Del Manifesto politico di Carlo Calenda, di Alessandro Visalli

Del Manifesto politico di Carlo Calenda.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2018/07/del-manifesto-politico-di-carlo-calenda.html

pubblichiamo queste interessanti considerazioni di Alessandro Visalli con lo scopo di alimentare il dibattito sulle profonde trasformazioni in corso del panorama politico italiano_Giuseppe Germinario

A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.

Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.

Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione). Si tratta dell’ultimo episodio del disgelo che, dopo molti avvertimenti inascoltati, ha mosso la parte inferiore della stratificazione sociale, portandola ad esprimere nelle urne tutta la sua rabbia e il suo risentimento. Nel 2016 abbiamo avuto la Brexit, poi la sconvolgente elezione di Trump, il referendum italiano, le elezioni francesi con la crescita elettorale di Mélenchon e la scomparsa del Partito Socialista, di recente le elezioni tedesche e l’emergere di canditati francamente socialisti in USA nelle importantissime primarie di New York (sulla traccia di Sanders).

In questo quadro a dir poco confuso leggiamo il Manifesto; l’avvio ha respiro e parte con una franca ammissione:

Caro direttore. Dall’89 in poi i partiti progressisti hanno sposato una visione semplificata e ideologica della storia. L’idea che l’avvento di un mondo piatto, specchio dell’Occidente, fondato su: mercati aperti, multiculturalismo, secolarizzazione, multilateralismo, abbandono dello stato nazionale, generale aumento della prosperità e mobilità sociale, fosse una naturale conseguenza della caduta del comunismo si è rivelata sbagliata.

Dall’ammissione di un errore di prospettiva storica, ovvero di aver creduto alla narrazione della destra americana, che voleva nella sconfitta del suo co-egemone ed avversario storico derivarne la conseguenza del totale controllo, ideologico e pratico-materiale, del mondo, consegue un esito che interessa l’oggi.

Oggi l’Occidente è a pezzi, le nostre società sono divise in modo netto tra vincitori e vinti, la classe media si è impoverita, la distribuzione della ricchezza ha raggiunto il livello degli anni Venti, l’analfabetismo funzionale aumenta insieme a fenomeni di esclusione sociale sempre più radicali.

Questa è la base sociale che determina una netta conseguenza politica che si è manifestata in modo evidente in Italia nelle elezioni politiche di marzo.

La democrazia liberale è entrata in crisi in tutto il mondo e forme di democrazia limitata o populista si vanno affermando anche in Occidente. La Storia è prepotentemente tornata sulla scena del mondo occidentale.

Ma Calenda, mentre sembra prendere atto di una discontinuità radicale, non rinuncia egualmente ad una parte essenziale della narrazione di questi anni: anche se bisogna ammettere a denti stretti che l’occidente popolare si è impoverito, però l’altra metà del mondo si è arricchita. Insomma la globalizzazione ha un segno complessivamente positivo, va in direzione del sol dell’avvenire.

Viceversa la globalizzazione ha portato benessere in Asia e in molti paesi emergenti, dove aumentano i divari sociali e culturali, ma in un contesto di crescita generale. Anche all’interno delle società Occidentali la competizione e i mercati aperti hanno portato allo sviluppo di eccellenze produttive e tecnologiche che sono però ancora troppo poche per generare benessere diffuso.

Chi ha letto qualche libro di Branko Milanovic (ad esempio “Mondi divisi”) sa che neppure questo è così semplice: l’ineguaglianza complessiva è in realtà aumentata dagli anni settanta, colpendo molte economie deboli (gli effetti li vediamo nelle migrazioni), mentre è diminuita in alcune aree nelle quali alla manodopera a buon mercato, disponibile a farsi sfruttare dai capitali occidentali in favore dei consumatori occidentali, si è unita a Stati forti in grado di difendersi dal “Washington Consensus” e dai suoi guardiani (FMI e BM). In sostanza in questi anni i paesi già ricchi sono cresciuti poco (ca. 2% all’anno), quelli di mezzo sono calati, quelli deboli sono precipitati e pochi paesi molto grandi (dunque con Stati molto forti) sono cresciuti moltissimo. Ma di questi (in sostanza Cina e India, insieme ad alcune “tigri asiatiche”) soprattutto alcune aree costiere o comunque fortemente interconnesse. Si è avuto, d’altro canto, un vero e proprio crollo dei paesi ex-ricchi non occidentali, in sostanza sono cresciuti sette paesi (Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malaysia, Botswana, Egitto) quindi, ovviamente India e Cina, e sono invece declinati molti paesi (Nicaragua, Iran, Angola, Croazia e Serbia, Algeria, Colombia, Argentina, Costa Rica, Messico, Venezuela, Uruguay) per i più vari motivi. Dal punto di vista individuale, invece, sono cresciuti i redditi medio-bassi (in India e Cina soprattutto) e sono calati vistosamente quelli delle classi medie inferiori occidentali, mentre nel decile più ricco i redditi hanno avuto un’impennata. Il mondo, dice Milanovic, ha complessivamente il 77% di poveri, il 7% di classe media e il 16% di “ricchi”.

