra questi a livello economico-commerciale, così come per quella scientifica, tecnologica e culturale.
  • Il gruppo a capo dell’Ufficio del Direttorio  è composto dai membri di 12 ministeri di Stato più le commisisioni, incluso il Ministero dell’Educazione, il Ministero delle Finanze, il Ministero degli Esteri, ecc. Il Consigliere di Stato Chen Zhili è il presidente di questo gruppo. L’OCLCI o “Office of Chinese Language Council International” , meglio noto come Hanban, viene governato da questo gruppo.
  • Lo Hanban è il braccio esecutivo del NOCFL, ovvero un’organizzazione non-governativa e non-profit affiliata al Ministero dell’Educazione cinese.
  • Lo Hanban è impegnato a rendere disponibile nel mondo i servizi e le risorse per l’insegnamento della lingua e cultura cinese, per andare incontro alle richieste dei discenti all’estero cinesi, e a contribuire alla formazione  di un mondo fatto di diversità culturale e d’armonia. Per questo, il più visibile progetto dello Hanban sono gli Istituti Confucio.
  • Lo Hanban lavora anche al fianco di organizzazioni all’estero per sviluppare corsi di lingua cinese nei rispettivi Paesi. Nel 2004, Lo Hanban e il College Board (USA) hanno sviluppato il programma per esami “AP Chinese Language and Culture Course and Exam”. Come conseguenza di questo e altre iniziaitive, circa 160 insegnanti di lingua cinese  negli Stati Uniti hanno preso parte ai corsi dell’AP Chinese Teacher Summer Institutes.
  • A partire dal 2006, lo Hanban ha continuato a inviare negli Stati Uniti insegnanti volontari dalla Cina. 105 tra questi insegnanti hanno svolto l’insegnamento del cinese in circa 30 stati della federazione USA.

