IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Nota introduttiva

Questo saggio era stato pubblicato sul n. 1/2003 della rivista
“Palomar”. I problemi che tratta non sono per nulla cambiati. Anzi sono
stati aggravati dalla c.d. “legge Severino” onde è ancora un lavoro per
il ministro Nordio.

 

IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA

  1. È merito – non dei minori – di Berlusconi aver posto, dopo la decisione della Cassazione sul legittimo sospetto, il problema dell’immunità degli organi apicali dello Stato in termini politici concreti e reali – ovvero di potere – ciò che a finire tra Commissioni (parlamentari), leggine, codicilli, causidici, girotondi e “mozioni degli affetti” ha tutto da perdere in chiarezza e importanza. In sostanza le questioni poste dal presidente del Consiglio sono semplici: se le persone preposte o componenti gli organi supremi dello Stato possano essere giudicate, con la conseguenza, possibile, della condanna e detenzione mentre sono in carica. E, correlativamente, se la loro permanenza o rimozione nella carica non sia di competenza esclusiva del corpo elettorale, cioè dell’ “organo” in cui si esercita, primariamente, quella sovranità del popolo, fondamento della Costituzione repubblicana (art. 1).

A sentire il coro che si leva dai girotondi e dalla nomenklatura del centrosinistra, la risposta è semplice: i ladri devono stare in galera. Il che, in concreto, significa che in tale (scomoda) posizione deve stare chi le Procure – e spesso qualche Tribunale – giudicano tale. Il fatto che, forse per caso, ma forse no, i suddetti “ladri” siano coloro che occupano le poltrone da cui hanno da poco allontanato molti dei coristi, non li turba. Evidentemente la maestà della Giustizia è, in questi casi, considerata, la migliore delle derivazioni (nel senso di Pareto) perché copre, col suo ingombro, il più evidente e umano tra i residui: quello di potere, in termini filosofici elevato da Nietzsche a Wille zur macht, e che con saggezza pari all’efficacia dell’espressione il buon senso siciliano ha riassunto nel detto: cumannari è megghiu cà….

A confutare quanto ripetuto dall’opposizione basterebbe, forse, tale constatazione. Ma dato che, indipendentemente da chi occupa certe posizioni di potere, il pensiero politico e costituzionale moderno, praticamente unanime, sostiene proprio il contrario di ciò ch’è urlato “in tondo”, e, in particolare, che quanto è auspicato (per Berlusconi e i suoi sodali, s’intende), è escluso in uno Stato ben ordinato, ci sembra utile ricordarne le ragioni.

  1. A ricercare i motivi per cui un organo sovrano, e chi vi è preposto, sia “protetto” (cioè sia, in misura e modi variabili, sottratto alla giurisdizione) si ha l’imbarazzo della scelta. Si può partire dall’immunità degli organi sovrani, o dal principio politico della democrazia; dalla distinzione dei poteri o dal carattere rappresentativo degli organi (in maggiore o minore misura) immuni.

Prendendo le mosse dal principio (liberale) della distinzione dei poteri, recepito da tutte le Costituzioni borghesi (in caso contrario, non sarebbero liberali), come il potere legislativo non può cassare o riformare sentenze o provvedimenti di Giudici, così quello giudiziario non può intervenire né sulle Camere, né sui loro atti e procedimenti, né sulle persone dei deputati (senza autorizzazione della Camera stessa). La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali. La ragione era semplice e chiara: la libertà politica non sopporta sovrapposizioni e concentrazioni di poteri (o di atti) riconducibili a due funzioni distinte. È per quella altrettanto pericoloso un Parlamento il quale riformi una sentenza o ordini un arresto che un Giudice il quale disapplichi una legge e mandi in carcere un deputato, perché ambedue queste “invasioni” concentrano in un solo potere atti pertinenti a diverse e distinte funzioni. Per cui al principio (liberale) della distinzione dei poteri è connaturale impedire che questi interferiscano tra loro, se non in casi tassativi e limitati (basati sulla distinzione di Montesquieu tra pouvoir de statuer e pouvoir d’empêcher).

Anche se il senso è diverso, dal principio politico democratico si desume la stessa “interdizione”. Qui non viene tanto in rilievo – anche se comunque ha un peso – la circostanza che i giudici, in un ordinamento come il nostro, o, in generale, degli Stati continentali europei, costituiscono un corpo burocratico di funzionari reclutati per concorso, e quindi, per tale carattere, disomogeneo al principio della democrazia, come scrive Carl Schmitt[1], e ripetuto da Berlusconi. Perché una giurisdizione esercitata da magistrati elettivi (come in molti stati U.S.A.) è legittimata dal “popolo” quanto il deputato[2].

Piuttosto in tal caso viene in considerazione, per l’appunto, la contrapposizione tra giudizio di uno o più funzionari, e quello del “popolo” stesso. In fondo l’aveva acutamente notato Machiavelli[3]quando scriveva che “lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi. Tanto che se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato, vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnolo, arebbono sfogato l’animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro”. Il Segretario fiorentino aveva capito che, in una Repubblica (da intendersi nel caso come una forma costituzionale se non democratica, con elementi di democrazia) un tribunale “ordinario” che giudichi un politico configura un potenziale (ma assai probabile) caso di conflitto costituzionale e, ancor più facilmente, origina un conflitto politico. Perché delle due l’una: o il giudizio del Tribunale è conforme a quello della maggioranza e allora i partigiani dell’eventuale accusato potranno sempre additare come esempio di giustizia estranea all’ordinamento democratico il verdetto di alcuni funzionari su un uomo comunque popolare; o non lo è, e si apre un contrasto, assai più grave, tra la volontà di tutti (o quasi) e il giudizio di pochissimi. Perciò occorre trovare “alcuno modo di accuse contro all’ambizione de’ potenti cittadini”, ovvero una strada che possa evitare i conflitti che la giustizia ordinaria genera quando oggetto del giudizio è un affare (e/o un uomo) politico.

L’impossibilità, in grandi democrazie come quelle moderne, di giudizi nell’areopago, ha determinato che la giustizia “politica” sia normalmente esercitata, con procedure (e da organi speciali) o comunque presenti vistose deroghe od eccezioni agli “ordini” comuni. In genere le Carte costituzionali delle democrazie borghesi prevedono la competenza a giudicare di una seconda Camera (il modello ne è stato la Camera dei Lords inglese) come il Senato U.S.A., o il nostro nello Statuto albertino o quello della Terza Repubblica Francese; ovvero di un giudice speciale (come talvolta le Corti costituzionali); l’esercizio dell’azione penale è riservato ad organi politici (la Camera dei rappresentanti negli U.S.A., o quella dei deputati in Italia; ambedue le camere in Francia nella Costituzione vigente).

Immunità dalla giustizia ordinaria, variamente configurate, accompagnano di solito tali “status” e “ordini” eccezionali[4]; anche le norme definenti i crimini “politici” di solito sono formulate in guisa che l’interprete abbia una certa “discrezionalità” nel determinarne l’ambito[5]. Per cui si può agevolmente constatare come, nelle democrazie moderne, è normale che la giustizia “politica” esercitata su ministri, Capi di Stato, parlamentari e talvolta funzionari, lo sia in forme e procedure extra-ordinem: l’unico connotato comune ai vari ordinamenti, invero, è quello, negativo, di escludere (in tutto o in parte) la competenza dei Tribunali ordinari. Nessuno prevede che ministri, deputati o Capi di Stato possano essere giudicati da una Corte ordinaria con il comune procedimento. In questo può affermarsi che l’intuizione di Machiavelli ha avuto successo. La natura “politica” del processo, delle parti e del suo oggetto (e il suo collegamento con decisioni popolari) prevale sul principio democratico dell’isonomia; il rapporto con la volontà e le scelte popolari è tuttavia, per lo più confermato dal ruolo giudiziario che vengono ad assumere organi politici, spesso legittimati anch’essi democraticamente, perché elettivi.

Alle stesse conclusioni ai può giungere partendo dal principio – e dal concetto – di rappresentanza politica. Questa comporta la distinzione, già chiaramente formulata nella Costituzione francese del 1791 (tit. III, cap. IV, sez. 2, art. 2) in base alla quale non tutti i poteri dello Stato sono rappresentativi, e non tutti i funzionari dello Stato sono dei rappresentanti. L’uno e l’altro sono riservati a uno o pochissimi organi (e loro titolari): il Capo dello Stato, le Camere, il Governo.

Ad esser rappresentata è l’unità politica, intesa come totalità; funzione della rappresentanza è far esistere ed agire la comunità. Senza rappresentanza – o senza l’opposto principio di forma, cioè l’identità – una società politica non può agire. Senza i poteri rappresentativi, che la Costituzione italiana vigente identifica esplicitamente nel Capo dello Stato e nelle Camere, la Repubblica non esisterebbe neppure: ancor meno ciò che non esiste (e viene ad esistenza solo quando c’è una rappresentanza) potrebbe agire. Da una parte, ma con ciò entriamo nel profilo successivo, ciò comporta che coloro che rappresentano (anche se a giudizio di taluni indegnamente) l’unità e la totalità, non possono essere giudicati da chi non è rappresentante, ma esercita soltanto un pouvoir commis; dall’altra che un G.I.P. che ordinasse l’arresto o un Tribunale che condannasse un solo deputato, e più ancora il Capo dello Stato o un congruo numero di parlamentari, decapiterebbe lo Stato, togliendogli – nei casi più gravi – la capacità di agire, e negli altri, influendo sulle decisioni degli organi rappresentativi[6].

L’argomento decisivo per spiegare l’ “immunità” di determinati organi (e dei loro titolari e componenti) è comunque di essere “sovrani”. Senza voler entrare nella tematica della sovranità moderna (cioè della sovranità tout-court) fin dal medioevo è stato individuato un organo (o un soggetto) il quale decideva in ultima istanza; anche prima che il concetto moderno di sovranità fosse elaborato, l’identificazione di tale organo (o soggetto) era assai importante, perché legittimante o meno lo justum bellum[7]. Tale criterio d’identificazione dell’organo “sovrano” era ripetuto spesso nella filosofia e nel diritto pubblico moderno. Era sviluppato da Hobbes e da de Maistre, ma in effetti presente in altri pensatori, tra cui Kant e Locke, in quest’ultimo nella forma negativa dell’impossibilità che vi sia un sovrano laddove una controversia non è decidibile da un’autorità. Corollario della stessa era che non può esistere, in un’unità politica, la compresenza di più poteri “sovrani”. Tra tutti coloro che hanno sostenuto l’impossibilità di concepire più sovrani in un’unità politica, è importante ricordare, per l’estrema chiarezza, il pensiero del giovane Marx, secondo il quale “è proprio del concetto di sovranità che questa non possa avere doppia e addirittura opposta esistenza”, per cui la questione che si pone in concreto è “sovranità del popolo o del monarca”: infatti “se la sovranità esiste nel monarca, è una sciocchezza parlare di una sovranità contraria esistente nel popolo”[8]. Nucleo di tale teoria è che vi è nello Stato un organo (un soggetto) che giudica ma non può essere giudicato da alcuno; che ha “tutti i diritti e nessun dovere (coattivo)”[9].

Marx sintetizzava così in poche parole il profilo più importante del pensiero politico  sulla sovranità: che di (organi o soggetti) sovrani, in una unità politica, ve ne può essere uno solo. Questa è la ragione decisiva per ritenere che se a un altro potere (o soggetto) fosse consentito esercitare una coazione sul sovrano, questo non sarebbe più tale, ma lo sarebbe l’altro. Onde evitare questa “traslatio imperii” (la quale peraltro potrebbe assumere anche moto …pendolare), gli organi sovrani sono sottratti (in tutto o in parte) alla giurisdizione ordinaria. E’ quanto sosteneva (tra gli altri) un Presidente del Consiglio italiano, e fine giurista, come Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio di settant’anni orsono. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto[10] (il corsivo è nostro). Analoga spiegazione era stata data da Thomas Hobbes “ Infine, dal fatto che ciascuno dei cittadini sottomette la sua volontà alla volontà di colui che ha il potere supremo sullo Stato, così da non potere usare delle proprie forze contro di lui, segue evidentemente che qualunque cosa costui faccia, non può essere punito[11] (il corsivo è nostro). E alla stessa conclusione si arriva a leggere Bodin: secondo il quale “Le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono essere partecipi, esse cessano di essere tali” perché “ciò significa che questo, da suo servitore che era, diverrà suo compagno, e così facendo egli rinuncerà alla sovranità; perché la qualifica di sovrano, ossia posto al di sopra di tutti i sudditi, non può convenire a chi di un suo suddito faccia un compagno”[12].

D’altra parte una delle “marques de souvraineté” secondo Bodin non è rendere giustizia, ma giudicare in ultima istanza. Chi giudica in ultima istanza non può – in tutta evidenza – essere utilmente giudicato perché un eventuale giudizio sarebbe comunque sottoposto alla revisione sovrana. Ammettere poi che si possa giudicare in ultima istanza in modo difforme dal sovrano, significa dividere la sovranità. Anche se Bodin viveva agli albori dello Stato moderno, così diverso dall’attuale, si rinviene anche nel suo pensiero la soluzione (negativa) del problema: che cioè, ad essere decisivo, è sempre il giudizio del (popolo) sovrano. E che questo non può essere oggetto di riesame da altri perché, in tal caso non sarebbe più sovrano; o, se altri giudica, il relativo giudizio è ininfluente rispetto a quello del sovrano.

L’immunità, indipendentemente dalla dibattuta questione se ad essere sovrano sia un potere costituito, o il potere costituente, l’organo o il popolo – che, relativamente alla questione qui esaminata, è ininfluente – compete, come sosteneva Orlando, a quell’organo (o organi) apicali, superiorem non recognoscens nell’ordinamento dello Stato. E, come riteneva Santi Romano, relativamente alle immunità parlamentari, “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia”[13]; per cui non costituiscono eccezioni, ma applicazione di un “principio più generale”.

Il pregio di questa concezione, nelle sue varie formulazioni e articolazioni, è di spiegare la ragione dell’immunità per qualsiasi tipo e forma di Stato, indipendentemente dai principi, valori e forme di governo di ciascuno: non è possibile che in uno Stato (ben) ordinato un giudice, anche “supremo”, possa giudicare e condannare un componente dell’organo “sovrano”, sia che si tratti del parlamentare o del Capo dello Stato in una democrazia borghese, del componente del Soviet Supremo in una delle (defunte) democrazie popolari, ovvero del Fürher, Caudillo o Duce in uno Stato fascista o nazista. Se lo fa, ciò significa soltanto che ad essere “sovrano” è il Tribunale e non il Soviet Supremo, il Parlamento, o il Conducator.

Cosa d’altra parte non ignota al diritto pubblico: in talune costituzioni non moderne, l’autorità “suprema” competeva a un organo le cui funzioni originarie (e prevalenti) erano giudiziarie; sviluppando le quali aveva assunto un primato politico. E’ il caso, ad esempio, del Consiglio dei Dieci a Venezia.

  1. A cercare le ragioni (politiche) per cui la regola generale è quella esposta da Orlando e non l’eccezione criticata si ha l’imbarazzo della scelta. Ma il motivo principale è la situazione d’indipendenza in cui deve trovarsi l’organo sovrano, per garantire quella della comunità rappresentata. Senza l’indipendenza da altri poteri, dall’esterno ma anche all’interno, di quello, non è possibile garantirla di questa: e lo stesso vale per la libertà di agire che ne è la prima, necessaria, conseguenza. Un organo dipendente e perciò non libero di agire non è in grado di tutelare l’esistenza della comunità.

In una democrazia politica l’unica dipendenza che quell’organo può avere è verso il popolo, organizzato nel corpo elettorale. Se dipende – in tutto o, verosimilmente, anche solo in parte – da altri (a parte le inidoneità oggettive degli uffici e dei procedimenti giudiziari, aggravate dal non essere legittimati dal suffragio popolare), ciò costituisce una grave vulnus al principio democratico, perché la volontà e la scelta del sovrano sarebbero soggette al consenso di chi da quello non dipende.

