ITALEXIT, di Andrea Zhok
ITALEXIT
In questo periodo nell’area politica che frequento maggiormente c’è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall’ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.
Il manifesto politico è scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell’area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.
La fibrillazione nell’area politica di riferimento (oscillante tra ‘sinistra euroscettica’ e ‘destra sociale’) è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l’europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l’area Borghi-Bagnai, e dopo che l’esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.
L’operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell’Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di “altroeuropeismo”.
Per chi non sia addentro al linguaggio iniziatico di quest’area, per “altroeuropeismo” si intende l’atteggiamento, frequente soprattutto nella sinistra radicale, in cui da un lato si ammettono i difetti dell’Unione Europea, ma dall’altro si professa illimitata fiducia nella capacità dell’UE di autocorreggersi. “Altroeuropeismo” è un termine stigmatizzante in quanto l’Altroeuropeista finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche, che si frappongono ad una riforma radicale (ad esempio in senso keynesiano) dell’impianto normativo dell’UE, distintamente neoliberale.
L’Altroeuropeista esemplare è un parlamentare europeo che da decenni si atteggia a furente critico dell’Europa, salvo però rimanere attaccato al suo scranno e promettendo che le cose andranno meglio in seguito. L’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ le cose dovrebbero cambiare, salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, e si limita a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’, proclamando la propria fede (e ciò magari gli fa guadagnare una cadrega).
Ora, mentre l’accusa di ‘Altroeuropeismo’ ha un’identità semantica ben chiara, per chi si appella all’Italexit, forse può essere interessante mettere alla prova un rovesciamento delle posizioni, per vedere se l’identità semantica del fautore dell’Italexit è parimenti chiara.
Qualcuno infatti potrebbe notare curiose quanto paradossali affinità formali tra i due estremi.
Dopo tutto chi pone l’Italexit come punto centrale e primario, proprio come l’Altroeuropeista, finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche presenti (qui rispetto all’uscita unilaterale dell’Italia dai trattati europei), come l’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ l’uscita dovrebbe avvenire, e come l’Altroeuropeista salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, limitandosi a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’ e a proclamare la propria fiducia. (E chissà che così facendo non riesca pure lui a guadagnare una cadrega.)
A difesa di questa affinità formale si potrebbe dire che, dopo tutto, in entrambi i casi si tratta di posizioni critiche dello status quo, che per necessità devono appellarsi all’ottimismo della volontà, perché se aspettano il conforto della ragione potrebbero aspettare a lungo.
Questa è una possibilità, e se nel dibattito corrente non si fossero alzati i toni in maniera indecente, con accuse di tradimento come se piovesse, non mi sentirei di aggiungere altro.
Ma le accuse di ‘tradimento’ nei confronti di chi ha esaminato e denunciato reiteratamente il carattere neoliberale dell’UE, sono state davvero uno spettacolo po’ eccessivo anche per persone tolleranti.
Dunque, di fronte a questa chiamata alle armi nel nome dell’Italexit (e di ITALEXIT) forse qualche pacato ragionamento è doveroso.
Sulla cattiva coscienza degli Altroeuropeisti mi sono soffermato spesso, spendiamo dunque oggi un paio di parole sull’immaginario da Italexit.
Nell’agitare la parola d’ordine dell’Italexit ci sono, a mio avviso, tre livelli motivazionali possibili.
1) Il primo è il più semplice e diretto, ed evoca l’idea di qualcosa come strappare un cerotto: tieni il fiato, un momento di dolore, e poi stai bene. Qui stanno quelli che “mettiamo in moto la zecca di stato il venerdì sera, a borse chiuse, e zac, lunedì siamo di nuovo in possesso del nostro destino.”
Ora, è doloroso ricordarlo, perché sembra sporcare la bellezza della fede con la volgarità della realtà, però l’appartenenza dell’Italia all’UE consta di un intrico di scambi, contratti e leggi sedimentati in mezzo secolo, rispetto a cui è pia illusione pensare che l’unico problema da risolvere sia poter stampare moneta con valore legale. Che questo sia un punto strategico è certo, ma è solo un tassello in un ampio quadro complessivo. È ovvio che tutti i nostri rapporti reali, finanziari, di import-export, tutti i patti di collaborazione, la normativa sulla sicurezza transfrontaliera, gli accordi industriali, tutta la normativa sulle forme di scambio, sulla concorrenza, ecc. ecc. rimangono in vigore finché non vengono sostituite, una ad una.