Insomma, non si tratta di un trionfo neppure sotto questo profilo. Quel che è accaduto è l’effetto di una “grande partita”, un effetto della quale è citato di passaggio nella parte finale del manifesto, che ha visto indebolirsi in modo cruciale le “logiche territorialiste” (Arrighi) di organizzazione del potere, in favore di “logiche capitaliste” che sono rivolte solo all’autoaccrescimento a qualsiasi costo. Questa dinamica si è prodotta per effetto del raggiunto stato di sviluppo delle forze produttive (al termine del cosiddetto “trentennio glorioso” e sulla spinta della decolonizzazione e di altri fattori anche tecnologici) in competizione le une contro le altre e mal contenute dagli involucri statuali che hanno portato a partire dagli ultimi anni sessanta ad una tendenziale riduzione del saggio di profitto per gli investimenti “territoriali”, e quindi al “disimpegno” (Streeck). A questo punto gli agenti economici utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, progressivamente hanno spostato gli investimenti sul terreno finanziario e questo si è espanso in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è quindi da considerare una sorta di cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi effetto dell’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che, secondo la ricostruzione storico-economica di Arrighi, nel “sistema-mondo” non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale). Ma perché questo accada è necessario che si riformi un “ordine mondiale”, e al momento questa è la posta del gioco. Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica (in questo senso un accenno anche nella recente intervista a Kissinger).

Fino a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.

Il nostro fa parte sicuramente, per formazione, frequentazioni ed inclinazione, del primo, ma vorrebbe anche raccogliere parte della forza che si sta addensando nel secondo polo. Il Manifesto è espressione di questo tentativo.

Ma torniamo a noi; stringendo lo sguardo, per Calenda:

L’Unione Europea è figlia di una fase “dell’Occidente trionfante” da cui ha assunto un modello di governance politica debole, lenta e intergovernativa. L’Eurozona al contrario ha definito una governance finanziaria rigida ispirata da una profonda mancanza di fiducia tra “Sud e Nord”, incapace di favorire la convergenza, gestire gli shock senza scaricarli sui ceti deboli e promuovere la crescita e l’inclusione. Tutte queste pecche sono frutto di scelte degli Stati membri e non della Commissione Europea o dell’Europa in quanto tale.

Non è chiaro cosa sia “l’Europa in quanto tale”, ma la descrizione è sostanzialmente corretta, salvo che la descrizione della scelta è senza soggetto, non sono certo “gli Stati” che hanno scelto, ma una specifica coalizione sociale ed economica che ha governato le scelte dell’Unione e dei suoi principali stati membri ed era rappresentata in Italia dai partiti della seconda Repubblica che hanno perso il 4 marzo. Senza compiere questa analisi, che avrebbe fornito il necessario punto di vista, per condurre una proposta realmente discontinua Calenda passa a guardare direttamente il quadro politico che vorrebbe federare:

La crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica.

Sembrerebbe che con questa sottolineatura si iscriva nella lunga schiera di chi accusa l’involuzione tecnocratica, espressamente teorizzata negli anni novanta (ad esempio da La Spina e Majone in “Lo stato regolatore”) o temuta (ad esempio da Robert Dahl in uno dei suoi ultimi interventi, o da Peter Mair nel suo ultimo libro postumo). In realtà non lo fa, perché non spiega perché le classi dirigenti, trovandosi bene in esse, hanno presentato come inevitabili e positivi fenomeni nei quali alcuni (loro) vincevano e altri (la maggioranza) perdeva. E perché per farlo hanno cercato per anni di ridurre la democrazia con dispositivi tecnici maggioritari la cui funzione principale non era l’efficienza, ma la possibilità di ricevere una delega da minoranze fattesi maggioranze per opera della legge, da ultimo il 4 dicembre. Ma da qui va ancora più in fondo:

Allo stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale. Il risultato è stato l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova. I progressisti sono inevitabilmente diventati i rappresentanti di chi vive il presente con soddisfazione e vede il futuro come un’opportunità.