In termini politici la soluzione è semplice: vuol dire rispondere alle domande conseguenti all’alternativa di Marx: chi comanda? Il popolo o i Tribunali? La risposta suggerita (anche se talvolta timidamente, e soprattutto indirettamente) è quella che si può ascoltare da (alcuni) esponenti del centrosinistra: se condannato si deve dimettere. Il che significa, in senso proprio ed esplicito, che a decidere chi deve governare non è il corpo elettorale, ma i Tribunali. I quali così vedono riconoscersi un potere di veto  sulle scelte popolari. La seconda alternativa – meno frequentata, e il perché lo si capisce bene – è sostenere che i processi facciano il loro corso, e il condannato, legittimato dai suffragi, rimanga al suo posto. Era la soluzione formulata che un noto giurista come Léon Duguit e sulla quale il nostro Orlando ironizzava: perché la conseguenza sarebbe che il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere gli ambasciatori e i premiers stranieri invece che a Palazzo Chigi, a Rebibbia. Dove presiederebbe anche il Consiglio dei Ministri. La comicità delle conseguenze evidenzia quella della tesi che le presuppone.

La quale, malgrado il protestar contrario, e proprio nella sua formulazione “il condannato dovrebbe dimettersi” manifesta il suo carattere politico, nel senso specifico di “politica di partito” o “politicante”. Perché risponde da un lato alla questione nel senso più comodo per chi si trova in sintonia con certi (e non pochi) uffici  giudiziari; dall’altro, e più importante, ne costituisce la risposta inversa, che a decidere non debba essere il popolo, ma il potere giudiziario. Stravolgendo così sia il principio democratico in modo radicale, sia la governabilità, per il conflitto che genera tra poteri, uno dei quali legittimato dal suffragio e l’altro no.

  1. Insistendo nel considerare la tesi criticata come non strumentale, essa può essere ricondotta al tentativo, tante volte ripetuto, di giuridificare la politica (quindi la sovranità). Anzi di questa tesi, ne costituisce una parte, un paragrafo piccolo perché profondamente incoerente: quello consistente nel giudiziarizzare la politica, diametralmente opposto al carattere peculiare della sovranità: di essere al di là del diritto. Ovvero, in altri termini, di potervi rientrare ma come assoluto. Già tale connotato era stato individuato da Bodin: la sovranità è “il potere assoluto e perpetuo di uno Stato”, rafforzato dal ricordato paragone tra Dio e Sovrano. Kant ne da poi la definizione (giuridicamente) più corretta: colui che “Nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)” (anche questa analoga alla definizione che da di Dio)[14] e specifica che “non può essere contenuto nella costituzione nessun articolo che renda possibile… a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo … che renda possibile limitarne il potere” perché “allora non è quello, ma questo il supremo detentore del comando: il che è contraddittorio”[15]. Ora il diritto ha una dimensione relativa: ai soggetti, anche se diversi in diritti, facoltà, obblighi, competono sia situazioni giuridiche attive che passive. A ogni potere corrisponde un obbligo, un dovere o una responsabilità. Il sovrano, in questo senso è l’eccezione che tuttavia rende possibile (anche) la vigenza di un sistema di norme e rapporti formali, attraverso (l’instaurazione e) il mantenimento dell’ordine. L’assolutezza del comando sovrano (e del concetto) ha indotto il costituzionalismo (liberale) a ricercare i sistemi per bilanciarlo con il diritto: tentativo in gran parte riuscito, ma non totalmente, perché è impossibile giuridificare tutto[16]. In fondo proprio a Locke, uno dei “padri” del costituzionalismo moderno, dobbiamo l’affermazione che in certi casi non v’è giudice sulla terra, ma si ha il diritto di appellarsi al cielo: cioè di ribellarsi e risolvere la controversia con la forza. La contraria tesi si fonda sull’illusione che il diritto sia co-estensivo alla politica: che possa regolare tutto, inquadrandola in un sistema di norme applicabili e “calcolabili”. Ma come per la sovranità (e i suoi atti) così non è in tutti i casi più importanti e politicamente decisivi: per esempio la guerra e la pace. Si può prevedere nella Costituzione chi ha il diritto di dichiarare la guerra, e il procedimento relativo, ma non ciò che più conta: l’identificazione del nemico e l’obiettivo politico. Del pari per la pace: la decisione se concluderla – e a quali condizioni – è necessariamente rimessa all’arbitrio del competente potere costituito (che in democrazia risponde verso il corpo elettorale); ma non è certo concepibile prevedere per legge come, quando e con chi concluderla.

Di questa utopia, la giudiziarizzazione è il capitolo più incoerente: perché se non può esistere una legge per i “casi alti” della politica, tantomeno può esistere un Tribunale che giudichi in base a norme  “misurabili” (cioè come ci si aspetta che giudichi). Se, d’altra parte, il Tribunale decidesse (rettamente) applicando norme di diritto comune non è detto che gli effetti del giudizio siano politicamente opportuni; se invece tenendo d’occhio la convenienza politica e non i “sillogismi” giudiziari, tale attività costituirebbe giustizia politica (e non un giudizio “ordinario”), in cui l’aggettivo, com’è noto, prevale sempre sul sostantivo. E non sarebbe così il rimedio auspicato ma – al contrario – inutile e quasi sicuramente dannoso[17]. Che il tutto sia comunque sostenuto ed auspicato non deve meravigliare, perché rientra in quella tendenza prevalente nella sinistra (ma non soltanto di questa) d’immaginare dei modelli di società e/o di Stato ideali e di misurare la realtà in base ai medesimi. Già un simile modo d’agire era stigmatizzato da Machiavelli “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piu tosto la ruina che la preservazione sua”.

Perché così si prende a misura della realtà il proprio arbitrio soggettivo e non la ragione oggettiva.

Molto meglio seguire Hegel, il quale, com’è noto oltre a ritenere quello (l’arbitrio) capace solo di gonfiare le teste[18], scriveva che la scienza dello Stato non sia altro “se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in se…..deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere” perché “intendere ciò che è, è il compito della filosofia, perché ciò che è, è la ragione”[19]. A prescindere da come (e in che misura) si voglia considerare la “coincidenza” di razionale e reale, è un fatto che nessun ordinamento democratico-liberale prevede che un Tribunale ordinario condanni un Capo dello Stato o di Governo, o anche un parlamentare, come se si trattasse di un caso ordinario, secondo il diritto comune. E compito dell’interprete è di comprenderne le ragioni. Piuttosto che erigere il proprio arbitrio (e i propri interessi) a massima dell’agire universale, è più (umile e)  utile  chiedersi perché l’agire universale è del tutto opposto alle proprie valutazioni soggettive .

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Verfassungslehre, trad. it., Milano 1984, p. 357 ss. 360 ss.

[2] Anche se in tal caso c’è da chiedersi se sia da considerare “popolo” nel senso della democrazia politica, il collegio elettorale che sceglie il giudice o il deputato. Ma il problema ci porterebbe lontano ed               esula dei limiti del presente scritto.

[3] Discorsi I, 7.

[4] Ricordiamo alcune disposizioni costituzionali europee sull’immunità dei parlamentari: art. 26 Cost. francese; art. 46 Cost. tedesca; art. 71 Cost. spagnola; art. 45 Cost. belga.

[5] V. Benjamin Constant, ora in Principi di Politica, Roma 1970, p. 121, secondo il quale la “discrezionalità” e l’istituzione di Tribunali speciali avevano (anche) la funzione di preservarli da tutte le pressioni popolari.

[6] Machiavelli (op. cit.) sostiene che senza quei rimedi straordinari, la conclusione dei conflitti  può essere la chiamata di “forze estranee” cioè degli stranieri. Machiavelli non conosceva il concetto di rappresentanza politica (in nuce nella Riforma, sviluppato poi nei secoli XVII e XVIII), ma quanto prefigura potrebbe ripetersi in un conflitto che veda poteri “commis” contrapposti a quelli rappresentativi, impossibilitati dai primi a funzionare, con un terzo “esterno” che se ne giova.

[7] Già è cennato in S. Tommaso Summa Th., II, II, p. 40, art. 1; è sviluppato nella Tarda Scolastica v. tra gli altri F. Suarez De charitate disp. 13 De bello Sectio II, S. Roberto Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] V. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma 1983, p. 40.

[9] V. Kant, Die Methaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[10] V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

[11] De Cive, trad it., Roma 1981, p. 135.

[12] Six livres de la Republique, I, X, trad. it., Torino 1988, pp. 482 e 483 e prosegue “come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”.

[13] Corso di diritto costituzionale, Padova 1928, p. 222.

[14] Op. cit. p. 49.

[15] Op. cit. p. 149-150.

[16] Come scrive De Maistre sul diritto di resistenza “quando si è deciso … che si ha diritto di resistere al potere sovrano … non si è concluso ancora nulla, perché resta da sapere quando può esercitarsi tale diritto, e chi ha il diritto di esercitarlo…” e prosegue “Quale potere nello Stato ha diritto di decidere che è giunto il momento di resistere? Se tale Tribunale preesiste è già parte della sovranità, e contestandone l’altra parte l’annienta. Se non esiste prima, da quale Tribunale questo Tribunale sarà costituito?” Du Pape, lib. II, cap. 2.

[17] Ciò era stato visto distintamente da De Maistre, quando scriveva che in una Costituzione “ Que ce qu’il y a de plus essentiel, de plus intrinsèquement constitutionnel et de véritablement fondamental, n’est j’amais écrit, et même ne saurait l’être” v. Des constitutions politiques Paris 1814 p. 26.

[18] V. Die Phänomenologie des Geistes V, B, C.

[19] Prefazione a Grundlienien der Philosophie des Rechts.

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Dal Salvatore al Trickster Divino: La spinta teologica nella politica estera degli Stati Uniti, di MICHAEL VLAHOS

26 FEBBRAIO 2022

 

Dal Salvatore al Trickster Divino: La spinta teologica nella politica estera degli Stati Uniti

MICHAEL VLAHOS

 

Noi americani abbiamo a lungo creduto che le nostre relazioni con il mondo fossero guidate da una polarità illuministica tra “realismo” e “idealismo”. In realtà, però, siamo mossi da correnti più profonde dell’ethos nazionale. L‘America è una religione, come ha detto Robert Bellah. Una “religione civile”, secondo le sue parole, ma comunque una religione vera e reale.

Le religioni hanno ovviamente una teologia e una chiesa che sono di competenza del clero. Tuttavia, le religioni (nazionalizzate) raccontano anche storie che spingono il popolo a lottare e persino a sacrificarsi, come fratelli cittadini, per l’idea stessa della nazione. Chiamiamo queste storie la narrazione sacra della nazione: narrativa, come in una sceneggiatura; sacra come in una scrittura. Le grandi nazioni hanno narrazioni piene di potere e, in tempi di crisi, sono spesso tentate di seguire la guida inossidabile della loro scrittura nazionale.

Ma queste narrazioni possono rivelarsi pericolose per chi le racconta, e la storia sacra dell’America – così sacra e imperiosa da farle pensare al suo ruolo missionario nel mondo – può rivelarsi alla fine la sua più grande debolezza. Gli americani vedono il mondo attraverso la lente di ferro del testamento messianico della “nazione redentrice“. Raramente abbiamo rinnegato questo sacro impulso, che ci ha condotto in tutte le guerre americane, portandoci sia gloria che disgrazia, vittoria e disastro.

Figura 1: American Progress (1872) con la Columbia, una personificazione.

degli Stati Uniti (John Gast).

 

Due secoli di cieca osservanza di questa prima direttiva hanno portato gli Stati Uniti all’unico trionfo trascendente: la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Altrove, invece, la scrittura americana ha sempre portato al fallimento strategico: La ricostruzione, Cuba (due volte!), la Società delle Nazioni, l’Iran, l’America centrale (molte volte!), il Vietnam, le guerre in Medio Oriente e l’Afghanistan.

Che sia sacra o profana, la letteratura è sempre letteratura. Di conseguenza, gli elementi della trama scritturale devono, come in televisione, lavorare insieme e raccontare all’unisono una storia. Nelle scritture americane, questi tropi sono strettamente intrecciati e intimamente familiari come i classici della letteratura mondiale.

Ora sembra che la “crisi” in Ucraina sia l’ennesimo arco narrativo della nostra lunga serie televisiva nazionale, non un sequel ma semplicemente l’ultima stagione di una serie in streaming: la sacra narrazione americana è infatti organizzata attorno a quattro motivi universali e immutabili, ognuno dei quali è presente nell’ultima stagione di apertura che sta andando in onda:

1.                 Dr. Evil

Il nemico che affrontiamo è il male, e il male deve essere per- sonalizzato. Quando i ribelli abbatterono la statua di piombo dorato di Giorgio III il 9 luglio 1776, stavano celebrando l’antico rito romano della Damnatio Memoriae: giustiziare simbolicamente l’imperatore rovesciato distruggendo la sua sacra imago legionaria (un ritratto dorato in 3D). Al contrario, durante la lunga Guerra Civile, il nemico era più simile al “Lato Oscuro della Forza” – “Il Potere Schiavista“.

– o lo specchio malvagio di “God’s Amer- ican Israel” di Ezra Stiles. Questo tropo fu esteso al dominio spagnolo a Cuba, che abolì la schiavitù solo nel 1880. La metafora del Lato Oscuro continuò fino alla Prima Guerra Mondiale, con la damnatio del predicatore Wilson sul “militarismo prussiano”. (L’epifenomeno ufficiale popolare – “Halt the Hun!” – si tingeva in realtà di razzismo).

Dopo il brutale Trattato di Versailles, gli atteggiamenti americani verso la Germania si ammorbidirono. Nel 1941 – con il 25% degli americani di origine nemica – non era più realistico creare una Germania e un’Italia malvagie. Il male doveva essere ancora una volta incarnato dal “Dottor Male”, questa volta personificato da Hitler e Mussolini.

Come pilastro della sacra narrazione americana, il motivo della “personificazione del male” si è accentuato nel secondo dopoguerra. Stalin, naturalmente, si adattava al profilo alla perfezione, così come Mao. E il dominio del Partito Comunista ha permesso di estendere questa designazione, sempre più ampia, fino a includere tutti i loro scagnozzi e i loro interi regimi. Soprattutto, però, tale tassonomia ha permesso agli ecclesiastici della politica estera statunitense di esonerare la stragrande maggioranza del popolo nemico come servo della gleba, oppresso dalla tirannia e desideroso di liberazione. Come ci dice Frank Baum ne Il meraviglioso mago di Oz:

[La strega cattiva ha tenuto in schiavitù tutti i Mastichini per molti anni, rendendoli schiavi per lei notte e giorno. Ora sono tutti liberi e vi sono grati per il favore.

Anche i soldati desiderano la liberazione e possono essere redenti. Dopo aver ucciso la strega cattiva (nel film del 1939), il capo della guardia Winkie (pseudo-cosacco) dichiara: Ave a Dorothy! La strega cattiva è morta! Vediamo come la narrazione sacra sia profondamente codificata e permei anche le opere letterarie e cinematografiche più popolari d’America.

Nel corso dei decenni, i nostri Dottor Malvagi scelti sono cresciuti fino a diventare un cast corale, che comprende Fi- del Castro, Muhammar Gheddafi, Saddam Hussein e Osama Bin Laden – una legione del Darkside! – solo per citarne alcuni. Ma questi si sono rivelati solo un gioco da ragazzi, perché l’America desidera soprattutto un nemico esistenziale manicheo. Dopo tutto, sono le minacce più gravi che portano la vittoria più dolce.

Per questo motivo, il dottor Putin si è recentemente calato in suole ben vestite. In effetti, come la strega cattiva o Jo- seph Stalin, il personaggio pubblico di Putin – da lui accuratamente curato per ottenere il massimo impatto mitico – è del tutto congruente con il meme del Dottor Male incorporato in America, soddisfacendo e superando le aspettative in ogni occasione.