Questo come abbiamo detto è vero, però, solo in parte. Nell’articolo dell’Heritage Foundation troviamo per la prima volta nel maggio del 2021[18] una voce che prende parola e conferma quelle descritte sopra dal professor Marshall Sahlins e dal report di Rachelle Peterson, in merito al fatto, come lo stesso titolo dell’articolo introduce, che i vari Istituti Confucio siano delle specie di “virus” o dei “Trojan horse” all’interno delle università statunitensi e europee. Dobbiamo ricordare che anche il Giappone, nonostante la sua tradizione millenaria anch’essa mutuata dal confucianesimo cinese e nonostante si trovi nell’area di influenza dell’Asia orientale ormai gestita dal risveglio della potenza asiatica cinese, ha deciso di chiudere questi centri allineandosi al modello della strategia internazionale americana ed europea sul “chiusurismo” e che quindi anche questo punto di vista, del ph.D. e stimato storico del conservatorismo americano Edward Lee è piuttosto condizionato da un pervasivo ideologismo di tipo trasversale a destra quanto a sinistra dell’ala del governo americano (perché sono gli Stati Uniti quelli che vengono maggiormente presi di mira e attaccati dalla strategia del soft power cinese attraverso l’utilizzo dei centri confuciani) quanto alle soluzioni da adottare nei confronti degli Istituti Confucio: un punto di vista conservatore e molto definito per quanto riguarda la politica da adottare verso le procedure per tenere a freno ingerenze di contro intelligence cinese, ma che non hanno determinato finora una vera e propria soluzione efficiente ed efficace per quanto attiene al secondario problema della chiusura dei centri per motivi esclusivamente culturali e linguistici che sfociano in forme di tipo auto-censorio verso le informazioni. Lo riportiamo in quanto troviamo, comunque, il pezzo tuttavia moderatamente corretto negli intenti che sorreggono le motivazioni del suo scritto e che in parte condividiamo per l’obiettività con cui vengono presentati i fatti: nel presente citato articolo vengono subito messi in risalto due problemi fondamentali che in effetti sono al momento presentati come motivazione basilare per la scelta di applicare questo chiamiamolo “collettivo chiusurismo” nei confronti dei centri culturali cinesi confuciani, ovvero il fatto che se gli addetti all’insegnamento presso gli Istituti vengono trovati quasi fossero in flagranza di reato ad aver tenuto delle lezioni o aver pubblicato qualcosa di difforme da quanto impartito dal governo centrale non possono fare rientro regolare in Patria e le loro famiglie in Cina vengono minacciate; inoltre, lo citiamo per il fatto che il capo dell’FBI, Christopher Wray, sta valutando e da tempo seguendo molto attentamente con tutto il possibile impianto di intelligence americana del suo Bureau gli Istituti e, dunque l’amministrazione Biden dovrebbe affidarsi ai report dell’FBI sulla questione dell’ingerenza da parte della Cina con questi Istituti che svolgono un ruolo attivo propedeutico alla sottrazione di high-tech e intelligence americana a favore della contro intelligence e dello spionaggio cinesi. Sebbene dietro le parole che abbiamo letto di Edward Lee esista un evidente interesse per la sicurezza nazionale USA, bisogna ricordare che i centri non andrebbero chiusi, ma secondo la nostra opinione la loro partecipazione in seno a certe realtà accademiche ad alti livelli andrebbero ripensate dalle università. Di fatto, il vero problema come ben puntualizzato in precedenza dall’amministrazione Trump sono le stipule dei contratti e le ingenti somme di denaro di finanziamenti che sono stati stipulati e sono pervenuti alle stesse università, le quali ora si lamentano pur avendo ricevuto per il loro spesse volte stesso blasone delle moli di denaro di sovvenzione per i loro programmi. Detto questo, sono dei tipi di contratto, purtroppo a volte, secretati, e come evidenziato che le università stipulano tra loro e lo Hanban direttamente insieme col Ministero del’Educazione cinese che andrebbero meglio sorvegliati, ovvero necessitano di periodica revisione e di maggior informazione e formazione da parte degli aderenti e addetti degli organi interni all’università stessa, dato che decidono in modo troppo autonomo le forme di collaborazione da avviare con la Cina, dovendo poi essere costretti a rispettare anche clausole vessatorie o improbabili per il normale decorso e adempimento degli studi e della ricerca. Se con una migliore disposizione verso l’apertura alla Cina fossero adempiute stipule con maggior incentivo alla disclosure sarebbe forse possibile che non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in altre regioni del globo che decidono di installare un Istituto Confucio avessero meno problemi fin dal loro insediamento. Ciò detto, resta comunque improbabile che i centri universitari di maggior spicco e con dipartimenti particolarmente dedicati a settori di interesse per la sicurezza nazionale e la proprietà intellettuale (e quindi non solo con finalità educativo-culturale verso la sinologia in senso stretto, ma più che altro verso settori tecnologici, militari e per le analisi di difesa, economico-finanziari o perfino dedicati all’ alta medicina con utilizzo di patenti e brevetti, magari in AI, oppure dedicati alla scienza, alla fisica e chimica e allo sviluppo di energie rinnovabili) possano d’ora in poi decidere di contrarre un servizio aggiuntivo ai loro distaccamenti con gli Istituti Confucio, anche se questo dovesse significare un rallentamento sul piano internazionale degli scambi e un lento progressivo allontanamento/sganciamento dalla partnership con la Cina sul versante della strategia del soft power e della diplomazia internazionale. Infatti, come abbiamo dimostrato citando vari report e in particolare commenti su quotidiani e giornali online riguardo il caso, che considerano gli Istituti alla stregua dei “programmi spam” o dei “virus Trojan horse” nei loro intenti, giusto per mutuare un‘espressione in uso nel settore dell’informatica, siamo convinti della buona fede dei diretti dipendenti degli Istituti, gli insegnanti che in fondo rischiano di venire anche per parte loro ostracizzati in Cina, così come della grande necessità di poter accedere ai programmi di lingua e cultura svolti dagli stessi in questo arco temporale lunghissimo di co-partecipazione con le istituzioni di vari paesi nel mondo, più o meno accademiche o para-accademiche. L’aver etichettato come tali gli Istituti Confucio dà al mondo l’idea che questi si permettano immancabilmente il lusso di ostacolare in via del tutto esclusiva i programmi educativi svolti all’interno dell’università, su qualsiasi argomento si possa arrivare a dibattere, culturale e non, ma in realtà così non è, e una loro definitiva chiusura comporterebbe un’immane perdita per l’approfondimento delle conoscenze in ambito sinologico, quantomeno per il solo fatto che spesso sono le poche uniche fonti di reperimento del materiale di ricerca che ci perviene direttamente dalla Cina, quand’anche fossero