Come sostengono in molti (ad esempio Luca Ricolfi) quelli che chiama “i progressisti” (non nominandoli come “sinistra”) hanno ristretto la propria base ai soli vincenti della globalizzazione, chi vive bene nelle grandi città, è interconnesso e soddisfatto, e quindi vede il mondo con ottimismo. Ma questi sono una piccola minoranza e diminuiscono sempre di più (per una semplice analisi sociologica si veda Bagnasco “La questione del ceto medio”).

Ed allora?

I prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali.

La sfida si giocherà da oggi al 2030. In questa decade le forze del mercato, della demografia e dell’innovazione porteranno a una drammatica collisione a meno di non correggerne e governarne la traiettoria. L’invecchiamento della popolazione porterà il tasso di dipendenza tra popolazione in età lavorativa e popolazione in età pensionistica vicino al rapporto di 1 a 1. Ciò avrà due conseguenze rilevanti: l’insostenibilità dei sistemi pensionistici e la diminuzione strutturale del tasso di crescita delle economie. Negli ultimi 65 anni infatti un terzo della crescita è derivata dall’aumento della forza lavoro. L’effetto potenzialmente positivo su stipendi e occupazione della riduzione di forza lavoro (meno persone dunque più domanda e meno offerta) sarà controbilanciata, dall’automazione. Ad un aumento della produttività derivante dall’innovazione tecnologica vicino al 30 per cento entro il 2030, corrisponderà la scomparsa del 20-25 per cento dei lavori che esistono oggi. L’aumento della produttività e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.

Se ciò non accadrà aumenteranno le diseguaglianze tra categorie di lavoratori e lo squilibrio tra salari e profitti.

Questa analisi in molte forme diverse sta diventando mainstream (naturalmente nei dettagli e nelle soluzioni si nascondono le differenze, oltre che nella diagnosi delle cause), l’abbiamo appena letta da The Guardian (che è un poco come dire da La Repubblica inglese).

Anche per Calenda la situazione è dunque ad un turning point: la velocità e la magnitudo del cambiamento sarà tale da assomigliare alla crisi che descrive Carl Polanyi nel suo capolavoro (“La grande trasformazione”).

Il cambio di paradigma economico avverrà ad una velocità mai sperimentata nella Storia. Le nostre democrazie, colpite da una gestione superficiale della globalizzazione, non possono sopravvivere a un secondo shock di dimensione molto superiori. Lo scenario che abbiamo sopra descritto richiederà un impegno diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata.

Come accadde allora, anche per Calenda, il desiderio di protezione delle masse sconvolte e minacciate dalla paura richiederà l’intervento dello Stato (nell’intervallo tra le due guerre lo abbiamo avuto in forme diverse in USA e UK, in Germania e Italia, in Russia).

Da qui si passa alla cronaca:

L’Italia anello fragile, finanziariamente e come collocazione geografica, di un occidente fragilissimo, è la prima grande democrazia occidentale a cadere sotto un Governo che è un incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà.

E quindi si passa alla parola d’ordine. Si passa alla missione di federare le forze:

Occorre riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte a questa minaccia mortale. Per farlo è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe.

Un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile. Abbiamo bisogno di offrire uno strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti malandati e che abbia un programma che non si esaurisca, nel pur fondamentale obiettivo di salvare la Repubblica dal “sovranismo anarcoide” di Lega e M5s.