Pertanto, non c’è dubbio – nell’occhio monolitico dei credenziosi esperti di Washington – che il nostro nuovo Grande Dittatore sia semplicemente un prepotente, motivato solo da avarizia e cupidigia. Una volta che questo giudizio viene canonizzato collettivamente, prevalgono le camere dell’eco e l’analisi dell’establishment viene congelata in un dogma. Smettiamo di indagare sul reale pensiero della nostra (autoproclamata) nemesi: tutto ciò che serve è un giudizio moralistico.

2.                    America il Redentore

La perfetta incapsulazione del dovere divino che l’America si è autoproclamata di salvare e liberare l’umanità (e punire i malvagi) è contenuta nel sofomorico discorso inaugurale di John F. Kennedy, che è diventato il fulcro della dottrina Kennedy:

Che ogni nazione sappia, che ci voglia bene o male, che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi peso, affronteremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico, per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà.

Da Julia Ward Howe – “viviamo per rendere gli uomini liberi” – a Samantha Power – “Responsabilità di proteggere” (R2P) – la narrazione dei “nostri sacri obblighi di liberare l’umanità” rimane la catena ininterrotta dell’America. La nostra ultima Musa della Libertà, Anne Applebaum, ci ordina ora di essere risoluti e di fermare il sangue della storia alleviando il dolore di chi ha perso la vita.

 

Ucraina: “Potremmo iniziare con questo”, dichiara compiaciuta e disinvolta, “aiutando a fare dell’Ucraina la democrazia di successo, prospera e rivolta verso l’Occidente che Putin teme così chiaramente”.

Per molti aspetti, questa dottrina della nazione redentrice è radicata nella trasformazione dell’America durante la Guerra Civile. Prima della crociata abolizionista, gli Stati Uniti erano una politi- ca dominata dagli Stati confederati proprietari di schiavi, il che avrebbe reso assurda qualsiasi rivendicazione da parte degli Stati Uniti circa il loro accesso privilegiato alla giustizia divina. Le nascenti ambizioni americane assunsero quindi la forma di un’espansione territoriale imposta a livello nazionale attraverso il “Destino manifesto”, in cui l’America avrebbe domato la selvaggia natura occidentale e portato una civiltà protestante superiore nelle corrotte terre spagnole della Florida, del Messico e dei Caraibi.

In quanto tale, la Guerra Civile rappresentò una metamorfosi americana. D’ora in poi, la missione americana si sarebbe basata sulla redenzione piuttosto che sulla sottomissione: liberare gli oppressi, civilizzare i pagani e farne degli americani veri e propri (almeno nello spirito). La linea edificante della Ricostruzione, sebbene attuata solo di sfuggita nell’ex Confederazione, sarebbe stata presto estesa a Cuba e alle Filippine, e poi (almeno nelle intenzioni missionarie) alla Cina.

Figura 2. Vignetta politica statunitense del 1899 che raffigura lo Zio Sam che “istruisce” le nazioni occupate dopo la guerra ispano-americana (Louis Dalrymple).

Il pugnale del colonialismo e dell’im- perialismo americano è sempre stato ammantato sotto l’illusoria veste della tutela e della scolarizzazione: professando di salvare e poi risollevare quei milioni di persone che per tanti secoli erano state condannate all’ig- noranza e alla servitù con la promessa dell’istruzione, ma consegnando invece l’indottrinamento liberale e l’ingegneria sociale occidentale.

3.                    Democratismo

Se la libertà è l’insegnamento centrale della religione civile americana, la democrazia è la sua preghiera sacra o talismano. È allo stesso tempo grido di battaglia e vessillo. Come la اَل َهٰلِإ اَّلِإ هلا ٌدَّمَحُم ُلوُسَر هللا sulla bandiera saudita, questa singola parola sacra cattura e trasmette l’essenza della missione divina dell’America.

In effetti, come parola in codice per la mente americana, la democrazia è una nozione utilizzata per sposare più significati contemporaneamente: 1) che la democrazia è il segno sicuro del progresso, il segno della volontà di Dio per il futuro umano e di “ampie e soleggiate pianure“, o più semplicemente, il Millennio; 2) che la ricerca della democrazia unisce i democratici di tutto il mondo contro gli autocrati e crea tra loro e gli americani legami di fratellanza, rendendoli parenti dell’America; 3) che il mondo è nettamente diviso in democrazie e dittature: una minaccia contro una è una minaccia contro tutte; e 4) la prima direttiva dell’America è la difesa e la promozione della democrazia in tutto il mondo.

Un osservatore astuto potrebbe forse notare che “democrazia” non è semplicemente una parola sacra. È anche una parola d’ordine culturale ricca di contenuti sacri. Sempre compresa dai veri credenti, non è mai formalmente esplicita – la pronuncia è sempre sufficiente – purché si possa mostrare il distintivo di appartenenza.

La narrazione sacra esercita il suo potere come una singola parola. Se ciò che ogni americano dovrebbe sapere a memoria – come nel caso della R2P americana nei confronti di

 

L’Ucraina ha ancora bisogno di essere spiegata, allora basta recitare (a memoria) solo alcuni versi chiave, come fa Mike Turner (R-Ohio-futuro presidente del Comitato Intel) in questa intervista televisiva:

L’Ucraina è una democrazia… La Russia è un regime autoritario che cerca di imporre la sua volontà su una democrazia validamente eletta… Noi siamo per la democrazia. Siamo per la libertà. Non siamo per i regimi autoritari che entrano e cambiano i confini con i carri armati… Dobbiamo assicurarci di essere dalla parte della democrazia.

4.                    Lo spettro del peccato

Infine, l’arco scritturale della narrazione sacra dell’America raggiunge il suo culmine attraverso una formula di riconoscimento, rimorso e pentimento. L’impegno dell’America può vacillare e persino, inizialmente, fallire; tuttavia la nazione alla fine si risveglia, torna in sé e vede la luce. È un passaggio dalle tenebre alla luce.

Il più famoso di questi passaggi potrebbe essere chiamato il Testamento di Neville: Il cammino verso Damas- cus-in-Munich, una strada selvaggia lungo la quale Neville Chamberlain, alla fine degli anni Trenta, giunse finalmente a vedere e a pentirsi del suo peccato di Appease- ment. Ogni volta che gli Stati Uniti inciampano e si abbassano al male, cedendo alla facile via d’uscita, volendo assecondare il lato oscuro della Forza, si levano sempre voci giuste che chiedono una riconsacrazione della virtù nazionale, gridando come accuse: Appeasement!

Tuttavia, la bilancia deve prima o poi cadere dai nostri occhi se vogliamo che la profezia della missione americana si realizzi e che la “democrazia” trionfi. In questo senso, la chiamata dell’Ucraina (cioè l’intervento americano) è resa più urgente dalla litania dei fallimenti in Iraq, Siria, Yemen, Libia e Afghanistan. Washington oggi sta seguendo una dinamica molto simile a quella che si è verificata dopo l’intervento in Iraq, in Siria, in Yemen, in Libia e in Afghanistan.

La narrazione sacra è fallita rovinosamente in Vietnam, Laos e Cambogia. Le sconfitte dell’Eurasia periferica portarono a una compensazione narrativa nel teatro centrale della NATO: La guerra fredda si è rinnovata alla grande nel 1980. Allo stesso modo, tra gli ecclesiastici statunitensi si sta diffondendo la convinzione che l’impero della virtù americano, che sta fallendo, debba riscattarsi difendendo aggressivamente Taiwan e l’Ucraina.

La nostra narrazione sacra non è semplicemente una serie di capitoli o stagioni scollegate tra loro, ma piuttosto una storia molto lunga e molto collegata. Quindi, gli Stati Uniti sono spinti, forse anche sferzati, dai loro testamenti di ferro. Questo significa che le narrazioni sacre sono dannose?

Ma come potrebbero essere cattivi? Certamente, tutti i grandi Stati sono, in larga misura, guidati dal mito e dalla leggenda. E la forza di questo potere può essere stupefacente, come l’America stessa ha potuto constatare durante la Seconda Guerra Mondiale, sentendosi come i grandi vincitori della lotteria della Storia.

Tuttavia, una storia nazionale globale può essere allo stesso tempo gloriosa e pericolosa. La domanda è: in che modo la narrazione distintiva dell’America (il nostro appello) – nei suoi soli termini – può mettere in pericolo gli americani? La risposta deve iniziare dalla comprensione di come le nazioni agiscono in modalità di crisi:

  1. Nel periodo iniziale di una crisi, o nella reazione a un insulto o a un’aggressione (come l’11 settembre), la narrazione prende il sopravvento e trascina una nazione in una risposta automatica senza tempo o spazio per la riflessione: gli angeli si precipitano dove i saggi hanno paura di camminare.
  2. Se la crisi in questione è preceduta da una serie di risposte scritturali incerte o fallite nel recente passato, la vergogna e l’orgoglio ferito e la vanità potrebbero bloccare i leader in una linea d’azione pre-scritta.
  3. Per questo, di fronte alle crisi geopolitiche,

la reazione immediata è spesso non solo riflessiva, ma inculcata proprio dai troppi trascendenti incorporati nella narrazione sacra – cioè l’appeasement (Monaco), i dittatori (alla Hitler), la democrazia della damigella che sta per essere violentata (alla Belgio, 1914).

Nel caso dell’America, le nostre passioni a forma di meme rischiano di essere al tempo stesso bellicose e compiacenti nei confronti dei risultati: Si ritirerà solo se noi resisteremo! Solo la forza dissuaderà l’aggressore! La pace attraverso la forza! Così, in caso di crisi, la narrazione sacra americana 1) ci fa entrare in modalità storia, 2) chiude lo spazio per la riflessione, 3) spinge a comportamenti bellicosi e troppo sicuri di sé, che 4) possono trasformare un avversario in un nemico, la cui prossima mossa potrebbe davvero sorprenderci (si pensi a Pearl Harbor). 

Una nazione troppo legata alla sua sacra narrazione, come la Francia nel 1870 o la Germania nel 1914, non può distinguere tra il suo ideale stellato e la strategia reale. Ad esempio, una nota dopo l’altra ha dimostrato come lo spettro degli anni Trenta abbia ostacolato pesantemente il processo decisionale della Casa Bianca di Johnson nel periodo precedente al Vietnam. Decenni dopo, quello stesso Studio Ovale ha visto un’isteria maniacale, da sogno della Seconda Guerra Mondiale, dopo l’11 settembre.

Il punto cruciale è che oggi i nostri futuri amici ci conoscono fin troppo bene. Noi, invece, ci conosciamo emotivamente ma non oggettivamente. Non siamo disposti a – o semplicemente non possiamo – tirarci indietro e ha giocato la volontà di coglierla.

Vecchi versetti e parole sacre non sono assolutamente in sintonia con la realtà degli Stati Uniti di oggi, eppure hanno ancora il potere di minare ulteriormente la posizione dell’America. Invocarli ci spinge a insistere su cose che semplicemente non possiamo fare, mentre ironicamente, fatalmente, spinge i nostri avversari a fare le cose che possono.

Nella mitologia norrena, Loki l’Ingannatore incarna la metafora secondo cui una presenza celeste può trasformarsi da guida salvifica a mutaforma (e Loki era un mutaforma!) per emergere improvvisamente come orchestratore di depistaggi divini, per un capriccio. In fondo, la figura di Loki rappresenta la saggezza radicata (presente in molti antichi pan- teoni) che non sempre ci si può fidare degli dei quando si tratta del tragico mondo dell’uomo – che possono persino rivoltarsi contro gli esseri umani, o perlomeno, provocare guai strategici.

Questo mito poteva essere un modo efficace per ricordare ai fedeli (in qualsiasi società) che anche l’ordine impartito dagli dei manca di certezza e permanenza, dato il flusso della vita. In pratica guardare dentro. Siamo cablati su un unico percorso…

quello dell’azione e dell’attivismo come fine a se stesso.

L’istinto di controllo non è necessariamente rovinoso se gli Stati Uniti sono carichi e possono sfruttare tutta la loro potenza, come nel dicembre 1941. In quel caso, la nostra avventatezza strategica, spingendo il nemico troppo

è salutare e salutare per una cultura e un sistema di credenze rendere conto del caos immanente (e di tutto ciò che è al di fuori del mondo).

Loki inganna Hodr per uccidere

Baldr, il dio norreno associato alla luce e alla saggezza. La morte di Baldr annuncia l’arrivo del Ragnarök (Jakob Sigurðsson).

 

lontano, in realtà si è trasformata in serendipità divina. Oggi, in una nazione divisa e in guerra con se stessa, l’America deve evitare come la peste l’eccesso di strategia. Inoltre, questa volta i rivali dell’America possiedono la vera iniziativa strategica e hanno dis-

del proprio controllo) – e per ricordarci almeno che noi non dobbiamo mai permetterci di credere di essere invincibili, per quanto divina sia la nostra dispensazione o grandioso il nostro utopismo.

L’America è diventata così convinta del proprio diritto…

 

missione reificata di un impero liberale globale, incaricato da Dio stesso, che nella sua arroganza dimentica che non si può sempre contare sulla certezza del Divino o di un destino manifesto per salvarsi dalla rovina!

 

Ringraziamenti

 

Michael Vlahos è uno scrittore e autore del libro Fighting Identity. Ha insegnato guerra e strategia alla Johns Hopkins University e al Naval War College. Attualmente è Senior Fellow presso l’Institute of Peace & Diplomacy. Collabora settimanalmente al John Batchelor Show. Seguitelo sul suo blog: anewcivilwar.com.

Copertina: Emil Doepler (via Wikimedia)

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PINOCCHIO VA ALLA GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PINOCCHIO VA ALLA GUERRA

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina abbiamo letto notizie ed opinioni talvolta inverosimili in partenza, ma per lo più smentite dai fatti successivi; e il tutto accompagnato dall’omissione di circostanze contrarie, regolarmente taciute o minimizzate.

Quale esempio delle prime: Putin è matto, molto malato, ecc. ecc. Ma Putin non ha fatto nulla di diverso da quanto operato da secoli dai governanti russi: cercare uno “sbocco” a sud verso i mari caldi, con decine di guerre soprattutto contro gli ottomani. Per cui se farlo significa essere matti, vuol dire che la Russia è diretta, almeno da tre secoli, da dementi; ma ciò non le ha impedito di divenire una grande potenza. Ovvero che Putin sarebbe stato detronizzato dai “suoi”. Può darsi, ma finora, a quasi un anno dall’inizio delle ostilità, sembra saldo al potere. O anche che le sanzioni alla Russia l’avrebbero messa in ginocchio: ad oggi pare solo che ha perso qualche 2-3% del PIL (ossia un terzo di quello perso dall’Italia col governo Monti) e sarebbe in via di recupero. Quel che è taciuto è che il rublo si sia rivalutato nei confronti del dollaro e ancor più dell’euro: segno che i “mercati” – la pizia della stampa mainstream – ritengono la moneta (e l’economia) russa tutt’altro che inaffidabili, né in via di collasso.

O che i russi avrebbero presto finito le munizioni: da un anno continuano a sparare, il che testimonia che ce l’hanno. E potremmo continuare per pagine. Anche dall’altra parte se ne raccontano, ma la tempesta mediatica da occidente è di gran lunga superiore sia per varietà (e contraddittorietà) degli argomenti, sia soprattutto per quantità dei ripetitori. Nelle prime fasi del conflitto mi è capitato di scrivere che la “nebbia della guerra” di Clausewitz, applicata nel caso alla comunicazione, era imponente; oggi è ancora tale. L’ultimo caso è quello dei carri armati: è stata da poco diffusa la notizia che stavano per arrivare agli ucraini (nei prossimi tre mesi) circa 100 carri armati occidentali, destinati a far polpette di quelli russi. Nessuno spiegava né nei tre mesi suddetti, cosa avrebbero fatto i russi per evitarlo (magari accelerare le operazioni militari per vanificare tanto aiuto agli ucraini) ma soprattutto che la asserita qualità dei corazzati occidentali non avrebbe compensato la superiorità quantitativa di quelli di Putin. Un po’ come, per tenersi da quelle parti, successe nel ’43 a Kursk, dove qualche centinaio di eccellenti Tiger e Panther tedeschi fu sconfitto, malgrado le perdite inflitte ai sovietici alle assai più numerose formazioni di T-34 e KV russi. E ciò malgrado i nazisti fossero comandati dal miglior generale della II guerra mondiale: Erich von Manstein. Il quale infatti, e a dispetto dell’inferiorità numerica (da 1 a 3 a 1 a 5), riuscì a tenere l’Ucraina per circa un anno. Ma era von Manstein e non Zelensky a comandarle.

