Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, Liberilibri 2023, pp. 88, € 16,00.

Sarebbero necessari tanti saggi come questo per risvegliare il senso comune da quel “sonno mediatico” che occulta pratiche, mezzi ed espedienti di sfruttamento dei governati (alias sudditi) del nostro tempo, soprattutto di quelli della Repubblica italiana. L’argomento può essere affrontato da più angoli visuali: Lottieri lo considera soprattutto da quello filosofico. Così l’autore considera il neopositivismo di Kelsen, per cui il diritto è “ricondotto alla mera validità formale”, ed è un sistema normativo organizzato secondo una gerarchia di precetti, fino a quello fondamentale. Questa «gerarchia ben precisa colloca obblighi e sanzioni ben al di sopra dei cosiddetti “diritti”. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda» (il corsivo è mio). Ciò era stato stigmatizzato già circa un secolo orsono da Carré de Malberg, secondo il quale la gerarchia di norme del giurista austriaco non era altro che la conseguenza della gerarchia tra organi dello Stato: la conformità dell’atto amministrativo alla legge era il riflesso della superiorità del Parlamento sul governo e l’amministrazione (e così via).

In particolare la proprietà è stata svuotata di contenuto attraverso una disciplina che sottraeva o limitava facoltà a favore dei poteri pubblici (quello che Rodotà, lato sensu, chiamava il “controllo sociale delle attività private).

Per cui sempre il giurista calabrese riteneva la proprietà un diritto sotto riserva di legge, ma del quale il legislatore poteva plasmare ad libitum il contenuto. I tedeschi, che avevano già assistito ad un dibattito simile relativamente al diritto di proprietà come regolato dalla Costituzione di Weimar, quando si dettero la Grundgesetz, tuttora vigente, si affrettarono per evitare simili concezioni, a disporre (all’art. 19) che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto sostanziale”; oltre a vietare su tali diritti, di legiferare con leggi di carattere non-generale.

In realtà, sostiene Lottieri “esiste un’inimicizia originaria tra il potere e il diritto, e quindi anche tra il potere e la proprietà”, in ispecie da quando l’ “ordine giuridico è stato ricondotto alle decisioni arbitrarie del legislatore”, onde “L’arbitrio anarchico del decisore politico stabilisce chi deve avere cosa, ma questo è reso possibile da una sorta di ipoteca collettivistica: dall’idea che ci sia un gruppo di potere titolato a disporre di ogni bene e che può attribuirlo a sua discrezione”. Lo Stato è il più grande distributore dei diritti (e delle risorse correlative). Peraltro nella cultura progressista e nel suo “Stato di diritto”; “è stato allora delineato, grazie alla teorizzazione dello Stato di diritto democratico e sociale, un super-costituzionalismo in ragione del quale alla tripartizione puramente istituzionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario si affiancherebbe una tripartizione ben più rilevante, la quale rinvia al contrapporsi dei tre “poteri” (politico, culturale ed economico). In questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero”. Onde funzione dello Stato sarebbe di contrastare i relativi (e così denominati) abusi. Ma “L’esito di tutto ciò è un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico: del controllo che il ceto governante esercita sul resto della società, sempre più espropriata dai governanti e dai loro complici”.

Il che non ha affatto impedito che dei poteri pubblici si servissero anche i grandi poteri privati, realizzando così un mélange pubblico-privato, d’altra parte spesso ripropostosi (storicamente) in gran parte delle comunità. Anche l’occidente, e non solo Putin (e Xi) ha i propri oligarchi. D’altronde, quanto alla dimensione temporale questo era già stigmatizzato da Pareto nella forma della “plutocrazia demagogica” molto simile all’attuale apparato economico-mediatico di controllo. Anche oggi, i poteri forti “hanno reso possibile un nuovo dirigismo, in cui la grande impresa lavora di concerto con i politici e gli intellettuali. Non c’è dunque da stupirsi se ora, un po’ tutti, stanno passando all’incasso”.

Da ultimo, per favorire il controllo sui governati si è inventato anche degli stati di emergenza gonfiati, l’ultimo dei quali pressoché inesistente (quanto alla causa indicata). È quello del riscaldamento ambientale, contestato da tanti scienziati e contraddetto dall’andamento ciclico delle temperature (da millenni, assai prima dell’uso dei combustibili, dei motori e delle caldaie moderne).

Nel complesso un saggio assai interessante, che ne fa auspicare un altro: come nell’Italia della Repubblica sia stato conculcato legislativamente il diritto di proprietà e quanto ci sia costato. Speriamo che Lottieri sia disponibile a scriverlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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LA STRATIFICAZIONE SOCIALE. UNA RIFLESSIONE, di Luigi Longo

LA STRATIFICAZIONE SOCIALE. UNA RIFLESSIONE

di Luigi Longo

La seguente riflessione scaturisce dall’ultima parte dell’intervista di Giuseppe Germinario a Gianfranco La Grassa, apparsa sul sito di Italiaeilmondo il 16 novembre 2023 con il titolo Il primato del politico, nella quale intervista si accenna alla questione della stratificazione del ceto medio.

La mia riflessione riguarda la questione dell’articolazione sociale della popolazione a partire dal cosiddetto ceto medio.

La stratificazione sociale di una nazione va vista all’interno dei rapporti sociali storicamente dati (che determinano la pienezza o la mancanza della vita vissuta), dove gli agenti strategici dominanti (gli strateghi, i gestori e gli esecutori) decidono il modello di sviluppo da realizzare nel breve-medio-lungo periodo.

Le stratificazioni sociali, all’interno delle grandi trasformazioni scientifiche e tecnologiche, sono sempre state nel passato storicamente determinato un miglioramento relativo per la maggior parte della popolazione (ad andamento aporetico cioè né lineare né deterministico) perché al centro del modello sociale dominante c’era, comunque, un essere umano sessuato all’interno del ciclo di madre natura, anche se questa era stupidamente e razionalmente aggredita (stupidità nelle relazioni sociali e territoriali, razionalità strumentale ai fini economici).

L’attuale processo di stratificazione sociale, nella fase iniziale della transizione ecologica, della digitalizzazione, della robotizzazione, dell’intelligenza artificiale (la rivoluzione elettronica per dirla con il grande storico Carlo Maria Cipolla), non considera più l’essere umano sessuato ma, l’essere umano inutile, amorfo, usa e getta, con intelligenza biologica e non individuale e sociale. In sintesi il regno animale da eliminare senza preoccupazione di nessuna natura: e qui sta il salto d’epoca. Siamo tornati alla preistoria con l’aggravante che stiamo uscendo dalla storia di madre natura che, come ci ricorda Karl Marx, non ha senso contrapporre alla storia umana << […] come se fossero due “cose” separate e l’uomo non avesse sempre di fronte a sé una natura storica e una storia naturale […]>> (L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1977, pag.16).

L’essere umano sessuato è ridotto ad una illusione di comunità, ad un non senso del vivere sociale, ad una individualità staccata dalla sua costruzione sociale; ma una comunità nella realtà deve esistere altrimenti saremmo alla fine della vita sociale umana e, quindi, del senso dell’esistenza stessa. E’ nel suo essere comunità pensante e tesa al benessere sociale che la comunità sta morendo. Bisogna recuperare il senso e la qualità della vita: << L’umano in quello che è oggettivamente fin dal suo cominciamento è due, due differenti […] Per compiere il destino dell’umanità, l’umano-uomo e l’umano-donna devono compiere ciascuno ciò che sono e nel contempo realizzare l’unità che costituiscono. L’unità che formano, fino dall’origine, in quanto specie umana è evidentemente solo una realtà prima a partire dalla quale iniziare il divenire umano. Ciò che sarà l’unità ultima, non possiamo anticiparlo: dipenderà dalla cultura del suo essere per ciascuno e dalla cultura della relazione fra i due. Questo termine non può fissarsi in un solo ente e sfugge alla rappresentazione. Far dipendere il divenire dell’unità duale della specie umana da un solo ente/essere significa negare la differenza costitutiva di quest’unità. […] La differenza tra uomo e donna esiste già, e non può essere equiparata a una creazione del nostro intelletto. Ci importa pensarla e coltivarla, certo, ma a partire da ciò che esiste. >> (Luce Irigaray, La via dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 73-74).

