La resa dei conti, di Andrea Zhok
La resa dei conti
1) Premessa
Come ampiamente previsto, l’incontro dell’Eurogruppo di ieri si è concluso con un nulla di fatto.
Che gli incontri europei si concludano con un nulla di fatto è peraltro oramai una tradizione consolidata. Settimane fa si erano concluse con un nulla di fatto le trattative per una variazione dello zero virgola nel budget europeo. Per anni si erano concluse con un nulla di fatto le richieste di rivedere le regole sull’accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell’Europa meridionale. Incartarsi ad arte per rinviare sine die ogni decisione è una specialità in cui le istituzioni dell’UE hanno dimostrato da tempo straordinario talento.
E naturalmente non è un caso.
Il sistema dei trattati è stato disegnato per funzionare precisamente come una tonnara: una volta entrati non esiste nessuna possibilità di uscirne sani né di cambiare niente di significativo. (L’unanimità necessaria la puoi raggiungere solo su imperdibili iniziative simboliche come l’equiparazione di comunismo e nazismo.)
2) Prima del diluvio
L’emergenza coronavirus tende a farci dimenticare che l’UE non è mai davvero uscita dalla crisi del 2007. L’economia è rimasta lenta, e anche la famosa ‘locomotiva tedesca’ aveva iniziato ad arrancare.
Ben prima che il virus comparisse all’orizzonte si discuteva animatamente di una perdurante stagnazione dell’economia europea (con Italia e Germania in fondo alla classifica della crescita).
Ben prima del virus il sistema bancario tedesco scricchiolava in modo pauroso (i titoli tossici in Deutsche Bank sono ancora tutti là).
Ben prima del virus alcuni paesi, e con particolare intensità la Grecia, erano stati ridotti ai minimi termini, demolendone l’apparato pubblico, condannando la generazione più giovane all’emigrazione e quella più anziana a pensioni da fame, mentre scuole ed ospedali venivano smantellati e mentre le migliori risorse nazionali venivano depredate. Il tutto nel nome del ‘rigore’.
È importante ricordare questi dettagli davanti a quelli che vagheggiano di una ‘rapida ripresa’ europea e di un ‘sereno ritorno alla normalità’, nel caso di una (miracolosamente) rapida risoluzione dell’emergenza coronavirus. L’idea di un possibile andamento a V, con crollo verticale e impennata successiva dell’economia è completamente implausibile anche se domattina i marziani ci offrissero in dono una cura immediata per il Covid-19.
È implausibile una sereno ‘ritorno alla normalità’ essenzialmente perché nella precedente normalità non c’era proprio niente di sereno.
Date le premesse di funzionamento dell’economia dell’eurozona, l’eventuale scomparsa improvvisa del problema epidemico ripresenterebbe un quadro di rinnovata stagnazione, solo su un piano più basso (diciamo più che a V, un andamento a L). Questo per due ragioni, una profonda e una tecnica.
Quella profonda è che l’eurozona è stata più un problema che una risorsa, per buona parte dei suoi partecipanti sin dall’inizio.
Quella tecnica è che non ci sono nell’eurozona strumenti autenticamente anticiclici, a fronte di una crisi peggiore di quella del ’29 (la perdita di un terzo della capitalizzazione delle borse europee in tre settimane è analogo a quello del Wall Street Crash dell’ottobre 1929, e qui sembra essere solo all’inizio).
A questo elemento, che è già ora certo, si deve aggiungere una prospettiva altamente plausibile, ovvero che anche una volta superato il picco dell’epidemia nei principali paesi industrializzati, comunque la ripresa delle attività potrà prendere piede solo molto gradualmente, almeno fino a quando non si trova un vaccino.
3) Digressione: Cave vaccinum
A proposito del tema ‘vaccino’, è importante spendere un paio di parole cautelative. Vista la pressione colossale esercitata letteralmente da tutti i detentori di capitale del mondo affinché si arrivi presto ad approntare un vaccino, è certo che appena dell’acqua sporca avrà una vaga plausibilità di superare l’effetto placebo, essa verrà proposta, se non imposta, per sollecita ed estensiva somministrazione. C’è da augurarsi che anni di discussioni, spesso a vanvera, tra vaccinisti ed antivaccinisti, abbiano almeno allertato l’opinione pubblica sul fatto che un vaccino scarsamente testato può avere effetti peggiori della malattia.
Di fatto l’idea di poter semplicemente ‘premere sull’acceleratore’ ogni qual volta c’è una ‘domanda di mercato’ è una delle più pervicaci illusioni dell’epoca moderna. Tutti i nostri problemi ambientali e strategici vengono trattati sulla base di un assunto, che è un’ode alla hybris: Una volta che un problema nasce, il mercato troverà senz’altro una soluzione perché avrà interesse a farlo. Ma naturalmente non è affatto detto che, una volta emerso un problema, bastino potenti incentivi per trovare una soluzione.