Si tratta di un cambiamento storico che richiede non solo il supporto massivo delle forze politiche parlamentari, ma risorse tecnocratiche e la collaborazione di gran parte dei ceti dirigenti. Si tratta di un atto che avrebbe bisogno di un’unità d’intenti a livello nazionale come nella storia d’Italia non si è mai vista. Una volta ottenuta tale unità d’intenti saremmo di fronte ad un processo di medio periodo, in cui tutti gli accordi nuovi che vengono stipulati verranno stipulati sulla base dei reali rapporti di forza tra i contraenti, e saranno questi rapporti di forza a definirli come più o meno vantaggiosi rispetto agli accordi vigenti.
Più che strappare un cerotto, direi che siamo piuttosto dalle parti di tre anni di chemioterapia.
2) Il secondo tipo di argomento è di carattere tattico, ed agita l’Italexit più che come prospettiva rivoluzionaria come fattore di trattativa. In effetti un paese che ha tra le sue opzioni quella di abbandonare il tavolo ha un’arma in più nelle trattative, e in questo senso prendere in considerazione l’Italexit può rappresentare un modo per aumentare il proprio potere contrattuale in Europa.
Per molto tempo, quando in Italia era in vigore un irriflesso unanimismo sui ‘grandi ideali europei’, questa prospettiva tattica ha avuto grandi meriti, e anche ora, quando l’euroscetticismo è oramai sdoganato, rimane un buon argomento. Impostare il discorso in questi termini ha permesso di togliere molti veli e di vedere finalmente i rapporti intraeuropei per quello che sono: accordi tra stati nell’interesse degli stati.
I limiti di questa posizione sono, naturalmente, che una minaccia per conferire reale forza contrattuale dev’essere credibile. E aver maturato la consapevolezza che l’Europa non è il Paese dei Balocchi e che dobbiamo fare, come tutti, i nostri interessi, aumenta solo un po’ la nostra credibilità nel minacciare di andarsene. Il resto della plausibilità dipende da calcoli costi-benefici che hanno a disposizione anche gli interlocutori con cui si tratta e su cui non si può bluffare.
3) Il terzo tipo di argomento è quello del collasso endogeno. In questo caso parlare di Italexit può essere improprio, giacché la prospettiva effettiva è che venga meno per cedimento strutturale interno la casa da cui vorremmo uscire. Dunque non ce ne andremmo sbattendo la porta, perché non ci sarebbero più né la porta né le mura. Questa è l’opzione concretamente più probabile, ma è anche quella rispetto a cui le iniziative italiane giocano un ruolo irrisorio. Possiamo ‘prepararci mentalmente’. Possiamo preparare ‘piani B’. Ma in definitiva il boccino in mano ce l’hanno i paesi che l’UE la guidano, ed in particolare la Germania. Se la Germania decide che l’UE non è più un proprio interesse primario, si mette in moto un processo di disgregazione dei trattati in vigore, e di ridefinizione di altri trattati. Qui l’unico partito efficace per l’Italexit dovrebbe farsi eleggere al Bundestag.
Rispetto sia alle prospettive (3) che (2) qualunque rimodulazione tedesca delle regole europee (come quelle avvenute con il ruolo di supporto ascritto alla BCE, e anche con il Recovery Fund) modifica le carte in tavole e le opzioni disponibili. Condizioni più gravose rendono la minaccia di Italexit più plausibile e il collasso endogeno del sistema più probabile. Al contrario, condizioni di allentamento dei vincoli e di mutualità riducono la plausibilità sia di (2) che di (3).
Visto in quest’ottica, il quadro appare come alquanto meno rigidamente ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare, e alquanto più pragmatico. E in effetti non c’è molto da stupirsi, perché, caso mai ce ne fossimo scordati, l’Italexit non è un fine ma un mezzo. Ed essendo un mezzo e non un fine, le sue forme, la sua plausibilità e l’intensità delle sue pretese possono variare a seconda di come varia il contesto storico e politico.
Dunque, se l’Italexit è un mezzo e non un fine, la vera domanda da porsi è: un mezzo per cosa?
La mia risposta è di ispirazione socialista ed è semplice: l’Italexit, se un senso ce l’ha, ce l’ha in quanto mezzo per riacquisire una sovranità democratica capace di porre in essere politiche nell’interesse del lavoro e di ridurre il potere di ricatto del capitale. Sovranità democratica e centralità del lavoro sono inscritte nel primo articolo della nostra Costituzione, e sono il lascito di un’epoca socialmente più avanzata di quella attuale.