E’ evidente che parlare di stratificazione sociale diventa difficile soprattutto nella fase iniziale della rivoluzione elettronica e del multicentrismo, ma è possibile solo a condizione di indagare la configurazione degli esigui strati che si formeranno nelle sfere della vita sociale (produzione e riproduzione della vita completa), cioè nel nuovo modello sociale di intendere le relazioni e il senso dell’esistenza stessa; una indagine che trova terreno fertile nel campo teorico del costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa (Un nuovo percorso teorico, edizioni Solfanelli, Chieti, 2023), che supera l’errore di Karl Marx (grande merito dei lavori di Gianfranco La Grassa e di Costanzo Preve), cioè quello di privilegiare la sfera economica sia pure dentro i rapporti sociali e pensare un cambiamento a partire << […] dalla classe operaia, salariata e proletaria, vista come l’avanguardia politica organizzabile del lavoro collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleata con le potenze intellettuali sprigionate dalla grande produzione industriale, definita da Marx con l’espressione inglese General Intellect >> (Costanzo Preve, Politically correct: elementi di politicamente corretto. Studio preliminare su un fenomeno ideologico sempre più invasivo, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2020, pag. 28).

A differenza di altri passaggi d’epoca, l’attuale fase della suddetta transizione comporterà una riduzione quantitativa dei gruppi capaci di eventuale trasformazione (in questo senso è da riconsiderare la storia del luddismo del 19° secolo). Avremo, da una parte, una massa di lavoratori sempre più poveri e una massa di individui senza tutela sociale che non sono più in grado di pensare il benessere sociale e, dall’altra, una ristretta cerchia di strati nuovi di lavoratori che potrebbero accendere la scintilla di un cambiamento (che sarà difficile, considerate le condizioni oggettive del citato balzo storico che limiterebbero molto le doglie del parto di una civiltà nuova) per costruire una società di benessere. Pertanto, in questa fase, occorrerebbe una nuova forza/organizzazione sessuata che spazzi via la serva Unione Europea, pensi ad un’altra Europa, espressione di nazioni libere, autonome e solidali, lotti contro il modello egemonico degli Stati Uniti d’America (che arrogantemente si considerano << l’unico popolo indispensabile nel mondo >> che sono per una egemonia assoluta e fanno fatica a capire che sono diventati una potenza privilegiata ma non più dominante, non più centro dell’Impero del mondo) e guardi ad Oriente, un luogo capitalistico, le cui potenze consolidate (Cina e Russia) e in via di consolidamento (India), i centri del costruendo polo asiatico, sono per un mondo multicentrico. La speranza è quella che si affermi la fase multicentrica e all’interno del consolidamento di questa fase sia possibile ripensare un nuovo modello di sviluppo altro della società, storicamente determinata, portato avanti dagli agenti strategici di questa nuova forza/organizzazione espressione della maggioranza della popolazione, con le sue articolazioni sociali, capace di un progetto-processo reale dove l’essere umano << […] abbia valore per quello che crea spiritualmente e storicamente di universale in senso etico, e non solo per quello che consuma, produce e guadagna. Perciò si tratta di un universalismo pluralistico opposto a quello monistico, teorizzato dagli attuali fautori della globalizzazione economica >>. (Carlo Gambescia, Introduzione in Costanzo Preve, Hegel antiutilitarista, Settimo Sigillo, Roma, 2007, pag.9).

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Armarsi contro il futuro, di AURELIEN

Armarsi contro il futuro.

With a few more books and a few old ideas.

Questi saggi saranno sempre gratuiti e potrete sostenere il mio lavoro mettendo un like, commentando e, soprattutto, trasmettendo i saggi ad altri e ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno già contribuito.

Grazie anche a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui.Marco Zeloni sta anche pubblicando alcune traduzioni italiane. Philippe Lerch sta gentilmente traducendo un altro dei miei saggi in francese.

Poiché questa settimana sto viaggiando molto, e poiché mi sono imbattuto nella lista di libri che avevo scarabocchiato ma che ho letto solo a metà per il mio saggio di un paio di settimane fa, ho pensato di riprendere più o meno da dove si era interrotto quel saggio, e di provare a parlare di altri libri che ho trovato utili per cercare di capire il mondo.

Questa volta, però, l’approccio sarà piuttosto diverso, in quanto mi occuperò del mondo così com’è oggi, indipendentemente dalla sua origine, e anche di dove sta andando, e di cosa possiamo fare al riguardo. Ancora una volta, non offrirò solo un elenco di libri, ma piuttosto una serie di riflessioni supportate da riferimenti a libri che ho trovato utili. Ancora una volta, inoltre, parlerò solo di libri che ho effettivamente letto.

Possiamo partire da un punto semplice, ma in realtà piuttosto profondo e preoccupante: nella maggior parte delle società occidentali oggi c’è un divario enorme e crescente tra ciò che i governi e i media dicono sul mondo, sulla società e sull’economia e il modo in cui noi sperimentiamo queste cose nella vita reale. Dico “noi”, perché anche i vertici della Casta Professionale e Manageriale. (PMC), o del Partito Interno, come sono arrivato a chiamarli, sono in qualche misura consapevoli della realtà del mondo: semplicemente non gli interessa, e in ogni caso la società fantasma evocata dai discorsi, dai documenti e dai resoconti dei media della PMC e dei suoi tirapiedi gli va benissimo.

Credo che questa sia una situazione senza precedenti nella storia occidentale. Il cittadino medio viene ripetutamente informato e invitato a credere a cose che sa benissimo non essere vere e che vengono debitamente smentite dallo svolgersi degli eventi, ma che poi vengono continuamente ripetute, come se fossero vere. Ora, alcuni che hanno vissuto il periodo del comunismo durante la Guerra Fredda hanno detto più o meno la stessa cosa, ma credo che ci sia un’importante differenza. Quelle società si sono effettivamente impegnate per migliorare gli standard di vita della gente comune e per fornire un’istruzione e un’assistenza sanitaria decenti, pur gestendo in tempo di pace quella che era un’economia di guerra permanente. E i cittadini di quei Paesi erano sufficientemente maturi per capire che venivano sistematicamente ingannati, mentre noi non lo siamo. Dopo tutto, fino agli anni ’80, i governi occidentali sono stati nel complesso efficienti ed efficaci e, soprattutto nei trent’anni successivi al 1945, hanno supervisionato un aumento senza precedenti della salute, della sicurezza e dell’istruzione della gente comune. Come una rana bollita lentamente nella famosa pentola, le nostre società oggi hanno difficoltà a capire che le istituzioni del passato sono state svendute o castrate, i sistemi politici sono stati totalmente corrotti e l’economia è solo un modo per il Partito Interno di derubare il popolo. Le rivoluzioni lente e silenziose sono sempre le più efficaci e durature.

La storia vera e propria di questo periodo è stata ampiamente scritta (Rise and Fall of the British Nation di David Edgerton ne è un buon esempio, anche se dissidente), ma per molti versi dobbiamo guardare oltre gli storici, ai sociologi, ai filosofi e ai critici culturali se vogliamo capire davvero cosa è successo. Ciò che è accaduto è stata la sostituzione totale del reale con il virtuale. La capacità di produrre cose è stata sostituita dalla capacità di importarle. La fondazione di aziende è stata sostituita dalla compravendita di aziende, la riduzione della disoccupazione è stata sostituita dalla riduzione dei dati sulla disoccupazione, ora calcolati in modo diverso. Il denaro è stato sostituito dal credito, e poi dai derivati del credito. I prezzi delle azioni non riflettevano altro che il prezzo a cui potevano essere vendute al prossimo idiota. Il calcio si giocava davanti a uno schermo anziché su un campo. La competenza e la conoscenza sono state sostituite da credenziali cartacee, nello spirito del Mago di Oz, e una società più (apparentemente) istruita è stata ottenuta rendendo più facili i programmi e gli esami. In verità, quando Marx ed Engels sostenevano che gli effetti dirompenti e distruttivi della società capitalista significavano che “tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria”, non potevano avere idea di dove il processo avrebbe portato.

