LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange
LE MANI SPORCHE E LA LEGA
Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.
Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.
Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.
In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.
All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.
Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.
Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.
Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.
Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.
E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.
D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.
Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.
Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.
Teodoro Klitsche de la Grange