DALLA STORIA PROFONDA, DI PIERLUIGI FAGAN

A proposito di contesto e induzione. Il ruolo della componente soggettiva?_Giuseppe Germinario

NOVITA’ DALLA STORIA PROFONDA. E’ ormai in pieno corso una rivoluzione paradigmatica nel campo della storia umana pre-antica. L’ Antichità e la sua storia narrativa, inizia con le prime forme di testimonianze scritte, circa cinquemila anni fa. La storia profonda è quella che la precede e sconfina con la paleoantropologia, avvalendosi di archeologia, geologia, biologia, climatologia e tutto ciò che può aiutare a ricostruire il quadro. Il processo è fortemente abduttivo, secondo Peirce, la vera forma del pensiero scientifico, l’unica forma che davvero produce nuova conoscenza.

Il focus della rivoluzione paradigmatica è nel periodo che va dal 15000 a.C. al 3000 a.C., un periodo prima segmentato tra Paleolitico superiore, Mesolitico e Neolitico, classificazioni che hanno due problemi collegati: le due principali (paleo-neo) vennero fatte nel 1865 quando le prove dei tempi addietro erano ben scarse e prese in esame solo per i cambiamenti nella lavorazione della pietra. La mentalità dominante al tempo era prettamente da Rivoluzione industriale. Oggi usiamo una grandissima massa di scavi e reperti, un grande ventaglio di discipline che ci raccontano cose dei tempi profondi che esulano dalla morfologia dei soli strumenti di pietra. Scaviamo un po’ dappertutto e sono spuntate fuori talmente tante incongruenze con la narrativa consolidata (Kuhn), da necessitare quello che oggi è il salto paradigmatico ad una nuova ricostruzione comprensiva.

In breve, non c’è stata nessuna rivoluzione neolitica, l’agricoltura non è stata “inventata” ma praticata per 10.000 anni prima come cura del selvatico, poi orticultura, poi agricoltura intenzionale, sempre come integratore alimentare di un dieta molto variata (caccia, pesca, raccolta, vari tipo di coltivazione) offerta dalle “terre umide”, prima di diventare l’unica forma di sussistenza. Ciò si è accompagnato con la domesticazione animale che è altrettanto longeva. La stanzialità è altrettanto antica, ancora quattromila anni prima della nascita del binomio stabile agricoltura-stato, c’erano città di 5000 abitanti che o non coltivavano nulla o molto poco.

Hobbes, Locke, Vico, Morgan, Engels (Marx), Spencer, Spengler, sulle orme di Giulio Cesare, hanno confezionato una narrativa moderna retro-proiettata su un telo bianco passivo che ha dato l’illusione di conoscenza reale quando in realtà si trattava di cinematografia. Non fu l’innovazione umana a cambiare la storia, né il motore primo fu il modo di produzione che cambiò come adattamento e non di sua spontaneità, né tutto ciò fu un progresso ma semmai un triste adattamento a condizioni sempre più strette, la faccenda durò migliaia di anni.

Nella Mezzaluna fertile allargata, il motore degli eventi del tempo profondo fu un meccanismo di correlazioni tra geografia, demografia, ambiente-clima. Il clima che s’avviava alla de-glaciazione subì uno shock tra il 10.800 ed il 9.600 a.C., poi una lunga fase “paradisiaca” (a cui si riferiscono tutte le mitologie antiche inclusa la Genesi che è solo quella che qui da noi si conosce meglio) e di nuovo un beve shock intorno al 6000 a.C. . Le comunità umane si mossero nei territori in virtù delle migliori ecologie locali, crescendo con una certa continuità. Più crescevano e si stanzializzavano, più aumentavano le epidemie, più aumentava la fertilità riproduttiva per compensare. Dopo il 6000 a.C., clima più secco, aridità dei terreni dovuta a molti fattori, rendimenti decrescenti della sussistenza mista, portarono ad un ricorso sempre maggiore all’agricoltura. Questa, tra l’altro, retroagì sulla complessione umana fragilizzando le ossa, rimpicciolendo il cervello, de-complessificando la mente umana esternalizzando la complessità nella struttura sociale (divisione del lavoro necessitante prima coordinamento e poi gerarchia), tutte dinamiche che rinforzavano il processo che le causava (rinforzo di feedback).

Tanti stimoli si possono trarre da questo cambiamento paradigmatico in corso: come usiamo le discipline se in forma integrata o imperialistica (oggi ad esempio l’economia), come consideriamo il tempo storico (a lunghe transizioni o a balzi “rivoluzionari”), quante variabili inseriamo nei modelli descrittivi (sistemica e complessità delle descrizioni) (da dopo McNeill ovvero da dopo quello che i meno addentro alle faccende degli storici scambiano per dopo Diamond, le epidemie sono diventate un fattore decisivo prima del tutto ignorato), l’antropocentrismo motore mosso poi da chissà cosa lascia il campo all’ adattamento condizionato dal fuori di noi, cambiano modi di considerare la società complesse ed i modi di produzione, la gerarchia e la guerra, la convivenza interna alle società, tra le società tra loro, tra le forme associate di vita umana e l’ambiente in cui crescono o decrescono periodicamente, per non dire delle trasformazioni di cultura materiale e non, incluse le concezioni metafisiche, teleologiche, escatologiche ed il senso della faccenda se ce ne è uno o più d’uno o nessuno.

Il libro postato (che sto studiando) non è che una delle tante ricostruzioni aggiornate che contemplano alcuni importanti risultati della ricerca degli ultimi venti anni, non è detto sia il miglior modo di interpretare i fatti ma i fatti usciti dalla ricerca sono tutti riferiti e quindi aiutano a farsi una idea complessiva. Qui una recensione da parte di un grande archeologo (che stimo molto) diverso dall’Autore, J.C. Scott, che è un professore di scienze politiche nonché antropologo di tendenze anarchiche di Yale, fortemente influenzato da Karl Polanyi.

Si cambia il modo di leggere il passato, quando si è spinti a trovare nuovi modi di leggere il presente ed il futuro. Oggi è uno di quei momenti. Meno male che c’è almeno un campo in cui il pensiero umano prende il moto ondoso, la bonaccia intellettuale prelude a morte certa.

Consiglio la lettura di questo articolo prima del libro: https://www.lrb.co.uk/…/steven-mit…/why-did-we-start-farmin

Identitari e globalisti 3a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la terza parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

1a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

2a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/14/identitari-e-globalisti-2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Il nemico principale dei liberali italiani.

Quanto ai liberali italiani, l’individuazione del nemico principale è agevole. L’Italia è tra i primi dieci Stati del pianeta (su quasi 200) per prodotto nazionale lordo; tra i primi venti per il P.I,L. (Prodotto Individuale Lordo). Ma se passiamo a quelle classifiche dove ad essere presi in considerazione sono attività e funzioni pubbliche, raramente andiamo oltre metà (dai primi posti passiamo alle ultime file). Anche se certe graduatorie possono non apparire del tutto convincenti, le posizioni analoghe raggiunte, la distanza che le separa da quelle “private”, e la concordanza dei dati (da quelli sulla giustizia, a quelli sui tempi della p.a., da quelli sulla morosità del settore pubblico a quelli sul numero dei dipendenti in rapporto ai servizi) rendono evidente che il problema principale della società italiana è costituito dagli apparati pubblici, dal loro costo, dal rapporto di questo con il rendimento (la “macchina di Fortunato”), dalla scarsa responsabilizzazione, dalla tendenza a sottrarsi al controllo politico, a quella di approfittare delle stesse insufficienze per limitare la libertà dei cittadini e l’efficienza economica. Non stupisce che tali apparati – spesso parassitari – prelevino una quantità crescente di risorse (da un quarto del PNL di mezzo secolo fa alla quasi metà del 2015) e che tale prelievo sia aumentato durante la crisi economica (a PNL decrescente corrisponde una tassazione crescente).

Con la crisi del 2008, il “golpe” dello spread nel 2011 e la svendita dei titoli del debito pubblico, al parassitismo poliburocratico si è sommato quello della finanza (internazionale e non), rendendolo ancora più intollerabile.

Qualche anno fa un Ministro, con un’inconsapevole ironia, disse in Parlamento che “pagare le tasse è bellissimo”; da tutti i dati risulta che è sicuramente bellissimo, ma per chi ne approfitta, non per chi le paga; per quest’ultimo (cioè la grande maggioranza) è sicuramente inutile, perché ne riceve di ritorno solo una frazione di quel che da.

Anche (e soprattutto) perché, diversamente da un tedesco, francese o spagnolo, prestazioni e servizi pubblici erogati a un italiano sono generalmente di livello qualitativo e quantitativo inferiore, peraltro non in pochi casi peggiorato proprio quando ne erano aumentati i “corrispettivi”.

La difesa parlata del Welfare ha aumentato il volume quando ne calavano le prestazioni: tanto chiasso è stato in tutta evidenza programmato e gestito per occultare la prassi opposta (come diceva Aldo Bozzi, in politica le parole servono a coprire i fatti). Ciò non comporta solo un espropriazione ossia quello che Miglio chiamava “rendita politica”, declinata nella storia in tutte le forme e modi (dal saccheggio allo sfruttamento durevole dei governati), ma anche una perdita generale di libertà. E non solo economica: il parassitismo poliburocratico va riducendo anche gli spazi di libertà non economica. Ad esempio una delle vie indirette a tal fine più praticate negli ultimi vent’anni dalle élite decadenti è stato di peggiorare l’accesso alle procedure giudiziarie per la riscossione dei crediti verso le PP.AA., di guisa da procrastinarne il pagamento; o anche la riduzione ai tassi minimi degli interessi legali, che essendo lo Stato il maggior debitore, significa azzerare (o quasi) il costo – a carico dei creditori – del mantenimento del debito (e quindi incentivarlo). Se un Puviani redivivo dovesse riscrivere L’illusione finanziaria vi dedicherebbe un capitolo.

L’altro aspetto preoccupante è che le prassi predatorie, praticate dal regime decadente hanno consumato quella legittimità che, con una certa fatica, la c.d. “prima Repubblica” si era faticosamente conquistata. Anche se quella legittimità era stata lungi da essere piena, ma piuttosto ricordava – anche ai tempi di De Gasperi ed Einaudi – quella che Ferrero definiva “quasi-legittimità”, il consenso ai partiti di sistema (cioè i partiti del CLN) era comunque enormemente superiore all’attuale. In definitiva, ad impiegare l’indice elettorale, tra il 90% dei votanti degli anni ’70-’80 i partiti di “sistema” ottenevano circa l’80-90% dei suffragi (cioè il consenso di due terzi abbondanti degli elettori); oggigiorno i partiti non identitari ossia PD, spezzoni di centristi e Forza Italia ottengono circa il 45% dei voti espressi, questi pari a meno di 2/3 degli elettori. Cioè il consenso di circa il 30% dei cittadini.

Che poi la scarsa propensione a votare riduca anche il consenso dei partiti “populisti” è una magra consolazione: perché significa che recarsi a votare è considerato dagli elettori sempre più inutile. Disaffezione dalla politica che corrisponde a disillusione e spesso a disperazione per chi non vede via d’uscita e proposta credibile ad una crisi economica ed epocale.

E non ha neppure la consapevolezza e la visione delle soluzioni, né a livello di base né molto spesso a quello di vertice.

Nei partiti identitari se Lega e Fratelli d’Italia hanno una visione e un programma (abbastanza) coerente, anche se talvolta non liberale, quelli dei grillini sono assai più sfocati, equivoci, talvolta ondeggianti tra utopia e strumentalizzazione di idola consunti.

Va da se che la transizione in corso provocherà alle prossime elezioni politiche e nel Parlamento futuro, o una (risicata) maggioranza dei populisti o – meno probabile – un’altrettanta modesta maggioranza da “antico regime” ascrivibile probabilmente alla coalizione tra leghisti, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Comunque un paese spaccato in due.

Ma in una situazione difficile i liberali possono offrire le fondamenta di soluzioni condivise malgrado il cambio di discriminante: tutela dei diritti fondamentali (del cittadino e non solo dell’uomo), distinzione dei poteri, democrazia rappresentativa, funzioni pubbliche realmente tali e non appropriate (di fatto) a corporazioni, lobbies e così via. Sono le costanti che hanno sorretto il liberalismo in quasi cinque secoli, malgrado le transizioni tra discriminanti, che hanno arricchito nella storia il bagaglio ideale e la prassi del liberalismo, facendolo diventare common sense. Chi oggi contrasta, nel mondo “occidentale” il diritto di libertà religiosa o di pensiero? Chi il diritto di voto uguale per tutti? Chi la solidarietà (fraternité) fra cittadini in uno Stato sociale (caso mai sono le forme o la misura ad essere discusse)? Anche la discriminante identità/globalizzazione sarà ricomposta e conciliata.

Fine al quale il liberalismo italiano, per la sua caratteristica storica nazionale, intesa come tutela dell’esistenza e specificità della comunità tra altre comunità di pari livello e dignità, alieno da volontà di dominio e sopraffazione è particolarmente vocato. La servilità che Orlando vedeva nel secondo dopoguerra come tara (anche delle future) classi dirigenti della Repubblica può ormai solo accompagnare ed aiutare il processo di decomposizione comunitaria.

L’essenziale è tener la testa rivolta al futuro, e non averne paura. Peggio ancora, adagiarsi sul passato. Al termine di un ciclo politico, quando la decadenza stessa è alla frutta, guardare al passato significa solo ritardare la nascita del nuovo. Evento che non dipende tanto dalla volontà umana, quanto da regolarità politiche e storiche.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA ECONOMICA, di Piero Visani e l’arma economica in occidente di stratpol

UNA CHIOSA TEORICA E UNA RICOSTRUZIONE SUL CAMPO. La traduzione, per mancanza di tempo, è basata su di un traduttore. Appena possibile saranno corretti gli errori più vistosi_Giuseppe Germinario

Guerra economica

       E’ del tutto evidente, per chi non è (o  non vuole essere…) cieco, che ci stiamo addentrando vieppiù in un profondo scenario di guerra economica. Chi scrive non ha competenze al riguardo per esprimere pareri, ma sa bene che la guerra è, innanzi tutto, un confronto di forze morali, per le quali è comunque preferibile trovare delle baionette (o surrogati attuali).
       In secondo luogo, tale guerra deve essere accompagnata da tattiche e strategie di movimento, non statiche, per mostrare al nemico volti costantemente nuovi e capaci di rinnovarsi.
       In terzo luogo, ogni strategia seriamente definibile come tale ha bisogno di alleati, perché il “fare da sé” può essere bellissimo, ma non quando si è deboli. Ne consegue che una guerra di movimento – che spesso e volentieri potrebbe diventare guerriglia, perché, stante la nostra condizione di asimmetria, occorre ricorrere alla tattica tradizionale dei più deboli – deve cercare continuamente alleati e alleanze, in forma scoperta quando lo si vuol far sapere al nemico e in forma coperta quando gli si vuol fare male, e molto.
       Una condotta operativa del genere richiede la massima flessibilità e la massima mancanza di scrupoli, perché è una lotta per la vita, di una Nazione e di un popolo.
       Non credo che questi concetti siano ancora chiari, a molti che pur militano sul medesimo versante politico, ma è in un’ottica di guerra economica che occorre riuscire costantemente a muoversi, esattamente come fa il nemico. Ogni altra scelta non è sufficiente, anche se – a livello di linguaggio – occorre pure sviluppare un’adeguata strategia mediaticacom’è ovvio volutamente tranquillizzante. Al terrorismo dei mercati e dell’Eurolager si risponde con una “forza tranquilla” in superficie e con il contro-terrorismo sotterraneo.
 
                        Piero Visani

Il campo occidentale alla prova dell’arma economica: le lezioni del CoCom

 18 agosto 2018 STRATPOL

Appena la Repubblica federale di Germania ha formalizzato la costruzione del controverso gasdotto Nord Stream 2 16 maggio 2018, che la Polonia e gli Stati Uniti hanno sorprende espresso la loro opposizione a questo progetto. Questo gasdotto, che si estenderà sotto il Mar Baltico per 1.200 chilometri per collegare la Russia alla Germania, dovrebbe fornire a questi ultimi una fornitura di 55 miliardi di m³ di idrocarburi russi all’anno, evitando che la Russia debba pagare le tasse di transito in Ucraina e Polonia. Le autorità tedesche hanno dato il via libera al progetto nel marzo 2018, seguito dalla Finlandia in aprile, i lavori sono iniziati a maggio nella città di Lubmin.

I rappresentanti polacchi e statunitensi hanno reagito con prevedibile ostilità a questo progetto denunciandolo come una ”  minaccia alla stabilità europea  “. Così, l’incontro tra il Ministro degli Affari Esteri polacco, Jacez Czatupowitc e il Segretario di Stato Mike Pompeo 21 Maggio 2018 è stata l’occasione per la Polonia di affrontare l’argomento in particolare per garantire una possibile pressione americana su imprese europee coinvolte nella costruzione del gasdotto 1 dopo che il rappresentante degli Stati Uniti in Ucraina, Kurt Volker , ha espresso l’intenzione degli Stati Uniti di utilizzare questi metodi.