Agli albori dello Stato moderno, un noto giurista, Alberico Gentili, si poneva il problema se fosse lecito, in guerra, “ingannare” il nemico con menzogne di vario genere. E ne tratta per molte pagine del suo capolavoro il “De jure belli, libri 3”. Il problema sussisteva perché, per un giurista, è normale qualificare un comportamento come lecito o illecito.

E nel mentre riteneva illecito – in taluni casi – l’uso della menzogna per ingannare i nemici, tuttavia concludeva “Se infatti si ammette che a fin di bene anche gli amici possono essere ingannati con la menzogna, si può ammettere che i nemici possano essere indotti in errori per la loro rovina. Naturalmente, come agli amici è fatto per il loro bene, così ai nemici è reso il fatto loro e giustamente è recato loro danno”.

Ma in tutta la sua esposizione non si pone mai il problema del capo che mente (sistematicamente) al seguito; cioè il problema riconducibile alla propaganda di guerra – che tanta parte ha nei conflitti, soprattutto moderni.

Certo è che tutte – o quasi – le menzogne propagate non sembrano poter avere alcun effetto nell’ingannare Putin, o, al più, un’efficacia minima.

Quindi il loro unico – o assolutamente prevalente – risultato, è di suscitare un qualche consenso nell’opinione pubblica a sopportare il costo delle sanzioni e degli aiuti all’Ucraina. Ossia sono false o errate rappresentazioni ad usum delphini. Le quali hanno l’inconveniente, in politica e ancor più  nel di essa mezzo, la guerra, di indirizzare (e far regolare) le proprie azioni su presupposti e fini immaginari e immaginati, con ciò rischiando, a parafrasare Machiavelli “d’imparare più presto la ruina che la preservazione sua”. Nella specie quella della comunità nazionale, che i governanti hanno il dovere di proteggere e dei cui risultati devono rispondere.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 3a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 72)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 72 (per chi ha già letto la prima parte)

TERZA PARTE DELLO STATO DELLE COSE ULTIMA RELIGIONE POLITICA

Amico, nemico e cobelligerante: qualifiche giuridiche in guerra di Victor MARTIGNAC

La guerra richiama le armi ma anche la legge. La qualificazione giuridica dei belligeranti nasce sempre per stabilire un ordine e le responsabilità di ciascuno. L’Ucraina non fa eccezione a questa regola: tra amico, nemico e cobelligerante è aperto un vero e proprio dibattito legale.

Il dibattito mediatico si è concentrato sulla nozione di “cobelligeranza”, in particolare a seguito delle consegne di armi all’Ucraina. Il dibattito è stato particolarmente aperto a seguito dell’invio dei fucili CAESAR, poi riemerso con acutezza grazie all’annuncio ufficiale di una consegna di veicoli AMX-10 RC. La disciplina giuridica dovrebbe essere in grado di qualificare fatti o atti politici in linguaggio teorico; e la guerra, nonostante il suo carattere trans o interstatale , non sfugge alla sua regola positiva .

Questioni legali

Tuttavia, il diritto internazionale, esso stesso frutto contemporaneo di un equilibrio tra grandi potenze, non può emanciparsi dallo stato di fatto delle relazioni internazionali. Tuttavia, questo consenso giuridico sembra essersi infranto sulle sponde della guerra russo-ucraina, lasciando lì un abissale vuoto qualificante, che le autorità politiche occidentali hanno rapidamente colmato, descrivendo Vladimir Putin come un “criminale di guerra”, responsabile di un “genocidio ” e anche di essere a capo di uno “Stato promotore del terrorismo”. Quanto allo stesso Vladimir Putin, ha ritenuto fondato drappeggiare l’invasione del territorio limitrofo di “legittima difesa”. [1]In realtà assistiamo, dietro queste beffe, ad uno spostamento sia morale del diritto di guerra, che però non ha più nulla di universale, e che i giuristi, irascibili su questi temi, tendono spesso ad accentuare in abstracto con irrimediabili consolidando l’incertezza generalizzata relativa allo stato di belligeranza.

In realtà, gli attuali dibattiti sulla cobelligeranza hanno un effetto positivo sul pensiero giuridico. Richiamano il diritto della guerra ai rapporti di inimicizia e di amicizia, senza dover trascrivere né la morale universale del giusto contro l’ingiusto, né la sola volontà degli Stati di definire essi stessi le proprie guerre – ad esempio come “operazione speciale” – o designarsi come belligeranti. Tuttavia, più la dottrina occidentale persiste nel perseguire il suo studio legalistico e depotenziante della guerra in Ucraina, più sprofonda in un groviglio di norma morale e norma giuridica, e finisce per essere solo uno scriba fuori terra. Tuttavia, lo studio legale avrebbe dovuto attenersi al principio che i poteri non hanno idee.– secondo l’adagio di Alain. La questione della (co-)belligeranza è quindi interessante nella misura in cui l’osservazione dei fatti internazionali mette nuovamente in discussione cosa significhi, in diritto, essere un belligerante. A questo proposito, spinge il giurista francese a riconoscere i lamenti del sorgere di nuovi rapporti interstatali, e a manifestare pirronismo, sia in merito alla definizione di belligeranza che in ordine alla validità del diritto internazionale. In breve, dovremmo evitare di concordare con noi stessi che andiamo d’accordo perfettamente, [2] e mettere in discussione la questione legale se non attraverso una lettura inappropriata.

La risposta penale alla guerra

Se è innegabile che la Russia abbia attaccato l’Ucraina e violato il diritto internazionale che intendeva rispettare, l’atteggiamento dei giuristi tende talvolta a condannare in globo l’ingiustizia sotto l’angolo penalista. Infatti, ogni considerazione giuridica sul tema di questa guerra non può che scaturire dall’unico reato di aggressione, spazzando via nel suo cammino le altre questioni giuridiche alla confluenza di guerra e rapporti politici – di cui il tema della belligeranza. Dobbiamo trovare l’origine di questo approccio nella sentenza del Tribunale di Norimberga del 1945, in cui si afferma che “iniziare una guerra di aggressione […] non è solo un crimine internazionale: è il supremo crimine internazionale, diverso dagli altri crimini di guerra solo in quanto li contiene tutti[3] ”. A questo proposito, alcuni accademici hanno già sentito parlare di piegare il caso condannando penalmente la Russia [4] , perché dal 1945, ricorda la dottrina, la guerra “in tutte le sue forme” è diventata “fuorilegge [5] ”. Secondo questo ragionamento, anche se i paesi occidentali passassero all’invio di truppe per combattere contro la Russia, alla fine sarebbero responsabili solo di una giusta legge contro il crimine. [6] Da questo punto di vista la guerra, e la belligeranza che se ne portava, non è più nemmeno una virgola; è esplicitamente bandito dalla ganga legale, che lo rifiuta come contraddizione in séa favore di una sussunzione al reato secondo i termini della Carta delle Nazioni Unite che richiama esclusivamente i termini “aggressione” e “legittima difesa” per designare situazioni di belligeranza.

Questa neutralizzazione assiologica della guerra e la vacuità giuridica che essa comporta dovette tuttavia confrontarsi con questioni realistiche relative alla cobelligeranza, provocando un certo disagio da parte dei giuristi nel darvi una risposta. Così, per il professore e accademico Serge Sur, la posizione giuridica della Francia si troverebbe in un percorso azzardato tra neutralità e cobelligeranza, [7] in una sorta di posizione mediana, precaria e provvisoria. Per altri, seguendo un’interpretazione giurisprudenziale del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, la cobelligeranza potrebbe essere osservata legalmente solo se le nostre truppe combattessero direttamente contro la Russia. [8]Quest’ultima giustificazione dimentica, però, che questa giustizia eccezionale – e quindi la validità delle sue decisioni – è stata approvata solo dopo un lento e laborioso compromesso politico, poi deciso dal Consiglio di Sicurezza.

La trappola legalistica della qualificazione di belligeranza

Rifiutando di mettere in discussione i fondamenti positivi del diritto di guerra, le tesi legaliste finiscono poi per sprofondare in un dedalo di ipotesi a volte stravaganti, come la volontà di condannare Vladimir Putin davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI) o di ritirare la Federazione Russa come un membro permanente del Consiglio di sicurezza. Ricordiamo, a tutti gli effetti, che la giurisdizione della CPI, la cui giurisdizione la Russia non riconosce in alcun modo, non giudica in contumacia. Inoltre, la sanzione più pesante cercherebbe di impedire ai comandanti russi identificati di recarsi negli Stati firmatari dello Statuto di Roma. Da questa constatazione è nato il sogno di istituire un tribunale penale ad hoc e revocare l’immunità di Vladimir Putin. [9]Il legalista può ancora avvalersi delle misure provvisorie prescritte dalla Corte Internazionale di Giustizia nell’ordinanza del 16 marzo 2022, ma la giurisdizione della giurisdizione dipende anche qui dal principio cardine del consenso di ciascuna parte a che il conflitto sia risolto da i giudici. La criminalizzazione della guerra, nonostante l’iniqua aggressione, dipende soprattutto da un accordo tra le volontà dei poteri o più semplicemente dal diritto alla forza, fondamenti in gran parte dimenticati. Tuttavia, seguendo l’esempio di quanto pensava il famoso internazionalista Louis Renault, se dobbiamo cercare i principi volti a vincolare i belligeranti, non possiamo negare totalmente l’esistenza di questi ultimi in diritto, anche se fossero considerati criminali. [10]

In realtà, più il giurista si limita a leggere la legge senza ammetterne i fondamenti, più sprofonda in una dimensione speciosa e pubblicamente ossequiosa del proprio quadro di lettura della belligeranza. Questo spostamento morale si scontra però violentemente con la propria aporia, perché incapace di qualificare idealmente la permanente ridefinizione della cosa internazionale. Tuttavia, come scrive saggiamente Bossuet, «è difficile che le arti della pace si uniscano perfettamente con i vantaggi della guerra [11] ”, vale a dire che è improbabile che garantisca allo stesso tempo pace, polizia e sicurezza internazionale, negando le basi della guerra. Il diritto internazionale deve liberarsi dei suoi luoghi comuni se vuole rimanere rilevante di fronte al conflitto, di cui una delle parti non è uno Stato qualsiasi, ma la prima potenza nucleare: nessun punto giuridico valido al di fuori della realtà! Quanto al giurista, lungi dall’essere un travetto incastrato tra legalismo e giudizi di valore, ha a disposizione altri materiali per riflettere sulla belligeranza come concetto a sé stante, in particolare i criteri di amicizia, inimicizia e neutralità.

Difficile tornare alla dichiarazione di guerra come criterio di belligeranza

Innanzitutto, ci sembra essenziale sottoporre al tema della belligeranza la prima nozione che viene in mente a tutti: la dichiarazione di guerra. [12]È attraverso di esso, infatti, che uno Stato tradizionalmente fa sapere al suo nemico che sta entrando in uno stato di belligeranza. Alcuni hanno anche notato, senza molta più convinzione, che il mancato uso della dichiarazione di guerra equivaleva quindi di diritto all’assenza di belligeranza. Questa affermazione è pertinente? La domanda richiede una doppia risposta negativa. In primo luogo, dal punto di vista del diritto della Carta delle Nazioni Unite, questa dichiarazione non potrebbe bastare per la legalità della guerra, così come un’eventuale dichiarazione della Russia verrebbe immediatamente condannata come illegittima. In secondo luogo, dal solo punto di vista del diritto costituzionale francese, anche questa affermazione è diventata obsoleta, ma possiamo esprimerla in modo un po’ più prolisso.

È vero che l’influenza del diritto internazionale condannava questa nozione di dichiarazione unilaterale dello Stato, ma, in Francia, questa influenza era tanto più conveniente in quanto escludeva la necessità del voto del Parlamento, prescritta dall’articolo 35 della Costituzione . Nell’ambito dell’operazione di coalizione Desert Storm , il primo ministro francese ha ricordato al riguardo che l’andare in guerra è inteso alla luce di “principi, che al vocabolario della guerra preferiscono quello dell’operazione di polizia internazionale [13]“. La dichiarazione è sempre rimasta lettera morta sotto la Quinta Repubblica e, a meno che l’Assemblea nazionale non si ricordi dei doveri che le sono conferiti da questo articolo, la Francia rimarrà costituzionalmente non belligerante fino a quando il suo capo degli eserciti non avrà dichiarato di impegnarsi in questo percorso – e la storia ha dimostrato che era del tutto possibile impegnarsi molto lontano nella belligeranza senza rivendicarla legalmente: durante la guerra d’Algeria, questo ragionamento è stato utilizzato, ad esempio, per giustificare il rifiuto dell’applicazione delle Convenzioni di Ginevra ai prigionieri davanti al aula della Corte di Cassazione. [14]Inutile, quindi, impantanarsi in un nonsenso giuridico del tutto insidioso del solo criterio della dichiarazione di guerra per determinare lo stato di belligeranza, perché si può essere nemico e belligerante senza aver dichiarato guerra. Basti ricordare che tale strumento, pur avendo una missione intrinseca di trasparenza, non ha più, allo stato di diritto, una risonanza positiva per identificare giuridicamente la belligeranza. Il realismo, e la sua parte di “empirismo abbastanza rozzo [15] ” come lo qualificava fatalmente  la dottrina della fine dell’Ottocento [ 16] , riecheggia in ogni caso le eterne affermazioni di un eminente giureconsulto del Settecentosecolo, Cornelius van Bynkershoek, secondo il quale «una guerra può cominciare dalla dichiarazione, d’altra parte può anche nascere da un reciproco scambio di violenza [17] », ogni dichiarazione si riassume in una «solennità [… ] vuoto tra le nazioni . [19]

Una possibile ridefinizione teorica della (co-)belligeranza attraverso il prisma dei nuovi rapporti di stato

Occorre quindi considerare i rapporti di belligeranza diversi dalla sola carica ufficiale che uno Stato intende concedersi, senza per questo emanciparsi dall’esistenza positiva di una guerra e dei rapporti di belligeranza – a meno che non si possa qualificare tale da far sì che Vladimir Putin un pirata internazionale e di abolire una volta per tutte il termine guerra dal vocabolario giuridico; il dibattito filosofico è aperto. La dottrina internazionalista prebellica ha riflettuto su questo tema dei rapporti belligeranti dal punto di vista degli atteggiamenti di Stati terzi nei confronti di due parti dirette di un conflitto aperto. Questo ragionamento sembra più pertinente per stabilire un’analisi giuridica di un diritto di guerra “classico”. Infatti, oltre all’equilibrio internazionale sconvolto dall’azione di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, un certo numero di paesi cosiddetti “non allineati” ha scelto deliberatamente di non prendere parte al conflitto aiutando in modo significativo l’una o l’altra delle parti. Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituire quelle del Consiglio di sicurezza, come alcuni hanno suggerito — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione dei territori ucraini, trentacinque di questi paesi tacciono, compresi, tra gli altri e non ultime Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituire quelle del Consiglio di sicurezza, come alcuni hanno suggerito — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione dei territori ucraini, trentacinque di questi paesi tacciono, compresi, tra gli altri e non ultime Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militariVostok nel settembre 2022, rimangono così positivamente e volontariamente neutrali rispetto al conflitto stesso, senza astenersi dal mantenere relazioni amichevoli con la Russia. Quanto ad altri astensionisti come il Marocco, l’Iraq o l’Iran, i rispettivi interessi regionali vietano loro di congelare i rapporti con Vladimir Putin. Anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, dal canto loro, hanno mostrato la loro neutralità rifiutandosi di votare le risoluzioni dell’Assemblea Generale, approfittando al contempo di nuove e succose alleanze commerciali.