evidentemente di stampo particolarmente ideologico e direzionato. Concordiamo sul fatto che, come ha dichiarato lo stesso Parton durante la sua intervista a The Spectator, nessuno si sia mai convertito pericolosamente al PCC e alla sua ideologia intrinseca solo per il fatto di aver leggiucchiato ogni tanto le news provenienti dalla Cina sul People’s Daily, quotidiano organo e voce del partito, o il Renmin ribao nella sua versione in cinese, o l’agenzia online Xinhua come pure il Global Times nella sua versione inglese; piuttosto la scelta dovrebbe ricadere su una puntuale cernita e individuazione contestualizzata degli argomenti svolti o ricercati, sapendo scremare l’ideologia da corretta e obiettiva informazione, a seconda del ruolo svolto dall’istituzione accademica afferente e del contesto in cui la ricerca viene a contatto. Di fatto, come sottolinea l’ex diplomatico e ora imprestato all’intelligence britannica Charles Parton, siamo dell’idea che questi centri culturali debbano essere messi più strettamente sotto controllo dalle università, ma non esclusi a priori definitivamente da esse, in quanto il problema di tipo censoriale che proviene dagli istituti non meno che da altre fonti di scambio e ricerca con la Cina sicuramente esiste, ma non può trascendere in forme quasi razzistiche di chiusura e ban, dato che svolgono una agevole e pregevole funzione anche di riconoscimento delle diversità di vedute che la Cina sta portando avanti nella sua logica di soft power, concetto con il quale dovremmo essere meglio capaci di dibattere e trovare mediazioni, nonché per la poca dimestichezza generale con la quale esso viene affrontato : il primo e unico colpevole di questa vogliamo pure definirla “deriva”, ammesso che lo sia, è il governo centrale a cui questi centri culturali sono imprestati e da cui vengono centralmente diretti. Questi Istituti svolgono di fatto un lavoro di tipo culturale che non è slegato dal concepimento di una ideologia e strategia del PCC, ma non hanno verso questa una diretta responsabilità decisionale. Di conseguenza, se chiuderli o no resta un grossissimo problema, ma quello che veramente andrebbe proposto è una ricollocazione degli stessi in modo meno entrante nel seno delle università e delle istituzioni scolastiche o organizzazioni culturali dei Paesi ospitanti nel mondo. Purtroppo o per fortuna, ci piaccia o meno qui in Occidente, per poter essere però al passo con la logica del soft power cinese è necessario avere stimoli e conoscenze linguistiche approfondite, perché il linguaggio limitato impedisce ulteriore ricerca nel suo ambito, confonde e crea disarmonie o inconvenienti di comprensione reciproca che proprio le migliori accademie votate alla sinologia dovrebbero poter evitare incentivando lo scambio ad alti livelli, nella speranza che anche in Italia ci si adegui a questa sollecitazione, rompendo definitivamente il silenzio tombale che pare concentrarsi ultimamente proprio intorno al livello alto della ricerca sinologica accademica, in seno in particolare all’Aisc (Associazione italiana dei sinologi), e in generale nelle recensioni o nei commenti dei quotidiani sulla questione, senza troppe riserve per il timore di ricadute di tipo finanziario o di tipo diplomatico verso le istituzioni che li ospitano, trovando il coraggio di parlare e lasciando però libera espressione alle esigenze molto più liberali e direzionate verso la ricerca indipendente delle università, cogliendo l’occasione di interessarsene sapendo fare una corretta ed obiettiva disamina e analisi del caso in specie. Difficile prendersela con la controparte cinese tagliando corto dicendo che è ideologicamente propagandistica, quando dall’altra parte noi stessi non siamo in  grado di dibattere liberamente, e con tutti i crismi della conoscenza di un certo livello, di questioni come questa o di in generale tutto quello che attiene alla sfera delle competenze sinologiche e della millenaria cultura cinese. Questo effettivamente sembra più simulare una sorta di “Maoismo censorio alla Xi Jinping” all’incontrario, nell’alveo del mondo liberale per autodefinizione. Difficile anche dire come verrà usata o se manipolata ulteriormente la discussione riguardo questi centri culturali, che effettivamente includono preoccupanti episodi di ingerenza nei programmi di studio universitari, i quali per loro stessa costituzione sono aperti al dibattito libero e indipendente, ma che nonostante la più totale buona fede anche dell’Istituto Confucio, rischiano tramite una forzosa ingerenza da parte delle autorità centrali del regime di subire un allentamento o perfino una auto-censura che causerebbe l’inficiare dello strumento par excellence della libera espressione, dibattito e ricerca, strumenti indispensabili alla parte occidentale e al Washington Consensus certamente per quanto attiene la sicurezza nazionale e la rivendicazione del suo esclusivo strategico soft power, ma non meno impregnati di altrettanta radicata e fondamentale tradizione alla “cultura direzionata” da noi, non potendo in questo i cinesi mancare di reciprocità e attenzione verso le altre culture e diversità come loro stessi vanno predicando e sbandierando. In conclusione, possiamo dunque affermare che non siamo totalmente allineati né con l’una né con l’altra parte, ma condividiamo le preoccupazioni generali addotte dallo stesso Charles Parton e dalla più compassata tradizione di intelligence britannica, che ne individua la giusta e calibrata posizione. La necessità di un buon vero pensiero critico sarebbe quello di adottare delle soluzioni, anche piuttosto serie e restrittive, senza giungere alla totale ostracizzazione o alla caccia alle streghe, fornendo un metodo risolutivo delle contese creativo e non pretendendo come infine detto fin dall’apertura di questo nostro scritto nessun tipo di flebile o immaginifico wishful thinking sulla questione, ma nemmeno una rigida impostazione dialettica estremizzata nel o tutti pro o tutti contro, tipica dell’attuale moderna incapacità critica. Un vero sollievo sarebbe per la controparte cinese poter riconoscere, e dare così definitivo scacco matto all’antagonista parte americana e britannica, ma in fondo a tutto il versante occidentale, di essere in posizione di supremazia a causa della grave carenza di pensiero creativo e critico di questa parte di mondo che possa portare a una soluzione ragionevole e brillante, fornendo idee che possano far transitare da questa impasse. Sarebbe un regalo enorme al nostro avversario diplomatico. Non per niente in gioco ci sono le migliori teste che l’Occidente tutto sta mettendo a disposizione per risolvere questo caso, sebbene finora poco sia stato detto di veramente interessante in merito in Italia, tutta concentrata in altre apparenti amenità politichesi, e mentre poco sia stato prodotto in questi ultimi 4-5 anni nei confronti di uno sviluppo di una nuova strategia nei confronti della Cina da parte del peso massimo delle potenze più influenti nel mondo fino a ora coinvolte nell’affaire: gli Stati Uniti.