In un contesto di crescenti tensioni con la Russia sotto sanzioni e contro la possibilità di ricorrere alla rappresaglia economica americana, è necessario mettere in discussione l’esecuzione dell ‘”arma economica” alla luce di esperienze precedenti. Quindi questo articolo si concentrerà su un soggetto frainteso della guerra fredda e cioè Coordinamento Comitato per i controlli multilaterali esportazioni (COCOM) Questa organizzazione, fondata nel 1949 e collegato a un allegato dell’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi, è stato il Il risultato di accesi dibattiti tra le potenze occidentali per controllare i trasferimenti tecnologici al blocco socialista che dipendeva da loro.

Questa politica di ” contenimento economico” e il suo strumento principale, il CoCom, sono stati mantenuti in varia misura durante la Guerra Fredda fino all’Intesa di Wassenaar nel 1994 e avrebbero pesantemente coinvolto gli Stati Uniti e i loro alleati in La NATO, non senza continue polemiche; la questione di una questione delicata e di ampia portata: gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero permettersi di commerciare con l’Unione Sovietica?

Se la domanda non fosse mai unanime tra le parti interessate negli Stati Uniti, potrebbe ancora meno tra i membri della CoCom.

Una strategia volta a moderare i sovietici per alcuni, oa rischiare di ”  vendere la corda  ” per gli altri, ogni paese del CoCom implementerà gradualmente la propria concezione di questo commercio secondo le sue percezioni sulla sicurezza nazionale durante la Guerra Fredda.

La presente analisi si concentrerà su questi due estremi tra i quali il CoCom si è trovato tirato durante gli anni ’80 in un contesto di “guerra fresca” caratterizzato dal desiderio degli Stati Uniti di riprendere la lotta contro il comunismo sotto la guida del presidente Ronald Reagan.

 

Commercio I / Est-Ovest, tra apertura e confronto

La lotta ideologica tra il campo occidentale e il blocco orientale durante la guerra fredda non ha consacrato un’interruzione nelle relazioni commerciali. L’equilibrio del potere era prima facie a favore degli occidentali. Infatti, qualunque sia i fautori dei miracoli del mito dell’economia socialista, la Russia sovietica ha sempre mostrato una dipendenza pronunciato nei confronti di tecnologie occidentali che erano essenziali per il suo sviluppo come è stato dimostrato diversi studi, i più notevoli sono quelli del professor Antony Sutton 2 .

Ad esempio, negli anni ’20, la NEP 3 ha permesso l’apertura di 350 concessioni in Unione Sovietica incoraggiare la creazione di società occidentali la cui capitale tecnologico è stato il principale, se non l’unico fattore ripresa economica di questo paese devastato dalla guerra civile. Le concessioni furono poi rimosse da Stalin per ricorrere a “accordi di assistenza tecnica” che concedevano ad alcune aziende occidentali l’opportunità di contribuire con il loro know-how per aiutare la realizzazione di importanti progetti industriali nell’Unione Sovietica. Il periodo del rilassamentosegnata da un allentamento delle tensioni e da un allentamento dei controlli, è stata un’opportunità per i sovietici di acquisire una moltitudine di tecnologie occidentali a vantaggio del loro potenziale economico … oltre che militare.

Come è stato una volta così ben riassunto il professor Carroll Quigley: ”  Aziende come la Russia sovietica, che, per mancanza di tradizione scientifica, ha dimostrato basso creatività tecnologica, che comunque possono essere una minaccia per la civiltà occidentale con l’uso su una scala immensa, una tecnologia quasi interamente importata da questa stessa civiltà occidentale  ” 4 .

Una breve descrizione dei principali settori militari sovietici che hanno beneficiato dei trasferimenti di tecnologia occidentali lo appoggerebbe, oltre a stabilire il fallimento della CoCom e le speranze di pace alla vigilia della presidenza Reagan:

La flotta sovietica, il più grande del mondo, è stato fatto fino al 60% delle navi costruite in Occidente, come l’80% dei loro macchinari 5 . Le tecnologie sono state ottenute da Burgmeister & Wain di Coppenaghen e Litton Industries 6 . Erano alcune di queste barche che trasportavano i missili a Cuba e fornivano equipaggiamento a Haiphong. 7

L’industria automobilistica è stata eretta con l’aiuto di aziende occidentali, come Fiat e Ford tra i 30 ei 60 anni 8 . Alcuni veicoli militari, il plagio dei modelli occidentali, furono usati in Afghanistan e contro lo sforzo bellico americano in Vietnam.

missili sovietici posizionati in Europa hanno tratto grandi benefici da un know-how occidentale oltre a quella della società statunitense Bryant di serraggio Grinder società i cui cuscinetti a sfera hanno aumentato la precisione degli attacchi sovietici e la minaccia che rappresentavano per la sicurezza europea 9 .

Avremmo potuto aggiungere a questo equilibrio i settori agricolo e chimico, ma questi dati sono sufficienti per stabilire che il commercio con l’Unione Sovietica, che alcuni avevano promosso nell’ottica “per ammorbidire” i sovietici, aveva gli effetti opposti: il L’Occidente non ha comprato la pace piuttosto “ha venduto la corda 10 “. Considerando i molti sforzi legali e informali che i sovietici hanno fatto per ottenere la tecnologia, è stato per rimediare ad una vera e propria emorragia tecnologica in Occidente che Reagan voleva rimescolare la CoCom, i cui insuccessi richiedevano certe rettifiche.

Dato bisogno di questo ossessivo i sovietici in tecnologie occidentali potrebbero essere facilmente tentati di Antony Sutton ha concluso che un trasferimento puro e radicale tecnologia di blocco potrebbe contribuire a porre le ginocchia URSS e accelerare la fine della così Guerra Fredda. Tuttavia, questa visione è ideale perché il controllo delle tecnologie implicava considerazioni multiple che trascendevano il semplice uso della coercizione o di altre misure draconiane.

 

II / Orientamenti americani alle contraddizioni occidentali

Il controllo delle esportazioni è un’iniziativa prevalentemente americana. Agli albori della guerra fredda l’usèrent Stati Uniti per fare pressione l’Unione Sovietica attraverso il ”  Control Act  ” nel 1949, ponendo le merci esportate sotto controllo, ma anche a ovest con la ”  Battaglia Act  » nel 1951 causando la perdita della protezione americana in caso di scambi con il blocco socialista. E ‘in questo contesto qu’apparu CoCom 11 , spesso paragonato a un “club” non è basata su alcun trattato o accordo e dipendente dalla buona volontà degli Stati membri di disciplinare le transazioni di tecnologia verso l’URSS, i paesi del Patto di Varsavia e della Cina popolare.

Il COCOM ha stabilito tre elenchi di merci soggette a licenza: munizioni, beni nucleari e proprietà “a doppio uso”, fornendo opportunità per le “vendite eccezionali” 12 . Infine, operando su due concetti anglosassoni di guerra economica tra cui ha alternato come necessario, ossia la leva ( ”  leva” ) e ”  Linkage  ” 13 , il primo di sfruttare un vantaggio economico politicamente, mentre che il secondo è usare le azioni economiche per fare pressione su un obiettivo.

Il controllo americano sui paesi europei fu certamente ben consolidato dopo la Seconda Guerra Mondiale quando erano troppo esangui per potersi permettere di rischiare di perdere la protezione americana, ma come fecero la loro ripresa economica, essi ottenuto un margine di manovra risultante in diverse lacune.

Ogni paese membro aveva il proprio concetto di commercio est-ovest e una legislazione commerciale che non era necessariamente in linea con le linee guida statunitensi.

Così la Francia, capitale delle simpatie mondiali verso il comunismo, ricorse al commercio est-ovest per affermare la propria sovranità e distinguersi dall’egemonia americana. Il commercio con l’Oriente godeva di un ampio consenso e la comunità degli affari poteva contare sulla benevolenza dello stato. Se la tendenza era lassista fino al 1981, la Francia, pur rafforzando i suoi controlli, ha conservato la preoccupazione per la sua sovranità.

Il Regno Unito, con le sue tradizioni commerciali, si impegnò negli scambi con l’Oriente per soddisfare le sue esigenze economiche interne. Tuttavia, l’arrivo di Margaret Thatcher nel 1979 segnò una sottomissione alla politica di controllo americana.

Il FRG era l’anello debole della CoCom. Ciò è dovuto al fatto che il suo commercio con la RDT non è stato considerato come commercio estero e ha causato perdite di tecnologie non controllate dalla CoCom.

Infine, il Giappone si distinse per il suo lassismo. La legge prevedeva la libertà di esportazione ei controlli erano riservati alle società sul suolo giapponese senza estendersi alle loro controllate estere.

Figura: Il commercio dei paesi membri del COCOM con l’URSS e nei paesi del Patto di Varsavia (fonte: RHOADES WE; COCOM, il trasferimento di tecnologia e il suo impatto è la sicurezza nazionale; Calhoun: La NPS istituzionale archivio; 1989; p.127)

Grazie alla sua natura informale, le decisioni prese nel CoCom ha erano di alcuna forma vincolante nei confronti degli Stati membri sono liberi di attuare le misure di CoCom a loro piacimento. Così due concezioni opposte del blocco: la sicurezza (stabilire controlli stabili) e le sanzioni (secondo iniziative sovietiche) 14 . Gli Stati Uniti si alternano opportunisticamente tra i due ma non sono ancora d’accordo con i suoi alleati. Se si può presumere che vi era consenso per il controllo delle esportazioni di tecnologie strategiche (non senza riserve dai paesi europei), il problema principale è la definizione di “strategica”.

Gli elenchi dei beni da porre sotto controllo possono dunque essere unanime tra i membri del COCOM, gli americani a seguito di un approccio senza compromessi, ha voluto limitare il commercio attraverso le liste espanse, mentre proattive europei preferivano conservare i loro legami commerciali con la È con liste di controllo limitate.

Entrambe le parti spesso proceduto a reciproche accuse di ipocrisia, gli europei che vogliono difendere i loro interessi economici in Oriente e non esitando a mettere in discussione le linee guida COCOM in qualsiasi invasione di esso sul loro sovranità. Gli americani erano sotto pressione dai loro industriali, che si sentivano offesi dai loro concorrenti europei con restrizioni più flessibili dai loro rispettivi paesi.

Questi elementi evidenziano un doppio paradosso derivante da una dipendenza reciproca: l’URSS, sebbene fortemente dipendente dalle tecnologie occidentali, è riuscita a tenere il passo con il campo occidentale, mentre l’altra metà Gli industriali occidentali, benché esposti alla minaccia sovietica, continuarono a perseguire o addirittura difesero il commercio di tecnologia con il blocco dell’Est mostrando una riluttante riluttanza a qualsiasi ingiunzione americana o interferenza nelle loro attività economiche.

Un’osservazione che chiama seriamente a relativizzare i concetti liberali ispirati a Montesquieu per cui ” l’effetto naturale del commercio è portare la pace ” …

III / False speranze di rafforzare i controlli

Quando Reagan assunse la presidenza nel 1981, il deterioramento delle relazioni USA-URSS era già stato consumato da Carter. L’invasione dell’Afghanistan nel 1979 suonò la campana a morto della distensione e gli Stati Uniti reagirono prendendo alcune misure repressive.

Nel 1979 è stata promulgata l’Export Administration Act (EAA) la concessione al presidente il diritto di ispezionare sulle esportazioni seguita da un embargo sul grano nel 1980. La politica di Reagan iscritti a questa tendenza, notando il fallimento del ” commerciare e progettare un nuovo approccio al commercio est-ovest da imporre ai membri della CoCom. Ciò era in linea con le raccomandazioni fatte nel 1976 dal “Rapporto Bucy” 15 che insistevano sul controllo prioritario e selettivo sulle tecnologie “a duplice uso” e limitando l’accesso alla tecnologia statunitense ai membri della CoCom. La procedura si conforma anche all’approccio del Consiglio di sicurezza nazionale(NSC) sostenendo un rafforzamento del COCOM, la necessità di convincere gli alleati dei meriti di controllo delle esportazioni, l’azione collettiva e l’aderenza Est di etica aziendale del West 16 .

La guerra economica sembrava essere un’opportunità in quanto alcuni osservatori percepivano nell’URSS la premessa di un collasso economico; il rifiuto del trasferimento tecnologico potrebbe quindi esacerbare questa fase declino e curva URSS verso compromesso in termini di consumi e investimenti, gli effetti potrebbe essere combinata con la corsa agli armamenti, causando l’URSS il knockout 17 .

Questa strategia viene dalla prospettiva americana che i contributi tecnologici al settore industriale sovietico traggono beneficio indiretto dal settore militare 18 , un concetto che rompe con la ”  compartimentalizzazione” adottata da altri paesi della CoCom per i quali il settore militare è indipendente dalle tecnologie civili dal settore economico 19 . Per quanto riguarda gli alleati, gli Stati Uniti alterneranno due tendenze: i “multilateralisti” e gli “unilateralisti”, ciascuno dei quali difende una posizione distinta all’interno del CoCom e che ispirerà l’approccio da seguire in caso di due grandi crisi

Il primo è la costruzione del gasdotto Urengoy, certamente l’esempio più rappresentativo di una gestione disastrosa di embargo multilaterale dopo un’iniziativa unilaterale.

In risposta ai disordini che si sono verificati in Polonia nel 1980, Reagan fa le sue minacce e ha deciso nel dicembre 1981 di sospendere tutte le licenze di esportazione di beni e componenti destinati a garantire la costruzione di un gasdotto siberiano 20 . Era necessario, tuttavia, obbligare i membri della CoCom a seguire questo passo. Il 18 giugno 1982 il divieto è stato esteso alle filiali di società statunitensi e alle società straniere che producono attrezzature con licenza. Ciò aveva portato alla tensione con i membri europei dei paesi COCOM cui società sono penalizzati dalla extraterritorialità di una decisione degli Stati Uniti, soprattutto perché vedono Reagan paradossalmente sollevare l’embargo sul grano 21a vantaggio dei fornitori statunitensi. I governi francese e britannico apertamente incitato le loro imprese per ignorare le linee guida di Reagan e vis-à-vis il COCOM, costringendo il presidente degli Stati Uniti di revocare l’embargo nel novembre 1982. Il gasdotto alla fine saranno costruite a beneficio della URSS.

Diverse conclusioni da trarre da questa esperienza: possiamo considerare questo incidente come prova che l’unilateralismo degli Stati Uniti ha fallito, piuttosto che ottenere il sostegno degli alleati, gli americani riuscirono a alienarli, in quanto considerate alcune variabili (dipendenza dal gas sovietico, interessi economici) come precedenza sui loro obblighi nei confronti della CoCom.

Poiché l’unilateralismo si è rivelato inadeguato alla fine di questa crisi, l’amministrazione Reagan è stata spinta al multilateralismo per rafforzare, non senza difficoltà, la CoCom dopo il 1982.

Gli Stati Uniti hanno presentato un triplice progetto alla CoCom: ampliare le liste di controllo, rafforzare le sanzioni e rafforzare la struttura istituzionale della CoCom. Gli europei erano pronti a condurre una guerra economica solo se i prodotti interessati erano di importanza militare. Così, all’incontro del 1982, 58 dei 100 prodotti proposti dagli americani furono aggiunti agli elenchi. Inoltre, l’anno successivo l’applicazione diretta dei controlli per i 10 beni prioritari soggetti a diversione e nel 1984 il divieto di esportazione di determinate apparecchiature di comunicazione.22 .

Sebbene questo sviluppo multilaterale della CoCom abbia sollevato crescenti denunce da parte dei funzionari sovietici, questo successo relativo deve essere qualificato per determinati motivi: questi rinforzi sono limitati all’interno dei confini occidentali e sono accompagnati dalla persistente riluttanza degli europei ; gli Stati Uniti hanno rinunciato all’unilateralismo, sono stati costretti a lottare con i partner disposti a seguire le nuove procedure nel lungo termine in cui nuove denunce da loro che hanno ricevuto i freni per la riesportazione di tecnologia degli Stati Uniti come una violazione delle leggi internazionali. Questi controlli interni hanno infine indebolito la volontà dei paesi della CoCom di cooperare, con europei e giapponesi che percepivano le ambizioni unilaterali unilaterali degli americani.