E a differenza della situazione del 1848, oggi i governi hanno una notevole capacità di insistere, attraverso le proprie dichiarazioni e i media, sul fatto che l’irreale è reale e il reale è irreale, e che non ci si può fidare di ciò che vediamo con i nostri occhi. Un tempo la conoscenza era forse potere, come sosteneva Francis Bacon, ma oggi il potere è conoscenza, come ha sostenuto in seguito Michel Foucault, nel senso che se si ha il potere, la conoscenza è, per scopi pratici, qualsiasi cosa si voglia che sia. Se questo suona familiare, è essenzialmente la progenie non riconosciuta dell’insieme di atteggiamenti incoerenti emersi sulla costa occidentale degli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. Attingendo a tutto, da Wilhelm Reich a Gurdjieff, da Maharishi Mahesh Yogi, famoso per i Beatles, ad Aleister Crowley, e sotto l’influenza di quantità sbalorditive di LSD e altre sostanze, la generazione che ha poi creato la Silicon Valley, i leveraged buy-out e molti altri simboli del nostro mondo moderno e dislocato, è emersa da un decennio scarsamente ricordato con l’idea che nulla fosse davvero, come dire, reale, amico, e che la realtà fosse davvero qualsiasi cosa tu volessi che fosse. (Un processo le cui origini sono ben documentate nel sobrio trattato di Gary Lachmann sul lato oscuro degli anni Sessanta, Turn Off Your Mind).

Le critiche alla superficialità della società capitalista non sono certo nuove. Se si riesce a superare con fatica L’uomo a una dimensione di Marcuse, vi si nascondono alcune idee utili. Allo stesso modo, se si riesce a sopportare l’infinita retorica ingannevole di La società dello spettacolo di Guy Debord, molto di ciò che ha da dire è ancora più rilevante oggi di allora. L’idea che la realtà sia, alla fine, un costrutto sociale è stata a lungo una preoccupazione di filosofi come John Searle e sociologi come Peter Berger. Ma anche i più feroci critici dello “spettacolo” non hanno mai sostenuto che il mondo visibile non sia altro che uno spettacolo. Ma Orwell ci ha azzeccato, ovviamente. In 1984, Winston Smith si rende conto che non può essere sicuro che la guerra che coinvolge l’Eurasia e l’Estasia abbia effettivamente luogo. Come sa personalmente, i fatti e le statistiche possono essere semplicemente inventati, le persone che non sono mai esistite possono nascere e quelle che sono esistite possono scomparire. Come spesso accade con Orwell, ciò che in origine era inteso come satira sembra molto più un’intelligente anticipazione del futuro. L’argomentazione di Jean Baudrillard secondo cui la Guerra del Golfo del 1990 non ha mai avuto luogo è semplicemente un’estensione logica del punto di vista di Orwell. (Molti anni fa, ho avuto problemi in un seminario per un articolo in cui sostenevo che l’Africa, in realtà, non esisteva. O meglio, a meno che non si fosse stati lì, era impossibile saperlo, dato che tutte le fonti disponibili erano occidentali. La relazione non fu accolta bene). È in questo contesto, forse, che l’idea che potremmo vivere in una simulazione (discussa seriamente dal filosofo Nick Bostom e, da allora, in modo frivolo da un gran numero di persone) assume tutto il suo significato. Naturalmente, dipende da chi è la simulazione.

Il problema è che Crowley credeva che, attraverso incantesimi e rituali, fosse possibile cambiare la natura della realtà, e molte persone lo seguirono, in genere nel modo più casuale e irriflessivo. Ma al di fuori dei mondi di Thelema e di Wican, e una volta che si era cresciuti con la musica heavy rock satanica (e c’era molto di quella), la realtà aveva comunque un modo di imporsi. I pensatori magici (riflettete un attimo su questa frase) della PMC possono controllare in larga misura il discorso, possono costringere altre persone ad agire come se ciò che il discorso dice fosse effettivamente vero, ma non possono cambiare veramente la natura della realtà. Questo è particolarmente il caso dell’economia, e a questo proposito sono grato di aver studiato economia ai tempi in cui gli economisti erano considerati un po’ come gli ingegneri: persone pratiche che lavoravano entro i limiti di ciò che era effettivamente possibile. Ora, naturalmente, l’economia è diventata essa stessa un tipo di magia, con tanto di incantesimi, rituali e alfabeti magici. (Del resto, il rapporto tra magia e matematica è sempre stato stretto). Ne sono stato colpito non molto tempo fa, quando sono arrivato leggermente in anticipo per una lezione che dovevo tenere e ho visto il mio predecessore, che insegnava, credo, teoria del commercio internazionale, cercare di spiegare a uno studente che il risultato di un’equazione che aveva scritto doveva essere corretto, anche se la risposta non corrispondeva al mondo reale, perché l’equazione stessa era formulata correttamente.

Viviamo quindi in un mondo essenzialmente ritualizzato, in cui si afferma che certe pratiche magiche abituali hanno determinati risultati definiti, a prescindere da qualsiasi prova concreta che li dimostri. Molti di questi risultati presunti sono intrinsecamente basati sulla fede, nel senso che sono comunque incapaci di essere provati. Pertanto, affermare che “l’immigrazione giova all’economia” (o il contrario) è chiaramente un’affermazione di fede, perché gli effetti economici reali dell’immigrazione sono così vari e dipendenti dal contesto che è impossibile formulare giudizi di massima su di essi. Tuttavia, per scopi pratici, i giudizi sull’immigrazione, sul commercio incontrollato, sui tassi di tassazione e così via, possono essere imposti alle popolazioni come se fossero semplici verità, e le loro conseguenze pratiche possono essere previste con sicurezza (anche se erroneamente) in anticipo. Se la realtà non si comporta in questo modo, evidentemente il rituale è stato condotto in modo sbagliato.

Ne consegue che non ha molto senso discutere con gli economisti, perché si ritirano in un borbottio. Detto questo, ci sono alcuni economisti dissidenti che hanno scritto libri che almeno mostrano la dimensione e la natura del divario tra il mondo reale e ciò che i grimori dell’economia moderna effettivamente dicono. Ho già citato Ha-Joon Chang, ma aggiungerei il suo Twenty-three Things They Don’t Tell You About Capitalism a qualsiasi lista di autoformazione. I libri di Steve Keen, in particolare The New Economics e Debunking Economics, non solo sono molto validi, ma sono anche interessanti per questo argomento, perché trattano esplicitamente l’economia neoclassica come una dottrina religiosa che non riesce a spiegare il mondo reale. E i libri di William Mitchell (per non parlare della sua straordinaria produzione di post e articoli sul blog) saltano su e giù con entusiasmo sui pezzi di ciò che è rimasto. Nessuna di queste opere ha avuto un’influenza apprezzabile sulla pratica economica reale o sul pensiero degli economisti tradizionali, perché al giorno d’oggi gli economisti devono giurare e firmare un accordo di non divulgazione con Satana nel sangue prima di poter lavorare, ma almeno vi aiuteranno a capire l’incredibile divario tra come è il mondo e come lo vedono gli economisti.

E questo è il problema fondamentale del mondo di oggi: siamo governati da fanatici ideologici incompetenti, con una visione del mondo ereditata che è fondamentalmente egoistica e magica. Quel che è peggio, è che sono abbastanza competenti nel conquistare e mantenere il potere all’interno del Partito, e per la maggior parte non sono realmente consapevoli di essere fanatici ideologici. Ma per un classico colpo di ironia, le loro stesse politiche, da trenta o quarant’anni a questa parte, hanno avuto l’effetto di distruggere proprio le istituzioni e le capacità di cui hanno bisogno per mettere in atto le loro politiche (così come sono). Di conseguenza, vivono sempre più in un mondo di fantasia collettiva, dove le cose accadranno se la volontà è abbastanza forte, anche in assenza dei mezzi pragmatici che sono effettivamente necessari per realizzarle. Dopo tutto, l’idea che le sanzioni avrebbero fatto crollare l’economia russa e portato a un cambio di governo, o la successiva idea che le armi e l’addestramento occidentali avrebbero in qualche modo permesso alle forze armate ucraine di sfondare le linee russe, sono il risultato di un pensiero che può essere descritto solo come magico nel senso pieno del termine: cioè, l’uso di rituali per ottenere effettivi cambiamenti nella realtà. Le sanzioni erano in effetti riti magici, che non dipendevano dalle condizioni e dai requisiti del mondo reale per essere efficaci. (Inutile dire che attaccare qualcuno su Twitter è l’equivalente simbolico moderno di lanciare una maledizione). Ma queste persone sono i discendenti degli hippy che hanno cercato di far levitare il Pentagono nel 1967, cantando “fuori! fuori i demoni!”.