Eppure bisognerebbe tenere bene in mente che sono state proprio le università le protagoniste di questo mancato pensiero critico e creativo, ma più del wishful thinking o del solito “modello pro-contro”, e a dir il vero a non essere state capaci, da voci autorevoli in merito, di risolvere da sé entro le proprie competenze questo spinoso affaire: ad esse quindi, in particolare a quelle che si interessano di ambito sinologico, non dovrebbe passare inosservato le parole che, in un famoso 成语 chengyu o frase idiomatica cinese
tratto dal classico romanzo di epoca Qing 红楼梦 Hongloumeng, meglio noto in Italia come
“Il Sogno della Camera rossa”, il Presidente Xi Jinping ha usato quasi un anno fa, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, quando, intervistato in una delle tante concitate riunioni internazionali coi giornalisti di quel periodo, gli venne chiesto se la Cina avrebbe o meno appoggiato le scelte del presidente Putin e cosa proponesse la Cina come unico referente mediatore per l’Occidente di fare per fermare la guerra. E il Presidente serafico rispose con la seguente frase idiomatica: “解铃还须系铃人jiě líng hái
xū xì líng rén” 19 , che vuol dire “Spetta a chi ha messo al collo della tigre il sonaglio di levarlo” o “Chi ha iniziato a creare il problema, ecco chi lo deve risolvere ora”. Crediamo che lo stesso si possa dire a riguardo della crisi con gli Istituti Confucio.