I difetti di questa nuova impostazione verranno scoperti presso lo scandalo Toshiba-Kongsberg nel 1987. Entrambe le società sono state vendute ai sovietici macchine utensili in licenza essenziale per la modernizzazione delle loro sommergibili nucleari di sicurezza più compromettente Europa occidentale 23 . In risposta, il Senato degli Stati Uniti, con l’ emendamento Garn, ha richiesto la chiusura del mercato statunitense a tutte le società che non rispettano le normative di CoCom come sanzioni. Paradossalmente, questa misura è stata sconfessata dall’amministrazione Reagan, che temeva che i paesi europei applicassero le stesse restrizioni alle rappresaglie delle compagnie americane. Inoltre, una tale iniziativa unilaterale avrebbe solo compromesso la CoCom 24 . La via multilaterale doveva essere favorita in cooperazione con il Giappone e la Norvegia. Le sanzioni contro Toshiba e Kongsberg-Vapenfabrik sono state efficacemente implementate in aggiunta al crescente impegno del Giappone nel controllo delle tecnologie sensibili.

L’entità di questa crisi ha portato gli altri membri della CoCom a rafforzare la loro cooperazione con gli Stati Uniti nella CoCom. Questo cambiamento potrebbe essere incoraggiante se tra il 84 e il 89, il FRG non ha violato i suoi obblighi girare consentendo al Imhausen-Chemie per costruire impianto chimico in Libia trascurando di presentare i propri prodotti per il controllo CoCom con la silenziosa complicità delle autorità federali tedesche …

L’avvento al potere di Gorbaciov e allentare le tensioni con gli Stati Uniti completeranno la spesa sarà a convincere Reagan nel 1986 per allentare la sua politica di controllo.

Conclusione: da Ronald a Donald

L’esperienza della CoCom è edificante nel contesto attuale poiché ci consente di mettere la leadershipamericana in prospettiva tra i suoi alleati economici. Se il dominio americano militare e diplomatico rimane una costante oggi nella NATO, il dominio economico è il tallone d’Achille di questa supremazia. È proprio a livello economico che tutta l’eterogeneità del campo occidentale ci viene rivelata alla luce del giorno, ogni paese membro ha specifiche specifiche economiche divergenti su cui gli interessi americani possono inciampare.

Donald Trump, che ha preso le funzioni presidente degli Stati Uniti nel 2016, si trovano di fronte alcune sfide che si affacciava il suo predecessore Reagan. Se l’uso di sanzioni economiche contro la Russia è stata applicata dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel marzo 2014, i risultati contrastanti o addirittura controproducente ottenuto non discutere a favore di questa politica. Le relazioni economiche sono intrinsecamente reciproca, le sanzioni sono spade a doppio taglio che possono portare a un punto morto 25

Pertanto, la parte occidentale dell’Unione europea, in particolare la Germania, è più preoccupata di preservare le sue relazioni economiche con la Russia e di conseguenza meno incline ad appoggiare tutte le direttive di Washington.

Di fronte al gasdotto Nord Stream 2 , gli americani possono contare sul sostegno dei paesi membri dell’Europa dell’Est della Three Seas Initiative 26 i cui interessi, come riconosciuto dal generale L. Jones del Atlantic Council , sono ”  più in linea con la percezione americana del mondo rispetto ai nostri tradizionali alleati nell’Europa occidentale  ” 27 .

Anche se gli Stati dovessero cooperare in una politica di boicottaggio contro la Russia, la comunità imprenditoriale che è stata impiantata lì probabilmente esprimerà la sua disapprovazione.

La Russia è un caso speciale nell’approccio alle politiche di guerra economica. Qualunque cosa fosse, secondo Lenin, ”  un semi-coloniale capitalismo monopolista  ” nei giorni di zarista o ”  mercato vincolato  “, secondo Antonio Sutton sotto il comunismo. Questo paese, paradossalmente, sapeva sempre come organizzare questa dipendenza economica e tecnologica pronunciata verso l’Occidente tra i suoi beni fino a renderla reciproca.

Le prospettive economiche offerte dalla Russia e la sua posizione ineludibile sul mercato mondiale susciteranno inevitabilmente l’interesse dei giocatori stranieri che saranno guidati da un irresistibile desiderio di ritorno sugli investimenti. Più capitale dedicherai alla Russia, più saranno riluttanti a qualsiasi politica di sanzioni che renderà la Russia insolvente e metterebbe a repentaglio i loro profitti.

Pertanto, come per il gasdotto Urengoy, nulla può garantire l’annullamento della bozza di Nord Stream 2prevista per il 2019, soprattutto perché gli sforzi degli Stati Uniti per ottenere la cancellazione di Nord Stream 1 nel 2012 non hanno avuto successo.

Come ai tempi della CoCom, non vi è inoltre alcuna garanzia che la minaccia di sanzioni nei confronti di società coinvolte in progetti con la Russia potrebbe dissuaderli dal continuare le loro attività, soprattutto perché questo provvedimento è stato già bruscamente ripudiato da le proteste di Germania e Austria a giugno 2017.

Dovrebbe prendere in considerazione i risultati contrastanti della CoCom sotto Reagan non invitare Trump più circospezione nella tentazione dell’uso dell’arma economica contro la Russia di Putin?

 

Hedi ENNAJI

 

Bibliografia selettiva:

  • BERTSCH GK (sotto la direzione di); Controllo del commercio est-ovest e trasferimento tecnologico, potere, politica e politiche; ed. Duke University Press; 1988; Georgia; 508 p.
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  • HANSON P .; Commercio e tecnologia nelle relazioni sovietico-occidentali; ed. Macmillan Press LTD; Hong Kong; 1981; 271 p.
  • HOLIDAY GD; Trasferimento di tecnologia all’USSR, 1928-1937 e 1966-1975: il ruolo della tecnologia occidentale nello sviluppo economico sovietico; ed. Westview Press; Colorado; 1979; 225 p.
  • LACHAUX C., LACORNE D., LAMOUREUX C .; L’arma economica; ed. Fondazione per gli studi di difesa nazionale; al. Le 7 spade; Paris; 1987; 406 p.
  • LAÏDI S .; Storia mondiale della guerra economica; ed. Perrin; Paris; 2016 576 p.
  • MASTANDUNO M .; Contenimento economico, CoCom e politica del commercio est-ovest; ed. Cornell University Press; New York; 1992; 353 p.
  • UFFICIO DELLA VALUTAZIONE DELLA TECNOLOGIA; Tecnologia e commercio est-ovest; ed. Allanheld Osmun & co; New Jersey; 1981; 303 p.
  • PARROTT B. (sotto la direzione di); Commercio, tecnologia e relazioni sovietico-americane; ed. Indiana University Press; Bloomington; 1985; 394 p.
  • SANDBERG M.; Imparare dai capitalisti, uno studio sull’assimilazione sovietica della tecnologia occidentale; Almqvist & Wiksell International; Göteborg; 1989; 264 p.
  • SEUROT F .; Commercio est-ovest; Economica ed; Paris; 1987; 174 p.
  • SUTTON AC; Suicidio nazionale, aiuto militare all’Unione Sovietica; ed. Arlington House; New York; 1974; 283 p.

 

Ripensare la politica ripensando la guerra – 2a parte, di Piero Visani

Ripensare la politica ripensando la guerra – 2

https://derteufel50.blogspot.com/2018/10/ripensare-la-politica-ripensando-la_18.html

http://italiaeilmondo.com/2018/10/17/ripensare-la-politica-ripensando-la-guerra-1-di-piero-visani/

       La concezione europea del mondo è stata, per secoli, di natura sostanzialmente polemologica. In essa, la guerra non è stata intesa come un fenomeno patologico. Per quanto non piacevole, né desiderabile, né augurabile, la guerra ha sempre fatto parte del reale (di ciò che è reale). Tuttavia, se si ammette che la guerra faccia parte del reale, si deve contemporaneamente ammettere che essa è relativa, poiché il reale, nella sua costante mutevolezza e particolarità, non conosce l’assoluto. In altre parole, riconoscere nell’esistenza un perpetuo confronto di contrari significa parimenti riconoscere la possibilità di una loro conciliazione: l’avversario, infatti, è tale soltanto momentaneamente e il fatto che lo si affronti non significa che si voglia annientarlo; è sufficiente sconfiggerlo (7).
       All’interno di questa logica, non può esistere un nemico assoluto, ma soltanto un nemico relativo, la cui designazione costituisce certo il presupposto della politica, ma con il quale una composizione pacifica è sempre possibile, alla luce di un perpetuo divenire che muta continuamente le situazioni.
       Quest’universo di valori fu sconvolto dal leninismo, con la sua definizione del nemico come nemico assoluto e con la sua teoria dell’ostilità generale e permanente anche in tempo di pace, al punto da creare uno stato di guerra anche in assenza formale di conflitti. A sua volta, Carl Schmitt seppe definire nel modo più lucido i caratteri di conflittualità che costituiscono il presupposto stesso della politica, elaborando una teoria spesso rifiutata a parole da chi la praticava, ma sempre ampiamente riscontrabile nei fatti.
       Se oggi si ritorna a riflettere criticamente su questi concetti, ciò non avviene però soltanto perché la situazione internazionale fa incombere minacce di guerra (8), ma soprattutto perché si avverte ogni giorno di più la necessità di ripensare la politica ripensando la guerra, rivedendo cioè quel principio di conflittualità che sta alla base della politica stessa e sulla cui esistenza molti paiono concordare, anche in quelle fasce culturali un tempo assai caute al riguardo.
       Punto di partenza comune dovrebbe essere – a nostro parere – l’accettazione del principio della natura conflittuale della politica, secondo la classica impostazione schmittiana. Posta la distinzione tra amico e nemico, e individuato concretamente quest’ultimo, si dovrebbe riflettere sui contenuti di ostilità di cui fare oggetto il nemico stesso. Le scelte possibili sono – come sappiamo – sostanzialmente due: fare oggetto il nemico di un’inimicizia relativa oppure assoluta.
       A questo punto, ci pare opportuno ricordare che stiamo parlando dei contenuti di conflittualità della politica e non, tout court, della guerra. Ciò premesso, non crediamo si possa condividere la forte carica di manicheismo presente nell’inimicizia assoluta. Se è vero, infatti, che i contrasti di fondo tendono inevitabilmente ad ascendere verso gli estremi, a trasformarsi in lotte senza esclusione di colpi in cui l’obiettivo finale non è la sconfitta ma l’annientamento fisico dell’avversario, non è meno vero che l’attitudine mentale che sta alle spalle di quest’atteggiamento affonda le sue radici in tutte quelle ideologie che sono inclini a far prevalere il giudizio morale su quello politico, la carica emozionale e il manicheismo che inevitabilmente ne discende su una pacata e realistica valutazione delle circostanze. Da ciò, demonizzazione dell’avversario, individuato propagandisticamente come incarnazione del Male e suo annientamento da parte delle forze del Bene, a ciò legittimate dal fatto stesso di considerarsi (più che veramente essere, ammesso e non concesso che lo si possa…) tali. La storia del Novecento è tragicamente piena di esempi di questo genere e non vale la pena citarli ancora una volta. Ci pare tuttavia indispensabile sottolineare come, nella più parte dei casi, essi siano stati frutto della perniciosa contaminazione – operata da alcune ideologie – tra morale e politica, e della conseguente tendenza delle stesse ad operare in nome dell’umanità, trasformando i conflitti tra Stati o il tradizionale agone politico (entrambi retti da regole precise e codificate) in un’unica guerra civile internazionale, con tutte le conseguenze del caso. Molto meglio, quindi, la dosata carica di ostilità contenuta nell’inimicizia relativa, nel contrasto tra forze e Stati che concepiscono la politica e la guerra come “gioco”, con regole codificate e nel quale è concepibile soltanto la sconfitta, non certo l’annientamento dell’avversario, al quale sono riconosciuti tutti i crismi della legittimità e il diritto di rovesciare, un giorno, i rapporti di forza esistenti.
       E’ noto che, per secoli, la guerra e lo stesso conflitto politico si sono svolti in genere in conformità a una logica che prevedeva la sconfitta più che lo sterminio dell’avversario. Non che siano mancate eccezioni anche di rilievo, ma la tendenza di fondo era quella. Tuttavia, se davvero si vuole ripensare la politica ripensando la guerra (o meglio il conflitto e i principi che lo reggono), non si può negare che i toni smorzati dell’inimicizia relativa sono i più validi soltanto a condizione che non siano fittizi, cioè a condizione che implichino davvero l’accettazione del divenire storico e non costituiscano una mera facciata formale, dietro la quale si celi l’immobilismo più assoluto. Ci spieghiamo: la conflittualità politica intesa come “gioco” può anche diventare un “gioco sporco”, i cui partecipanti sono tutti d’accordo, rappresentano aspetti diversi delle medesime istanze e dei medesimi interessi, ma fingono di essere in contrasto tra loro per dare una patina di legittimità al loro agire e giustificano l’esistenza stessa di un “gioco” politico in realtà solo apparente. In tal caso, anche la dichiarata conflittualità è puramente formale e i gruppi avversi sono al contrario legati da una sostanziale solidarietà, che li rende egemoni della vicenda politica e profondamente interessati alla conservazione di tale egemonia. In tali condizioni, parlare di inimicizia relativa diventa ridicolo, poiché in realtà siamo in presenza di una solidarietà assoluta e attivamente operante a scapito di tutte quelle forze che sono rimaste (o sono state) escluse dai gruppi che egemonizzano il sistema politico e intendono congelarlo sui rapporti di potere esistenti.
       Certo, una genuina inimicizia relativa sarebbe ancora possibile, anzi auspicabile se, come nei secoli passati, le linee di conflitto coincidessero con i confini degli Stati nazionali e all’avversario esterno (“straniero”) fosse riconosciuta non solo la possibilità di avere interessi diversi dai nostri, ma anche il diritto di difenderli nell’ambito di un’organizzazione statale da noi riconosciuta. Ma quest’articolazione – che è stata un vanto del diritto internazionale – è ancora oggi possibile nell’ambito di una realtà tanto mutata, in cui esistono forze, ideologie e interessi sovranazionali, e in cui lo stesso concetto di sovranità è ormai applicabile – nelle sua forma originaria – solo a pochissime grandi potenze? Crediamo di no e riteniamo sia indispensabile trarne le inevitabili conseguenze. Queste non possono che strutturarsi come segue: no all’inimicizia relativa perché, a causa della natura delle relazioni internazionali, essa è ormai impossibile sul piano esterno e fittizia su quello interno (almeno nelle forme in cui si è finora manifestata); ma parimenti no all’inimicizia assoluta, poiché non è possibile condividere il manicheismo e il desiderio di assoluto in essa impliciti. Al contrario, sì – nella definizione del contenuto di conflittualità che costituisce l’indispensabile presupposto della politica – all’identificazione di un nemico reale, contro il quale far convergere un’inimicizia altrettanto reale.
       Chi è il nemico reale? In sostanza, è il nemico relativo di un tempo, valutato – con una ben superiore dose di spegiudicatezza – alla luce delle nuove realtà della politica. E’ un nemico oggetto di un’inimicizia reale, ma altresì relativa, non assoluta, perché con esso – anche se il conflitto è tutt’altro che fittizio – la composizione è sempre possibile, in quanto non è considerato in sé intrinsecamente malvagio e dunque da annientare, ma soltanto mosso da interessi diversi e contrastanti, dunque al più da sconfiggere, in un’ottica che però non esclude affatto la possibilità di una sua vittoria, nell’ambito di una concezione (e di un sistema) di alternanza.
Siamo così giunti, sia pure per strade diverse, a conclusioni non troppo dissimili da quelle cui è pervenuta la Nuova Sinistra nella sua riflessione sulla politica, la conflittualità e la guerra. Una coincidenza casuale? Non crediamo, ma neppure la classica coincidentia oppositorum, come qualche maligno e disinformato non mancherà di insinuare.
In realtà, la ricerca di un nemico reale esprime, da entrambe le parti, la volontà di ripensare la politica superando i tradizionali schemi interpretativi e lasciando da un canto categorie ormai logorate dal tempo e incapaci di rinchiudere in sé i molteplici aspetti della realtà attuale. Gli obiettivi sono sicuramente diversi, ma comune è l’aspirazione di restituire dinamismo a un sistema politico e di pensiero da troppo tempo sclerotizzato e statico tanto sul piano interno quanto su quello internazionale, e anche di favorire, a entrambi i livelli. quella circolazione delle élites così indispensabile al corretto funzionamento dei sistemi politici e così inopinatamente caduta nel dimenticatoio o ridotta ad accademica dichiarazione d’intenti.Piero Visani


Note
(7) De Benoist, Alain, “Ni fraiche ni joyeuse”, in Eléments, n° 41, marzo-aprile 1982, p. 28 sg.
(8) Precisato che questo intervento è stato scritto nel 1982, non mi pare che la situazione sia molto cambiata anche oggi.