Ecco perché ho sempre sostenuto che le spiegazioni puramente materialiste della politica internazionale al giorno d’oggi mancano fondamentalmente il punto. È vero che, se ci si sforza abbastanza, si può costruire qualche ipotesi vagamente coerente per spiegare l’assurdo comportamento delle potenze occidentali sul tema delle sanzioni economiche contro la Russia, nonostante il danno che stanno facendo alle loro stesse economie. Ma questo vale praticamente per qualsiasi insieme di fatti. Come ha scritto giustamente il professor RV Jones, uno dei più brillanti consiglieri scientifici di Churchill: “Non può esistere alcun insieme di osservazioni reciprocamente incoerenti per le quali un intelletto umano non possa concepire una spiegazione coerente, per quanto complicata”. E notate che Jones non dice “esiste”, ma “può esistere”: in altre parole, descrive una legge scientifica, e credo che abbia ragione.

Dobbiamo quindi accettare che le critiche puramente materialiste alla nostra attuale situazione economica e politica non saranno molto utili. Certo, ci saranno sempre persone avide e anche persone ambiziose e spietate, ma le vere motivazioni sono più profonde e chi le possiede non necessariamente comprende appieno ciò che sta facendo. Né le critiche morali e i sermoni hanno molto valore, purtroppo, perché gli avidi e i potenti razionalizzano la loro avidità e il loro desiderio di potere nel modo in cui hanno sempre fatto. Se manifestare per le strade e scandire slogan (un altro tipo di magia) potesse cambiare il mondo, vivremmo in un’utopia.

Sono tentato di dire, quindi, che il modo migliore per capire la follia del PMC oggi è leggere un classico come La varietà dell’esperienza religiosa di William James, o uno dei resoconti su come i nostri antenati vedevano il mondo che ho citato la volta scorsa. Le lotte per il potere in un ambiente ideologicamente carico all’interno di un gruppo potente ma diviso sono state trattate in tutti i modi, da Il nome della rosa di Umberto Eco a, beh, forse il primo volume della vita di Stalin di Stephen Kotkin.

Ne consegue che non ha molto senso adottare un approccio da scienza politica a ciò che sta accadendo oggi, né tantomeno un approccio che presupponga l’esistenza di attori razionali, almeno nel senso in cui gli osservatori esterni li vedrebbero come tali. Per esempio, se vogliamo capire la violenza seriale delle potenze occidentali contro altre negli ultimi trent’anni, un buon punto di partenza è il comportamento dei criminali violenti. Lo psichiatra americano James Gilligan ha studiato per anni i criminali violenti nelle carceri, scoprendo con sorpresa che pochi di loro provavano rimorso per ciò che avevano fatto. Come ha spiegato in diversi libri, la maggior parte di loro giustificava il proprio comportamento con la necessità di mantenere il rispetto per se stessi e di liberarsi dal sentimento di vergogna, anche se avevano subito gravi danni. E questo è molto simile alle motivazioni alla base di alcuni conflitti africani di cui ho scritto nell’ultimo saggio. Non è difficile estendere questo tipo di analisi al comportamento dei governi occidentali di oggi, preoccupati per le minacce al loro status e al loro amor proprio, e che si comportano più o meno come farebbero i leader delle bande in tali circostanze, anche se, come nel caso dell’Ucraina, le conseguenze sono negative anche per loro.

Dovremmo quindi cercare di comprendere ciò che sta accadendo in termini di simbolismo e mito, più che altro. Ho già commentato in precedenza la natura escatologica dell’antipatia dell’Occidente nei confronti della Russia, ma questa è solo una parte. Paradossalmente, infatti, al suo interno si applica la logica opposta. Ricorderete che in 1984 O’Brien dice a Winston Smith che il partito ha il controllo del tempo e della realtà: non c’è un passato indipendente e la realtà è quella che il partito dice di essere. Possiamo individuare delle risonanze contemporanee nella costante sminuizione del passato da parte del Partito e nella riscrittura di quel poco di storia che è permesso ricordare per essere completamente negativa, così come nella progressiva messa al bando o nella pesante riscrittura di tutte le grandi opere della letteratura inglese. Ma il punto più importante è la deliberata inculcazione di un senso di disperazione nella popolazione in generale e nel Partito Esterno. Nulla migliorerà mai, tutto peggiorerà, il potere del Partito aumenterà costantemente, uno stivale si imprimerà per sempre sul volto umano. Non ha senso lottare e nemmeno protestare. Non c’è alternativa: anzi, non c’è nemmeno la possibilità di pensare ad alternative (un punto che il compianto critico culturale Mark Fisher ha sottolineato a proposito della nostra società in Realismo capitalista).

E se c’è qualcosa che distingue davvero la nostra società da altre epoche, probabilmente è proprio questo. Non guardiamo più al futuro, come facevamo quando ero bambino: non guardiamo nemmeno più con nostalgia al passato, perché quel passato viene smantellato, degradato e riscritto sotto i nostri occhi. L’autore più influente in questa linea di pensiero è Franco Berardi, il cui Dopo il futuro stabilisce molto chiaramente la distinzione tra il “futuro” che è solo l’anno prossimo e quello successivo, e l’immagine positiva del “futuro” come un tempo in cui le cose potrebbero essere migliori, o almeno diverse. (È interessante che la sua opera successiva, La seconda venuta, giochi con il simbolismo dell’Apocalisse). Allo stesso modo, Derrida ha coniato il termine hantologie (il gioco di parole con “ontologia” funziona meglio in francese che con l’inglese “hauntology”) per descrivere il modo in cui il presente è “perseguitato” dal passato. Soprattutto nelle arti, sembra che il nuovo lavoro consista semplicemente in frammenti del passato riciclati all’infinito (un punto di vista che chi di noi pensa che la musica popolare non abbia avuto un’idea originale in trent’anni sarà subito d’accordo). L’idea è stata ripresa con forza e verve da Mark Fisher, nel suo libro di saggi Ghosts of My Life.

Ne consegue che i nostri nemici sono tanto simbolici quanto materiali. Queste idee magiche sono sostenute da persone che hanno accesso al denaro e alla violenza, ma sconfiggere un partito, un movimento o persino un’intera casta non servirà a nulla, a meno che le idee stesse non possano essere in qualche modo sconfitte. Il problema è che è difficile, se non impossibile, lottare contro le idee: si può solo lottare contro chi le detiene o le esprime. Il motivo per cui i cambiamenti politici non portano necessariamente a cambiamenti politici non è che qualche gruppo di potere ereditario stia tirando tutti i fili, ma piuttosto che l’offerta e la varietà di idee in ogni momento è limitata. La storia suggerisce che le idee dominanti – i discorsi, se preferite – cambiano solo in condizioni straordinarie, come la guerra e la rivoluzione. Il problema che abbiamo oggi, come ho sottolineato più volte, è che non esiste uno schema coerente di idee che aspettano solo di essere attuate, né le strutture e le competenze per attuarle, anche se potessero essere identificate. Quindi il nuovo capo può sembrare superficialmente diverso dal vecchio capo, ma penserà e agirà allo stesso modo.

Se quest’analisi è corretta, temo che dovremo pianificare un atterraggio di fortuna, con due conseguenze altrettanto cupe. La prima è che dobbiamo accettare che l’attuale sistema politico occidentale è irrimediabilmente rotto e incapace di riformarsi. Naturalmente è possibile immaginare cambiamenti – pacifici o violenti – così come è possibile immaginare politiche economiche e sociali più sensate e coerenti, che non dipendano da qualche rituale magico per essere efficaci. Ma la maggior parte delle persone riconosce che nella pratica questo non accadrà. Quindi, brutalmente, mentre sono già disponibili un gran numero di libri su come affrontare il riscaldamento globale, in pratica sappiamo che non verrà fatto nulla di importante.