[1] Si veda report di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali: https://www.iai.it/sites/default/files/iaip2144.pdf

[2] Si veda articolo online del gennaio 2018 all’indirizzo https://www.politico.com/magazine/story/2018/01/16/how-china-infiltrated-us-classrooms-216327/

[3] Si veda sulla missione dello Hanban l’archivio sul sito dell’Università del Texas: https://web.archive.org/web/20140819085145/http://confucius.tamu.edu/content/about-hanban

 

 

[4] Articolo pubblicato su The Nation, dal titolo “China U. Confucius Institutes censor political discussions and restrain the free  exchange of ideas. Why, then, do American universities sponsor them?”, il 30 0ttobre 2013, e reperibile alla pagina https://www.thenation.com/article/archive/china-u/

[5] Si veda il documento del report dello U.S. Government Accountabilty Office, col titolo “China: Observations on Confucius Institutes in the United States and U.S. Universities in China”, full report disponibile, vedi indirizzo nota 6;

e quello dal Senato e Congresso americano dello US Congressional Research Service, col titolo: “Confucius Institutes in The United States: Selected Issues”, vedi indirizzo nota 6. Per riferimenti, vedi anche sotto, nota 12 e 14

[6] Dal GAO: https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0 ; dallo US Congressional Research Service: https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11180

[7] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3080679/belgian-ban-chinese-confucius-institute-professor-accused

[8] https://www.voanews.com/a/controversial-confucius-institutes-returning-to-u-s-schools-under-new-name/6635906.html?fbclid=IwAR3ja9cXYrLbfOaq4tekaEUnwQAvCucHa3N0EMJHjd4MFtwpbJj0dyzc-Yc

 

[9] https://archive.nytimes.com/sinosphere.blogs.nytimes.com/2014/09/26/university-of-chicagos-relations-with-confucius-institute-sour/?fbclid=IwAR0YF6xGKjr5hfD_NBsePdrsgdr3j7__FU0tAHlnx-gs7nOlkLKSngHRo1s

[10] Angus. C. Graham, “La Ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica”, ed. Neri Pozza, 1999, pp.305-321

[11] https://thediplomat.com/2015/03/sun-tzu-and-the-art-of-soft-power/

[12] Per gli interventi dell’ex docente in ritiro professor Maurizio Scarpari si veda: https://www.corriere.it/la-lettura/19_dicembre_16/cina-noi-fuori-istituti-confucio-universita-italiane-461cd4ca-1f61-11ea-92c8-1d56c6e24126.shtml  ;  https://sinosfere.com/2021/01/13/maurizio-scarpari-allombra-dellanaconda-considerazioni-sinologiche/  ; https://formiche.net/2020/07/pechino-rifare-look-istituti-confucio/ ; https://decode39.com/4547/confucius-institute-italy/?fbclid=IwAR3NTsxZjD6xWEsz4KbRvll2j1fL0LYvW_vjoPhG1A6umZijC8-SvnmLCQU

 

[13] https://bitterwinter.org/uk-sunak-in-confucius-institutes-out/?fbclid=IwAR3qoA3h1wTR09C1D4TtpOCrXcStOxxnrpRnrbTtrZYWy8XUKqAbx5H1AcU ; https://www.outlookindia.com/international/geopolitics-of-language-how-china-s-confucius-institutes-become-extension-of-chinese-state-on-campuses-news-195212/amp?fbclid=IwAR3m53eKqBj_OzFgG-DOHj93qIUW7_4D3AQmMhHSLLGfnhqOOFuopYD2-fk  ;  https://www.telegraph.co.uk/news/2022/10/08/confucious-institutes-universities-part-partys-propaganda-system/

 

[14] Report del Congresso USA, Congressional Research Service, aggiornato al 20 maggio 2022, dal titolo: “Confucius Institutes in the United States: Selected issues”, 1-2pp., vedi in alto nota 5-6

[15] Tiziana Lippiello (a cura di), Confucio. Dialoghi, ed. Einaudi, Torino, 2003, p.137

[16] https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0

 

[17] https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report?fbclid=IwAR0qp7nQjT6IXAgDjp5yUsLbJ0mIRfHNHtaXcydGVvjv6vYjoAhlcwW13pQ#_ftnref17 ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china ;

 