Ripensare la politica ripensando la guerra – 1, di Piero Visani

Ripensare la politica ripensando la guerra – 1

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       Mettendo ordine nel mio archivio, oggi mi è balzata davanti agli occhi questa comunicazione, da me redatta in occasione del “Convegno Internazionale sugli Studi Strategici” organizzato a Torino dal 9 al 12 dicembre 1982, al quale partecipai come membro del Centro Studi Manlio Brosio e assistente personale dell’ambasciatore Edgardo Sogno. Il testo di questa comunicazione avrebbe dovuto essere da me letto nel corso del convegno, ma incontrò qualche problema e… saltò. Certo, ero il più giovane e il meno titolato dei partecipanti al Convegno, e c’erano moltissimi partecipanti di assoluto rilievo internazionale, ma il sospetto di una piccola “censura” mi è sempre rimasto e, conoscendo i liberali, poi mi è aumentato…
       Lo riproduco qui in due parti, come omaggio postumo, principalmente a me stesso.
 
       Mai come oggi, il concetto di “guerra” è sottoposto a indagine e, nel contempo, a revisione, alla luce delle realtà emergenti nel contesto internazionale. Fioriscono i dibattiti, i convegni sull’argomento e, ancor più, sullo scottante problema dei rapporti tra guerra e politica. A questo proposito, chiave di volta del pensiero polemologico moderno è sempre stata l’ormai celeberrima proposizione clausewitziana: “la guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi” (1). Da ciò il conseguente accento posto sulla subordinazione della guerra nei confronti della politica.
       Tuttavia, in questo come in altri campi, occorre tenersi lontani dal rischio di un’impostazione eccessivamente meccanicistica, ciò che forse non sempre è stato fatto. In effetti, se così fosse stato, la subordinazione della guerra alla politica sarebbe stata sì riaffermata, ma si sarebbero valutati con ben maggiore attenzione gli elementi di conflittualità presenti all’interno del concetto di “politica”. Come ha scritto il professor Gianfranco Miglio, quello tra politica e conflittualità è un nesso inscindibile, dato che “dovunque esiste politica, esiste anche conflittualità” (2). Il merito di aver stabilito questo nesso deve essere indubbiamente attribuito al grande politologo tedesco Carl Schmitt, per il quale alla base del “politico” (un concetto assai più complesso e sfumato della semplice “politica”) stava una distinzione eminentemente conflittuale, quella tra amico e nemico. . “La guerra” – sono parole di Schmitt – “non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (3).
       A sua volta, Schmitt fece notare come, per Clausewitz, la guerra non fosse semplicemente uno dei molti strumenti della politica, “ma la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico. La guerra ha una ‘grammatica’ sua propria (cioè un insieme esclusivo di leggi tecnico-militari) ma il suo ‘cervello’ continua ad essere la politica: essa cioè non è dotata di una ‘logica propria’” (4), la quale, al contrario, può essere desunta soltanto dai concetti di amico e nemico.
       Se Schmitt definì a livello teorico gli elementi di conflittualità presenti nel concetto di “politica”, Lenin li definì qualche tempo prima sul piano pratico, dando alla sua concezione di politica delle valenze di aggressività e ostilità tali da poter farla considerare quasi un’inversione della famosa formula clausewitziana, cioè come una continuazione della guerra con altri mezzi, condotta senza scrupolo alcuno contro un nemico con più identificato come relativo (com’era tipico dei conflitti interstatali), ma come assoluto. In realtà, più che di invertire la celebre formula clausewitziana, si trattava – per Lenin – di esprimere, “con altri mezzi”, l’originario rapporto amico-nemico, insistendo in maniera inusitata e senza precedenti sul carattere assoluto dell’ostilità e ribadendo, sia pure per vie diverse, il primato della politica.
       Quella fin qui delineata è la griglia interpretativa ideale per comprendere gli eventi degli ultimi due secoli e, in particolare, i due conflitti mondiali e la stessa “guerra rivoluzionaria” che si è affermata già in epoca atomica (5). Tuttavia – ci si è giustamente chiesti (6) – nell’era atomica è davvero ancora possibile una guerra e, dunque, una politica? In tale contesto, infatti, la guerra non può più valere come prosecuzione della politica con altri mezzi, ma come rottura irreversibile, come punto di non ritorno, oltre il quale i conflitti perdono ogni produttività politica, ogni capacità di rideterminare, in forme nuove, gli assetti politici esistenti. Malgrado la nascita di nuove forme di guerra accanto a quelle classiche (“guerra rivoluzionaria”, “guerra culturale”, etc.) e malgrado le prospettive aperte dalla fine del “Medioevo nucleare” e dall’avvento di ordigni atomici sempre più “puliti” e miniaturizzati, la minaccia atomica viene perciò a ribaltare i termini del tradizionale rapporto tra politica e guerra, inserendo fra essi una frattura che impedisce la reversibilità e la traducibilità dell’uno nell’altro: dopo la guerra nucleare, non ci sarà più posto alcuno per la politica.
       Questa tesi è stata di recente avanzata da studiosi di area prevalentemente marxista e li ha indotti, proprio per la sua tragica impraticabilità, a porsi il problema di iniziare un lavoro di aggiornamento e revisione sul piano delle categorie interpretative del rapporto tra politica e guerra. Nella fattispecie, costoro hanno acquisito la consapevolezza che esiste una stretta relazione tra un dato tipo di politica e un dato tipo di guerra, e si sono sforzati di stabilire se, e con quali mezzi, sia possibile produrre un reale cambiamento di forma nella struttura del sistema politico, senza innescare da un lato un conflitto condotto contro un nemico assoluto (qualcosa di simile a una “guerra civile”) e, dall’altro, senza cadere nella riduzione del conflitto stesso a gioco, la cui “logica ludica” (con l’accettazione del nemico come nemico relativo) comporta – a loro dire – l’eliminazione della base stessa del conflitto.
Costretti dall’evoluzione del loro pensiero a rifiutare l’identificazione – cara a Lenin – di un nemico assoluto e decisi, nel contempo, a non accettare quella – ritenuta priva di qualsiasi valore politico – di un nemico relativo, ecco questi studiosi ricorrere una volta di più a Schmitt e andare alla ricerca di un nemico reale, l’ostilità nei confronti del quale si ponga a cavallo tra quella prevista nei due casi in precedenza citati, assumendo un valore per così dire intermedio. Tra la falsa conflittualità di una politica condotta come “gioco”, dove tutti i partecipanti accettano le regole dello stesso e sono impossibili mutamenti sostanziali, ma solo simboliche alternanze  tra gruppi formalmente avversi ma in realtà omologhi e ben decisi a conservare al loro interno le chiavi del potere, senza lasciar entrare in campo nuovi “giocatori”, se non preventivamente disposti ad un’accettazione totale e incondizionata delle rules of play; e la conflittualità spinta all’estremo di una lotta politica in cui l’avversario sia individuato unicamente come nemico assoluto e sia dunque oggetto di un’ostilità altrettanto assoluta, con tutte le conseguenze del caso, esiste – a detta di questi studiosi – una fascia mediana in cui l’avversario non è né uno pseudo-avversario di comodo, da combattere per finta, né un “altro da sé”, incarnazione del Male assoluto, da annientare affinché il Bene trionfi, bensì un nemico reale, contro il quale è possibile combattere in forme accettabili al fine di determinare un effettivo cambiamento sul piano politico, senza eccessi estremistici né contrasti formali e fittizi.
E’ innegabile che ci troviamo di fronte a sviluppi teorici di notevole portata, in particolare per l’accento posto sulla natura eminentemente conflittuale della politica in termini estranei al pensiero marxista tradizionale. Dobbiamo allora chiederci in quale misura essi possano essere accettati e in quale misura, invece, respinti.

(Continua)

                             Piero Visani


Note


(1), Von Clausewitz, Carl, Della guerra, trad. it., Mondadori, Milano 1970, vol. I, p. 38.

(2) Miglio, Gianfranco, Guerra, pace, diritto, in AA.VV., Della guerra, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1982, p. 38.

(3) Schmitt, Carl, Le categorie del ‘politico’, trad. it., Il Mulino, Bologna 1972, p. 117.

(4) Ivi, p. 117, nota 24.

(5) Cfr. Schmitt, Carl, Teoria del partigiano, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 71-73.

(6) Cfr. Curi, Umberto, Introduzione, in AA.VV., Della guerra, cit., p. 11.

Identitari e globalisti 2a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la seconda parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

qui la prima parte http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

I liberali e la nuova scriminante.

A ogni contrapposizione politica epocale i liberali hanno trovato una collocazione e dato una risposta. Nell’epoca delle guerre di religione i proto-liberali, dai politiques francesi (come Jean Bodin) a filosofi come Spinoza e Locke hanno risposto con la tolleranza e la libertà religiosa. Alla scriminante borghesia/monarchie assolute con l’integrazione delle istanze della classe emergente nello Stato che da assoluto diventava costituzionale (e parlamentare) e infine democratico, a quella borghese/proletario con lo Stato sociale e il “compromesso fordista”.

In una situazione in cui partiti identitari già governano qualche paese europeo, e probabilmente a breve ne governeranno altri, e in altri comunque il consenso raccolto è vicino a metà del corpo elettorale, e talvolta lo supera, il “che fare?” dei liberali italiani consiste nel ruolo che possono svolgere in un sistema politico in cui i “populisti” sono o maggioranza o comunque provvisti di un consenso quasi maggioritario. Tale da dividere grosso modo a metà l’elettorato.

I liberali italiani hanno una caratteristica storica la quale li facilita nella ricollocazione nella realtà politica contemporanea: d’essere l’unica componente del liberalismo europeo ad aver realizzato – col compromesso con la monarchia sabauda – l’unità della nazione. Mentre gli altri euro- liberali hanno trasformato lo Stato nazionale, costruito dalle monarchie in secoli di centralizzazione e riduzione dei poteri feudali, realizzando lo “Stato rappresentativo”, in Italia Cavour e la Destra storica, fondavano l’unità nazionale nello Stato liberale.

Unità nazionale, libertà politica e sociale nascevano insieme: caso unico (per una forza liberale) nella storia dell’Europa moderna. Ne deriva che al liberalismo italiano è peculiare, più che ad altri,  la specificità nazionale e, a ben vedere, anche il connotato di liberalismo idealmente  robusto.

La storia del liberalismo italiano infatti lo mostra associato sempre (almeno finché è stato forza di governo) a decisioni forti e politicamente risolute: dalle guerre d’indipendenza alla guerra civile (il c.d. brigantaggio) al “canto del cigno” del primo conflitto mondiale, non c’è alcunché di “relativista”, di “pensiero debole”, di servilità  mascherata di buone intenzioni. Da un liberale del risorgimento (come a un mazziniano) certi discorsi attuali a favore della globalizzazione sarebbero stati rifiutati come irrealistiche utopie o furbi espedienti per negare l’indipendenza e la pari dignità di Stati (e popoli) sovrani. La sovranità e l’identità  nazionale   furono sempre difese e rivendicate, così come riconosciute – con pari dignità – quelle delle altre nazioni d’Europa.

Si parla di “sovranismo” e compete ai liberali di avere sempre rivendicato (e costruito) la sovranità nazionale. Un liberale particolarmente “robusto”,                        come Orlando, diceva nello splendido discorso contro la ratifica  del Trattato di Pace che “ sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativola difesa    lo si annulla”.

La sovranità è l’essenziale dell’indipendenza: limitarla è conditio sine qua non della dipendenza. Da altri Stati, corporations, sette, banche, che siano: se qualcuno è più sovrano degli altri (di guisa da imporre loro limiti), ciò significa solo che quello è sovrano e gli altri no. La sovranità è assimilabile all’uguaglianza, stravolta dai maiali nella Fattoria degli animali di Orwell.  Come una sovranità “limitata” e tra disuguali si riconcili non solo con la libertà, ma anche, come notava Croce, con la dignità dei popoli, è un enigma tuttora irrisolto.

Non si capisce pertanto lo “scandalo” che ne fanno taluni a sentirne parlare: lo scandalo sarebbe, al contrario, se la si agitasse per ottenere consensi, salvo tradirla nella pratica di governo. Un “nazionalismo” ipocrita e cerchiobottista, prodigo di parole e tirchio di fatti è l’evento da scongiurare: sarebbe l’ennesima doglia (senza parto) della decadenza della Repubblica nata dalla resistenza. Doglie tutte caratterizzate da un profluvio di “idee-forza” agitate con tonitruanti dichiarazioni a copertura di prassi opposte.

L’Europa come testa di turco e capro espiatorio.

A pagare pegno per la nuova discriminante (ed il sentimento politico che ne consegue) sono state le istituzioni europee e la stessa idea di Europa, indicate quali principali responsabili della crisi, e della insufficiente, e talvolta errata, gestione di questa.

Nella realtà, anche se non poche (ma neppure troppe) responsabilità sono da ascriversi all’Unione e ad alcune scelte infelici (specie recenti) della stessa, si deve rimarcare, da un lato che la crisi è stata generata dalla finanza “spericolata”, più che altro delle banche USA (ma gli Stati Uniti l’hanno gestita molto meglio dei paesi europei), dall’altro che una volta scelta la medicina rigorista, in Italia in particolare si è fatto un uso smodato del tipo di giustificazione, già praticata , d’addebitare all’Europa politiche, scelte e prassi di governo, fatte in Italia ma accollate all’Europa. La quale è così la “testa di turco” di una classe dirigente in decadenza, la quale come tutte quelle nella stessa fase del “ciclo”, non ha né la capacità di prendere decisioni congrue né il coraggio di assumerne la responsabilità.

Onde il “ce lo chiede l’Europa”, i “compiti a casa” sono – per lo più – false giustificazioni di élites inadeguate, che hanno per queste il pregio di deviare il malcontento su falsi bersagli. L’espediente, quanto mai pericoloso, ha l’effetto di delegittimare durevolmente le istituzioni europee onde acquisire qualche anno in più di potere. Analogamente a come il giustizialismo ha consunto, a lungo andare, l’immagine (e l’autorità) della giustizia italiana. L’Europa dianzi comoda testa di turco assume, nella fase successiva, il volto (e il ruolo) del capro espiatorio. Ma non merita tale trattamento e tale sorte: non solo l’Europa “storica” dei fondatori. Da De Gasperi a Spaack, da Martino a Monet, le pratiche integrative della comunità europea hanno contrassegnato i migliori anni del dopoguerra; le stesse istituzioni, oggi così criticate hanno portato un respiro liberale e modernizzatore nel panorama catto-comunista. Alla Corte EDU, peraltro organo del Consiglio d’Europa (e non dell’Unione Europea), dobbiamo tante decisioni in difesa dei cittadini dalle soperchierie e inefficienze dei poteri pubblici (nazionali in primis). Che si finisca per buttare via il bambino con l’acqua sporca, o peggio, col tenersi questa e scartare quello, sarebbe il combinato sinergico (tutt’altro che improbabile) di due demagogie opposte, ma convergenti nel risultato: quella delle élite “in lista di sbarco” e l’altra del “nuovo che avanza”.

Economia politica ed economia cosmopolitica.

L’altro bersaglio polemico (di parte) delle demagogie convergenti è il “liberismo sfrenato”, nonché le ombre di Reagan e della Thatcher che appaiono in continuazione ai piccoli Macbeth della contemporaneità italiana.

Anche qui occorre chiarire da una parte che  “l’autonomia del politico” fa si che non possa essere subordinato all’ “economia” (ma è mediabile) ; e che la necessità contingente richiede adattamenti rispetto a modelli ottimali in astratto, ma, spesso, errati in concreto. Occorre un certo pragmatismo in economia (come in politica).

Scriveva Friedrich List che Quesnay, il quale fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu anche il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione.

E List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis è proprio l’insopprimibilità della politica come protezione dell’esistenza e conseguimento dell’interesse generale di una comunità. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono (del tutto) applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio, ossia in un mondo senza politica, in cui il ruolo del potere sia quello del “guardiano notturno”.

Differente però è la realtà e il ruolo della politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana (tra tante) e di conseguire il bene comune della stessa.

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico, perché il mondo politico è un pluriverso di soggetti in conflitto (reale o potenziale). List ricordava che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione una cosa inesistente che esiste solo nelle teste degli uomini politici” affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali».

Per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che gli Stati abbiano un certo grado di omogeneità e di civiltà, di legislazione e di potenza. Tutte cose non raggiunte e che quindi rendono poco praticabile il modello. Così, a fare un esempio, la delocalizzazione degli apparati industriali da un lato è conseguenza del basso costo (diretto e indiretto) della manodopera nei paesi emergenti; dall’altro di politiche fiscali assai più appetibili praticate da quelli – tipica la flat-tax, diventata realtà in quasi tutti i paesi usciti dal “socialismo reale” – che in quella hanno trovato un ulteriore incentivo per attrarre capitali.

In concreto è la combinazione tra liberalismo internazionale e fiscalismo nazionale a ingigantire la delocalizzazione. Prendersela con il primo per far dimenticare il secondo è un espediente di mediocre propaganda, che sfrutta gli idola di un anti-capitalismo di retroguardia.

Piuttosto occorre una politica che, nell’ambito del possibile e rispettosa delle differenze,  riduca la disomogeneità. Trovarla non è un compito facile: ma non cercarla significa non aver capito il proprio tempo, la situazione concreta e il nemico (politico) principale. Senza che non è possibile individuare gli obiettivi.