Una ‘scoperta’ – anche una scoperta in un ambito altamente investigato come quello dell’approntamento dei vaccini – non è una mera ‘produzione programmabile’: ha comunque tempi suoi propri e non chiaramente prevedibili. In ogni caso non fulminei.
4) Cronache dal gorgo
Tutti questi elementi suggeriscono come massimamente probabile la prospettiva di un crollo, mondiale ed europeo, dei consumi e della produzione, seguito da una stabilizzazione a livelli di produzione e consumo marcatamente inferiori a quelli precedenti.
La situazione così descritta, tuttavia, non illustra adeguatamente la cascata di implicazioni.
Un crollo stabile di questa natura, in un contesto di produzioni e consumi mondializzati, implica necessariamente pesanti disfunzioni nella catena degli approvvigionamenti, e limiti nell’accesso ai mercati esteri. In altri termini, detto un po’ semplicisticamente, quanto più lontano un paese dall’autosufficienza, tanto più problematica sarà la sua situazione. I blocchi reciproci di forniture ospedaliere in questa fase potrebbero facilmente trasformarsi in limitazioni all’accesso ad altri generi di prima necessità. Tecnicamente, ciò che sta succedendo – e che credibilmente continuerà ad accadere nel medio periodo – è che i ‘costi di transazione’ internazionali (e anche intranazionali, ma in minor misura) tenderanno ad ampliarsi a dismisura. È già cresciuta la difficoltà a movimentare fisicamente alcunché, ma anche a difendere movimenti di merci da colpi di mano e atti illegali, ad esplorare e raccogliere informazioni in nuovi mercati, ecc. In quest’ottica, la ‘scommessa sull’export’, fondata sul presupposto di costi di transazione internazionali bassi, e alimentata come una virtù morale in ambito europeo, promette di collassare rovinosamente.
Simultaneamente, sul piano dei consumi interni, in assenza di vigorose compensazioni statali, un’enorme quantità di attività economiche diventerà insolvente, poiché le prospettive di guadagno sono spostate indefinitamente verso il futuro e mantenere costi fissi (affitti, macchinari, forza lavoro) risulterà insostenibile.
Questo significa, in assenza di interventi correttivi, che vedremo un incremento di milioni di disoccupati in aggiunta a quelli precedenti. Ma dire ‘milioni di disoccupati’ è di nuovo un’espressione freddamente numerica, che non dà conto del fenomeno. È importante capire che, se viene conservata la cornice competitiva che definisce la nostra organizzazione socioeconomica liberale, se cioè le persone continueranno a percepire (come nella precedente ‘normalità’) che un proprio vantaggio comparativo a breve termine potrebbe significare, per sé e la propria famiglia, tenere la testa sopra la linea di galleggiamento, allora quei ‘milioni di disoccupati’ implicheranno decine di migliaia di ‘persone disposte a tutto’ in circolazione. Si tratta di un processo di disgregazione sociale, già ben documentato nello sviluppo storico della ragione liberale, che arriverebbe al suo showdown. Disgregazione sociale significa ‘criminalità’ sul piano legale, e significa un ulteriore aumento dei costi di transazione sul piano economico; e dunque un ulteriore decremento di produzione e consumi. Ci potremmo trovare in pochi passaggi dentro una spirale in caduta libera, caduta impossibile da arrestare se viene mantenuta la cornice del ‘competitivismo’ corrente.
Questo quadro, per inciso, potrebbe essere dipinto a tinte ancor più fosche se volessimo ricordare le lezioni del passato. Infatti è inevitabile che, in un contesto in cui anche i ceti al potere iniziano a temere per la propria condizione, difficoltà sul fronte interno facciano crescere la tentazione di capri espiatori esterni. Che ciò possa condurre ad una crescita internazionale della conflittualità, anche esplicitamente bellica, è da mettere in conto; e questo comporterà un ulteriore ostacolo alle transazioni internazionali.
5) Prospettive e pastoie
Ora, al di là di ogni propensione o appartenenza ideologica, la domanda fondamentale suona: come è possibile porre un freno a questo percorso deflagrante?
La risposta, almeno sul piano teorico, è già a disposizione, visto che l’epoca industriale ha già vissuto situazioni di crisi similmente profonda. In formato semplice, la risposta è senza dubbio la seguente: solo il massiccio intervento degli Stati al di fuori di una logica di mercato può limitare i danni e correggere la rotta. Questo è già, spontaneamente, la direzione in cui ci si sta muovendo un po’ ovunque, ma apparentemente non se ne comprende bene la natura.