L’accentuato compiacimento e l’amicizia di questi “nuovi neutrali” nei confronti dello Stato russo non sono però sinonimo di affetto nei confronti di Vladimir Putin: l’ amicizia è qui intesa nel senso di conoscenza  ; è meno a causa di uno stato emotivo di amicizia derivante dall’etimologia amo – “amare” – che per voler andare d’accordo – “legare” – con la Russia. Questa posizione non ha fatto uscire gli Stati dalla loro neutralità rispetto alla questione specifica della guerra in Ucraina. Infatti, la neutralità è intesa in senso classico come neutralità parziale ; lungi dall’essere un ossimoro, questa nozione è soprattutto un semplice atteggiamento negativo nei confronti di un conflitto, o, se si preferisce, la volontà positiva di non schierarsi direttamente. Grozio, nel capitolo XVII del libro III della Legge di guerra e di pace , fa risalire questo diritto all’antichità, dove Livio, Cicerone e Plutarco ne espressero l’estensione con sconcertante semplicità: una nazione può affermare di essere neutrale, ma perde il diritto di pace ed entra in belligeranza quando favorisce una delle parti in conflitto. In altre parole, tra nemici, il neutrale rischia sempre di essere un amico non dichiarato; Jean Bodin [20] nel XVI secolo e Bynkershoeck [21] nel XVIII secolosecolo perpetua questa concezione politica del neutrale, consacrando il suo status di parte interessata costante, agendo ora secondo la sua posizione di forza, ora a causa della sua posizione di debolezza. La prosecuzione del commercio, inoltre, è indicativa della posizione del neutrale interessato, che può mostrarsi pubblicamente in posizione di inimicizia con uno dei belligeranti pur rimanendo cauto nelle sue azioni; da qui l’adagio: “la veste del nemico non confisca quella dell’amico ” [22] – che si addiceva perfettamente agli importatori occidentali di petrolio russo, anche se avveniva attraverso la raffinazione al di fuori della giurisdizione territoriale di Mosca.

Della necessaria scelta tra neutralità e belligeranza

Qualsiasi parzialità rimane quindi ovviamente presente nei rapporti statali, ma quando scoppia una guerra tra due Stati, questa neutralità è sempre attenta a non ribaltarsi nell’aiutare l’uno o l’altro in vista della vittoria. La parzialità quindi non autorizza tutte le schivate. Al contrario, un palese aiuto militare a uno Stato terzo in conflitto porrebbe quest’ultimo in una certa posizione di belligeranza. L’apertura dei porti alle fregate, l’assicurazione del passaggio terrestre delle truppe, ecc. sono tutti criteri di belligeranza. [23] L’invio di armamenti, l’addestramento di soldati, i divieti di spazio aereo, gli attacchi informatici e le sanzioni economiche non apparterrebbero alla stessa categoria? Cos’altro possiamo dire sull’adesione alla NATO durante la guerra?[24] La dottrina rifiutò allora di immergere il diritto nell’oceano fittizio delle neutralità “imperfette” o “benevole”, per declinare sempre una serie infinitesimale di situazioni, l’una altrettanto astrusa dell’altra. [25] Riassumiamo con questa affermazione che “ neutrale ha il necessario correlativo bellicoso [26] ”.

Resta quindi difficile rivendicare l’unico “diritto naturale all’autodifesa” garantito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. In primo luogo, tutte le parti lo rivendicano. Anche la Cina lo usa sulla questione di Taiwan. La giustizia naturale che ogni campo intende difendere con ardore ci riporta alle parole di Proudhon in Guerra e Pace  : “La guerra non è l’insulto dell’uno che solleva la legittima difesa dell’altro. È un principio, un’istituzione, un credo. [27]  » Poi, sebbene questa nozione sia un diritto naturale, rimane tuttavia soggetta alla verifica dei fatti. Se non avesse resistito così formidabile, [28]L’Ucraina avrebbe potuto ancora rivendicare il suo diritto naturale di fronte al giudizio positivo della Storia? Infine, l’autodifesa collettiva prevista dallo stesso articolo 51 richiede in ultima analisi , per essere ratificata e valida nei confronti dell’ONU, una decisione del Consiglio di sicurezza… [29] L’autodifesa collettiva non può essere spinta al parossismo di una giustificazione penale di una delle parti, fondata su un’obiettiva e giusta neutralità di un equilibrio internazionale, se questo supremo equilibrio viene infranto. Anche la neutralità oggettiva, storicamente riconosciuta in più aree geografiche [30] con l’intento di evitare radicalmente ogni conflitto nel tempo, [31] presuppone «un equilibrioStati, che impedisce ai forti di costringere i deboli. [32]  La neutralità non ha quindi nulla a che fare con un diritto oggettivo o assoluto – nel senso di absolutus , “slegato” – e non esiste uno spazio giuridico indivisibile tra neutralità interessata e belligeranza. Gli Stati, per “articolato pragmatismo [33]  “, hanno solo il tempo libero di muoversi su una linea di cresta legale che separa i due schieramenti di belligeranza durante una guerra, ma un passo verso l’amicizia decisiva verso l’uno li conduce irrimediabilmente all’inimicizia verso l’altro .

Leggi anche:

Hegel e la filosofia del diritto. Intervista a Thibaut Gress

[1] Va detto che questa affermazione, portata dagli Stati Uniti davanti al tribunale delle Nazioni Unite durante l’invasione di Panama nel dicembre 1989, servì da piacevole precedente.

[2] La formula è mutuata da: P. VALERY, Lettere ad un amico , Gallimard, 1978

[3] Sentenza del Tribunale militare internazionale, in: Processo a grandi criminali di guerra davanti al Tribunale militare internazionale, Norimberga, 14 novembre 1945-1 ottobre 1946, t. io , pag. 197

[4] A. DE NANTEUIL, “Fate la legge, non la guerra. Quale quadro per la guerra secondo il diritto internazionale alla luce della situazione ucraina? », La Semaine Juridique , Edizione Generale n° 39, 3 ottobre 2022, dott. 1099, online: <https://www-lexis360intelligence-fr>

[5] I. PREZAS, “Fasc. 450: Delitto di aggressione”, JurisClasseur , 13 novembre 2014, online: <https://www-lexis360intelligence-fr>

[6] È d’altronde questa stessa speranza di giustizia universale che guidò i rivoluzionari francesi nel 1792 ad affermare che essi non facevano «la guerra di nazione in nazione, ma la giusta difesa di un popolo libero contro un’aggressione ingiusta»: A. Corvisier, Storia militare della Francia , t. 2, Parigi, University Press of France, 1992

[7] S. SUR, “La guerra del diritto nel conflitto ucraino”, La Semaine Juridique , Edizione Generale n° 20-21, 23 maggio 2022, dottr. 660., online: <https://www-lexis360intelligence-fr>

[8] J. GRIGNON, “Cobelligeranza” o quando uno Stato diventa parte di un conflitto armato? », Strategic brief , n° 39, 6 maggio 2022, online: < https://www.irsem.fr/>

[9] Questo desiderio è stato affermato in particolare dall’ex capo dell’Ufficio centrale contro i crimini contro l’umanità (OCLCH) Éric Émereaux.

[10] L. RENAULT, “L’applicazione del diritto penale agli atti di guerra”, Estratto dal Journal de Clunet 1915 ( anno 42 ) p. 313-344 , Parigi, Marchal e Godde, 1915, p. 6 e segg.

[11] J.-B. BOSSUET, Discorso sulla storia universale , Parigi, Librairie Hachette et Cie, 1877, p. 436

[12] Ciò che era o non era materia di guerra è sempre stato oggetto di qualificazione giuridica da parte del belligerante stesso: dall’Eneide alle lettere di sfida durante la terza e la settima crociata, e fino alla dichiarazione di guerra, il diritto di un partito promuoveva la sua funzione qualificante della cosa della guerra ponendo il proprio cursore di identificazione teorica.

[13] Dichiarazione di Michel Rocard del 15 gennaio 1991, online: <https://www.vie-publique.fr/>; Il Parlamento è rimasto senza parole; il discorso non si era avvalso dell’articolo 35 della Costituzione, ma si era basato sui commi 1 e 4 dell’articolo 49, cioè una dichiarazione che in pratica non impegna la responsabilità del Governo.

[14] Cass. Penale. 4 settembre 1961 Becetti e Henni , Boll. Delitto, pag. 706

[15] T. FUNCK-BRETANO; A. SOREL, Précis du droit des gens , 3a ed., Paris, Librairie Plon, 1900, p. 235

[16] Questo periodo è segnato dalle aggressioni spontanee e bellicose del Giappone, nel 1894 contro la Cina e nel 1904 contro la Russia.

[17] C. VAN BYNKERSHOEK, I due libri di questioni di diritto pubblico , Limoges, “Cahiers de l’Institut d’anthropologie juridique n. 25”, Pulim, 2010, p. 52

[18] Il Trattato di Vestfalia, che ha fondato il moderno diritto delle genti, egli afferma, che nasce dai conflitti tra le ribelli Province Unite e il Regno di Spagna, “è iniziato con violenza reciproca, senza alcuna dichiarazione. Dubiterai, perché non è stato dichiarato, il diritto alla vittoria, il diritto alla pace che seguì nel 1648? » ; Ibid ., p. 55-56

[19] Anche la dottrina inglese, come William Edward Hall, era dominata dall’idea che la guerra fosse legalmente scatenata dal primo atto di ostilità.

[20] J. BODIN, sei libri della Repubblica , Parigi, Librairie Générale Française, 1991, in particolare capitolo VII, libro primo

[21] C. VAN BYNKERSHOEK, op. cit. , p. 69

[22] Cfr. E. SCHNAKENBOURG, Tra guerra e pace. Neutralità e relazioni internazionali, secoli XVII-XVIII , Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2003, p. 28

[23] P. FAUCHILLE, Trattato di diritto internazionale pubblico , t. 2, 8a ed., Parigi, A. Rousseau, 1921 p. 93

[24] Su tale questione, la dottrina prebellica riteneva che se le passate alleanze militari non innestassero direttamente uno stato di belligeranza ma riportassero le parti ad una semplice “neutralità imperfetta”, il fatto di aderirvi dopo l’inizio delle ostilità potrebbe , al contrario, servire come criterio di belligeranza: Ibid ., p. 642-643

[25] Ibid .

[26] Ibid ., p. 954

[27] PROUDHON (P.-J.), Guerra e pace: ricerca sul principio e costruzione del diritto delle nazioni , “Opera completa di P.-J. Proudhon”, Lipsia Livorno: International Library A. Lacroix , Verboeckhoven & Cie, Parigi Bruxelles, 1869, p. 291

[28] Va detto che, come scrive Montaigne nei suoi Saggi , «rende pericoloso aggredire un uomo, al quale avete privato di ogni mezzo di fuga se non con le armi: perché è maestra violenta che necessità».

[29] Questa è la nostra interpretazione degli articoli 43§1, 48§1, 49 e 51 della Carta delle Nazioni Unite.

[30] Gli esempi più noti sono Venezia, la Confederazione Svizzera, Malta, le città di Liegi e Cracovia o anche il Ducato di Hanvore.

[31] S. SCHOPFER, Il principio giuridico della neutralità e il suo sviluppo nella storia del diritto di guerra , Losanna, Corbaz, 1894, p. 61 e segg.

[32] P. FAUCHILLE, op. cit. , p. 639

[33] B. Courmont, L’anno strategico 2023 , <https://www-cairn-info>

https://www.revueconflits.com/lami-lennemi-et-le-cobelligerant-les-qualifications-juridiques-en-guerre/

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BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

All’epoca – vent’anni fa, all’incirca – del fiorire di guerre per la
pace, i diritti, la giustizia, era pubblicato su Palomar questo breve
saggio, con una sintesi della concezione della guerra giusta.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza, anzi
dell’incremento di simili “sfide” giustificate, come prima, con la
giustizia.

BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA

  1. Ad analizzare il concetto di guerra giusta ci si deve guardare dal cadere nell’ovvietà, perché, prima facie, appare contraddittorio un aggettivo che attribuisce la giustizia ad un’attività la quale di per sé, mancando di un terzo superiore – e decisore – è priva del presupposto prioritario perché possa aversi una decisione, cioè una giustizia concreta ed imparziale. Per cui in sommaria analisi, e contrariamente a quanto possa scriversi sui rotocalchi, la guerra non può essere “giusta”[1]. Tuttavia dato che tale concetto si ripresenta nel pensiero occidentale, e nell’ultimo decennio è stato utilizzato ripetutamente dalla propaganda dei belligeranti, è necessario capire se possa esserci – al di là delle apparenze contrarie – una guerra se non “giusta”, quanto meno “legittima”.

La concezione criticata si fonda sul giudicare la guerra, di per sé fenomeno essenzialmente e squisitamente politico, in base a parametri non-politici, morali, religiosi o ideologici: dalle Crociate fino agli interventi nei Balcani degli anni ’90, la giustificazione delle guerre giuste è sempre stata la difesa di determinate idee o “valori”, fatti propri dai “giusti” combattenti e negati (o che si pretendevano negati) dai loro nemici. E’ evidente che valutare fenomeni e istituzioni politiche con criteri non pertinenti, e soprattutto con quei parametri ideologici e morali, è, a dir poco, destabilizzante e contrario a gran parte del pensiero politico moderno. Da Machiavelli a Croce è stato ripetutamente stigmatizzato come decidere tali questioni in base a canoni morali è non solo ipocrita e polemogenetico – perché serve, nel caso specifico, alla giustificazione della guerra diventando, con ciò, uno strumento di guerra psicologica – ma soprattutto è foriero di inconvenienti superiori ai benefici. Non solo sul piano internazionale, perché legittima e fa salire l’intensità della guerra, ma anche in politica “interna”, ove serva a consolidare dei mediocri governanti che hanno l’unico pregio di apparire “buoni” (per lo più solo quello di predicare bene), con scarse – o punte – capacità e risultati politici; d’altra parte, a seguire l’ironia di Croce, se qualcuno sceglie il chirurgo confidando nelle sue qualità morali – e non in quelle professionali, come si fa di solito – e poi muore sotto i ferri, in definitiva il proprio destino se l’è cercato.

Sotto un diverso profilo il concetto di guerra giusta – intesa secondo tali criteri – implica una contraddizione e una conseguenza. La contraddizione, già ricordata, è che, in teoria, ambo le parti belligeranti  credono di avere giuste ragioni, ed in tal caso non c’è un terzo che possa giudicare: alla giustizia manca, cioè, il giudice.

La seconda è di tendere a criminalizzare il nemico, come sottolineato ripetutamente da Carl Schmitt: al nemico “ingiusto” diventa naturale – anzi “giusto” – riservare un trattamento da criminale. Il fatto che sia uno justus hostis, cioè in termini moderni uno Stato sovrano, non serve: lo “justum bellum” finisce per annichilire così lo “justus hostis” cioè il (primo) requisito con cui i tardoscolastici (che tanto hanno contribuito al diritto internazionale moderno), avevano elaborato la concezione dello jus belli (la quale, nel loro pensiero è, in primo luogo, una guerra limitata, nei soggetti, nei motivi, nei modi e nell’intenzione)[2].

  1. D’altra parte, come noto, è proprio lo justus hostis il binario (principale) di legittimazione della guerra su cui hanno proceduto il diritto (e le relazioni) internazionali moderne.

Questo è, come sopra scritto, un concetto limitativo, strettamente (ancorché non esclusivamente) connesso alla nascita (e allo sviluppo) dello Stato moderno, col conseguimento progressivo – e rapido – da parte di questo del monopolio della violenza legittima, di cui la guerra è l’aspetto “esterno”. Il che significava negare legittimità alle guerre non statali, alle guerre “feudali” tra Comuni, vassalli, signorotti e vescovi-conti, tutti subordinati all’autorità del Sovrano (nascente) e quindi privati dello jus bellandi. Tale concezione rappresentava un indubbio progresso, perché limitava il numero dei soggetti giustamente belligeranti e così delle guerre “lecite”. I conflitti nati all’interno dell’unità politica erano riservati e risolti dalla giustizia dello (Stato) sovrano.