Per un proto-liberale dell’epoca delle guerre di religione, il nemico era l’intollerante e l’obiettivo la tolleranza; così per un liberale dell’epoca rivoluzionaria il nemico (principale) era il potere monarchico e l’obiettivo lo Stato rappresentativo; oggi occorre individuare l’avversario da battere e l’obiettivo da conseguire.

In una conversazione ad un Convegno del 2014 di recente tradotta e pubblicata in italiano  Steve Bannon, Chief Political Strategist del Presidente Trump, ha indicato tre avversari principali per un “capitalista illuminato” (termine che nell’uso che ne fa, somiglia molto a un liberale realista): il primo è (una specie di) “capitalismo di Stato, il capitalismo che si vede in Cina e in Russia”, ossia quel tipo, residuo dell’egemonia catto-comunista, che ancora permea le istituzioni italiane; questo “è una forma brutale di capitalismo che si preoccupa solo di creare ricchezze e valore per una piccola minoranza. Un secondo tipo di capitalismo che mi sembra quasi altrettanto preoccupante è quello che io chiamo il capitalismo alla Ayn Rand, oppure la Scuola oggettivista del capitalismo libertario. Questa forma di capitalismo è molto differente da quello che io chiamo «capitalismo illuminato» dell’Occidente ebraico-cristiano. È un capitalismo che davvero cerca di trasformare le persone in merce”; infine “siamo anche nelle fasi iniziali di una guerra globale contro il fascismo islamico”.

Tutt’e tre gli avversari di Bannon lo sono anche di un liberale realista: il primo perché riduce la libertà economica e individuale, il secondo perché, in una declinazione estremista, restringe il diritto delle comunità ad un’esistenza autonoma; il terzo perché nega sia la libertà, sia la separazione tra potere temporale e spirituale.

Il “liberalismo sfrenato”, oggetto di tante recenti critiche, pecca per omissione, nel non considerare l’aspetto politico nazionale, ossia il compito dello Stato di proteggere la comunità, l’esistenza ed il benessere della stessa ma non è in diretto ed insopprimibile contrasto con visione ideale e prassi di governo liberale, mentre gli altri due lo sono; soprattutto se coerentemente e generalmente applicati.

Non è poi comprensibile in che modo un mondo senza frontiere possa raggiungere una situazione di ordine. In fondo, già all’epoca della guerra di religione la regola cuius regio ejus religio, cioè la divisione territoriale delle religioni “ufficiali”, diede una forma di ordine, di cui il principio di tolleranza fu la conquista successiva. Ma “globalizzare” significa negare confini e frontiere: in una situazione in cui le differenze contano più delle concordanze, negare o limitare radicalmente il diritto delle comunità a decidere del proprio modo d’esistenza politica, religiosa, economico-sociale significa non riduzione ma moltiplicazione dei conflitti; ossia un disordine globalizzato.

 

Identitari e globalisti_1a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la prima parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente diversi spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

Come tanti, ho la sensazione che questi anni saranno decisivi per il futuro dell’Italia e dell’Europa. L’ordine, interno ed internazionale, che durava dalla fine della seconda guerra mondiale, è già arrivato alla fine da quasi trent’anni, dal dissolvimento dell’URSS e dal collasso del comunismo. Quello che doveva sostituirlo, basato su un’unica superpotenza e che comunque appariva transitorio – data l’ascesa della Cina (e non solo) – sta cambiando. E soprattutto è in corso il rinnovamento delle classi dirigenti e dei sistemi politici, con la sostituzione di distinzioni/contrapposizioni fondate sull’asse destra/sinistra, o meglio borghesia/proletariato, un altro, che (pare) quello identità/globalizzazione.

Accanto a questo c’è la decadenza dell’Italia e dell’Europa, la quale rientra nella natura delle società ed istituzioni, come oltre duemila anni fa pensavano (tra gli altri) Platone e Polibio.

La decadenza italiana s’iscrive poi in modo inequivoco nello schema “ciclico” classico. Pur essendo venuto già da quasi trent’anni il presupposto del “vecchio ordine”, cioè quello bipolare di Yalta, è stato mantenuto pressoché inalterato il regime concreto che su quella situazione storica si fondava, con qualche aggiustamento, neppure sempre migliorativo.

Che l’Italia decada è incontrovertibile; in un periodo storico quando, abituati a ritenere decisiva l’economia, il dato che il P.N.L. sia cresciuto dal 1998 ad oggi dello 0,1%, somma di modeste crescite fino al 2008, divorate da una robusta decrescita fino ad un paio di anni fa e dallo stallo successivo, ne da una prova incontestabile.

Tuttavia il problema è politico, come politiche ne sono le conseguenze: di fronte ai modesti risultati delle élites dirigenti è arrivata la risposta dei governati: di cambiare politica, la quale ha preso la forma della “cacciata” della classe di governo. Il populismo non è altro che la manifestazione di questa reazione, tante volte vista nella storia. Partiamo quindi dalla politica.

La fine dell’opposizione destra/sinistra.

Molti ritengono che la dicotomia destra/sinistra (o meglio borghesia/proletariato) sia ancora un criterio intorno al quale si distribuiscono, si riconoscono, si confrontano i partiti e i sistemi politici (e più in generale i gruppi umani che combattono per il potere). Altri, per lo più minoritari, non lo pensano. Per quanto riguarda i “populisti” nella scriminante destra/sinistra non sono inquadrabili (o non lo sono – il che è lo stesso – in modo decisivo). Un interrogativo classico, che riguarda i grillini, è se questi sono di destra o di sinistra, data l’ambiguità su tanti temi del Movimento 5 Stelle. Nella realtà la forza crescente di questi – e degli altri “populisti” – è proprio di non essere riconducibili a tale contrapposizione. Avete mai sentito un grillino parlare di “classe operaia” o di “pericolo comunista”? A me non risulta. Così neppure da parte di altri “populisti” come i leghisti o “Fratelli d’Italia” (se non raramente in tono minore). E il favore  elettorale è dovuto, per lo più, a questo. Il perché può avere una spiegazione.

Ogni epoca della storia dell’Europa moderna ha visto organizzarsi le contrapposizioni politiche in base a una scriminante generale (e prevalente): nel XVI e XVII secolo era quella religiosa, in particolare tra cattolici e protestanti; all’epoca del tardo illuminismo fu sostituita da quella tra borghesia e monarchie assolute; successivamente, nel secolo breve, ma ancora prima, superata da quella tra borghesia e proletariato. Venuto meno la quale, se ne fa avanti una nuova. E quella vecchia subisce un processo d’indebolimento politico: non riesce a suscitare più né un consenso né un dissenso decisivo: viene progressivamente depotenziata e neutralizzata. E così l’ordine che ne conseguiva. Anche le contrapposizioni “minori” (nel senso di particolari e peculiari di zone e aree determinate) nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale riuscivano a suscitare stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo” anche se “relativizzate”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia. Ma tutti conflitti d’intensità minore rispetto a quello prevalente.

Così è chiaro, risalendo di qualche secolo, che se Frundsberg riuscì nel 1527 a portare un esercito di  protestanti a saccheggiare Roma (“la prostituta di Babilonia”) il tutto non gli sarebbe riuscito né una ventina di anni prima né un secolo (abbondante) dopo: prima perché la scriminante religiosa tra cristiani non c’era, dopo perché era depotenziata.

Il declino dei vecchi partiti e l’ascesa di quelli nuovi oggigiorno trova la propria causa (e spiegazione) principale (ancorché non unica) nella sostituzione della vecchia scriminante politica da parte della nuova. D’altra parte la vecchia non ha senso (o ha poco senso): a comunismo crollato, combattersi in nome del capitale o del proletariato appare come la carica di don Chisciotte contro i mulini a vento. E le masse la osservano con l’incredula indifferenza di Sancho Panza, il quale percepiva che i nemici del suo capo non erano giganti, ossia nemici reali, ma solo mulini.

Di conseguenza non li considerano nemici né impedimento (principale) alle proprie condizioni di esistenza: la percezione del nemico è riservata ad altri, e si fonda su una scriminante diversa e nuova.

La nuova scriminante.

Non è facile operare la reductio ad unitatem dell’affollato insieme dei “populisti”, anche perché è diventato il sinonimo di oppositori alle élites governanti (come definizione in negativo, questa è insufficiente a individuare connotati di “contenuti” comuni). A poco serve insistere all’uopo su aspetti “tecnici” come il rapporto tra capo e seguito, le forme e i processi in cui si articola; o il linguaggio adoperato; neppure l’appello al popolo è un differenziale esauriente, perché il popolo, almeno per sedurlo, è invocato da tutti.

A cercare il senso e i poli della nuova discriminante, adattabile, pur tenendo conto delle differenze, ai movimenti “populisti” nella generalità (o quasi) questa è la polarità identità/globalizzazione.

Il populista “tipo” del XXI secolo si colloca nel primo dei due termini dialettici e  si oppone al secondo – ed al soggetto/i globalizzatore/i.

L’identità può essere declinata in vari modi e con vari accenti: l’importante è che il populista (ci crede e) vuole proteggerla.

Alle volte movimenti populisti mettono l’accento sul profilo economico: la difesa del lavoro nazionale dall’ “esercito di riserva” del capitalismo, ormai costituito quasi esclusivamente dai migranti. E del pari, quella delle industrie dalla finanza globale (e non) o dalla concorrenza extraeuropea. Difesa dell’occupazione e del sistema industriale che, a conferma del tramonto della vecchia scriminante, sono due facce della stessa medaglia, in cui gli interessi un tempo (visti come) confliggenti tendono a solidarizzare e non a contrapporsi.

In altri casi prevale l’aspetto culturale: la globalizzazione tende ad eliminare le differenze e così le culture: il villaggio globale fagocita quelli locali e le loro particolarità, consuetudini, istituti dalla cucina su su fino al rapporto tra i sessi, la famiglia, il matrimonio. Altri sulla  religione, spesso associata alla precedente.

Altri ancora, praticamente tutti, la declinano sotto il profilo politico-istituzionale: nel senso che a decidere sul mondo e le forme dell’esistenza politica, economica e sociale debbano essere i popoli – e non i “mercati” – o meglio i soggetti (poteri) globalizzatori.

Questa istanza, la più diffusa, comporta due conseguenze.

La prima di essere una rivendicazione nazionale, non nel senso che il nazionalismo ha assunto in Europa nel XX secolo (quello che va da Corridoni a Rosenberg, tra tanti), ma in quello che aveva per un uomo del XIX secolo, e in particolare per chi ha fatto il Risorgimento italiano.

In fondo una sintesi non esauriente ma efficace del nazionalismo d’antan la formulava Mazzini nel “Manifesto del comitato nazionale italiano” in cui si può leggere “Che nessun governo è legittimo se non in quanto rappresenta il pensiero nazionale del popolo alla cui vita collettiva presiede, ed è liberamente consentito da esso”. In effetti questa è l’essenza della libertà politica nel senso più antico, ossia come libertà di una collettività umana di decidere autonomamente l’ordinamento della propria esistenza politica, economica e sociale.

Da “America first” di Trump alle rivendicazioni del Front National a quelle di Orban (e si potrebbe continuare nell’elencazione) questo è il “volto nuovo” di un nazionalismo non aggressivo, ma difensivo. Scambiare la difesa con l’aggressione è un espediente di cattiva propaganda.

Tale revival nazionalista è in primo luogo spiegabile dalle differenze con l’ideologia cosmopolita, dei diritti dell’uomo e del pacibuonismo “a prescindere”, della tecnocrazia, e, da ultimo, della prevalenza del normativo sull’esistente e dal rifiuto di tutto questo, o quanto meno dalla di esso relativizzazione. Ovviamente il cosmopolitismo con la sua (auspicata e in parte realizzata) abolizione di tutte le frontiere (spaziali, e non solo), è esattamente l’opposto di quello che ha sostenuto il nazionalismo, da quando si è profilato quale dottrina.

Da tale opposizione è chiaro che il processo di globalizzazione, accelerato dopo il crollo del comunismo, ha provocato o comunque amplificato, per contrapposizione, la controspinta nazionalista, nel senso indicato. La nuova dialettica amico/nemico si propone quindi come negazione/opposizione tra chi vuole conservare la propria specificità (identità) e chi la vuole sopprimere, o quanto meno, relativizzare.

La seconda conseguenza è che, da un lato, si percepisce (di solito) i “populisti”, che sarebbe meglio denominare identitari, come una destra riemergente: ciò ha indubbiamente una parte di verità, nella misura in cui le rivendicazioni nazionali sono state fatte proprie, in Europa, soprattutto dalle destre. Per cui chi ancora è rimasto fermo alla vecchia contrapposizione, non si è del tutto sbagliato, ma interpreta la realtà secondo i vecchi schemi. Tuttavia non lo è – o lo è assai di meno – se si considera da un canto che si tratta di nazionalismo difensivo; dall’altro che, mentre per il vecchio nazionalismo il nemico da cui difendersi o da combattere era un altro Stato, cioè l’istituzione politica di una comunità “altra”, ora è un qualcosa di indefinito, per lo più di non statale: l’Impero di Negri, i “poteri forti” e così via. I quali hanno il connotato comune di non essere (per lo più) Stati, di professarsi (per lo più) non politici, di non essere democratici (tutti), di non conoscere né riconoscere frontiere (di ogni genere). E quindi per lo più di essere non uno Stato ma una lobby, una setta, una società segreta, un partito, un gruppo religioso e così via. Il che crea delle opportunità per il liberalismo nel XXI secolo.