Il punto chiave qui non è la semplice invocazione dell’‘intervento degli Stati’. Come gli studi sulla rivoluzione neoliberale ci hanno insegnato, gli Stati hanno assunto negli ultimi cinquant’anni (ma in verità non è la prima volta) un ruolo di supporto esterno ed implementazione dei meccanismi di mercato. In Europa la Germania è stata il primo paese a farlo, seguita dal Regno Unito.
Nell’ordinamento di idee neoliberale lo Stato ha la funzione non solo di preservare il funzionamento dei mercati, ma di costruire tutte le proprie strutture in modo da ottimizzare la competizione. Le strutture economiche che non si adattano bene all’assiomatica del ‘mercato perfetto’ devono essere guidate verso modelli che almeno lo simulano (donde la competizione tra sistemi sanitari, tra scuole e università, le concessioni private di monopoli naturali – come le reti di trasporto -, ecc.). Chi rimane indietro in questo sistema deve essere ‘rieducato’, in modo che domani lasci a qualcun altro il fondo classifica: mors tua vita mea, correndo come se non ci fosse un domani sulla ruota del criceto.
Per gli Stati questa ‘rieducazione’ dovrebbe passare dalle ‘riforme’, che significa, almeno dal Washington Consensus (1989) ad oggi, cure di privatizzazioni, liberalizzazioni, abbattimento delle garanzie sulle condizioni di lavoro, flessibilità, apertura del mercato, ecc. Le famose ‘condizionalità’ del FMI e del MES sono precisamente tali atti di ‘rieducazione alla competizione’.
Che queste ricette si siano dimostrate fallimentari in tutti i casi in cui sono state applicate (erano state concepite per risollevare le economie dei paesi in via di sviluppo) non ha mai comportato alcun ripensamento. Di passaggio, un report del WTO del 2005, constatando i risultati deludenti del Washington Consensus sul piano internazionale ne traeva l’emblematica conclusione che bisognava insistere con maggior vigore: la caratteristica fondamentale dei paradigmi ideologici è infatti di essere impermeabili ad ogni falsificazione.
Ciò di fronte a cui ci troviamo infatti è proprio un paradigma teorico, paradigma che trae la sua autorevolezza dal fatto di essere stato utile a rafforzare la posizione di ceti già privilegiati, ma che ha una sua autonomia teorica di lungo periodo.
Dunque la risposta dev’essere, certo, l’intervento degli stati, ma ciò che va sottolineato è che la logica del loro intervento deve essere assolutamente estranea alla logica di mercato. La logica deve piuttosto aggirarsi dalle parti di – i liberisti perdonino l’abietta citazione – “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità” (cfr. Atti degli apostoli 4, 32-35)
6) Il macigno sul sentiero
Arriviamo così ai ‘niet’ della Germania di questi giorni (e del passato; e del futuro). La Germania ha ricostruito sé stessa dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale adottando quel paradigma neoliberale noto come ‘ordoliberismo’ (anche se fino agli anni ’80 la sua implementazione è stata mitigata sul piano sociale dal timore di ‘sfigurare’ rispetto ai fratelli della Germania Est). L’ordoliberismo si distingue dal neoliberalismo americano essenzialmente per il maggior spazio attribuito allo Stato come funzione collaterale ai processi di mercato. Per così dire, se il modello americano propende a predicare l’”arrangiatevi”, quello tedesco è più incline al paternalistico: “vi rieduchiamo noi”. Tutta la classe dirigente tedesca è permeata da questo paradigma teorico da tre generazioni. Si tratta peraltro di un paradigma che a loro è tornato assai utile: anche se negli ultimi trent’anni le condizioni dei lavoratori tedeschi si sono erose e il welfare tedesco si è ristretto, comunque nel complesso gli avanzi della bilancia commerciale tedesca hanno permesso al paese di mantenere una posizione di complessiva supremazia economica.
La combinazione tra una consolidata rigidità ideologica e la coscienza dei vantaggi pratici ricevuti rende quel paradigma un macigno inscalfibile sulla strada di ogni correzione di rotta.
Quello che oggi molti non capiscono è che la Germania non oppone i suoi divieti perché ‘gli costerebbe’. Alcuni commentatori italiani continuano ad esprimersi appellandosi alla ‘generosità’ (o poca generosità) dei tedeschi, e chiedendo loro di ‘aprire il portafoglio’. Questo modo di esprimersi è altamente fuorviante. Qui non è questione di generosità, né di aprire il portafoglio, perché quello che viene chiesto alla Germania (e ai suoi satelliti) non solo non comporta per loro dei costi, ma gli sarebbe economicamente vantaggioso.