La seconda è che dobbiamo quindi fare affidamento sulle nostre risorse e su quelle delle persone di cui ci fidiamo, sia per la sopravvivenza pratica che per quella morale. Non sono qualificato per parlare del primo punto, avendo vissuto in città per tutta la vita e non essendo in grado di riparare l’oggetto più semplice o di distinguere un’estremità di una patata dall’altra. Ma mi sento un po’ più sicuro nel parlare di libri e modi di pensare che possono aiutarci a sopravvivere psichicamente, dato che è un argomento che mi interessa da diversi anni.

Prima di tutto, però, è necessario risolvere una questione preliminare. Spesso si suggerisce che prendersi cura della propria salute mentale e psichica sia, nel migliore dei casi, irrilevante e, nel peggiore, una pericolosa distrazione che ci impedisce di uscire allo scoperto e di assaltare le barricate per cambiare la società. È persino un po’ egoista. Credo che questo argomento sia del tutto sbagliato, anche perché in realtà, come tutti sappiamo, le barricate non verranno prese d’assalto. L’idea che prendersi cura della propria salute mentale e psichica sia una sorta di debolezza, o addirittura un tradimento in queste circostanze, è del tutto fuorviante.

Tanto per cominciare, l’idea contraria – che sia necessaria una popolazione abbastanza infelice e disperata da rivoltarsi spontaneamente – è piuttosto irrealistica in termini storici. Le rivoluzioni non si fanno in questo modo, e le insurrezioni che avvengono in questo modo non durano, e in genere vengono prese in mano da forze potenti che sanno cosa vogliono. La disperazione e l’infelicità non hanno alcun valore nella lotta per una società migliore, o almeno per preservare ciò che può essere salvato, e sono le ultime cose che dovremmo incoraggiare.

Ora, sembra essere una regola della nostra società che se qualcosa può essere abusato, banalizzato e commercializzato lo sarà. Così le avide multinazionali hanno incorporato pratiche come lo yoga e la mindfulness nei loro sistemi di gestione, ma ciò non dimostra che queste pratiche siano sbagliate più di quanto l’offerta di una mensa screditi l’idea di mangiare a mezzogiorno. Allo stesso modo, un’enorme percentuale di libri su argomenti che si definiscono “sviluppo personale” o simili, sono semplice spazzatura e non vale la pena aprirli, anche quando (anzi, soprattutto quando) affermano di dispensare antica saggezza: un punto su cui tornerò tra poco.

Tolto tutto questo, quindi, possiamo iniziare con i libri che aiutano a resistere e a lottare contro il sistema in cui ci si trova. Questo sistema può essere un’organizzazione, e qui dobbiamo accettare il fatto che le organizzazioni al giorno d’oggi non solo sono sempre più disfunzionali, ma in molti casi sembrano odiare attivamente le persone che lavorano per loro e cercano di distruggerle. Ma anche se non lavorate in un’organizzazione, vi accorgerete che la vostra vita privata e professionale può diventare a volte opprimente, senza alcuna colpa. Cosa potete fare per preservare la vostra sanità mentale?

Esistono ormai librerie di libri sulla produttività, e anche in questo caso c’è un problema ideologico, perché spesso si ritiene che essere più produttivi significhi spremere volontariamente di più dalla propria giornata per compiacere il datore di lavoro. E in effetti ci sono alcuni libri che danno questa impressione, del tipo “Come fare carriera nella tua azienda”. Non è di questo che mi occupo in questa sede: piuttosto, mi interessano le metodologie per resistere e lottare contro lo stress che le organizzazioni (e la vita, se è per questo) vi impongono. Ce ne sono due che ho trovato particolarmente utili.

Uno è il classico Getting Things Done di David Allen, apparso per la prima volta un quarto di secolo fa, nell’era pre-smartphone. Allen, che non a caso è cintura nera di Aikido, si concentra sull’idea della “mente come l’acqua”, la gestione senza sforzo della propria vita perché tutto è stato preso in carico da un sistema di cui ci si fida. Egli sostiene che è possibile avere un numero spropositato di cose da fare nella vita professionale e privata, e tuttavia essere rilassati e produttivi, evitando lo stress. In linea di massima, il sistema è molto semplice: scrivete o memorizzate in altro modo tutto ciò che deve essere fatto, organizzate per categoria e data, create dei progetti con delle tappe e fate le cose quando devono essere fatte. Se dovete partire per un viaggio di lavoro o ridipingere la stanza degli ospiti, potete ridurre il tutto a una serie di compiti da svolgere entro determinate date. Una volta stabilito il sistema, ci si può rilassare, perché si sa che ogni cosa è stata messa in conto e si viene avvisati quando si deve fare qualcosa. Funziona, anche se richiede autodisciplina, un’abilità che non è di moda al giorno d’oggi, ma che vale comunque la pena di coltivare.

Il secondo esempio è il lavoro di Cal Newport, in particolare il suo libro Deep Work. Newport si vanta di avere un lavoro di insegnante a tempo pieno, di scrivere libri, di condurre un podcast settimanale e di scrivere blogpost e articoli accademici, e di tornare a casa ogni giorno intorno alle 17.00. Come forse indica il titolo, il suo metodo richiede un’autodisciplina che non è di moda di questi tempi, ma che vale comunque la pena di coltivare. Come forse indica il titolo, il suo metodo consiste nella concentrazione totale su un determinato compito per un periodo di tempo prolungato. È ormai chiaro che il multi-tasking è sempre stato un mito, ma è anche chiaro dalla ricerca psicologica che se si passa da un contesto all’altro (ad esempio dalla scrittura di un articolo alla risposta alle e-mail) possono essere necessari fino a venticinque minuti per diventare pienamente produttivi nel nuovo contesto. L’idea di Newport è quindi quella di tracciare una mappa della giornata all’inizio, assegnando dei pezzi di tempo a specifiche attività, e di non fare nient’altro in quel lasso di tempo. Come la maggior parte delle buone idee, questa sembra ovvia e semplice, ma se vi osservate, scoprirete che quasi certamente passerete da un’attività all’altra in continuazione. Io stesso l’ho trovato utile: Lavoro a questi saggi dal venerdì al martedì, mettendo da parte un’ora al giorno per la produzione di mille parole, in due blocchi di venticinque minuti separati da cinque minuti di attività non intellettuali, come ad esempio farsi una tazza di caffè. Il mercoledì è dedicato alla rifinitura finale e al caricamento. Con un blocco di tempo riservato alle e-mail, un blocco riservato alla ricerca e l’integrazione di altri impegni, comincio ad avere la sensazione di avere il controllo della mia giornata, anziché il contrario.

Questo ci porta alla concentrazione e alla mindfulness, che stranamente hanno acquisito una cattiva reputazione, non per quello che sono, ma per come sono state abusate. La concentrazione è un’abilità acquisita e la maggior parte di noi non la sa usare bene. Se dubitate di me, provate a stare assolutamente fermi per due minuti e capirete cosa intendo. Esistono molti libri di esercizi di concentrazione: il compianto Mieczyslaw Sudowski, con lo pseudonimo di Mouni Sadhu, ne ha scritto uno dei migliori, intitolato appropriatamente Concentrazione. La mindfulness è uno sviluppo naturale della concentrazione, anche se spesso viene confusa con gli esercizi esoterici dello Zen per abolire la mente. Jon Kabbat-Zinn, l’ideatore della mindfulness nella sua forma moderna, iniziò la pratica in una clinica in cui lavorava, occupandosi di pazienti che si erano ammalati a causa dello stress, e nei suoi numerosi ed eccellenti libri sull’argomento fu molto chiaro sul fatto che lo scopo non era quello di “svuotare la mente” o qualcosa di simile, ma piuttosto di disciplinarla in modo da concentrarsi su una cosa alla volta, e quindi soffrire meno di stress. (E se pensate che sia facile, provate a pensare allo stesso argomento per un minuto intero senza deviare). Come hanno sottolineato Kabbat-Zinn e altri autori, tra cui Charles Tart, la maggior parte di noi vive in una nebbia mentale, pensando a dieci cose contemporaneamente e alternando rabbia e delusione per il passato e paura e incertezza per il futuro, senza mai essere veramente nel presente. Non è questo il modo di vivere, e di certo non è il modo di rendere il mondo un posto migliore.