IL PRINCIPIO DI AUTO-ORGANIZZAZIONE IN POLITICA, di Pierluigi Fagan

Nei sistemi complessi, sostanzialmente i sistemi dinamico-vitali che si trovano tra il caos aereo e la rigidità minerale, tra cielo e terra, vige una regola di auto-organizzazione, tendono cioè a trovare una qualche forma di ordine da soli. Nel trasferire questa conoscenza al mondo umano occorre in primis osservare lo scalino dell’analogia. Lo scalino dell’analogia è l’avvertimento -quasi mai osservato- del fatto che per trasferire schemi mentali desunti dal reale da un livello all’altro, occorre prima verificare l’omogeneità dei livelli che si comparano. Ad esempio, alcuni scienziati e molti lettori o studiosi della meccanica quantistica, tendono a proiettare gli schemi osservati al livello sub atomico sul livello sovra-atomico. Sebbene ci siano alcuni fisici che sostengono l’esistenza di comportamenti quantistici anche a livello molecolare, al momento è prudente considerare quello che vediamo e sappiamo della mq, confinato al suo livello. Così, il principio di auto-organizzazione dei sistemi complessi va valutato a seconda del tipo di sistema ovvero del tipo di varietà che lo compongono. Particelle sono una cosa, atomi e molecole un’altra, cellule un’altra ancora, individui come celenterati cose a sé, diverse dagli scimpanzé a loro volta parenti di rango inferiore (in termini di complessità) dell’umano. Politica attiene all’umano e quindi ci si domanda quale sia la possibile applicazione del principio di auto-organizzazione all’umano.
Il principio di auto-organizzazione si basa in genere sul fatto che le unità componenti il sistema hanno un range limitato di opzioni di relazione verso le altre. Poiché tutte fanno parte di un unico sistema a sua volta doppiamente condizionato dalla sua struttura e storia interna e dal dovere di trovare accordo con ciò che gli è intorno (ambiente o contesto), le opzioni, che sono limitate, vengono a loro volta chiuse dal comportamento sincronico delle singole parti, tutti si adattano tra loro nel tutto comune che è il sistema che si adatta al contesto. Una applicazione “stagionale” del principio di auto-organizzazione è lo stormo di uccelli. In pratica, ogni singolo uccello ha le semplici disposizioni di tenere la distanza “x” da quello a destra, da quello a sinistra e da quello davanti. Nel complesso, basta un piccolo scarto (il lucreziano “clinamen”) nel comportamento collettivo per riorganizzare l’intero comportamento del sistema, da cui gli affascinanti disegni ad onde degli stormi migratori.
Nel livello umano, c’è una applicazione del principio di auto-organizzazione ed è proprio l’ordinatore delle nostre forme di vita associata: il mercato. E’ la famosa mezza paginetta di poco meno di mille-e-cento della sua più famosa opera, in cui Adam Smith citava la “mano invisibile”, la “mano” come metafora di ciò che mette ordine, “invisibile” perché in effetti non c’è alcuna mano. Smith diceva che il fatto che noi sia abbia tutte le mattine la bottiglia di latte nel bar sotto casa e non si debba prendere il calesse per andare in campagna a mungere una mucca, derivava dalla semplice applicazione della singola disposizione individuale a cercare il profitto. L’allevatore allora munge per noi (e per sé) la mucca e vende il latte al distributore che lo vende al negoziante che lo vende a noi, l’effetto ordine è dato da segmenti di piccole transazioni di profitto mosse dall’interesse individuale, come negli uccelli dello stormo o le formiche eusociali, sebbene noi non si sia propriamente dei tordi o degli imenotteri, potenza dell’analogia.
La cosa venne espressa dal genio di Smith nel 1776 e tra l’altro è discusso se l’espressione “mano invisibile” sia sua (improbabile che un illuminista scozzese usasse questa metafora semi-deista che fa parte più della cultura inglese) poiché se ne potrebbe rinvenire traccia nell’opera molto influente di un certo Bernard de Mandeville che nel 1705 pubblicò una deliziosa favoletta dal titolo “La favola delle api” (analogia dell’imenottero) che tanti studiosi e critici del c.d. “capitalismo” farebbero bene a leggersi per capire meglio di cosa parlano. Tra XIX e XX secolo, la faccenda del mercato come sistema auto-organizzato ed auto-regolato affascinò anche R. Wathely e L. von Mises ed infine F. von Hayek (ma anche Walras, Pareto e molti altri) che vi centrò sopra praticamente l’intera sua opera di pensiero.
Ma il punto poco a fuoco della faccenda è che tutto ciò è pertinente se e soltanto se operiamo a monte una decisione che però rimane indiscussa spesso: se questo è il modo migliore (e pare lo sia) di far funzionare il mercato, chi-dove-come-quando-e-perché ha deciso che l’intera società umana debba ruotare intorno al mercato? Tale decisione venne presa nel mondo reale ma poi anche teorizzata nell’ambito di un altro segmento di pensiero che non è molto illuminato né nello studio politico, né in quello economico che nel frattempo di sono separati. Viene preso nell’ambito dell’utilitarismo inglese (Stuart Mill – Bentham – Sidgwick e -vari- seguenti), esso si potrebbe dire la colonna centrale della riflessione etica di origine inglese, quindi anglosassone: la ricerca della felicità per il maggior numero (più o meno). Stante che gli inglesi sono la genetica del sistema anglo-sassone e questo dell’Occidente (il concetto di “sistema occidentale” è molto tardo ed è di origine anglosassone), questo tipo di etica è diventato l’etica occidentale propriamente detta.
Torniamo allora al problema dei livelli. Se volessimo discutere questa decisione di gerarchia per la quale l’economico è l’ordine della società, economico a sua volta ordinato dal principio di auto-organizzazione detto “mano invisibile”, dovremmo proporre la sudditanza dell’ordine economico all’ordine politico e quindi tornare la nostra domanda iniziale: quale sarebbe l’applicazione del principio di auto-organizzazione al politico?
Qui incontriamo lo scalino dell’analogia. Gli esseri umani non sono né imenotteri, né uccelli, né lupi, né celenterati, e nemmeno atomi o particelle sub-atomiche. Una cosa distingue (o almeno dovrebbe) l’umano dagli ordini inferiori (ci si passi questa geometria piramidale verticale della complessità): l’intenzionalità auto-cosciente. Formiche ed uccelli non decidono il loro comportamento, lo hanno prescritto geneticamente, gli atomi si compongono seguendo la poco nota ma fondamentale “regola dell’ottetto” e la particelle seguono i dettami delle forze (tre-quattro) che agiscono al loro livello.
L’ordine auto-organizzato dei sistemi umani di vita associata (le nostre società) dovrebbe venire da un difficile forma di decisione partecipata delle sue singole componenti che al contempo agiscono in parte per interesse personale, in parte per interesse collettivo, sistemico. Questo presuppone tre cose: 1) l’ordine politico domina l’ordine economico; 2) l’ordine democratico ordina l’ordine politico; 3) le singole parti del sistema (gli individui) debbono avere una doppia visione sia dell’interesse personale, sia dell’interesse collettivo.
Il problema è che praticamente nessuno si preoccupa di coltivare presso gli individui la capacità di assumere conoscenza di cosa sia (non quale sia, quello lo decideranno i singoli individui) l’interesse collettivo. Molti pensano implicitamente esso debba “emergere” dall’incontro-scontro tra i vari interessi personali ma questa idea è viziata dalla falsa analogia. L’ordine del sistema dovrebbe esser pensato dai singoli individui né più (collettivismo), né meno (individualismo) di quello personale. Quindi continuiamo ad essere imenotteri sballottati dalla mano invisibile del formicaio chiamato “società ordinata dal mercato” che però passiamo la vita a criticare inutilmente sperando si dissolva da sé o grazie ad un classe di individui coscienti di esserlo o per catastrofe o per merito di qualche semi-dio illuminato che ci salvi dalla prigionia della nostra impotenza, recludendoci in un’altra.

meglio Callicle, di Teodoro Klitsche de la Grange

Seguendo le sollecitazioni di alcuni lettori si ripropone qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de La Grange già apparso sul sito ma con una veste grafica poco adatta alla lettura_ Giuseppe Germinario

MEGLIO CALLICLE

 C’è molto da meditare, ancora oggi, in  particolare  per chi si occupi  di  studi politici e giuridici, sull’alternativa, nel Gorgia, tra le contrapposte tesi di  Socrate  e Callicle. Com’è noto, Socrate – il quale inizia, sul punto, a discutere con Polo – sostiene che è moralmente preferibile subire un torto piuttosto di farlo. Callicle (e  Polo)  al contrario, ritengono che subirlo non sia degno di un uomo libero. A ben vedere le opposte soluzioni conseguono dai diversi presupposti (e contesti) da cui partono  i contraddittori, in certo modo confusi dall’abilità dialettica di Socrate. Infatti questi, procedendo da un’impostazione morale, considera l’azione in se, avulsa dalle conseguenze che dalla stessa possono derivare, e dal contesto in cui si producono gli  effetti. Trattandosi  però di violazioni anche di  nomoi il campo in cui va a incidere il giudizio etico di Socrate non è quello, individuale, della coscienza, ma l’assetto giuridico e politico della comunità. In sostanza traspone le norme etiche in un contesto ad esse non proprio. Callicle – che pure contrappone natura e legge, o meglio leggi di natura e leggi positive – si tiene fermo al campo politico (e giuridico). La sua tesi è che non “da vero uomo, ma da schiavo, è subire ingiustizie senza essere capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati ed offesi, non si è capaci  di  aiutare se stessi e chi ci sta a cuore” (1). E ciò per legge di natura “la stessa natura chiaramente rileva esser giusto che il migliore prevalga sul peggiore, il più capace sul meno capace. Che davvero sia così, che tale sia il criterio del giusto, che il più forte comandi e prevalga sul più debole, ovunque la natura  lo mostra, tra  gli animali e tra  gli  uomini, nei complessi  cittadini e nelle famiglie” (2). Callicle cioè  si  attiene, nelle  sue argomentazioni, alla  “realtà effettuale”, al contrario di Socrate: le argomentazioni del primo derivano dalla descrizione e valutazione dei fatti (dall’essere); quelle del secondo sono prescrittive, partono dal dover essere. Peraltro Callicle, come notato (3), non trascura mai le “costanti” della politica: in particolare la relazione di comando e obbedienza, col corollario della classe politica, ovvero dei meno che governano sui più che sono governati. Socrate invece prescinde dal rapporto politico, al punto che gli esempi addotti a  conforto  delle  sue tesi sono tutti estranei  a questo. E Callicle lo nota, osservando “tu non hai in bocca che calzolai, cardatori, cuochi, medici; come se il nostro discorso avesse per argomento tale gente!” E chiarisce: “In primo luogo quando parlo dei più forti, non intendo calzolai o cuochi, ma quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato, che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d’animo” (4). In definitiva (sintetizzando) per Callicle il  problema  va risolto tenendo conto dell’essenza del potere  (politico):  che non può  sopportare  ingiustizie (almeno non le può subire spesso), pena il  suo stesso venir meno come garante e  produttore dell’ordine. Invece Socrate conclude sostenendo  che compito  del politico  è di fare degli ottimi cittadini: cioè, sostanzialmente, di  occuparsi  del  loro  perfezionamento civico e morale (5). Per analizzare la posizione di Callicle, più interessante sul piano della “realtà effettuale” occorre non solo esaminarla nel contesto proprio, ma ponendosi in angoli visuali diversi: cioè a seconda che la massima si indirizzi ai governanti o ai governati, e se il campo ne sia, specificamente, la politica o il diritto. 2. Che la posizione di Socrate fosse, dì fatto, incongrua  a reggere e conservare la comunità e quella di Callicle sia stata – anche se  in parte – ritenuta valida a tale fine, risulta dalle riflessioni dell’etica cristiana. Secondo  la quale commettere torto è assai peggio che subirlo – anzi subirlo significa guadagnarsi un posto in Paradiso; tuttavia i teologi hanno temperato tale (nobile) posizione etica discriminando tra il dovere del cristiano (governato) e quello dell’uomo di governo cristiano. Lutero, in particolare, ha scritto pagine illuminanti, distinguendo tra la tutela del proprio interesse e di quello degli altri. Quand’è leso il proprio interesse  I  fedele  deve subire dei torti: per quello degli altri è. parimenti, dovere del cristiano non permettere che torti si commettano e, comunque, che questi debbano essere sanzionati. Scrive Lutero “Se tu non hai bisogno che il tuo nemico sia punito, il tuo vicino che è debole, ne ha necessità e devi venirgli in aiuto perché abbia  la pace e il suo nemico sia represso. E ciò non può verificarsi  se potere e autorità non sono onorati e rispettati.  Cristo  non  dice “Non  devi  servire l’autorità né essere sottomesso ma Non devi resistere al male” (6). Da cui consegue che “facendolo ti porrai interamente a disposizione di una funzione e di un’attività al servizio del prossimo, che non sono utili a te, né al tuo bene o al tuo  onore, ma  servono  solo  agli altri, e, espletandola non con l’idea di vendicarti o restituire male al male, ma per il bene del prossimo e per assicurare la difesa e la pace degli altri” (7) e prosegue “quando si tratta del prossimo e del di esso interesse, agisci secondo amore cristiano e non tollerare che gli sia fatta alcuna ingiustizia” (8). In particolare all’autorità  compete di  mantenere l’ordine  e il diritto, perché istituita da Dio in vista di tale fine. “Se il potere e la spada sono un servizio divino, come ho provato sopra, tutto ciò che è necessario al potere per impiegare la forza, dev’essere anch’esso un servizio divino. Occorre che ci sia qualcuno per catturare i delinquenti, accusarli, punirli e metterli a morte, e per proteggere, discolpare, difendere e salvare gli uomini virtuosi”(9). Poco dissimile è la concezione di Calvino. Questi ritiene i magistrati “vicari di Dio”, “servitori della giustizia”; rifiutando la posizione degli anabattisti, ritiene che il loro ruolo è necessario e niente affatto contrario alla vocazione del critiano ed alla religione cristiana. Riguardo alla pena di morte, scrive: “Il est vrai que la Loi de Dieu défend d’occire; au contraire aussi, afin que les homicides ne demeurent impunis, le souverain Législateur met le glaive en la main de ses ministres, pour en user contre les homicides. Certes, il n’appartient pas aux fidèles d’affliger ni faire nuisance; mais aussi ce n’est pas faire nuisance, ni affliger, que de venger par le commandement de Dieu les afflictions des bons” per cui “C’est pourquoi, si les princes et autres supérieurs connaisent qu’il n’y a rien de plus agréable à Dieu que leur obéissance, s’ils veulent plaire à Dieu en piété, justice et intégrité, qu’ils s’emploient à la correction et punition des pervers” (10). Ne consegue che la massima morale valida per il cristiano, di porgere l’altra guancia, non vale per il governante, anche cristiano, il quale operando per l’interesse dei governati non deve subire né, soprattutto, tollerare che i governati subiscano torti. Sosteneva Troeltsch che da tale concezione protestante deriva l’alto senso del dovere che ha ispirato la burocrazia professionale tedesca (11); è sicuro comunque che, determina anche sul piano etico una netta distinzione, secondo la funzione, nei doveri e nel comportamento del cristiano. A conclusioni non molto diverse si arriva leggendo i teologi della controriforma. Scriveva S. Roberto Bellarmino, polemizzando in particolare con gli anabattisti, che le leggi “non servirebbero a nulla, se non ci dovesse essere alcuna sentenza; ma come si è già provato, non si devono togliere le leggi: dunque nemmeno le sentenze” (12). Quindi esercitare la giustizia e rivolgersi al giudice  per la riparazione  del torto è lecito, anzi in  certi casi doveroso, perchè concorre a reprimere chi potrebbe commettere altre ingiustizie; e quanto all’autorità temporale, ed alla pena di morte è “compito  di un buon principe, al quale è affidata la protezione del bene comune, impedire  che le parti corrompano  il  tutto, per il quale esistono; di conseguenza se non può conservare integre tutte le parti, deve piuttosto recidere una parte che lasciar perire il bene comune; come i contadini recidono  i rami e i tralci che danneggiano la vite o l’albero, e il medico amputa le membra, che potrebbero corrompere il corpo” (13). Passando al diritto internazionale, ed alla  liceità  della  guerra  – nel caso di risposta alle offese – Francisco Suarez afferma ”  bellum defensivum non solum est licitum, sed interdum etiam praeceptum” e ciò per difendere l’esistenza e le ragioni della comunità; ma anche la stessa guerra offensiva può essere giusta e la ragione è” quia tale bellum saepe est reipublicae necessarium ad propulsandas iniurias et coercendos hostes, neque aliter possunt respublicae in pace conservari: Est ergo hoc iure naturae licitum, atque adeo etiam lege evangelica, quae in nulla re derogat iuri naturali, neque habet nova praecepta divina, praeterquam fidei et sacramentorum: Quod enim non vult haec mala, sed permittit, unde non prohibet quin iuste possint propulsari (14). Nel caso che il principe sia trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può” tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem quia semper censetur apud se retinere eam potestatem, si princeps officio suo desit” (15) E tra le giuste ragioni di guerra di un principe cristiano, vi sono le riparazioni di un torto o la difesa degli innocenti (16). Pur sostenendo concezioni, su altre questioni, opposte, sul punto del dovere dell’autorità temporale di proteggere i sudditi, e sulla legittimità della relativa funzione, teologi cattolici e protestanti concordano, con poche sfumature di differenza. Come tutti condannano gli anabattisti, per il loro divieto al cristiano di assumere funzioni pubbliche. La distinzione quindi tra morale “pubblica” e “privata” (e relative “sfere”) è saldamente stabilita. Quel che è vietato al privato è concesso – anzi è dovere – dell’uomo pubblico. Ciò conferma il rapporto dell’etica cristiana con l’ordine: il bene morale è in riferimento all’ordine dell’esistenza e della vita, cui deve conformarsi il comportamento del credente. Ordine che non può sussistere (e durare) senza distinzioni di ruoli, di funzioni, e quindi di comportamenti: la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra funzione pubblica e attività privata, tra azioni vietate, premesse o comandate a seconda del ruolo sociale dell’autore, ed in funzione della conservazione della comunità, come essere ordinato. 3.0 Jhering, nel “Kampf um’s recht”, rivoluziona tale impostazione, rendendola più vicina, anche se in un ambito parzialmente diverso, a quella di Callicle. Cioè rende di nuovo universale – rivolto a tutti, governanti e governati – l’imperativo di non subire il torto, anzi ne fa il (principale) fatto fondante l’ordinamento comunitario. Il giurista tedesco prende le mosse dal concetto del Diritto che è un “concetto pratico, cioè dire, un concetto non puramente speculativo, ma tendente ad uno scopo. Se non che ogni concetto di tal natura è per propria essenza dualistico. Nel seno suo accoglie l’opposizione del fine e del mezzo. Parlare semplicemente del fine non basta: occorre indicare al tempo stesso anche il mezzo per giungere al fine” e continua “il mezzo, per vario e multiforme che possa essere all’apparenza, in sostanza riducesi sempre alla lotta contro l’ingiustizia. Il concetto del Diritto inchiude in sé le opposizioni della lotta e della pace: questa come termine finale; quella come mezzo del diritto. Le due cose sono date ugualmente nel concetto del Diritto e dallo stesso inseparabili” (17). Né si può opporre che la lotta, il conflitto sia proprio ciò che il diritto mira ad impedire perché “l’obiezione sarebbe giusta, ove si trattasse della lotta dell’iniquità contro il Diritto. Ma il fatto è che qui si tratta dell’opposto, della lotta del Diritto contro l’ingiustizia. Tolta simile lotta, tolta cioè la resistenza contro la violazione, il Diritto sarebbe ridotto ad una negazione intrinseca di sé. Sino a che il Diritto dev’esser considerato dal lato delle ingiuste aggressioni, che può subire – e ciò accadrà sino a che durerà il mondo

– il Diritto non può esimersi dal lottare. Per la qual cosa la lotta non è un che di straniero al