E’ noto a tale proposito, che il primo – e quasi esclusivo carattere che connota il concetto di justus hostis – è quello, negativo, di non avere un superiore. È justus hostis – scrive Francisco Suarez – quel principe, che, non avendo un superiore, non ha i mezzi, né la possibilità di avere giustizia da questi: e quindi può conseguirla solo facendosela da solo. Si noti come nella concezione della Tarda Scolastica, conseguente a quella di S. Tommaso, la guerra è strettamente correlata alla giustizia, sia come aspetti di una medesima funzione, di tutela e/o protezione (contro i malviventi all’interno; contro i nemici all’esterno), sia come mezzo per ripristinare il diritto leso. Di converso, non è justus hostis, scrive Suarez (anche qui, derivandolo dalla distinzione tomista tra persona “privata” e principe) colui il quale, vassallo, ha il “diritto” che sia il sovrano a fare giustizia o decidendo – se superiore a entrambi i contendenti – la controversia; ovvero dichiarando guerra per la tutela delle giuste pretese della comunità e dei sudditi. Per il sovrano, fare la guerra nel caso di violazione dei diritti della comunità o dei sudditi, è un dovere. Con la conseguenza, apparentemente sorprendente, ma logica in un gesuita spagnolo del “Siglo de Oro” che nel caso il principe non difenda i sudditi, sia cioè trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può “tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem,…si princeps officio suo desit”[3]: che è l’eccezione alla regola. Il concetto di justus hostis è dunque correlato e presuppone l’assenza del terzo “superiore” e quindi la parità tra i contendenti. Senza questa non c’è né justus hostisjustum bellum.

La guerra del suddito contro il sovrano è rivoluzione o ribellione; quella del superiore verso il suddito è un’operazione di polizia. In ogni caso non è “guerra” nel senso del diritto interstatale. Col tramonto del feudalesimo viene meno anche il “diritto di resistenza”.

  1. La parità comporta – e presuppone – il riconoscimento del nemico e l’assenza di un’autorità temporale universale, o quanto meno, sovrastatale. Non a caso la Relectio de Indis di de Vitoria inizia la trattazione dei “titoli” con la negazione dei poteri “universali” del Papa e dell’Imperatore. Con ciò era riconosciuto quel carattere del mondo politico per cui questo costituisce un pluriverso e non un universo. E, parità, riconoscimento e assenza di terzo superiore, comportano altresì che il giusto nemico non possa essere confuso col criminale.

D’altra parte, tutti tali caratteri si rovesciano specularmente nei rapporti interni all’unità politica: lo Stato sovrano non è “pari” ai sudditi, non “riconosce” nemici interni (ma solo criminali o, tutt’al più, ribelli, cioè criminali politici); è il “terzo superiore”. Il che contribuisce a determinare la prima delle caratteristiche dello Stato moderno, che lo differenziano da altre forme politiche, in particolare quelle feudali-medievali: la distinzione rigida, e per così dire, l’impermeabilità, tra interno ed esterno, e quella, contigua, tra potere pubblico  (che è, in linea di principio, unico e monopolizzato) ed altri poteri, generalmente, non riconosciuti come pubblici. Tra questi, un particolare riguardo, nella forzata “privatizzazione” del medesimo, era rivolto al “potere spirituale”, specificamente a quello ecclesiastico. Dalla plenitudo potestatis medievale si passava alla negazione di qualsiasi intromissione di quello nel potere temporale: la stessa dottrina dei cattolici più intransigenti  diventava quella della potestas indirecta, che, avversata da Hobbes, è comunque la negazione – quasi totale – delle teorie sul potere papale, correnti nel Medioevo. L’ impermeabilità dello Stato moderno, rivolta doppiamente sia verso lo justus hostis, cioè il nemico possibile ma pari come soggetto politico, sia verso coloro cui non è riconosciuto lo status di “pari”, è uno dei caratteri che più lo differenziano dalle concezioni medievali: secondo le quali i poteri erano diffusi, spesso confusi e permeabili. Rigida delimitazione riflessa anche sulla guerra. Non solo nel senso della monopolizzazione dello jus belli, ma anche nella non interferenza nell’ordinamento interno degli Stati, ancorché belligeranti (o sconfitti). Nelle guerre “in merletti” dell’Ancièn règime, istituzioni, diritto, classi dirigenti dei paesi in guerra, e perfino, in larga misura, di quelli conquistati, erano completamente e reciprocamente indifferenti ai belligeranti. Situazione che cambiò, notoriamente, con la Rivoluzione francese. Già Brissot affermava “non potremo essere al sicuro se non quando l’Europa, e tutta l’Europa, sarà in fiamme” (le fiamme della rivoluzione che si voleva esportare); per cui un giacobino come Chaumette auspicava “Il territorio che separa Parigi da Pietroburgo e da Mosca sarà presto francesizzato, municipalizzato, giacobinizzato”. Con l’approvazione nel dicembre 1792 da parte della Convenzione della mozione di Cambon, all’indifferenza si sostituiva l’opposto principio dell’ingerenza sulle istituzioni e (le classi dirigenti) delle popolazioni “liberate”. Come corollario della “giusta guerra”, trasformatasi in guerra rivoluzionaria, si aveva che la justa causa belli era costituita (almeno in linea teorica) dalla diversità dell’ordinamento del nemico dai principi rivoluzionari. Con ciò tale concetto, richiamato pure nelle recenti vicende, era rivitalizzato (mutando i caratteri) da nuova linfa. Quella che dalla dichiarazione  dei diritti dell’uomo arriva ai “diritti umani” nostri contemporanei: e, per la quale, di conseguenza, nemico è chi viola i “diritti” proclamati in qualche dichiarazione, e contro il quale, pertanto, la guerra è giusta.

  1. Carl Schmitt ritiene che nel ritorno dalla discriminante degli justi hostes a quella della justa causa vi sia il riemergere di una dottrina pre-statale.

Occorre aggiungere a ciò che, comunque, ancorchè precursori-fondatori del diritto internazionale moderno (cioè interstatale) come de Vitoria, non si svincolassero dalla “justa causa”, avevano ragioni in qualche misura da considerarsi ancora valide. Teologi-giuristi come de Vitoria o Suarez, partivano da una visione tomista, da un concetto di diritto come ordinamento concreto, come “istituzione”. Il diritto che deve essere ripristinato nel caso di guerra giusta offensiva non è quello astratto contenuto in dichiarazioni solenni, ma quello prodotto dall’esistenza politica (e giuridica) di entità statali e dai loro rapporti.  Suarez scrive che occorre una “gravis iniuria” come motivo di guerra; e nel classificarne le specie, ricorda: l’appropriazione di “cose” d’altri; la lesione dei “communa jura gentium” (come il diritto di transito o di libero commercio), e infine la grave lesione nella reputazione o nell’onore. Cioè diritti in larga misura verificabili, consuetudinari e consolidati nel tempo e dai fatti, tutti caratteri di cui è privo, per lo più, un “diritto” come quello delle solenni dichiarazioni. Il che ridimensiona, senza eliminarlo, il problema reale – e principale – che consiste nel quis judicabit? ovvero del chi decide sulla giustizia della guerra. In uno schema come quello sotteso alla teoria criticata della “guerra giusta” sarebbe, di converso, sufficiente redigere una dichiarazione colma di principi edificanti, accusare il proprio confinante di violarla, giudicarlo di conseguenza, ed eseguire la “sentenza” con aerei e carri armati: con ciò divenendo il legislatore, il giudice e l’esecutore del “teoricamente” pari. Il quale è pari, per l’appunto, proprio perché leggi, sentenze e atti esecutivi del vicino non costituiscono obblighi per il medesimo.

  1. Non è quindi possibile derivare il concetto di guerra giusta da norme morali e giuridiche (secondo una concezione normativista del diritto, neppure supportata dalla “positività” di un ordinamento statale), né derivarne allo stesso modo i concetti – e le applicazioni – che ne conseguono, come colpevolezza, pena e condanna: è la mancanza di uno justus judex a costituire l’ostacolo principale: moltiplicato, nel caso, dal far appello a un diritto normativisticamente fondato.

Tuttavia, a cambiare prospettiva, partendo cioè dalla concretezza storico-politica degli ordinamenti, invece che dalle astrattezze “morali” di certe norme, è possibile costruire un concetto di guerra giusta che sia meno estraneo al diritto internazionale “tradizionale”.

Il diritto si caratterizza, anzi è tale, perché è (richiede di essere) effettivamente applicato. E’ la possibilità concreta d’applicazione e coazione, ovvero in termini weberiani (di definizione della potenza) quella di far valere con successo i propri comandi in un gruppo sociale, a costituire il criterio, di gran lunga più importante, della legittimità di un ordinamento (o, in diversi termini, del potere). Santi Romano, con la sua concezione desunta dal diritto sia interno che internazionale, ne ha data una formulazione, a un tempo, decisiva e coerente ai tempi. Secondo il giurista siciliano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno sicuro che questa corrispondenza esista, che non sia un’illusione o qualcosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito”. In altre parole, secondo Santi Romano, legittimo è l’ordinamento vitale. La vitalità deriva dalla corrispondenza dello stesso ai bisogni, alle aspettative, ai “valori” condivisi; prova ne è la durata.

Di fronte a ciò ha importanza secondaria la corrispondenza del regime politico ad una formula “ideale” (o ad un insieme di norme) astratte. D’altra parte nel diritto internazionale è riconosciuto uno Stato, non perché conforme a norme (neanche alle proprie, altrimenti non sarebbero riconosciuti gli Stati sorti da una rivoluzione), ma perché dimostra di spiegare un potere efficace sul territorio. Tale concezione si può dire, in qualche misura, tributaria del pensiero di Hobbes. Secondo il filosofo di Malmesbury la ragion d’essere dello Stato è giustificata (e già quindi legittimata) attraverso la capacità del sovrano e dell’organizzazione statale a mantenere la pace all’interno e difendere la comunità dai nemici esterni. L’autorità politica si legittima, nel pensiero di Hobbes, per la capacità di assolvere tale funzione. L’unico dovere del Sovrano è di osservare la regola “salus populi suprema lex esto[4]. Il dovere di obbedienza dei sudditi viene meno non quando il sovrano non è quello “legittimo” (absque titulo) e tanto meno  se prende delle decisioni difformi dalle leges fundamentales (dato che è fonte della legge); cessa solo quando l’autorità non è più in grado di offrire protezione. Il protego ergo obligo è così la sostanza del rapporto politico, il primo fondamento del diritto di comandare e quindi di una legittimità svincolata da valori e tradizioni, e ricondotta ad un nesso funzionalistico.

Solo l’incapacità del sovrano a difendere i sudditi – l’inadempienza al dovere di protezione – fa venir meno quello d’obbedienza.  Legittimo così in buona sostanza è l’ordinamento vitale ed efficace; lo Stato moderno è tale, in primo luogo, in quanto esplica il proprio potere (esclusivo) su una determinata popolazione (e territorio); corrispettivo di ciò è il dovere di protezione; potere, protezione, (consenso) creano e mantengono la situazione di pace all’interno dell’unità politica. Come scriveva Hauriou , l’obbligo di protezione è il fondamento della “idea direttiva” dell’istituzione – Stato, che così definiva “attività protettiva di una società nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale”. Quando uno Stato non riesce più ad assolvere tale funzione, come nel caso di guerra civile, non protegge più la comunità, e anzi diviene anch’esso “parte” di una guerra contro i propri cittadini, possono riprendere vigore le norme internazionali. Come scriveva Santi Romano, sulla prassi di riferire tali diritti agli insorti, la ragione ne era “l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purché anche gli insorti adottino uguale comportamento”[5]. Per cui le norme internazionali divengono, spesso, vigenti all’interno del territorio statale, quando il rapporto protezione/obbedienza e il potere di comandare vengono meno di fatto. È il caso di notare che nessuno dei concetti impiegati in situazioni simili ha carattere normativo. Non serve la “legalità” del potere (come procedimento/i di deduzione/applicazione di norme), perché porterebbe inevitabilmente alla negazione di tali diritti a una delle parti in causa. Di converso, concetti come ordinamento, unità politica, effettività del potere e del comando e “normalità” servono a discriminare in modo opportuno la sussistenza delle condizioni per considerare finiti (o “sospesi”) potere statale ed unità politica. A seguire il pensiero di Kant, sopra ricordato, erano “legittimi” sia l’intervento sovietico che, in particolare, quello nazi-fascista nella Spagna del 1936, subito dopo l’alzamiento, perché dato il controllo di buona parte del territorio spagnolo dei generali golpisti, erano venuti meno sia l’unità politica che il potere statale repubblicano (quest’ultimo nelle zone dominate dalla junta)[6]. Resta il fatto che concetti come effettività del potere statale o unità politica non possono essere deducibili o rapportabili a norme, statali o internazionali che siano, perché attengono alle concrete condizioni di esistenza, politica e sociale, di gruppi umani (al sein) e non alla validità di comandi legalmente statuiti e correttamente applicati (al sollen).

Lo Stato è il “defensor pacis” – di una pace concreta. Forza e consenso sono gli strumenti (e i presupposti) per mantenerlo. Non un qualsiasi potere statale è quindi legittimo; ma solo quello che, in qualche misura accettato dai sudditi, fa valere la propria volontà spiegando la forza sufficiente.

Per verificare la misura di tale consenso – e quindi dell’effettività del potere – non basta che vi sia un esercito, dei Tribunali, una polizia. Occorre anche che l’impiego della “violenza legittima” sia limitato, proporzionato ed “episodico”; quando questo diviene eccessivo, costituisce la più evidente (e decisiva) prova che il potere non è accettato; e che tale “Stato” non corrisponde alla propria “idea direttiva”. Lo Stato, prodotto del razionalismo occidentale, non è Ubu né Attila, e neppure l’Imperatore Teodosio a Tessalonica : si serve della forza, ma con misura. Se lo fa, all’inverso, a dismisura, significa che non è accettato e comunque non  assolve al compito di proteggere l’esistenza e i diritti della comunità e degli individui. In tal caso può essere definito “Stato” nel senso indicato da Hobbes, e dal pensiero politico moderno? O non piuttosto, e richiamandoci a S. Agostino, mancando la “justitia” (nel significato, per così dire, “hobbesiano”) apparati di potere siffatti non sono che “magna latrocinia”? In questi termini, e non ricorrendo a giudizi morali o a normativismi vari, ma basandosi sull’effettività, la vitalità ed il consenso di un ordinamento e su una situazione concreta – si può rivisitare il concetto di “justa causa belli”. Non nel senso della violazione di norme astratte – anche se condivisibili – ma perché la comunità non accetta la violazione di certi diritti, e l’apparato statale, che li viola, diventa così uno strumento di coazione violenta, privo di consenso. Oltretutto legittimare la guerra in base al mero illecito, alla meccanica violazione di norme, significa moltiplicare – e non ridurre – i possibili casus belli, per tutte le disposizioni contenute nei trattati internazionali (o sancite da consuetudini, ma queste sono molto meno numerose). Significherebbe fare guerre “giuste” per la secchia rapita.

  1. Nel caso specifico, l’ultimo che ci si è posto, cioè la guerra del Kosovo – la quale da un altro angolo visuale, non è altro che una guerra aggressiva contro uno Stato sovrano -, secondo i criteri esposti, ispirati al realismo politico (e giuridico), è assai dubbio che il regime di Milosevic possedesse quei caratteri, almeno nel territorio Kosovaro.

Non solo c’era una situazione di aperta volontà secessionista della stragrande maggioranza albanese della popolazione, non solo una repressione massiccia, con massacri e stupri di massa, ma anche l’esodo di buona parte della popolazione di etnia albanese. In tale situazione il despota di Belgrado appariva ed appare non come il “difensore della pace” (e del diritto) ma l’attizzatore della guerra (contro i sudditi). Cioè di quel mezzo, di per se – e in diverso contesto – legittimo, che comunque un ordinamento internazionale deve cercare di contenere.