Questo ci porta a parlare della meditazione, che soffre di alcuni degli stessi problemi di presenza che affliggono la mindfulness. Spesso viene considerata una pratica orientale, il che è sciocco, perché esiste una ricchissima tradizione di meditazione nel mondo cristiano e anche nell’Islam. (Sebbene l’immagine popolare della meditazione consista nel concentrarsi sul respiro o sulle parole, e questo può essere prezioso e utile per alcuni, la tradizione occidentale è piuttosto quella della meditazione discorsiva, in cui una frase o un’espressione viene usata come punto di partenza per un’esplorazione strutturata e progressiva. Tradizionalmente si trattava di un versetto della Bibbia o di una massima classica, ma può essere qualsiasi cosa, ad esempio una frase di Marco Aurelio ogni giorno, o una poesia preferita. Lo sforzo intellettuale che comporta lo sviluppo di un pensiero per più di qualche minuto alla volta è prezioso di per sé, ma può essere combinato, a seconda dei gusti, con riflessioni sulla propria vita (alcuni usano letture quotidiane dell’I Ching o dei Tarocchi), o con tentativi di esplorare temi spirituali più ampi. Il libro di Sadhu sulla meditazione contiene un’intera serie di esercizi di questo tipo, compresi molti della tradizione occidentale, e se volete fare il passo più lungo della gamba, l’Occult Philosophy Workbook di John Michael Greer vi farà meditare sui piani dell’essere e sulla natura stessa dell’universo. Se invece volete studiare le tradizioni di meditazione orientali, avete bisogno di un insegnante orientale come Thich Naht Hanh.

E infine, questo ci porta al tipo di studi esoterici e spirituali che molte persone trovano utili per resistere all’assoluta bruttezza del mondo in cui viviamo. C’è un’altra questione preliminare da risolvere. La maggior parte delle persone oggi ha una visione della realtà vagamente basata sulla fisica del XIX secolo: là fuori c’è un mondo costituito da materia che possiamo vedere e misurare, la materia è fatta di cose dure ma minuscole chiamate atomi, e la mente e la materia sono due cose completamente diverse che non possono interagire. Questa visione delle cose, che non riflette più la comprensione scientifica, è in realtà una credenza popolare, spesso chiamata scientismo o, come preferisco chiamarla io, materialismo volgare. La prima volta che leggerete un libro popolare sulla fisica quantistica (nel mio caso i libri del fisico britannico Paul Davies) sarete guariti da queste illusioni. Se volete una demolizione completa del materialismo da una prospettiva scientifica, leggete i libri di Bernardo Kastrup, in particolare Perché il materialismo è una sciocchezza.

Naturalmente, i filosofi occidentali fin da Kant hanno sottolineato l’impossibilità di sapere con certezza che esiste un mondo esterno, per non parlare della possibilità di descriverlo. Questa è una visione tradizionalmente associata al misticismo e il misticismo, per un altro equivoco, è visto come essenzialmente “orientale”. Eppure il misticismo è stato un filone di tutte le religioni e ha avuto una forte influenza nel cristianesimo fin dall’inizio: alcuni dei più grandi pensatori mistici (Meister Eckhart, ad esempio) hanno lavorato in questa tradizione. Il misticismo non deve nemmeno essere direttamente associato al credo religioso in quanto tale: molte tradizioni vedono semplicemente la mancanza di distinzione tra l’individuo e il tutto – l’essenza del misticismo – come un fatto pragmatico con cui lavorare.

Per esempio, l’interpretazione non duale della realtà, dove effettivamente esiste solo la coscienza, ci porta naturalmente a concludere che ciò che pensiamo come “io” – speranze, paure, ricordi, anticipazioni, rabbia – sono solo emozioni passeggere e fenomeni mentali. Non sono “io”. Dopotutto, se sono stato sveglio tutta la notte preoccupato per i soldi e poi i miei problemi economici si sono improvvisamente risolti, ho forse perso parte di “me” se non mi preoccupo più? La consapevolezza di non essere il mio ego non solo è enormemente liberatoria, ma libera enormi energie represse che possono essere utilizzate per migliorare la nostra vita e quella degli altri.

Ci sono autori occidentali, come ad esempio Rupert Spira, che spiegano queste idee in modo semplice e convincente. Ma se volete andare sul concreto, fate molta attenzione, perché pochi argomenti sono stati più massacrati e sfruttati del complesso corpus di idee che si è diffuso dall’India attraverso la Cina, il Tibet e il Giappone, con una molteplicità di nomi, scuole e dottrine. In particolare, bisogna guardarsi dagli occidentali che pretendono di capire queste cose, soprattutto quando vivono nel sud della California, si rasano la testa e adottano nomi tibetani.

Detto questo, ci sono due libri finali che vi consiglio se volete che il vostro cervello si allarghi e la vostra visione della realtà cambi. Il primo, di cui ho già scritto in precedenza, è Losing Ourselves di James Garfield. Garfield è un illustre filosofo di formazione occidentale, e non ha intenzione di accettare queste stronzate New Age, grazie. L’altro è di Rob Burbea, un insegnante inglese di buddismo, il cui Seeing That Frees è un’introduzione intellettualmente molto impegnativa ma assolutamente affascinante al concetto buddista di vuoto, completa di meditazioni progressive.

Dubito seriamente che, in termini pratici, si possa impedire al mondo di andare completamente in pezzi. Ma alla fine, tutte le società sono costituite da collezioni di individui, e più istruiti, più riflessivi e, in ultima analisi, più saggi ed equilibrati sono gli individui, meglio staremo tutti. Qui ho solo scalfito la superficie dei libri che possono aiutarci a capire il presente e ad armarci meglio per il futuro. Avete altre idee?

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DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA

A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).

Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.

Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.

Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa – fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.

Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.

Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.

Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della disapplicazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Il primato del politico_con Gianfranco La Grassa

A partire dagli anni ’90 Gianfranco La Grassa, partendo da una revisione dell’opera di Marx, ha operato una netta rottura con l’economicismo e il determinismo che ha afflitto il marxismo ed altre correnti di pensiero dei due secoli trascorsi. Essi stessi basati, comunque, su alcuni fondamentali assunti del grande pensatore. Da qui l’adozione della teoria del conflitto tra centri decisori strategici e del primato del politico come chiavi di interpretazione delle dinamiche che vedono negli stati il luogo privilegiato dell’azione politica. Un punto di vista certamente più adeguato a comprendere efficacemente le vicende in corso. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Le Lezioni Nascoste del “Millennium Challenge 2002”… e altro, di Giuseppe Gagliano

Italia e il mondo, in particolare Roberto Buffagni, ha più volte segnalato i meriti di Paul van Riper in numerosi articoli_Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/category/dossier/contributi-esterni/marine-corps-gazette/

Le Lezioni Nascoste del “Millennium Challenge 2002” 

Come noto nel 2002 venne posta in essere dagli Stati Uniti  l’esercitazione militare denominata “Millennium Challenge 2002” (MC02), la più grande simulazione di guerra della storia, condotta dal United States Joint Forces Command. Con un budget di 250 milioni di dollari e la partecipazione di 13.500 persone, la simulazione aveva l’obiettivo di validare le nuove teorie della “military transformation”. La simulazione  ha coinvolto forze virtuali e reali in nove location e diciassette ambienti simulati, con un Paese mediorientale immaginario come avversario.(Probabilmente l’Iran o l’Iraq)

Il tenente generale dei Marines Paul K. Van Riper ha assunto il ruolo di comandante delle forze nemiche. Van Riper ha espresso profonda insoddisfazione per i risultati dell’esercitazione, affermando che l’esito era stato manipolato per garantire la vittoria statunitense. Ha descritto queste azioni in una email di protesta inviata prima della fine della simulazione , mettendo in dubbio l’onestà del processo e le implicazioni negative di un’applicazione pratica di teorie non verificate.