Dunque quel che Calenda propone è una alleanza interclassista che superi il partito classista (dall’alto) al quale si è da poco iscritto e che abbia l’ambizione di sottrarre lo spazio di difensori del popolo interpretata dalle forze emerse come vincitrici dal voto. Quelle forze contro le quali si è alzata, forte, la reazione della difesa di classe sotto vesti europeiste ed interpretata dal Presidente (lo abbiamo commentato qui), ma che poi hanno dato comunque forma ad un governo con profonde differenze. In estrema sintesi la mia opinione è, diversamente da Calenda, che il paese il 4 marzo si sia spaccato su una linea che attraversa le sue borghesie e, insieme, che lo attraversa geograficamente. Si è manifestata la defezione che covava da tempo di parte della borghesia nazionale verso quella componente della borghesia coinvolta più profondamente con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Peraltro la precisa coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista, condotto da Trump, e della defezione della borghesia nazionale da questa in ultima analisi danneggiata è davvero singolare. Quella che al momento governa il paese con un consenso che sfiora il 60% è una strana coalizione che va: dalle Piccole e Medie Imprese, impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali; ai professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati; agli operai e impiegati di detti settori; ai precari e, infine, alla parte più attenta dei disoccupati. Resta fuori da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va sull’astensione; la media borghesia tutelata e parte del mondo dei pensionati più abbientil’alta borghesia e la grande industria internazionalizzata con parte dei suoi lavoratori che rappresentano l’aristocrazia del lavoro. Gli ultimi strati continuano a garantire il loro sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto mondialista ed europeo, ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del Parlamento e almeno una decina di punti in meno nel paese.

Certo, questa coalizione “populista” (che in realtà unisce due populismi molto diversi) è come l’acqua e l’olio, instabile e contraddittoria: gli interessi degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole, potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.

In questa potenziale frattura tra la protezione sociale e la protezione individualista Calenda pensa probabilmente di potersi inserire, recuperando spazi di consenso, anche oltre la “coalizione della rendita” evocata abbastanza chiaramente dal Presidente Mattarella nel suo discorso (vedi “Post-democrazia e crisi italiana”). Pensa in sostanza di ripetere in forma diversa l’operazione, fatta da Salvini, di saldare un più largo consenso a partire dall’egemonia di alcuni interessi e di una cultura ben radicata nella piccola borghesia con inclinazioni nazionaliste. Quindi di riaggregare i ceti popolari che sono sfuggiti ai Partiti di centro europeisti intorno ad una operazione egemonizzata questa volta da quella “coalizione della rendita” che Mattarella vuole mobilitare dall’alto. Una operazione politica, quindi, che parli sì di protezione e che recuperi l’interesse nazionale solo nei limiti compatibili con i processi di accumulazione resi possibili dai mercati aperti e dal processo di integrazione europeo.

Si tratta di un compito realisticamente impossibile: l’apertura implica messa in competizione e questa determina necessariamente la retrocessione dei diritti e delle garanzie accumulate a partire dal primo “momento Polanyi” nella prima parte del novecento. Ciò almeno per qualche decennio e fino a che la maggior parte degli abitanti del mondo non si sia incontrata a mezza strada con il primo miliardo (come arriva onestamente ad ammettere Branko Milanovic nel suo ultimo libro “Ingiustizia globale”). È chiaro che la prospettiva di Milanovic pone insormontabili problemi sia di tenuta democratica, dato che la rivolta continuerà, sia di tenuta ecologica, ma la soluzione di Calenda è di gran lunga al di qua del necessario.

Calenda non sembra voler prendere atto che non si può avere insieme la conservazione delle élite estrattive, alle quali è legato, e la protezione dei perdenti che queste naturalmente producono. Per dare gambe a questo inane tentativo delinea quindi un programma fin troppo dettagliato per un “Manifesto”:

Le priorità di questo programma sono:

Tenere in sicurezza l’Italia. Sotto il profilo economico e finanziario: occorre chiarire una volta per tutte che ogni riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicina al default. Deficit e debito vanno tenuti sotto controllo, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è indispensabile per trovare compratori per il nostro debito pubblico.

Sotto il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del “Migration Compact” proposto dall’Italia alla UE. Creare canali di ingresso regolari e selettivi.

Occorre infine ribadire con forza la nostra appartenenza all’Occidente, all’alleanza atlantica e al gruppo dei paesi fondatori dell’Ue, come garanzia di stabilità, sicurezza e progresso.

L’architrave è posto all’inizio, senza mettere in questione la finanziarizzazione dell’economia e dunque le sue “formazioni predatorie” (definizione di Saskia Sassen), e restando ben allineati con l’egemone sfidato, la gestione dell’immigrazione appare solo una concessione allo spirito populista. In un altro quadro potrebbe essere un elemento di una strategia di riequilibrio tra lavoro e capitale indispensabile per riattrarre valore nella società.

Proteggere gli sconfitti. Rafforzando gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quando causate dalla concorrenza sleale di paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro.