E in questo senso, la guerra della Nato alla Serbia può anche considerarsi giusta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange, giurista, politologo, direttore del trimestrale di cultura politica Behemoth e collaboratore di riviste di politica e di diritto (tra le quali Nuovi studi politici, Il Consiglio di Stato, Il Foro Amministrativo, Cattolica, Ciudad de los Césares, La Gironda).

Ha pubblicato di recente con altri autori Lo specchio infranto (Roma 1998); Il salto di Rodi (Roma 1999); Il doppio Stato (Soneria Mannelli 2001).

[1] Com’è noto, la guerra è stata spesso considerata uno strumento di giustizia, di realizzazione di diritti e riparazione dei torti (v. S. Tommaso, Summa Theol. II, II, q. 40 art. 1, anche citando S. Agostino; F. Suarez De charitate, disp. 13: De Bello; S. Roberto Bellarmino, v. nota seguente; Lutero Sull’autorità Temporale in Oeuvres Tomo IV, p. 23 ss, Ginevra 1975 e I soldati possono essere in stato di grazia? ivi pp. 231-233; Calvino L’institution chrétienne, lib. IV, cap XX, 11); ma oltre alla funzione di realizzazione e tutela del diritto, la guerra può avere, con questo, un’altra analogia. Quella che risulta dalla prima definizione della guerra di Clausewitz secondo il quale “La guerra è un atto di forza che ha per scopo di costringere il nemico a fare la nostra volontà”. Tale definizione non è inutile a chi vada  alla ricerca dei fondamenti del diritto, pubblico in particolare. Ad un giurista è naturale ricordare che diritto e Stato sono necessari “ne cives ad arma ruant”; onde chi voglia connotarli secondo la funzione difficilmente può prescindere dallo scopo di regolazione e pacificazione dell’uno e dell’altro (sul che ci permettiamo rinviare alla più diffusa trattazione di chi scrive nel saggio “Guerra e diritto” ora ne “Il salto di Rodi”, Roma 1999 p. 57 ss.).

[2] v. S. Roberto Bellarmino, ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 259; rispetto a S. Tommaso, ciò che abbonda è il modus, dato che l’Aquinate poneva solo tre condizioni allo justum bellumSumma Theol. II, II,q. 40, art. 1.

[3] F. Suarez “De charitate” disp. 13: De Bello; Josè Lois Estevez ricorda come la tesi che ricorrere alle armi nelle lotte intestine non è mai ammesso trova non pochi sostenitori; ma è contrastata dal pensiero teologico e giuridico classico da Sant’Agostino e San Tommaso fino a Molina e Soto, per non ricordare i monarcomachi sia cattolici che riformisti, “cuyo peso especifico està incomparablemente por encima de los que hoy se les oponen”  (v. Josè Lois Estevez in Razon española n. 101 mayo – junio 2000 p. 267).

[4] v. Th. Hobbes, De Cive trad. it., Roma 1981, p. 193

[5] v. Corso di diritto internazionale, Padova 1935, p. 73; è da notare che Kant, in “Per la pace perpetua”, ha una posizione a questa coerente, perché mentre ritiene che “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”; giudica che è ben diverso il caso di guerre intestine; nel qual caso l’aiuto prestato a uno degli “Stati” “non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia” v. Antologia degli scritti politici a cura di G. Sasso, Bologna 1961, p. 110.

[6] Carl Schmitt in Theorie des Partisanen (trad. It. Milano 1981) sostiene che  il carattere politico del partigiano e la presenza, a fianco e/o alle spalle di un terzo interessato (uno Stato, cioè una potenza “regolare”), che aiuta il movimento partigiano, sono connotati peculiari dei movimenti di resistenza e li distingono dai tipi “criminali”, cioè non politici, di combattenti come i pirati (v. op. cit. p. 16 ss. e 57 ss.). Sotto un altro profilo, tale connotato è speculare alle considerazioni di Kant (v. sopra): come la perdita dell’unità politica e la guerra civile legittimano l’intervento di una terza potenza, così conferiscono lo status di soggetto politico all’organizzazione di resistenza

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Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 2a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 73)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 73 (per chi ha già letto la prima parte)

SECONDA PARTE DELLO STATO DELLE COSE ULTIMA RELIGIONE POLITICA

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Cina: pensare alle gerarchie nel mondo moderno_di CHANTAL DELSOL

I professori dell’Istituto di Scienze Sociali della Fudan University (Shanghai) hanno organizzato un importante simposio, rinviato di due anni a causa della pandemia, su un tema importante e significativo sia nella filosofia politica che nelle relazioni internazionali: “Gerarchie e giustizia sociale nella mondo moderno”. Per lanciare e stimolare la riflessione, due dei ricercatori cinesi responsabili dell’organizzazione, Daniel A. Bell e Wang Pei, hanno scritto un’opera intitolata Just Hierarchy in English . L’argomentazione è questa: non c’è società senza gerarchie, e l’Occidente, che sostiene il contrario, naviga in mezzo a un sogno… Il libro inizia descrivendo il rito dei posti a tavola, sottinteso: in Occidente anche gli ospiti sono disposti a tavola secondo sottili gerarchie!

Per Zhang Weiwei, professore alla Fudan University e autore di The Chinese Wave , la cultura cinese promuove una meritocrazia che è l’altra faccia della democrazia, che ha senso solo per l’Occidente. Per noi qui è difficile capire come meritocrazia e democrazia sarebbero antitetiche. È perché per i cinesi la democrazia è una specie di anarchia dove tutto si fa a casaccio, con il pretesto che tutti sono capaci di fare tutto. Mentre la meritocrazia stabilisce un ordine, nella forma della gerarchia del sapere.

Gerarchia della conoscenza

Definirsi scuole dell’anarchia è però eccessivo, anche se, visto il sistema cinese di sorveglianza generalizzata, è facile esserlo. Dalla stagione rivoluzionaria, le società europee hanno sostituito le gerarchie di nascita con le gerarchie di merito. La sfiducia nei confronti delle gerarchie, che osserviamo sempre più viva nell’epoca dell’individualismo, sebbene già reale prima di esso, non si traduce necessariamente in un rifiuto delle gerarchie, di cui è ben nota la necessità, ma più da il desiderio di monitorarli e controllarli. Lo sappiamo per esperienza: è nella natura delle gerarchie correre verso l’ossificazione, perché favoriscono chi sta in alto, chi teme di perdere il posto. Il terrore di cadere dal loro piedistallo rappresenta tra le élite, ovunque e sempre, il pensiero più diffuso e più inquietante. Così fanno di tutto per stabilire la loro prerogativa e renderla inalienabile, da qui la tendenza ovunque presente al nepotismo: si cerca sempre di rendere trasmissibile la situazione gerarchica all’interno della famiglia. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec.X secolo cinese la preoccupazione dell’imperatore che poi stabilì il cosiddetto sistema a nove ranghi, per consentire alle famiglie di bassa estrazione di accedere ai ranghi più alti. Interesse storico permanente in tutte le civiltà. Le società occidentali hanno lavorato fin dall’inizio, con vigilanza a volte nevrotica, per controllare il potere. Per questo, ci sono diversi mezzi. Le gerarchie possono essere rese temporanee, impedendo ai beneficiari di rango superiore di abituarsi ai loro ranghi, dandoli per scontati e abusandone. Possiamo stabilire una responsabilità dei gerarchi e renderli responsabili, vale a dire indebolire il loro piedistallo. I Greci della nascente democrazia erano così diffidenti nei confronti delle gerarchie da conferire gradi e status per brevi periodi di tempo, per evitare di abituarsi alla grandezza. Hanno istituito giochi di ruolo per le magistrature, ed è anche accaduto, nei primi tempi della democrazia, che si tentasse di imporre questo principio ai comandanti militari. Il che era ovviamente una sciocchezza e il modo migliore per perdere le guerre, e non è durato, ma è comunque significativo. Inoltre, i magistrati greci erano responsabili della loro gestione, e costantemente sotto la minaccia di azioni legali e diffamazione. Il sistema del sorteggio (che inizialmente rifletteva il giudizio degli dei), utilizzato nell’antichità greca e nella Repubblica di Venezia, svolgeva un ruolo di limitazione delle gerarchie. L’instaurarsi di queste rigide limitazioni al potere dei gerarchi è un tratto permanente e originale di tutte le società occidentali, in cui le autocrazie appaiono come eccezioni e brevi parentesi (Luigi XIV, i despoti illuminati del Settecentosecolo, Napoleone, Hitler e i fascismi del Novecento ) La creazione di parlamenti ovunque traduce la volontà di attenuare la forza delle necessarie gerarchie. La meritocrazia fa parte di questa stessa preoccupazione. Inizialmente, sembra essere un sistema di controllo più equo rispetto al sistema di gioco di ruolo. Nel – 431 a.C. J.-C., lo dice già Pericle nel discorso della guerra del Peloponneso:“Il nostro regime ha preso il nome di democrazia perché il potere è nelle mani del maggior numero e non di una minoranza. Ma se, quanto alla risoluzione delle nostre particolari controversie, siamo tutti uguali davanti alla legge, è secondo il rango che ciascuno di noi occupa nella stima pubblica che scegliamo i magistrati della città, essendo i cittadini nominati in base al merito piuttosto che a rotazione . »

Tutti questi tentativi di controllo e persino di meritocrazia traducono la paura del potere di dominio delle gerarchie e, poiché sono necessarie, la costante volontà di tenerle sotto controllo.

Nascita della meritocrazia

Dopo la distruzione dei vecchi criteri gerarchici e poi la caduta delle utopie egualitarie del Novecento , si è imposta l’unica gerarchia possibile in questo periodo: la meritocrazia Va notato che il moderno modello meritocratico ci è arrivato dalla Cina, trasmesso attraverso i Gesuiti nel XVIII secolo . La Cina conosce questo sistema da secoli, è l’unico che permette ad una società di avere delle élite al di fuori delle vecchie aristocrazie feudali. In Cina, queste sono élite che dipendono interamente dal potere centrale. In Occidente, dove si è dispiegato negli ultimi due secoli, trasforma i criteri di eccellenza, ora individuati e verificati da prove e concorsi.

Tuttavia, negli ultimi cento anni, la meritocrazia è stata fortemente criticata da diversi autori occidentali. Un libro dell’inglese Michael Young aveva già, fin dal secondo dopoguerra, messo in luce le profonde falle di questo sistema dato per i soli giusti. Il suo vizio intrinseco è che rivela troppo chiaramente la naturale disuguaglianza tra gli uomini. La gerarchia del merito riporta ciascuno a ciò che vale veramente e lascia loro la certezza della loro totale responsabilità personale in ciò che spetta a loro – e soprattutto, in ciò che non spetta a loro. È l’illusione dell’uguaglianza che questo sistema abolisce, e Young lo chiarisce:“L’ingiustizia che governava l’educazione ha permesso alle persone di mantenere le proprie illusioni e la disuguaglianza di opportunità all’inizio ha favorito il mito dell’uguaglianza degli uomini [2] . »Chi si trova in fondo alla scala non può nemmeno dire a se stesso che lì sta subendo un’ingiustizia, poiché questa posizione degradante è dovuta unicamente al suo demerito. In altre parole, criticando le gerarchie di merito, è il sogno di uguaglianza che vorremmo salvare, se non riusciamo a realizzarlo… In fondo, la gerarchia di merito sarebbe troppo giusta, nel senso che metterebbe ciascuno al suo giusto posto che diventerebbe insopportabile per quelli sottostanti. Ciò che conta qui è l’autostima. Partiamo anche dal principio piuttosto convincente che giudicare un individuo in base al solo merito intellettuale è del tutto insufficiente: tante altre qualità fanno la ricchezza dell’individuo! In altre parole, l’individuo in questione rischierà di perdere l’autostima per un giudizio non falso, ma fin troppo parziale.La tirannia del merito [3] . Le sue argomentazioni fanno eco in gran parte a quelle di Michael Young. Descrive la folle pressione esercitata sui giovani nella società del merito e la desolazione dei “morti di disperazione” (Angus Deaton). Si rammarica di questa “crudele etica del successo  ” , [4] sostenendo che nella vecchia società aristocratica, le classi superiori trattavano le classi inferiori con più rispetto di quanto non facciano oggi. Gli si potrebbe obiettare che questo rispetto dei grandi per i piccoli era dovuto solo alla morale cristiana, ed è la perdita della morale cristiana molto più che l’avvento della meritocrazia che suscita oggi il disprezzo dei grandi per i piccoli.

La meritocrazia, fondata sull’intelligenza, misurata sulla concorrenza, costituisce per l’Occidente un ritorno al modello platonico, e una subdola messa in discussione delle sue scelte originarie, perché tende a tener conto solo della razionalità. Si crede che il merito intellettuale sia sufficiente per governare. Michael Young, dispiaciuto di vedere il QI impostato come il valore supremo della qualità di un individuo, si chiedeva perché non si potesse dare valore piuttosto alla gentilezza o alla sensibilità, al coraggio, ecc. Non aveva pensato che queste qualità umane trasformate in criteri di valori avrebbero poi generato società di ordine morale, tipo Savonarola. L’unico criterio accettabile in una società che vuole essere democratica non è l’intelligenza razionale, che dà origine a epistocrazie inevitabilmente antidemocratiche, questo è buon senso elogiato da Chesterton. Cristoforo Lasch[5] ha criticato la meritocrazia, prendendo in considerazione solo l’intelligenza, per il fallimento della civiltà. Emargina, diceva, le qualità umane: manca di tutto.

 Hong Kong: il potere della Cina si è risvegliato 

La gerarchia nelle relazioni internazionali

Qualche osservazione sulle gerarchie nelle relazioni internazionali. Finché l’Occidente è stato colonizzatore, ha pensato al mondo in modo paternalistico, stabilendo gerarchie di civiltà tra sé e gli altri. Le società occidentali non erano platoniche al loro interno, piuttosto svilupparono un modello di autonomia che avrebbe portato alle democrazie moderne, ma la visione della superiorità del loro modello le portò a trattare le altre culture come bambini non ancora del tutto sviluppati (seguendo in questo la modello dell’antica Grecia che guardava i Barbari con disprezzo e paternalismo). Oggi le grandi autocrazie portatrici di un modello paternalistico/platonico, che si tratti della Russia o della Cina, stabilire a livello globale le stesse gerarchie familiari che governano l’interno delle loro società. Così come considerano bambini i loro sudditi, considerano bambini gli Stati più deboli che si impegnano a conquistare (qualunque sia il tono di questa conquista: militare, ma il più delle volte economico e culturale). Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive :“La Russia non vince, unisce. Lei procede per amore. Ama la Georgia, i paesi baltici, la Finlandia, la Polonia che sono venuti da lei come si torna alla casa di famiglia. Solzhenitsyn non capiva il desiderio di emancipazione dell’Ucraina: la Russia amava maternamente l’Ucraina; quindi perché? Perché polacchi, ucraini e altri sanno nel profondo cosa significa questo amore e lo temono ancor più del dominio assoluto. La Russia vuole convertirsi a se stessa. Come la Chiesa, vuole essere amata. Attaccarlo è considerato un sacrilegio »

Qui vediamo un modo paternalistico di comportarsi con gli stati più deboli, che imita il paternalismo gerarchico stabilito all’interno della società. Ritroviamo lo stesso atteggiamento descritto tra i russi da Besançon, leggendo le descrizioni del cinese Tianxia [7]. Nelle relazioni internazionali, la Cina si comporta in modo paterno verso i Paesi più deboli, amandoli, aiutandoli e governandoli con fermezza. I Tianxia vedono il mondo come una vasta famiglia di cui la Cina sarebbe il padre e la madre, come il governo cinese per il suo popolo. Si presume che gli stati forti abbiano delle responsabilità nei confronti degli stati deboli, e la nozione di win-win qui è feudale/paterna: “Io ti servo, tu mi proteggi. In un sistema di questo tipo, gli effetti perversi dell’autorità sono controllati dall’educazione dell’autocrate (come in tutte le autocrazie nel tempo e nello spazio – da noi anche le autocrazie delle monarchie assolute erano contenute, almeno in linea di principio, dall’educazione del il principe, mentre nelle democrazie gli effetti perversi del potere sono controllati da controlli ed equilibri). Sotto il Tianxia, ​​il mondo è una famiglia unificata da un buon leader, “che porta il cuore dei più piccoli”. Il padre deve essere buono, seguire i riti, applicare per primo i propri principi per dare l’esempio. È l’eterno modello di un buon padre. Per noi, e sempre di più, il modello platonico è suscettibile di effetti perversi troppo gravi per poterlo difendere impunemente: scommette sulla moralità del leader, e ciò ci sembra ingenuo (che la recente scandali di pedofilia, sia in famiglia che nella Chiesa, rivelano con calma). Crediamo che ovunque il potere debba essere monitorato dal basso per evitare questi effetti perversi. Questo è ciò che chiamiamo democrazia.