Durante la simulazione, Van Riper ha dimostrato ingegnosità, utilizzando metodi non convenzionali come motociclisti per inviare messaggi, luci e bandiere per le comunicazioni, e informazioni fuorvianti per confondere la “squadra blu” (le forze statunitensi). Dopo essere stato isolato tecnologicamente, ha lanciato un attacco massiccio con mezzi aerei e navali leggeri, affondando sedici navi nemiche e teoricamente uccidendo oltre 20.000 nemici. Questa mossa ha sconvolto i blu e dimostrato la vulnerabilità delle loro forze di fronte a tattiche asimmetriche.

In risposta, gli organizzatori dell’esercitazione hanno “resettato” lo scenario, limitando le opzioni di Van Riper e assicurando il successo dei blu. Ciò ha portato Van Riper a ritirarsi dalla simulazione , e il risultato finale ha visto una vittoria incontestata dei blu.

Il report di Van Riper post-esercizio fu una critica impietosa verso la simulazione, esprimendo come la guerra reale sia intrinsecamente imprevedibile e caotica.

Il “Millennium Challenge 2002” diventa così un monito sul pericolo della sovrainformazione e sull’importanza di rimanere aperti a strategie non convenzionali e all’ascolto di opinioni diverse. Un eccesso di informazioni, come dimostrato, può paralizzare il processo decisionale e infondere un senso ingannevole di sicurezza, trasformando un apparente vantaggio in una vulnerabilità critica.

Non solo :Van Riper, con la sua esperienza in Vietnam e la sua adesione ai principi di Clausewitz, ha evidenziato che la superiorità tecnologica non assicura il successo.

Nonostante le lezioni offerte dall’esercitazione, le autorità militari americane – come oggi quelle israeliane -competenti sembrano non averne tenuto conto, continuando a ripetere gli stessi errori, con un’eccessiva fiducia nella tecnologia e una mancanza di attenzione alle critiche e alle strategie alternative.

SCENARI/ 2. Usa-Ue, realismo e potere: perché l’autonomia di Bruxelles è solo un’utopia

Giuseppe Gagliano

La dottrina di Christian Harbulot, fondatore della scuola di guerra economica francese, sarebbe un utile aiuto per le élites europee

biden vonderleyen 1 lapresse1280 640x300 Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue. A sin., Joe Biden (LaPresse)

Secondo il fondatore della scuola francese di guerra economica Christian Harbulot affinché l’Europa possa rinascere e avere un ruolo di grande rilevanza dal punto di vista politico e militare, le sue élites non solo devono riflettere sul ruolo determinante della guerra economica, ma soprattutto devono ricominciare a riflettere sul ruolo rilevante del concetto di potere. In caso contrario l’Europa rimarrà semplicemente un’appendice degli Stati Uniti o una sorta di vaso di coccio – come avrebbe detto Manzoni – tra vasi di ferro, quali gli Stati Uniti, la Cina, i Paesi arabi e i Paesi africani esportatori di petrolio e di gas, come d’altra parte l’attuale conflitto tra Russia e Ucraina da una parte e quello tra Israele e Palestina dall’altra stanno ampiamente dimostrando.

La guerra economica è per Harbulot l’espressione estrema dei rapporti di potere non militari. Esiste ovviamente una forte correlazione tra guerra militare e guerra economica. Le questioni economiche giocano un ruolo importante nelle cause dei conflitti. Tutto ciò appare nel lungo periodo della storia. Nel rapporto originario con la sopravvivenza nelle società preistoriche, l’acquisizione della sussistenza implica un rapporto violento. In una fase successiva, anche il rapporto tra nomadi mobili e predatori e popolazioni sedentarie attaccate alla terra e prese di mira da saccheggi e razzie nasce da un conflitto la cui origine è economica. In un ordine diverso, le società basate sulla schiavitù si basano anche sulla sconfitta militare degli schiavi o sull’invasione e occupazione del loro territorio. Più vicino a noi, è la ricerca di nuove risorse che determina la conquista dei territori, come è stato per la conquista spagnola dell’America o l’espansione coloniale del XIX secolo. Il fenomeno è spesso mascherato da altre giustificazioni, quelle derivanti da antagonismi religiosi o da litigi dinastici, ma resta comunque decisivo. Le cose sono cambiate con il XIX secolo, che vide l’emergere dei mercati aperti e del discorso liberale che li precedette o lo accompagnò. Il liberalismo, allora prevalente, veniva presentato come la migliore garanzia per il mantenimento della pace e proprio per questo esclude qualsiasi dibattito o riflessione relativa alla guerra economica.

Ma, nonostante le bugie e le omissioni, la storia degli ultimi due secoli ha dimostrato che le rivalità economiche devono essere considerate in termini di equilibri di potere, sempre più associati alle realtà militari. Dove non c’è conflitto, in senso stretto, possiamo ritrovarci, nonostante ciò, in una dialettica del conflitto. Il confronto economico consenta di accrescere il potere di uno Stato. A tale proposito, Harbulot sottolinea come per decenni la riflessione sul potere è stata assente, e il minimo che si possa dire è che difficilmente attira l’attenzione dell’opinione pubblica. De Gaulle, ai suoi tempi, pensava in termini di potere, anche se non usava questa parola. Preferiva quello della “grandezza”, ma quest’ultimo concetto era visto come obsoleto o anacronistico già dalle generazioni contemporanee di quell’epoca. In effetti, la parola “potere” sembrava riferirsi all’oscurità del totalitarismo. Dopo de Gaulle, la priorità data alla costruzione europea ha fatto sì che la Francia rinunciasse in gran parte alla sua libertà d’azione e si integrasse nel gruppo euroatlantico.

Un esempio di quanto sia reale e concreto il potere – alludiamo ora a quello degli Stati Uniti – è dimostrato in modo esemplare dal caso di Edward Snowden, la cui defezione ha rivelato la portata dello spionaggio portato avanti su scala mondiale dai servizi americani, in particolare dalla NSA (National Security Agency). Qualunque governo può considerarsi condannato a scomparire se non tiene rapidamente conto delle esigenze del potere. Al contrario l’Europa è andata in una direzione esattamente contraria. L’Europa è allo stato attuale soltanto uno spazio geografico dai limiti incerti, posto sotto l’egemonia politica, ideologica e militare degli Stati Uniti. Date queste condizioni, l’autonomia dell’Europa è oggi un’utopia. Dopo l’obsolescenza, nel dopo Guerra Fredda, della solidarietà ideologica che si era formata contro la minaccia sovietica, appare chiaramente che l’allora alleato divenne un avversario, che attuò il programma formulato nel 1917 dal presidente americano Wilson e dal suo consigliere colonnello Edward Mandell House: “L’Inghilterra e la Francia non hanno affatto le nostre stesse opinioni sulla pace. Quando la guerra sarà finita, potremo costringerle a seguire il nostro modo di pensare, perché allora, tra le altre cose, saranno nelle nostre mani anche finanziariamente”.

Da allora, il caso Snowden ha screditato, agli occhi di molti, il ruolo degli Stati Uniti come motore della democrazia globale. Gli americani oggi beneficiano della duplicità propria del liberalismo, che sfruttano abilmente al servizio dei propri interessi imponendo un equilibrio di potere a loro favorevole. Sebbene questa nazione sia stata costruita sul genocidio dei nativi americani, le sue élites intendono dire al mondo dov’è il bene e imporre ovunque l’ideologia dei diritti umani. Questo vero e proprio cavallo di Troia ha lo scopo di neutralizzare le reazioni identitarie e trasformare il mondo in un vasto mercato globale. Il singolo consumatore, controllato dalla nuova versione del Grande Fratello orwelliano, sarà tagliato fuori dalle sue radici etniche e culturali e sarà condannato a sottomettersi a una globalizzazione fatale per le diverse identità che costituiscono la ricchezza della società. Gli europei devono innanzitutto pensare in termini di rapporti di potere, esprimere un reale desiderio di potere e affermare ancora una volta una chiara consapevolezza della propria identità, essenziale per affrontare le sfide del mondo che li aspetta.

L’intelligence economica sta cambiando profondamente: ecco tutte le mosse della Cia di William Burns.