[18] https://www.heritage.org/homeland-security/commentary/confucius-institutes-chinas-trojan-horse?fbclid=IwAR3uw87vKsMl3YDinUjVzjGiXiLzNaCgq2uKejNZrLf9JdZM0VB2f4oLxKQ

19 Vedi spiegazione in cinese del riferimento storico al chengyu usato dal Presidente Xi Jinping
https://zhidao.baidu.com/question/44222555/answer/151347795.html Qui si riporta la traduzione della pagina della fonte citata in particolare questo breve sunto: “Questo chengyu o frase idiomatica deriva dalla storia del monaco Fa Deng. Secondo le citazioni del Buddhismo chan nello “Yuelu – rotolo 23°” compilato da Qu Ruji durante la dinastia Ming, si registra che durante la dinastia Tang meridionale c’era un Maestro zen di
nome Tai Qin Fa Deng nel Tempio Qingliang a Jinling (ora Tempio Qingliang nel parco Qingliangshan) che era troppo severo con i precetti buddhisti e i monaci nel tempio lo disprezzavano. Tuttavia, il Maestro zen Fa Yan, suo responsabile, lo teneva in gran stima. Una volta Fa Yan chiese a tutti i monaci presenti nel tempio mentre teneva una riunione con tutti loro: “Chi può sciogliere la campana d’oro legata al collo della tigre?”
Tutti pensarono e ripensarono, ma non poterono rispondere. In quel momento Fa Deng si avvicinò e Fa Yan gli rifece la stessa domanda. Fa Deng rispose senza esitazione: “Solo la persona che ha legato la campana d’oro al collo della tigre, può slegare la campana d’oro” . Dopo aver sentito questo, Fa Yan pensò che Fa Deng potesse comprendere abbastanza bene gli insegnamenti buddhisti, quindi lo lodò in pubblico.
Successivamente, questa frase è stata tramandata come il chengyu o modo di dire di “解铃还需系铃人jiě líng hái xū xì líng rén”, cioè che bisogna che chi ha legato al collo il campanello sleghi il campanello. Durante la dinastia Qing, Cao Xueqin lo ha citato nel 90° capitolo di 红楼梦 Hongloumeng (Il Sogno della Camera rossa), come “心痛还得心药医,解铃还需系铃人”,ovvero “come un mal di cuore richiede uan medicina per il cuore, così una campana legata richiede a qualcuno di slegarla”. Questo idioma ora è una metafora che
significa che chi ha provocato un problema ora deve comunque risolverlo. Dopo questo “questione”, Fa Deng fu molto apprezzato dal Maestro zen Fa Yan. In seguito, servì come Wei Na (o persona principale responsabile del monastero, dei monaci e della Sala di Meditazione) per la sede del Maestro chan Fa Yan, ed ha assistito il Maestro Fa Yan nella creazione della sua famosa setta Fa Yan delle Cinque Scuole del Buddhismo. ( Traduzione dell’autrice del presente articolo dal brano cinese: “ 这句成语源自一个叫法灯的和
尚。据明代瞿汝稷所编佛家禅宗语录《指月录·卷二十三》记载:南唐时金陵清凉寺(既今清凉山公园清凉寺)有
一位泰钦法灯禅师,他性格豪放,平时不太拘守佛门戒规,寺内一般和尚都瞧不起他,唯独主持法眼禅师对他
颇器重。有一次,法眼在讲经说法时询问寺内众和尚:“谁能够把系在老虎脖子上的金铃解下来?”大家再三思
考,都回答不出来。这时法灯刚巧走过来,法眼又向他提出这个问题。法灯不假思索地答道:“只有那个把金
铃系到老虎脖子上面去的人,才能够把金铃解下来。”法眼听后,认为法灯颇能领悟佛教教义,便当众赞扬了
他。 后来这句话就被以解铃还需系铃人的成语流传下来。到了清朝,曹雪芹在《红楼梦》第九十回中还以“心
痛还得心药医,解铃还需系铃人”加以引用。这个成语现在比喻谁惹出来的事情,仍然由谁去解决。
   这件事之后法灯深得法眼禅师的赏识,后来在法眼禅师座下作维那(寺庙中统摄僧众统管禅堂的主要负责
人),协助法眼开创了佛教五宗中著名的法眼宗”)