La costruzione dei trattati europei, in particolare dal Trattato di Maastricht, ha imposto una svolta in senso dichiaratamente neoliberale, con la concorrenza posta come ideale normativo e la tutela della stabilità della moneta anteposta all’occupazione e ai salari. Dunque la catena logica va dalla tutela del lavoro, alla sovranità democratica, al rigetto della normativa europea.
Quest’ordine logico ha alcune implicazioni fondamentali. Non ogni modo di respingere le normative europee vale uguale.
Brandire l’Italexit per consegnare i lavoratori italiani a un settore industriale sussidiato dallo Stato non sarebbe un passo avanti, ma due indietro. Che la normativa europea vieti aiuti di stato all’industria privata (sia pure con svariate eccezioni) potrebbe rendere un rigetto della normativa europea accettabile per diversi settori industriali, ma di per sé potrebbe essere una condizione peggiorativa per il lavoro.
Brandire l’Italexit per svincolare le industrie italiane dai vincoli ambientali imposti a livello europeo può suonare liberatorio per molta piccola e media industria (e talvolta, visti gli inghippi burocratici, lo è senz’altro), ma non garantisce affatto un futuro migliore per il paese.
Brandire l’Italexit per ricollocarsi con più forza di prima sotto l’ombrello americano e atlantico non è, di nuovo, il viatico ad un paese migliore per i lavoratori italiani. Incidentalmente, l’Italia ha sofferto di pesanti limitazioni della sovranità almeno dal 1945, e ha perso di peso e ruolo industriale in quegli anni sotto la pressione USA (Mattei, Olivetti). Di fatto per parecchi anni la prospettiva europea è stata vissuta, sia a destra che a sinistra, come un modo per sottrarsi al giogo americano. Che per sfuggire al giogo americano si sia commesso l’errore di infilarsi nella trappola ordoliberale tedesca non significa che sfuggire oggi alla trappola ordoliberale tedesca per rifluire in quella neoliberista austro-americana sia un colpo di genio.
Ora, in conclusione, mi pare ci siano solo tre prospettive di massima sul tema Italexit.
La prima è pragmatica, e guarda all’appello all’Italexit come ad uno strumento politico accanto ad altri, uno strumento che sotto certe condizioni può essere utile coltivare, ma che non ha nessun valore intrinseco: esso conta se e quando è una carta giocabile per ottenere un miglioramento diffuso delle condizioni di vita nazionali. Ma non è un fine, non è un punto d’arrivo, non è una meta agognata, non è niente cui si deve giurare fedeltà. Date certe condizioni contingenti può essere uno scopo intermedio parziale.
La seconda prospettiva è ideologica e, appunto, pone il mezzo come fine: si pone l’Italexit come se fosse un ideale a sé stante, e dopo aver redatto un libro (o pamphlet) dei sogni si spiega al pubblico plaudente che ‘prima si deve riacquisire la sovranità’ e solo poi si potrà agire nel tessuto del paese secondo i precetti del libro.
Questa prospettiva, naturalmente, si garantisce a priori di non dover mai arrivare alla prova dei fatti; figuriamoci infatti se un’impresa letteralmente rivoluzionaria – e potenzialmente cruenta – come l’Italexit può essere affidata dal popolo a qualcuno sulla fiducia, solo perché ha redatto due buoni propositi sul web o ha ‘bucato il video’ con un meme. Si tratta ovviamente di un bellicoso pour parler destinato ad essere inconseguente rispetto alle promesse.
La terza prospettiva è opportunistica e personalistica. Essa non crede neanche per un minuto che la parola d’ordine dell’Italexit indichi una qualche sostanza politica percorribile. La sua funzione effettiva è di intercettare l’attenzione pubblica intorno a qualche slogan impetuoso e tranchant, in modo da ottenere una massa elettorale bastevole a portare qualcuno in parlamento. Questa prospettiva è possibile, ma al netto del gioco di specchi per i gonzi, la sua legittimità sta tutta nella credibilità personale di chi viene mandato in parlamento. Il voto viene in effetti chiesto sulla fiducia, e qui tutto dipende da questa fiducia.
Se da chi ti chiede il voto non compreresti un motorino usato, puoi impiegare gli atti di fede in direzioni più proficue.