È infatti ovvio che un paese che ha puntato sull’export e su catene produttive lunghissime come la Germania verrà colpito durissimamente dalla presente crisi, molto più di quanto potranno dire i numeri di morti o contagiati. Essendo la Germania strutturalmente distante anni luce da un’economia ‘autarchica’, doversi relazionare con partner in forte contrazione dei consumi non potrà che abbattersi anche sui propri apparati produttivi. Il punto non ha dunque nulla a che fare con la ‘generosità’: in questo momento anche agendo per semplice tornaconto economico alla Germania converrebbe trasformare la BCE in un prestatore di ultima istanza, e adottare una ferma agenda anticiclica di matrice keynesiana.
Ma qui il punto non è pragmaticamente economico, ma eminentemente ideologico e, com’è noto, sulle idee i tedeschi non transigono. Fiat iustitia, pereat mundus.
E la giustizia di cui è ideologicamente portatrice la Germania è quella del paradigma neoliberale, ma è ancora più profondamente quello antico dell’ordalia (dal tedesco Ur-theil), cioè del iudicium Dei dove il fatto che il vincitore avesse vinto significava che la ragione era dalla sua parte (perché Dio lo aveva aiutato a vincere). Nel caso tedesco il competitivismo neoliberale si innesta in una disposizione culturale profondamente radicata, che lo rende particolarmente difficile da scalfire.
Il problema è che questa impermeabilità ideologica non è più un problema solo tedesco, ma oggi è divenuto un problema europeo (e in particolar modo italiano). Abbiamo costruito un sistema sociale ed internazionale il cui senso profondo è quello di sollecitare la competizione e di venerare la vittoria (sia pure nella forma mediata della guerra economica). Ma questo sistema, specialmente nel contesto di un’emergenza come la presente, può rivelarsi una tragica trappola.
7) Cooperazione e competizione
Nonostante tutte le chiacchiere intorno all’idea di una ‘comunità europea’, l’UE non è stata immaginata come una comunità, ma come un’arena (con annessa scuola gladiatoria). Tuttavia situazioni come quella presente, situazioni in cui siamo tutti investiti da un medesimo problema, sono situazioni che non si prestano affatto all’irrigidimento in atteggiamenti competitivi.
(Si potrebbe notare, a titolo di spunto filosofico, che nella condizione umana l’essere ‘investiti tutti del medesimo problema’ non è l’eccezione, ma la regola, e costruire una forma di vita incapace di esservi all’altezza è solo immensamente stupido. Ma tant’è.)
In ogni caso, al presente ci troviamo di fronte ad una situazione che porta alla luce uno scontro disposizionale tra due istanze antropologiche fondamentali: la cooperazione (e il senso di comunità) e la competizione (e il senso di individualità). Nella pluralità di forme di vita in cui l’umanità si è sviluppata fino a tempi recenti, cooperazione e competizione hanno sempre convissuto fianco a fianco in un equilibrio oscillante. L’ideologia neoliberale (ma invero la ragione liberale dalle sue origini) ha invece istituito la socialità nella forma unilaterale della competizione.
Ora, è immediatamente chiaro a chiunque non sia ideologicamente ottenebrato che in una situazione di comune emergenza si collabora. Si tratta, dopo tutto, dell’istinto che ha consentito alla specie umana di sopravvivere e svilupparsi. Ma a questo istinto si sovrappone oggi un impianto ideologico e istituzionale che legittima unilateralmente la competizione (e la cooperazione solo come strumento provvisorio per migliorare la competizione).
Il problema è dunque che in una cornice ideologica che si riconosce e legittima come per essenza votata alla competizione, la cooperazione non può avvenire. Chi coopera non può farlo davvero se pensa che l’attuale cooperazione sia semplicemente un episodio accidentale in un continuum infinito di competizione senza esclusione di colpi. Se so che alla fine verrò punito per ciò che do, se so che ogni mia esposizione mi renderà più debole per la successiva competizione con un avversario opportunista, allora la cooperazione non avrà luogo (o sarà meramente simbolica).
Questo è precisamente quanto accade oggi a livello di nazioni europee. La Germania preferisce rischiare perdite maggiori pur di non infrangere la propria iustitia neoliberale, dove alla fine ad aver ragione è solo chi vince. Per attori politici tedeschi imbevuti di spirito neoliberale una collaborazione che risulti comparativamente più benefica ad un mio competitore, di quanto lo sia per me, va rigettata. Va rigettata anche se per me è comunque altamente benefica, perché ciò che conta non è mai la vita, non è la salute, non il benessere, ma solo il mio posizionamento relativo nella competizione con l’altro. È una logica predatoria. È la logica di qualcuno con cui non è strutturalmente possibile collaborare. Una volta di più, nella sua storia, la Germania si dimostra incapace di guidare alcunché. E una volta di più, purtroppo, la loro storia è anche la nostra.