Approvare il salario minimo per chi non è protetto da contratti nazionali o aziendali.

Allargare ad altri settori fragili il modello del protocollo sui call-center per responsabilizzare le aziende e impegnarle su salari e il no a delocalizzazioni.

Alcune misure sono opportune, ma non a caso nella scelta tra reddito paternalisticamente concesso nei limiti della “inclusione” e gli schemi di lavoro garantito che sono portati avanti nelle componenti più consapevoli della sinistra socialista, sceglie decisamente la soluzione compatibile con l’impostazione liberista (proposta anche dallo stesso Milton Friedman).

Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca). Finanziare un piano di formazione continua per accompagnare la rivoluzione digitale. Proseguire il piano impresa 4.0 e portare a 100.000 i diplomati degli Istituti Tecnici Superiori. Implementare la Strategia Energetica Nazionale e velocizzare i 150 miliardi di euro previsti per raggiungere i target ambientali di CoP21. Aumentare la dotazione dei contratti di sviluppo e del fondo centrale di Garanzia per ricostituire al Sud la base industriale che serve per rilanciarlo. Rivedere il codice degli appalti per velocizzare le procedure di gara. Mantenere l’impegno sulla legge annuale per la concorrenza. Prevedere un meccanismo automatico di destinazione dei proventi della lotta all’evasione fiscale alla diminuzione delle tasse, partendo da quelle sul lavoro.

Da questo punto il quadro dell’ispirazione ideologica si chiarisce: non si esce dallo schema della “terza via”, si tratta di superare una crisi determinata dall’indebolimento dei rapporti di forza sociali e dalla debolezza della domanda che ne consegue, intervenendo solo a livello individuale, in continuità con le politiche liberiste, con riduzioni delle tasse e politiche dell’offerta.

Promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo. Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per stare nel mondo e in UE. Partecipando al processo di costruzione di una Unione sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa, commercio), tra il nucleo dei membri storici ma ribadendo la contrarietà all’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e all’irrigidimento delle regole sulle banche. Promuovere la rimozione dei limiti temporali sulla flessibilità legata a riforme e investimenti approvata sotto la Presidenza italiana della UE. Sostenere la conclusione di accordi di libero scambio per aprire nuovi mercati al nostro export, ma mantenere una posizione intransigente sul dumping rafforzando clausole sociali e ambientali nei trattati.

La contraddizione che deriva dal voler tenere insieme, sotto egemonia dall’alto, interessi contrapposti si manifesta in sommo grado in questo passaggio, nel quale l’astuto richiamo del concetto di nazione e financo di patria è reso incongruamente funzionale alla “costruzione di una unione sempre più forte”, con determinazione di elementi essenziali di politica estera (e dunque di posizionamento nella distribuzione delle risorse e nella tutela differenziale dei diversi settori e attori) in comune. Calenda non sembra assolutamente comprendere che la capacità di perseguire i propri interessi implica la tutela di uno spazio di indipendenza proprio nella politica estera e di difesa; non esistono politiche neutre.

Ancora più contraddittoria la pretesa di aprire gli accordi di “libero scambio” e contemporaneamente non farlo, per “mantenere una posizione intransigente sul dumping”. Il mondo è un luogo nel quale le regolazioni e le condizioni materiali sono enormemente diverse. Metterlo in contatto senza filtri significa fare scambio “libero”, non farlo significa “proteggersi”. Calenda sceglie il primo, ma se ne vergogna e cerca di coprirlo con qualche retorica a poco prezzo.

Conoscere. Piano shock contro analfabetismo funzionale. Partendo dalla definizione di aree di crisi sociale complessa dove un’intera generazione rischia l’esclusione sociale. Estensione del tempo pieno a tutte le scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura. E’ nostra ferma convinzione che una liberal democrazia non può convivere con l’attuale livello di cultura e conoscenza. L’idea di libertà come progetto collettivo deve essere posta nuovamente al centro del progetto di rifondazione dei progressisti.

Qui siamo esattamente al “istruzione, istruzione, istruzione” di Tony Blair.

Il crocevia della Storia che stiamo vivendo alimenta paure che non sono irrazionali o sintomo di ignoranza. Abbiamo davanti domande epocali a cui nessuno può pensare di dare risposte semplicistiche.

  • La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o farà dell’uomo un suo strumento?
  • lo spostamento di potere verso oriente, conseguente alla globalizzazione innescherà una guerra o avverrà, per la prima volta nella Storia, pacificamente?
  • Le nostre società sono destinate a una stagnazione secolare?

Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini.

La competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.

Per fare tutto ciò occorre tornare ad avere uno Stato forte, ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la propria strada NEI processi di cambiamento, ma che non butti i soldi pubblici per nazionalizzare Alitalia o Ilva. Stato forte vuol dire burocrazia efficiente e dunque una rivoluzione nel modo di concepire, regolare e retribuire la pubblica amministrazione. L’Italia ha bisogno poi di un’architettura istituzionale che coniughi maggiore autonomia alle regioni con una clausola di supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali.

In questo ultimo passaggio dello Stato Forte, ma debole (ovvero non invasivo) e orientato solo a consentire ai cittadini di farsi strada da soli, di trovare ognuno la “propria” strada, è contenuta ancora una volta l’essenza del pensiero liberal che Clinton, Schroder e Blair (appena preceduti da Mitterrand) promossero negli anni novanta. In questi passaggi è manifesta la direzione egemonica che si cerca di rimettere in piedi, un progetto guidato dalla solita borghesia che ce l’ha fatta, che sempre ce la fa, ma con uno sguardo “compassionevole”.

Esiste un altro nemico da battere ed è il cinismo e l’apatia che di una larga parte della classe dirigente italiana. Dai media alla politica, dalle associazioni di rappresentanza agli intellettuali l’idea che ogni passione civile sia spenta e che si possa contemplare “Roma che brucia” con la “lira in mano” godendosi lo spettacolo, è diventata una posa tanto diffusa quanto insopportabile. La battaglia che abbiamo di fronte si vince anche sconfiggendo il cinismo dei sostenitori di un “paese fai da te”.

Si può fare: L’Italia è più forte di chi la vuole debole!

In definitiva ad una prima impressione quella di Calenda può sembrare un’analisi coraggiosa ed un programma riformista forte, ma si tratta solo di una minestra riscaldata. Una minestra senza sapore con un vago colorito anni novanta, nella quale la parola “sinistra” non appare neppure una volta e con buona ragione.

Cosa c’è di credibile in un programma che si vorrebbe a difesa dei meno protetti dalla globalizzazione e contro il governo impolitico dei tecnici e che poi elenca minuziose micropolitiche di cui non lascia intravedere la direzione? Nel quale l’obiettivo appare meramente riattivare lo sviluppo senza andare ad incidere nell’assetto del mondo che questo sviluppo impedisce per i più?

Del resto se l’analisi si svolge, a ben vedere, tutta entro le coordinate culturali del liberismo imperante, al più filtrato dalla fallimentare ipotesi della “terza via”, la soluzione non può distanziarsi in modo sostanziale dallo schema: accettazione della competizione e sostegno a chi ce la può fare, contenimento con piccolissime concessioni per gli altri.

Ma per evitare che si arrivi a ripetere le tragedie del novecento serve molto più della minestra riscaldata e del liberalismo compassionevole.

Occorre ben altro: bisogna svolgere politiche coordinate sia contro il mercantilismo di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità fiscale (che implica quella monetaria), sia per ripristinare la forza del lavoro nei confronti del capitale (grande e piccolo). È indispensabile riposizionare l’economia del paese verso il mercato interno anche con opportune forme di protezione e riequilibrando la distribuzione tra salari e profitti. Bisogna farla finita con il “libero commercio”, nel senso che il commercio deve compiersi su piani di effettiva parità, e per questo occorre definire accordi e stabilire regole e condizioni. Bisogna immediatamente riassorbire parte dell’esercito di riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione, che va modulata in funzione delle capacità di civile assorbimento ed integrazione, e accuratamente coltivato dalle politiche di austerità) e garantire a tutti i diritti sociali, dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati presenti sul territorio nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili in primo luogo attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia popolare, infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del territorio dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia, e quindi di potenziamento del pubblico impiego con almeno due milioni di nuove assunzioni a tempo pieno (a partire proprio dalle strutture di accoglienza e sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche del profitto altamente finanziarizzato contemporaneo).

Ma ciò non può certo essere compiuto da questa coalizione, né dalla “alleanza repubblicana” proposta da un davvero poco credibile Carlo Calenda.

Dovremo aspettare che qualcuno prenda da terra la bandiera e trovi il coraggio di alzarla, come altrove sta avvenendo.