Diritto. Essa è invece intimamente legata con l’essenza sua: è, in una parola, un momento del suo concetto” (18). Da ciò, prosegue Jhering, deriva che l’essenza  del diritto è  attuazione pratica: “Una regola giuridica, che giammai non fu attuabile, ha perduto  la capacità di esserlo, non può pretendere a cotal nome. Essa è una molla inetta, che non collabora nel meccanismo del Diritto, e che può esser tolta  via, senza  che alcuna alterazione ne segua”. Questo principio s’applica  senza limitazione  di sorta a tutte le parti del Diritto. Ma mentre l’attuazione del  diritto pubblico  e penale  è “assicurata  perché imposta come dovere ai rappresentanti del potere politico; quella invece del diritto privato prende la forma di un diritto delle persone, vale a dire, abbandonato  completamente  alla loro propria iniziativa, alla spontanea attività loro. Nel primo caso l’attuazione del Diritto dipende da ciò, che le autorità e gli ufficiali dello Stato compiono il dover loro; nel secondo invece da ciò, che le persone private faccian valere il loro diritto” (19). Ma se queste non se ne curano, non lottano cioè per realizzare il loro diritto “la regola giuridica rimane allora impotente. Onde può dirsi: la realtà, la forza pratica delle massime del diritto privato apparisce e s’afferma, allorché i diritti concreti vengon fatti valere. E così, mentre questi ricevon da un lato la vita loro dalla legge, fanno d’altro lato la vita della legge. La relazione  del diritto obiettivo o astratto co’ diritti subbiettivi o concreti è pari alla circolazione  del sangue, che parte dal cuore, ma al cuore fa  ritorno” (20).  A chi sostiene  che, tutto sommato, a soffrire le conseguenze di un’azione nel tutelare il  proprio  diritto, è “l’investito del diritto”, Jhering controbatte che “Quando l’arbitrio e la licenza s’attestano temerarii ed audaci di levare il capo, è segno sicuro che quei che eran chiamati a difendere la legge hanno negletto il  dover  loro” (21). E nel diritto privato ciascuno  è, “in  obbligo  di difendere la legge; ciascuno, entro la sua propria sfera, n’è custode ed esecutore”; per cui

“Affermando il diritto suo, nella sfera ristretta, che questo occupa, egli nulladimeno afferma e mantiene il Diritto. Epperò l’interesse e le conseguenze della sua maniera di agire trascendono di molto la persona sua” (22). L’interesse generale, ricollegato al comportamento attivo, non è quello, puramente ideale, della maestà della legge; ma quello reale e pratico, “che lo stabile ordinamento della vita socievole sia assicurato e conservato saldo ed integro” (23). Quando il diritto diventa punto o poco applicato, per indifferenza o pigrizia “La responsabilità di simili condizioni non ricade sulla parte del popolo, che trasgredisce la legge; ma su quella, che non ha il coraggio di farla rimanere inviolata e rispettata. Non bisogna lamentarsi dell’ingiustizia, che tenta usurpare il posto del Diritto; ma bensì del Diritto, che se n’acqueta e contenta. E fra le due massime: non fare alcun torto, e: non soffrire alcun torto, se dovessi scegliere per dare a ciascuna il grado che le spetta secondo la sua importanza pratica, direi, che quella di non sopportare alcun torto è la prima; e l’altra di non farne, la seconda” (24). In ciò Croce ravvedeva non solo un’inoppugnabile ragione pratica, di conservazione dell’ordinata vita sociale, ma anche l’espressione di un “alto concetto” e di un “sentimento morale”. Quello cioè di difendere il proprio diritto anche con sacrificio degli interessi individuali (25). In realtà è chiaro che, come sostenuto da Jhering, una società non può reggersi se il diritto viene totalmente, o largamente disapplicato. Il diritto non è una collezione di “grida” di manzoniana memoria (o, diremmo oggi, di norme – manifesto) ma vive della sua applicazione, di cui è strumento essenziale, anche se non esclusivo, la volontà e la determinazione individuale. Ciò è connaturale all’approccio problematico ed alla cultura del giurista, dato che in alcuni ordinamenti è prescritta addirittura l’abrogazione per desuetudine. Ma anche laddove questa non è prevista, un diritto poco o punto applicato è un diritto inesistente, che ha smarrito la funzione essenziale di formalizzazione dell’ordine e garanzia del medesimo. Di fronte al quale, non può non concordarsi con il giudizio di Jhering. 4.0 Diversa – almeno in parte – appare la questione ad affrontarla sotto l’angolo visuale, che è propriamente quello di Callicle, cioè della politica. Qui il problema consiste nel vedere come l’alternativa si presenta in un campo di rapporti specificamente politici. In primo luogo cioè, come si configuri in un ambito in cui il potere è fattore essenziale, ed è assicurato dal rapporto tra comando e obbedienza; la cui funzione precipua non è tanto la tutela d’interessi individuali, ma dell’esistenza collettiva. Ne consegue che se la teoria di Jhering vale per un individuo, che opera per interessi personali e fa scelte le cui conseguenze ricadono in primo luogo su di se, e solo di riflesso su tutti; qui, di converso, abbiamo decisioni che coinvolgono, immediatamente e direttamente, gli interessi di tutti. Per cui, spesso, subire un torto, per odioso che sia è preferibile a lottare per il proprio diritto, perché il costo della scelta sarebbe insopportabile. Il che è particolarmente chiaro e manifesto nei rapporti internazionali, dove abbiamo visto interi stati cessare d’esistere senza combattere (come gli Stati baltici e la Cecoslovacchia nel 1939), perché la lotta si manifestava impari, anzi

disperata, e molto costosa, sul piano umano prima che economico. E’ possibile tacciare quei governanti d’ “immoralità” o meglio di codardia,  sotto  il  profilo  considerato?  O  non piuttosto, avendo quelli la responsabilità di milioni di uomini, hanno applicato la regola machiavellica, di trarre “miglior partito dal meno malo”, salvando la vita dei concittadini, al prezzo dell’esistenza collettiva? In altri termini ciò che (anche) rende peculiare il problema politico (rispetto alla realtà morale o “giuridica”) è che in politica l’etica è sempre, in misura prevalente, un’etica della responsabilità: bisogna considerare come ogni scelta ricada sugli interessi di milioni di persone. Il che non succede, come chiarito, negli altri casi. Fatta tale premessa, e ponendoci nella prospettiva del governante,  occorre  distinguere  tra  due ipotesi: subire un torto o farlo subire. E’ chiaro come, a tale proposito, occorre appena considerare che il torto sia sofferto sul piano personale. Questo sarebbe irrilevante; tuttavia trattandosi di persone pubbliche, fatti del genere provocano una diminuzione di autorità (di “credibilità” si potrebbe dire), con le conseguenze relative; pertanto da evitare, per quanto possibile. Quando però a subire un’ingiustizia è la comunità o l’istituzione o il gruppo “rappresentato” la regola d’azione non può che essere quella di Callicle; anche se occorre tener conto, come sopra scritto, delle conseguenze e del costo della reazione. Questo, in primo luogo, perchè primaria funzione del potere politico è proteggere  la comunità  e i membri di questa  da ogni offesa  esterna  ed interna. Se la comunità, nel suo insieme, subisce un’ingiustizia, è chiaro che ciò incrina l’efficacia della  protezione,  ovvero  la principale “obbligazione” dei governanti. Il  giudizio, tante volte ripetuto, che gli Stati stanno  tra loro in perenne stato di natura, implica anche questo: che, in linea di principio, non può subirsi il torto. Tant’è che il diritto internazionale conosce  l’istituto  della  rappresaglia,  la quale è, per l’appunto, una reazione (o rimedio) lecito per la riparazione  dell’illecito  patito. Ma, tornando a ragionare sul piano puramente politico, si arriva a conclusioni uguali. La funzione del potere è, infatti, attraverso il monopolio della violenza legittima (nello Stato moderno), di stabilire e garantire l’ordine. Come scriveva Hauriou “ogni potere che voglia durare è obbligato a creare un ordine delle cose e un diritto positivo” (26). La relazione tra questo, l’ordine e il diritto è quindi una costante necessaria dell’esistenza collettiva. Ma il potere può essere tale solo se, concretamente, comanda e viene obbedito. Il dualismo tra potere di fatto e di diritto, nelle situazioni storiche, è destinato a durare poco; perchè, in periodi più lunghi, o il potere di fatto diviene potere di diritto – alla fin fine, perchè obbedito o quello di diritto torna ad esserlo anche di fatto, per la stessa ragione. Ogni situazione di conflitto tra poteri in una comunità, si risolve in tal modo; e il criterio della prevalenza è dato dalla capacità di farsi obbedire, cioè di (creare e) garantire l’ordine. Ad affrontare poi la questione sotto il profilo se il potere politico possa tollerare di far subire ingiustizie ai membri della comunità, la conclusione è ancora più semplice. Questo perchè è quasi nullo il rischio che un torto subito da un privato possa trasformarsi in un casus belli che metta in gioco l’esistenza collettiva. In questi casi tutto si risolve all’interno dell’unità politica.

Orbene se fine del potere è la protezione (o la sicurezza) delle vite e dei beni dei singoli cittadini, è chiaro che far  subire  un torto è un grave, gravissimo “sviamento” da tale  funzione. E’ un “peccato” sotto il profilo dell’etica politica: e ciò non solo per i motivi esposti e sopra citati – da Lutero. Ma perchè, in un’epoca di secolarizzazione, in cui sono stati recisi i legami tra cielo e terra, la prima ragione di legittimazione del potere è la sua congruità alla funzione, come ci è capitato di sottolineare altrove. Cioè che riesca ad adempiere efficacemente i propri compiti. Ma allorquando non abbia successo nella sua primaria incombenza, non c’è alcuna ragione perchè possa pretendere Peraltro laddove, come nello Stato moderno, il potere pubblico ha ottenuto il “monopolio della violenza legittima”, si è anche caricato, più che in altre forme politiche, della responsabilità della protezione, proprio perchè la reazione al torto e/o la sua “esecuzione” non può più essere “amministrata” dal privato. Questo accadeva in altri ordinamenti, come l’antico diritto romano o l’Europa feudale, in cui alcune – diffuse – forme di autoamministrazione ed autoesecuzione della sanzione erano ammesse. Ma laddove queste siano state totalmente eliminate – anzi sanzionate penalmente – una repressione pigra, occasionale e svogliata è, nei fatti, un incentivo alla prepotenza ed ai soprusi: alle violazioni, cioè, di quel diritto di cui lo Stato si pretende sia arbitro. Una sorta d’ “intelligenza”, complicità o “solidarietà” con chi viola la legge e non con chi l’osserva. D’altra parte, è appena il caso di  ripetere – tanti  l’hanno già detto – che lo Stato moderno non ha il monopolio del diritto ovvero non è l’unica fonte di produzione normativa – atteso che questo  è,  in  buona  parte, prodotto  di altri enti od istituzioni sociali, non solo pubbliche – e in parte è generato, spontaneamente dai (costanti) comportamenti comunitari. Ciò di  cui lo Stato  ha il  monopolio  è dell’applicazione e soprattutto esecuzione del diritto (come compito primario all’interno della funzione di garanzia dell’ordine, anch’essa “monopolizzata”). Il cui aspetto principale è che non sia consentito far subire ingiustizie, anzi siano approntati tutti gli strumenti  perchè  chi le ha patite ottenga soddisfazione. C’è un’altra considerazione che rende all’ambito politico e giuridico la tesi di Callicle e del tutto incongrua quella di Socrate. Se è vero infatti che il sovrano dell’età moderna è “legibus solutus”, in quanto fonte della legge, la conseguenza  che ne discende è quella espressa nella massima  del diritto pubblico inglese “the king can do no wrong”: il re non può commettere torto, per definizione perchè è la sua volontà a determinare il giusto e l’ingiusto. Certo, si potrebbe rispondere, come uomo è soggetto alla legge morale; ma come gevernante (non come “cardatore, cuoco”, ecc.) è suo dovere non seguirla, come immediata conseguenza dell’autonomia della politica della morale. In sintesi non è obbligato ad osservare la legge positiva perchè ne è la fonte; non è tenuto a precetti morali, in particolare quando non tornino utili – e ancor più se sono dannosi – agli interessi dell’unità politica. Non è così per la massima di Callicle: subire e far subire un torto alla comunità (e alla persona pubblica del sovrano) è sempre un vulnus alla funzione di protezione e governo di questi. Al punto che Suarez nel passo sopra citato, legittima “tota respublica” a privare della sua autorità il principe “si princeps officio suo desit”.

L’affermazione del teologo gesuita è sorprendente – a non approfondirne il pensiero – tenuto conto che non ammette, se non in tal caso, un “diritto di rivoluzione” (o meglio, di “supplenza”) della comunità  verso il  sovrano legittimo.  Ciò che è interdetto in linea generale, viene permesso ai sudditi proprio nel caso eccezionale si debba evitare di subire – o riparare un illecito ai danni della comunità (27). D’altra parte anche se più “avanzata”, questa posizione ha molti punti di contatto con quella  di Hobbes, secondo il quale l’obbligo  di obbedienza cessa per i sudditi quando il sovrano non è più in grado di dare loro protezione:  in quanto “ogni cittadino ha la libertà  di proteggersi  da se, con i mezzi, che il suo criterio gli suggerirà” (28). Anche qui, con la dovuta differenza,  è la funzione del sovrano, ordinatrice e protettrice, e l’efficacia di questa a determinare la sorte del rapporto comando – obbedienza; come d’altra parte giudicava  anche Spinoza, nel cui pensiero il diritto naturale “è determinato dalla sola potenza di ciascuno” e “colui che detiene il pieno potere     si dice che ha il supremo diritto su tutti: diritto, che avrà soltanto finchè

conserverà questa potenza di fare quello che vuole “se perderà questo (il sommo potere N.d.R.) perderà anche il diritto illimitato d’imperio” (29). E’ il caso di ricordare che secondo Spinoza  era impossibile  commettere  torto, da  parte delle “supreme autorità  alle quali tutto è lecito di diritto” (30). Anche nel Trattato Politico  ritiene “non si può in alcun modo dire che  lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti le regole e i  motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto  naturale”(31). E, concludendo  questa  breve casistica,  e ritornando alla questione tra Socrate e Callicle, se dovessimo chiederci se sia peggior governante chi commette ingiustizia o chi la fa subire, la risposta è che, tra le due poco attraenti alternative, è sicuramente preferibile avere  un  governante  che  commetta ingiustizie piuttosto di uno che le faccia subire. E ciò non solo per l’ovvia considerazione che mentre il primo “pecca” una volta il secondo lo fa almeno due: perchè consentire che si subisca un torto significa commettere un (altro) torto. Con  la conseguenza  che  in  questi casi il cittadino si trova come il povero Pinocchio il quale, oltre a subire il furto dal Gatto e dalla  Volpe, passò pure la notte in guardina  per ordine del giudice, cui si era rivolto per avere giustizia. E neppure per il motivo, di etica della politica o, più in generale dell’etica dell’uomo pubblico, che così si contravviene alla propria funzione specifica, quella che legittima l’esercizio di posizioni di potere. Ma  soprattutto  perchè,  seguendo  un ragionamento di Hobbes, è assai peggio dover subire torti dai tanti governati che dai pochi che governano.  Non solo per la quantità:  ma perchè la prima alternativa, nel caso estremo, si trasforma nello stato di natura, cioè in una situazione da guerra civile. Cioè proprio quello che il potere politico ha, come scopo, di evitare. 5.0 Avevamo iniziato col chiederci quale fosse la soluzione migliore tra quelle sostenute da Socrate e Callicle – per un’etica del comportamento pubblico. La conclusione è, ovviamente, che è preferibile quella del sofista. Una società in cui la reazione all’illecito non è sanzionata e praticata, tende a confondere diritto e torto, permesso e vietato, e, più sfumatamente, comando e obbedienza, pubblico e privato: cioè una società in cui i termini  di riferimento  diventano  indifferenti  e intercambiabili, dove l’astuzia  e la prepotenza, trovando  pochi o punti ostacoli, hanno il destro per spadroneggiare. Se questo è chiaro per il diritto, non lo è da meno per gli aspetti più specificatamente politici, che, come Callicle notava, la tesi di Socrate trascura (e confonde). Come sopra  scritto, dove il  comando non si esercita, per ignavia  dei governanti o dei governati, alla lunga non c’è ragione di obbedire. Ma del pari viene confusa la distinzione tra  pubblico e privato, anch’essa  ritenuta da Freund uno dei presupposti essenziali del politico. Si può tralasciare o perdonare  la lesione dei propri interessi  privati, ma non quando vengono in gioco le condizioni di esistenza della comunità. in questo senso l’obiezione di Callicle a  Socrate,  di aver confuso pubblico  e privato, gli statisti  con i cardatori, è magistrale. A un tempo, con ciò il sofista  individuava  la regola  di comportamento dell’uomo  pubblico, non nell’interesse dello stesso, ma in quello della società. E’ sostanzialmente tributaria dell’etica della responsabilità; e, in particolare per il governante, non è detto che sia più facile da percorrere; anzi, in genere, è di gran lunga  la più aspra  e difficile. A governare  facendo discorsi edificanti, lottizzando  cariche e prebende e non disturbando (o solleticando)  tutti “i poteri forti”, sono  capaci  se non tutti, molti. In fondo non si chiede a costoro altro che le doti di don Abbondio, tra le quali, come  riconosciuto dallo stesso, non c’era il coraggio. L’esercizio della funzione pubblica, anche a livelli non “apicali” esige invece doti di coraggio e spesso di abnegazione non indifferenti, nonché la capacità di assumersi responsabilità e rischi. Se la politica non fosse – com’è – comando e obbedienza;  se non fosse, secondo un noto detto di Napoleone, il  destino; se non ponesse in gioco l’ordinata esistenza collettiva e individuale probabilmente tali caratteristiche avrebbero un’importanza marginale.  Se, per esempio, fosse un’arte per elevare moralmente i cittadini, le doti ricordate non avrebbero senso, o ne avrebbero molto poco. Più che assumersi rischi, una tale concezione richiede di far buone prediche. Invece  ciò che fa l’uomo pubblico è il coraggio  prima  che l’intelligenza o la dirittura  morale. O meglio queste, senza il primo, servono poco. Se infatti il potere politico ha una funzione ordinatrice, e cioè finalizzata alla creazione e al mantenimento dell’ordine, comandare e sanzionare son essenziali: non foss’altro perchè, come scrivevano, tra i tanti, Machiavelli e Lutero, i cittadini virtuosi devono essere difesi dai molti che virtuosi non sono. In questo contesto appaiono del tutto impropri  i continui  richiami moralistici, che vengono fatti oggi, in Italia, da politici e funzionari. Che chi ha il potere e il dovere d’intervenire, riesca  per lo più soltanto a fare delle prediche, appare immorale sotto il profilo dell’etica della politica, oltrechè contrario alla funzione dello Stato moderno. Meglio opererebbe ad attivarsi per incrementare la percentuale, per esempio,  del “prodotto  finito” dell’azienda-giustizia penale, e cioè l’esecuzione della pena, che, oggi in Italia, si realizza invece solo in un caso su (oltre) duecento denuncie presentate. Per cui lo Stato diventa così non un’organizzazione per la protezione dei diritti, ma per far subire le violazioni di questi.