Le gerarchie esistono ancora, ma variano tra le società. In generale, le società olistiche stabiliscono le loro gerarchie per il bene delle comunità, secondo giustificazioni estrinseche all’individuo. Mentre le società individualiste stabiliscono gerarchie secondo la loro idea di giustizia tra gli individui, in generale sono costantemente costrette a giustificarle.

Pur mutando i criteri culturali, possiamo definire un criterio universale di giusta gerarchia? Daniel Bell e Wang Pei lo dicono nel loro libro, e io li seguo su questo punto: per i moderni che siamo, le gerarchie non devono includere la violenza, e non devono essere fissate per sempre.

[1] Tucidide, Guerra del Peloponneso , II, 37.

[2] La meritocracie mai 2033 , Futuribles, 1969, p. 155.

[3] Michel Albin, 2021.

[4] pag. 355.

[5] La rivolta delle élite , Climats, 1996.

[6] Contagions , Opere complete, Les Belles Lettres, 2018, p. 1451.

[7] Zhao Tingyang, Tianxia tutto sotto lo stesso cielo , Le Cerf, 2018.

https://www.revueconflits.com/chine-penser-les-hierarchies-dans-le-monde-moderne/

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IL COMPITO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

Qualche mese dopo l’insediamento del governo Berlusconi, la rivista
“Palomar” pubblicava un numero tematico su “La destra oggi”, con le
risposte di molti collaboratori, abituali e non.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza delle simili
“sfide” al governo Meloni

IL COMPITO PRINCIPALE

  1. Tra le molte cose che il centrodestra deve realizzare la principale – e ovviamente più difficile – è ricostruire lo Stato, intendendo per tale non solo gli apparati pubblici, ridotti per lo più, ad un insieme di burocrazie quasi sempre inefficienti e spesso rissose, ma l’ “idea” (e il concetto) di quello, che va smarrendosi anche e soprattutto per l’identificazione che, nella coscienza collettiva, se ne fa con il rovinoso spettacolo offerto dalle amministrazioni pubbliche. Dato il quale, il problema che si pone è, nello specifico, individuare quale ne sia – tra i molti – l’aspetto più importante, anche al limitato fine di non fare di questo intervento un trattato, di volume proporzionale all’entità dei disastri ereditati. Questo è, senza dubbio, la separazione che il tramonto della Repubblica ha in parte subito, ma in altra, prevalente, incentivato, tra governati e governanti e di cui fanno fede la crescente disaffezione elettorale e i referendum disertati, per citare solo gli indicatori più verificabili, e forse più importanti. Ed è evidente che tale disaffezione è stata coltivata alacremente, non solo per interesse, ma anche per mentalità, dalla sinistra. Ciò per più ragioni: il leninismo, è stato, nel XX secolo, la più compiuta e coerente espressione di una mentalità oligarchica, con un partito d’illuminati destinato a guidare le masse, inconsapevoli o poco consapevoli, alla costruzione della società senza classi; peraltro a una certa tecnocrazia di sinistra è naturale credere che la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici sia attingibile con strumenti tecnici (mentre talvolta, spesso, è così, e talaltra no: in genere più sono realmente decisivi, meno si prestano a soluzioni “tecniche”); altro errore ricorrente è ragionare in termini di potere e poteri, facendo di tutto o questioni di amministrazione (più in basso), o di governo (più in alto), quando l’importanza di questi è relativa rispetto alle categorie “essenziali” della politica, come l’autorità, la legittimità, l’integrazione: ossia quelle che fondano un potere legittimo, consentito, e proprio per questo, più facilmente obbedito. Quest’ultimo errore è stato mutuato da un liberalismo decadente, e spesso inconsapevole dei propri presupposti: in effetti ragionare di poteri, prescindendo da ciò che li fonda, equivale a vagheggiare un potere autoreferenziale, che si sostiene da sé, senza l’ausilio di principi di legittimità, teocratico o democratico che siano; e così, non sollevato dall’alto, né sostenuto dal basso, si regge come il barone di Münchausen che si afferrava il codino per non sprofondare nella palude. Ma è certo che, se quel sistema è idoneo nelle favole, nel mondo reale il tonfo è assicurato. Ed è già avvenuto il 13 maggio: l’immensa concentrazione di potere che negli anni ’96-’98 ha denotato il regime dell’Ulivo è stata prima erosa a livello locale, poi ribaltata a livello nazionale. A conferma che un potere non sostenuto dal consenso “profondo”, è “una tigre di carta” di maoista memoria: rotocalchi, RAI, quotidiani, Parlamento, Procure, enti locali e sindacati, par condicio e soprattutto la federazione di burocrazie che si riconoscono nell’Ulivo non è riuscita ad evitare il rigetto dello stesso da parte della comunità nazionale.

Il primo servizio che il centrodestra può rendere alla nazione (ed a se medesimo, avendo un consenso molto superiore alla parte avversa), è di rimettere le cose a posto, garantendo che, d’ora in poi, chi governa abbia autorità e legittimità; che la legalità non sia uno slogan e un’arma selettivamente puntata contro gli oppositori, ma concretamente, e generalmente, applicata; che i funzionari dello Stato siano dei civil servants, e non un misto tra efori spartani  e monarcomachi (ugonotti o gesuiti). Ricostruire il tessuto di uno Stato-comunità, in cui alla separazione tra governanti e governati, si sostituisca la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce; ricondurre così ad unità (e riconciliare) i termini essenziali dell’unità politica, che come scriveva Proudhon, non possono “mai né essere assorbiti l’uno dall’altro, né escludersi”[1], è il compito principale.

  1. Agli albori del costituzionalismo moderno, dello Stato liberal-democratico borghese, era sottolineato il carattere di stabilità della legge, ed ancor di più della Costituzione; ciò rispondeva non solo all’esigenza di un diritto stabile, di applicazione prevedibile e “misurabile”, ma anche all’aspirazione ad un assetto istituzionale “ideale” e perfetto, razionale nello scopo di offrire un mezzo di soluzione ad ogni contingenza storica e ad ogni conflitto. Tale elemento, necessario, tendeva a porre in ombra l’altro aspetto – e funzione – della costituzione: di essere il “principio dinamico dell’unità politica” ovvero di dover coniugare stabilità e divenire, movimento e durata, consenso e potere, esistenza ed azione politica. Questo secondo profilo è stato evidenziato e posto in luce da pensatori politici, giuristi e filosofi, in particolare dallo scorcio del XIX secolo in poi. Renan, Hauriou, Schmitt, Smend, Gentile vi hanno contribuito: dalla definizione di Renan della Nazione come “un plebiscito di tutti i giorni”, alla concezione dell’istituzione di Hauriou[2]; dalla costituzione quale “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Schmitt [3], al giudizio di Gentile: “lo Stato – malgrado il suo nome – non è nulla di statico. E’ un processo. La sua volontà è una sintesi risolutrice di ogni immediatezza” [4]; fino alla tesi di Smend [5]. Ed è a Smend che dobbiamo la più approfondita e concreta teoria dell’integrazione come momento centrale dell’unità politica e della coesione comunitaria. Scriveva Smend che: “Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale, è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario” [6], e in un altro passo sostiene che: “La comunità, il gruppo, lo Stato non devono essere intesi come un Io collettivo riposante su se stesso, ma come la struttura unitaria della vita individuale, come dialettica che realizza e trasforma dinamicamente l’essenza del singolo e dell’intero” [7], e quindi “Esso, cioè, non è un intero immobile emanante singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi, ma piuttosto esiste come tale solo in queste singole espressioni di vita, in quanto attivazioni di una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Lo Stato vive ed esiste solo in questo processo di rinnovamento costante, di rigenerazione continua del vissuto” [8]
  2. Nel tramonto della “prima Repubblica”, e soprattutto nella sua fase terminale, cioè il regime dell’Ulivo, è stato fatto proprio l’inverso: si è prodotto e ricercato non “l’unione spirituale di volontà” ma la distribuzione del potere tra le oligarchie organizzate.

Basta dare i poteri necessari alle persone morali e competenti ri-sintetizzano gli idola del centro-sinistra, e le cose andranno a posto. Ma tale ragionamento non sta in piedi: non solo perché – e ciò è la ragione minore – il problema diviene in tal caso quali sono i poteri necessari e chi sceglie le persone morali e competenti. E con ciò ci si avvicina al nodo essenziale: ovvero del chi decide su necessità, moralità e competenza. Se è il “popolo”, il “potere maggioritario” di Hauriou, consenso ed integrazione si accrescono: se invece è un qualche sinedrio partitocratico-istituzionale, la cui maggiore sollecitudine è di escludere e rovesciare le scelte popolari, con i vari mezzi noti, dai ribaltoni in giù, l’uno e l’altro si riducono. Ma, più ancora, un tale ragionamento è concettualmente errato: a costituite una comunità, un’unità politica, necessari sono il governo e i governati, e il rapporto che s’instaura tra l’uno e gli altri. Lo Stato, questo ente dalle tante definizioni, prima di essere Stato-apparato, è Stato-comunità, e prima ancora un’idea, che vive nel (e del) rapporto tra i cittadini e tra questi e i governanti. Il problema dei poteri è importante, ma secondario rispetto a quelli: se assetto e distribuzione di questi fossero decisivi, sarebbero sufficienti a garantire l’unità ed effettività del comando. La storia mostra che non è così: sono legittimità ed autorità a garantire che l’assetto dei poteri vigente sarà accettato dai “sudditi”, e non l’inverso, che sia un “buon” assetto di poteri  ad assicurare e sostenere un’autorità legittima.

Per il consenso popolare, così sottovalutato, si è pensato invece che bastassero articolesse, interviste al Tg, o nei casi più importanti, i dibattiti nei vari Sciuscià e simili. I governati, in tale visione, avevano la funzione dello spettatore distaccato, dell’osservatore che plaude o dissente, ma, per carità, senza agire; l’essenziale non era la partecipazione ma che non disturbassero i manovratori (e la manovra). Una rappresentazione del popolo molto politically correct. Un esempio chiaro e sintetico ce l’ha dato l’on. Rutelli, in occasione del referendum del 7 ottobre 2001 (sulla riforma federale della Costituzione, fatta dall’Ulivo sul piede di partenza del governo) disertato da circa due terzi del corpo elettorale a conferma della solenne indifferenza verso le “realizzazioni” del centro-sinistra. Diceva, tutto contento, il (soi-disant? ) capo dell’opposizione “Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e serietà” (Libero 9 ottobre 2001)” (il corsivo è nostro).

In altre parole il coinvolgimento dei governati è un plus, un “optional”, irrilevante; l’essenziale è osservare le forme di procedimenti legalmente validi: con ciò si pensa all’impossibile, quanto perseguita surrogazione della legalità alla legittimità. Che il problema reale  – e decisivo –   non sia quello dell’osservanza delle forme, ma del far osservare i comandi, e che questo è tanto più facile quanto più i destinatari dei medesimi lo fanno spontaneamente e generalmente; che, come scriveva Hauriou vi sia una “sovranità di sudditanza” che si esercita non solo all’intervenire ogni tanto con rivoluzioni, sommosse e così via, ma, assai più frequentemente, col non obbedire, è cosa che non rientra nella Weltanschauung – per così dire – ulivista.

La quale, di converso, dev’essere la (prima) preoccupazione del centro destra. Non che ne manchino delle altre, d’indubbia importanza: ma questa è decisiva, ed osservarla costituisce, in se, un fatto positivo e determinante, perché realmente costitutivo dell’unità politica . Certo, avere un governo stabile e in condizione di governare; un’amministrazione efficiente, fornitrice di servizi e non consumatrice di risorse; una giustizia che non sia come la rana di Galvani, generalmente nell’immobilità della morte ma, ogni tanto agitantesi per la “scossa” del “caso sociale” (o del nemico politico), è determinante per il futuro dell’Italia: ma ricostituire l’integrazione della comunità lo è di più. Senza la quale i due “estremi” necessari e indefettibili dell’unità politica, stanno o in opposizione espressa  – con pericolo grave e pressante per la comunità – o in una evidente indifferenza, foriera di decadenza, spesso lunga, ma ancor più, priva di sbocchi.

In mezzo, tra governanti e governati, si trova l’ampia gamma dei poteri “forti”, comprese le “cupole” delle varie corporazioni, la cui reazione – aperta ed espressa, o più spesso occulta e indiretta – è, ed ancor più sarà, dura, proporzionale al ridimensionamento (se non alla “detronizzazione”) di questi che una maggiore integrazione tra governanti e governati comporta. Ma è un rischio che bisogna correre. Non foss’altro perché una delle lezioni più evidenti dell’ultimo quinquennio è che, ormai, non vale più la regola dell’on. Andreotti che “il potere logora chi non ce l’ha”: all’Ulivo l’overdose di potere – pari, se non superiore a quella della DC (e alleati) negli anni cinquanta nel ’96- 2001 non ha portato (o mantenuto) un voto in più. Voto che forse avrebbero potuto ottenere, ove avessero governato meglio, il che avrebbe significato scontentare (almeno) alcune corporazioni forti: avendo preferito il consenso delle quali, non hanno guadagnato quello del corpo elettorale. E questo dev’essere di conforto – e monito – al centro destra, ad onorare il patto col popolo, anche a scapito della tregua con le corporazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] P.J. Proudhon Contradictions politiques. Théorie du mouvement constitutionnel au XX siècle. Paris 1952, p. 215.

[2] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, laddove scrive “dell’organizzazione formale dell’ordine sociale concepito come un sistema animato d’un movimento lento ed uniforme”, op. cit., p. 71 ss.

[3] Verfassungslehre, trad. it., p. 18, Milano 1983, cui si rimanda

[4] Genesi e Struttura della società, ed. Firenze 1987, p. 103

[5] “Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetto, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative. In altre parole, non trovano la loro giustificazione, come insegna – per la sua origine giuridica – la teoria dominante degli organi e delle funzioni dello Stato, soltanto nel fatto che i rappresentanti dello Stato e del popolo in quanto intero vengono insediati” ma piuttosto “esse integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme e perciò producono il presupposto del suo attivarsi in modo comprensibile sotto l’aspetto giuridico e materialmente positivo o negativo sotto quello materiale”; e prosegue “il diritto elettorale deve condurre in primo luogo alla formazione di partiti e quindi alla produzione di maggioranze, e non semplicemente di singoli deputati. Nello Stato parlamentare il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”, v. Rudolf Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 93-95.

[6] Op. cit. p. 111

[7] Op. cit. p. 272

[8] Op. cit. p. 272

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Guardare e comprendere il multipolarismo_con Gianfranco La Grassa

Costruire uno strumento interpretativo adeguato a comprendere il contesto politico e geopolitico. Un impegno che non può prescindere dai tempi dettati dalla contingenza storica. Attardarsi, però, nella riproposizione pedissequa degli schemi interpretativi che hanno orientato le vicende politiche del secolo scorso porta sicuramente a posizioni fuorvianti e conclusioni sempre più paradossali. Ne parlo con Gianfranco La Grassa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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