Anche perchè chi, in presenza di situazioni di fatto così disastrate si mostra animato da buone intenzioni, e magari lo è, spesso è personalmente onesto, cioè non commette ingiustizie “in proprio”. Ma è del tutto inidoneo alla funzione rivestita, e, il più delle volte un atteggiamento del genere è la maschera nobile di concreti timori, pavidità, incapacità.

Quello che Jhering chiamava la “politica della vigliaccheria”. Per cui sotto le nobili parole di Socrate si nascondono, quasi sempre, le paure di don Abbondio. Teodoro Klitsche de la Grange NOTE 1) GORGIA 483 a-b, trad it. Bari 1997, p. 89;  2) GORGIA  483 d, op cit., p, 91; E qualcosa di non dissimile scrive Tucidide nel noto episodio dell’ambasciata ateniese al popolo di Melo, tutto improntato ad uno stretto realismo politico, per cui gli ambasciatori d’Atene ritengono “le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi”. (La guerra del Peloponneso, lib. V, cap. 105): individuando così una delle “regolarità” della politica. 3) J. FREUND, L’essence du politique, Paris, 1965 p. 146 ss; 4) GORGIA 491 d, op. cit., p. 109; 5) GORGIA, 515 a.-c., op. cit. p.167; 6) LUTERO, “Sull’autorita Temporale”, Oevreus, tome I V0 , p. 23; 7) Op. cit. p. 23 8) Op. cit. p. 24 9) Op. cit. p. 29; 10) Calvino, L’institution chrétienne, liv IV, cap. XX, in particolare p. 459, Editios K2rigma U.S.A. 1978; 11) T. E. Troeltsch, Il protestatismo nella formazione del mondo moderno, rist., Firenze 1974, p. 57. Come noto, uno dei punti da superare, per amettere la liceità della guerra  e della  repressione  dei delitti, erano i noti passi del Vangelo, predicanti l’amore universale. Il Cardinale Bellarmino li interpreta distinguendo tra  “pubblico” e “privato”: “Infine vengono  citate quelle parole.  S. Matt., c. 5: Se ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra… ; amate i  vostri nemici, fate del bene a chi vi  odia, e quelle, in  S. Matteo al c. 26              Si osservi che queste stesse prove furono portate una volta contro i cristiani da Giuliano l’apostata, come ci viene riferito da S. Gregorio Nazianzeno. Quanto alla loro confutazione, diciamo in primo luogo che tutte queste cose sia comandi, sia consigli, vengono dati ad uomini privati: infatti il Signore o l’apostolo s. Paolo non comanda al giudice di non dare a colui che commise un’ingiustizia a danno di terzi, la giusta punizione, bensì comanda a ciascuno di sopportare di buon animo le offese ricevute; la guerra non è una vendetta  privata, bensì fa parte della pubblica giustizia; e come l’amore verso i propri nemici, al  quale  siamo tutti tenuti, non ritiene il giudice o il carnefice dell’adempimento delle proprie funzioni, così non trattiene i soldati e i generali  dall’adempimento delle loro. Inoltre diciamo  che anche per i  privati stessi, questi non sono sempre comandi, ma ora sono comandi ed ora consigli. Son sempre comandi quanto alla disposizione dell’animo, così che si sia pronti a porgere l’altra guancia e a dare anche il mantello a colui che ci portò via la tunica, piuttosto che offendere Dio; ma agire poi così di fatto, è comando nel caso che l’onore di Dio lo richieda necessariamente, altrimenti è soltanto consiglio; anzi alcune volte non è neanche questo, come quando porgendo l’altra guancia non ne viene utilità, se non che l’altro torni a  peccare” (S.  Roberto  Bellarmino “Scritti politici, Torino 1950, p.255). 12) S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, Torino 1950

  1. 248; 13) Op. cit. p. 250. D’altra parte com’è noto nella Confessione Augustana è detto: “Per ciò che riguarda la vita civile (le Chiese riformate) insegnano che le istituzioni civili legittime sono buone opere di Dio e che ai cristiani è lecito ricoprire cariche pubbliche, esercitare la funzione di giudice, pronunziare le sentenze in base alle leggi imperiali e alle altre norme vigenti, stabilire le pene in conformità alle leggi, far guerra per giusti motivi, militare negli eserciti, stipulare contratti secondo le leggi, avere delle proprietà, prestare giuramento su richiesta dei magistrati, ammogliarsi o prendere marito. Condannano gli Anabattisti che vietano questi doveri civili ai cristiani” (La Confessione Augustana del 1530, Torino 1980, p. 127). 14) SUAREZ De charitate, disp. 13: De Bello. In “Ausgewalthe texte zun volkerrecht”, Tubigen 1965, p. 122 15) Op. cit., p. 126; 16) Op. cit., p. 158; 17) Op. cit., trad. it., Bari 1935, p. 11 18) Op. cit. p. 12; 19) Op. cit., p. 67; 20) Op. cit., p. 67; 21) Op. cit., p. 68; 22) Op. cit., p. 69; 23) Op. cit., p. 69; 24) Op. cit., p. 71; 25) “Avvertenza” (prefazione) al “Kampf um’s recht”, trad. it. cit., 26) Prècis de droit constitutionel, Paris 1929, p. 16. 27) Un’altra eccezione invero Suarez ammette per il tiranno laddove sostiene che “bellum reipublicae contra principem (l’usurpatore n.d.a.), etiamsi sit aggressivum non est intrinsece malum”; devono però ricorrere le condizioni “justi belli”. In particolare deve distinguersi se il tiranno è tale” quoad dominium et potestatem” ovvero “quoad regimen”, per cui diverse sono le ipotesi in cui la apparente “seditio” può essere invece “bellum justum” (v. Suarez op. cit. p. 202). Nel pensiero di Suarez, plasmato da concetti e argomenti giuridici, in definitiva il criterio ultimo di discrimine tra lecito e illecito è quello della legittima difesa “omnibus competit jus defensionis”. D’altra parte, anche nella trattazione dello jus belli e del diritto naturale, la differenza evidente tra i teologi della controriforma e i filosofi del diritto naturale successivi è che per i primi lo jus belli è strettamente collegato e funzionalizzato al ripristino del diritto leso: evidente nella guerra difensiva, la riparazione del torto (e con ciò il ripristino dell’ordine) serve a giustificare i casi di guerra aggressiva. Sul punto vedi anche Francisco de Vitoria (Relectio de indis, trad. it., Bari 1996, pp. 84, 111, 112), che collega in particolare il “bellum justum” alla “justa causa” o allo “justum titulum”. Juan de Mariana, la cui posizione è particolare, perché, com’è noto, giustifica il tirannicidio (in ciò più deciso del confratello Suarez), considera questa extrema ratio giustificata (nel caso di tirannide “quoad regimen”) dal fatto che il tiranno “arrivi al punto di mandare in rovina lo stato, di impadronirsi con la forza delle proprietà pubbliche e private, di disprezzare le pubbliche leggi e le credenze religiose, mostrando apertamente di riporre tutta la sua prodezza nella superbia, nell’audacia, nell’empietà verso il cielo”. Con questo anche l’uccisione del principe ingiusto è vista come mezzo per il ripristino della giustizia e del diritto (v. Juan de Mariana De Rege ed regis institutione, trad. it., Napoli 1996, p. 52). E la guerra (giusta), anche civile, è così un mezzo del diritto e della giustizia e un “succedaneo” del giudice, del “terzo decisore”. Mentre per i secondi la possibilità di guerra, senza particolari giustificazioni, è conseguenza diretta dello “stato di natura” e del diritto naturale, applicato agli Stati, che tra di loro, sono “in stato di natura”. 28) v. Th. Hobbes, Leviathan, trad. it., Bari 1974, p. 298. 29) v. Trattato Teologico . politico, p. 382 – 383, Torino 1980. 30) T.T.P., cit. p. 385. 31) Op. cit. Torino 1958 p. 206.

la sovranità non è sostituzione di servitù, a cura di Luigi Longo

LA SOVRANITA’ NON E’ SOSTITUZIONE DI SERVITU’

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco, ad integrazione dell’interessante scritto di Pino Germinario su Sovranità, sovranismo e sovranismi http://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/ apparso su questo blog in data 23 settembre 2018, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci su La strategia di demonizzazione della Russia pubblicato sul sito www.voltairenet.org il 25 settembre 2018.

Qui mi interessa evidenziare che il concetto di sovranità, di autonomia, di autodeterminazione, insomma la libertà di scegliere un modello sociale espressione della storia di un determinato popolo, per l’Italia sta nel proporre un progetto di sviluppo capace di fare uscire il Paese dalla servitù volontaria verso gli Stati Uniti che è la potenza mondiale in relativo declino che, incapace di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di società egemonica a livello mondiale, si affida alla violenza con la forza delle armi, alla egemonia coercitiva nelle istituzioni internazionali e soprattutto al comando della NATO (uno strumento fondamentale del conflitto strategico).

Il problema, quindi, per l’Italia non è quello di sostituire la servitù politica (ad Obama) alla servitù (a Trump) più funzionale alle nuove contraddittorie (per il conflitto violento tra gli agenti strategici incapaci di una nuova sintesi nazionale sintomo ulteriore di declino) strategie dei predominanti statunitensi, quanto piuttosto quello di avere un ruolo autonomo per aiutare, in questa fase storica, l’avanzamento del multicentrismo e di allearsi con quelle potenze mondiali (per ora Russia e Cina) che mettono in discussione il dominio unipolare USA.

Una piccola digressione: il garante della servitù volontaria italiana è la Presidenza della repubblica italiana. Per dirla con Marco Della Luna, << […] La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale –, è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo, il presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve. Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero […] >> (Il sovrano e il presidente in www.marcodellaluna.info, 13/5/2018).

E’ evidente che l’Italia, una nazione in crisi profonda a cui hanno tolto anche i settori economici del cosiddetto made in Italy (per non parlare delle industrie strategiche), deve eliminare la sua servitù volontaria verso gli Stati Uniti (occorrono ben altri decisori) costruendo alleanze con altre nazioni che mettano in discussione questa Europa espressione dell’egemonia statunitense e guardino ad Oriente per agevolare lo sviluppo della fase multicentrica, scongiurando la fase policentrica che avrebbe come esito inevitabile la guerra (forse l’ultima).

Occorrono un’Italia e un’Europa libere da servitù volontarie statunitensi (chiudendo le basi militari USA e USA-NATO ponendo all’ordine del giorno l’uscita dalla NATO) e un’Europa ri-costruita come soggetto politico (una federazione – o altra forma – espressione di nazioni autonome) per svolgere un ruolo di confronto e di scambio, rispettosi e democratici, tra Occidente e Oriente.

Per fare questo manca un Principe che si aggiri come uno spettro per l’Europa a turbare i sonni di questi sub-dominanti europei e predominanti statunitensi reazionari, manca lo spettro del cambiamento e della sovranità dei popoli.

LA STRATEGIA DI DEMONIZZAZIONE DELLA RUSSIA

di Manlio Dinucci

 

 

Il contratto di governo, stipulato lo scorso maggio dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ribadisce che l’Italia considera gli Stati uniti suo «alleato privilegiato». Legame rafforzato dal premier Conte che, nell’incontro col presidente Trump in luglio, ha stabilito con gli Usa «una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa interlocutore privilegiato degli Stati uniti per le principali sfide da affrontare». Allo stesso tempo però il nuovo governo si è impegnato nel contratto a «una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico» e addirittura quale «potenziale partner per la Nato».

È come conciliare il diavolo con l’acqua santa. Viene infatti ignorata, sia dal governo che dall’opposizione, la strategia Usa di demonizzazione della Russia, mirante a creare l’immagine del minaccioso nemico contro cui dobbiamo prepararci a combattere. Tale strategia è stata esposta, in una audizione al Senato, da Wess Mitchell, vice-segretario del Dipartimento di stato per gli Affari europei e eurasiatici: «Per fronteggiare la minaccia proveniente dalla Russia, la diplomazia Usa deve essere sostenuta da una potenza militare che non sia seconda a nessuna e pienamente integrata con i nostri alleati e tutti i nostri strumenti di potenza» [1].

Accrescendo il bilancio militare, gli Stati uniti hanno cominciato a «ricapitalizzare l’arsenale nucleare», comprese le nuove bombe nucleari B61-12 che dal 2020 verranno schierate contro la Russia in Italia e altri paesi europei. Gli Stati uniti – specifica il vice-segretario – hanno speso dal 2015 11 miliardi di dollari (che saliranno a oltre 16 nel 2019) per la «Iniziativa di deterrenza europea», ossia per potenziare la loro presenza militare in Europa contro la Russia. All’interno della Nato, sono riusciti a far aumentare di oltre 40 miliardi di dollari la spesa militare degli alleati europei e a stabilire due nuovi comandi, di cui quello per l’Atlantico contro «la minaccia dei sottomarini russi» situato negli Usa.

In Europa, gli Stati uniti sostengono in particolare «gli Stati sulla linea del fronte», come la Polonia e i paesi baltici, e hanno tolto le restrizioni per fornire armi a Georgia e Ucraina (ossia agli Stati che, con l’aggressione all’Ossezia del Sud e il putsch di Piazza Maidan, hanno innescato la escalation Usa/Nato contro la Russia). L’esponente del Dipartimento di stato accusa la Russia non solo di aggressione militare, ma di attuare negli Stati uniti e negli Stati europei «campagne psicologiche di massa contro la popolazione per destabilizzare la società e il governo». Per condurre tali operazioni, che rientrano nel «continuo sforzo del sistema putiniano per il dominio internazionale», il Cremlino usa «l’armamentario di politiche sovversive impiegato in passato dai Bolscevichi e dallo Stato sovietico, aggiornato all’era digitale».

Wess Mitchell accusa la Russia di ciò in cui gli Usa sono maestri: hanno 17 agenzie federali di spionaggio e sovversione, tra cui quella del Dipartimento di stato. Lo stesso che ha appena creato una nuova figura: «il Consigliere senior per le attività maligne della Russia», incaricato di sviluppare strategie inter-regionali.

Su tale base, tutte le 49 missioni diplomatiche Usa in Europa e Eurasia devono mettere in atto, nei rispettivi paesi, specifici piani d’azione contro l’influenza russa. Non sappiamo qual è il piano d’azione dell’ambasciata Usa in Italia. Lo saprà però, quale «interlocutore privilegiato degli Stati uniti», il premier Conte. Lo comunichi al parlamento e al paese, prima che le «attività maligne» della Russia destabilizzino l’Italia.

 

 

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