7 Novembre 2023 07:22

La scacchiera globale dell’intelligence economica sta vivendo un profondo cambiamento, con la Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti in prima linea nel ridefinire la sua strategia di fronte alle minacce transnazionali. Questo nuovo corso ha portato alla dissoluzione del Centro per la Sicurezza Economica, un tempo pilastro sotto la guida di David Petraeus, il cui impatto è ora disperso tra i vari rami dell’agenzia.

IL CAMBIO DI PARADIGMA DI BURNS

Sotto la direzione di William Burns, si assiste a un vero e proprio cambio di paradigma, con l’istituzione di centri specializzati quali il Centro Missione sulla Cina e il Centro Missione su Transnazionali e Tecnologia. Questi organi sono i nuovi fulcri dell’intelligence economica, e si propongono di scrutare e comprendere le complessità delle dinamiche economiche globali, con un occhio particolare alla potenza emergente cinese.

Burns, forte del suo passato diplomatico, ha sposato un modello organizzativo flessibile e integrato, in netto contrasto con la struttura precedente. Tale modello promuove un’integrazione tra analisti, operatori sul campo e specialisti tecnici per affrontare con maggiore sinergia le sfide odierne.

Tuttavia, la transizione non è esente da critiche e resistenze interne. In particolare, gli ufficiali del Directorate of Operations temono di perdere terreno a favore degli analisti nell’ambito della ristrutturazione. A ciò si sommano le difficoltà nel mantenere un team stabile e competente, come dimostrano i problemi di turnover affrontati dal Centro Missione sulla Cina.

IL RUOLO DEL CONGRESSO

Sul fronte legislativo, l’occhio vigile del Congresso si è tradotto in pressioni per ampliare e rafforzare le competenze in materia di intelligence finanziaria e tecnologica. L’ultimo atto normativo in materia di intelligence sottolinea la necessità di un incremento del personale specializzato e di politiche mirate di reclutamento e formazione, un segnale chiaro della prioritaria rilevanza data a queste aree.

LE SFIDE DELLA CIA

In definitiva, la CIA si sta attrezzando non solo per fronteggiare le sfide del presente, ma anche per prevedere e modellare gli scenari futuri, con la consapevolezza che la sicurezza nazionale passa anche attraverso la comprensione e la gestione dell’intelligence economica.

Cambio di regime”, una grande specialità americana

Giuseppe GAGLIANO

Président du Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis (Côme, Italie). Membre du comité des conseillers scientifiques internationaux du CF2R.

 

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Durante il conflitto tra Iran e Iraq negli anni ’80, la Siria di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar al-Assad, occupava una posizione di grande importanza strategica, con implicazioni significative per gli interessi americani nella regione. Un documento segreto della CIA del 14 settembre 1983 descriveva la Siria come una minaccia per gli Stati Uniti a causa del suo sostegno a vari gruppi terroristici e all’occupazione del Libano, che andava contro gli interessi americani e quelli di alleati come Israele. La chiusura dell’oleodotto iracheno-siriano aveva inoltre danneggiato l’economia irachena, con il rischio di un’ulteriore estensione del conflitto con l’Iran.

La CIA ha preso in considerazione diverse strategie per esercitare pressione su Assad, tra cui la possibilità di una minaccia militare coordinata da parte di Iraq, Israele e Turchia, i vicini della Siria. Ankara, in particolare, aveva motivi di insoddisfazione nei confronti di Damasco a causa del sostegno che Assad aveva fornito ai militanti curdi e armeni, una situazione considerata un atto ostile dalla Turchia.

In un altro documento, datato 30 luglio 1986 e proveniente dal Foreign Subversion and Instability Center della CIA, intitolato Syria: Scenarios of Dramatic Political Change (Siria: scenari di un cambiamento politico drammatico), venivano analizzate varie ipotesi per rimuovere Assad dal potere. La CIA prevedeva che una risposta sproporzionata del governo siriano a proteste minori avrebbe potuto scatenare disordini su larga scala, fino a sfociare in una guerra civile. Questa previsione teneva conto del fragile equilibrio etnico e settario della Siria. Un governo sunnita al potere avrebbe potuto ridurre l’influenza sovietica nella regione, dato il sostegno dell’URSS al regime di Assad, dominato dagli alawiti.

Il documento del 1986 avvertiva anche che un governo debole a Damasco avrebbe potuto trasformare il Paese in un centro per il terrorismo. Gli interessi americani erano chiari: un governo sunnita filo-occidentale avrebbe potuto ridurre le tensioni con Israele ed essere più aperto agli aiuti e agli investimenti occidentali. Tuttavia, si temeva che un governo sunnita potesse cadere sotto il controllo dei fondamentalisti, che avrebbero potuto instaurare una repubblica islamica ostile a Israele e sostenere il terrorismo; questa preoccupazione rimane attuale.

I tentativi degli Stati Uniti di destabilizzare la Siria sono stati ampiamente illustrati da WikiLeaks, che ha mostrato come, già nel 2006, attraverso comunicazioni segrete dell’ambasciata statunitense a Damasco, fossero state identificate e studiate le vulnerabilità del governo siriano. Tali vulnerabilità includevano le preoccupazioni dei sunniti per l’interferenza iraniana, la situazione dei curdi e la presenza di estremisti che vedevano nella Siria un rifugio sicuro.

Il documento 06DAMASCUS5399_a del 13 dicembre 2006 sottolineava che, nonostante la stabilità economica del Paese e la debolezza dell’opposizione interna, esistevano opportunità di sfruttare la situazione interna della Siria. In particolare, ha evidenziato il pericolo dell’espansione dell’influenza iraniana, sia attirando gli sciiti sia convertendo i sunniti economicamente più deboli attraverso attività come la costruzione di moschee e attività commerciali.

Un’e-mail di Hillary Clinton, datata 31 dicembre 2012 – all’apice della guerra civile siriana – ha definito chiaramente l’obiettivo degli Stati Uniti: rovesciare Bashar al-Assad per aumentare la sicurezza di Israele di fronte alla minaccia nucleare iraniana e ridurre l’influenza regionale di Teheran.

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Anche Cuba è stata oggetto di numerosi processi di destabilizzazione. Uno in particolare merita di essere esaminato.

Nel 2009, gli Stati Uniti hanno cercato di scuotere le fondamenta del governo cubano attraverso un’iniziativa piuttosto insolita e ingegnosa: la creazione di una rete sociale. L’operazione è stata attuata dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) con la nascita di ZunZuneo, una piattaforma digitale rivolta ai giovani cubani. Il progetto ha comportato l’acquisizione clandestina dei dati personali di mezzo milione di cittadini cubani destinatari di questa azione sovversiva.

Per mascherare le intenzioni americane dietro questa manovra, ZunZuneo ha funzionato inizialmente come un servizio di messaggistica con contenuti superficiali e di intrattenimento, come notizie sportive e previsioni del tempo. Dietro questa facciata, l’obiettivo era creare un canale per contenuti dissidenti e fomentare le proteste.

Il finanziamento dell’operazione è stato celato attraverso conti esteri e la creazione di due società di comodo, una in Spagna e l’altra nelle Isole Cayman. Inoltre, i fondi inizialmente destinati a progetti umanitari in Pakistan sono stati dirottati, aggirando le leggi statunitensi che richiedono la notifica al Congresso per le operazioni segrete.

La “facciata” commerciale di ZunZuneo è stata rafforzata da campagne promozionali e falsi annunci pubblicitari volti a conferirgli credibilità e ad attirare l’attenzione dei giovani cubani, che si sono iscritti in massa, attratti dalla novità del servizio digitale. La massiccia diffusione del social network ha presto sollevato dubbi e preoccupazioni nel governo cubano, che ha avviato un’indagine e ha iniziato a monitorare i contenuti condivisi sulla piattaforma.

Dietro le quinte, i dati degli utenti sono stati raccolti e analizzati dagli organizzatori del social network, che hanno classificato gli iscritti in diverse categorie in base all’età, al sesso e all’atteggiamento nei confronti del regime, senza che questi ne fossero a conoscenza o avessero dato il loro consenso.

Nonostante il successo iniziale – 40.000 iscritti – la crescente sfiducia del governo cubano nei confronti di ZunZuneo ha portato alla sua chiusura nel settembre 2012, ponendo fine a quello che era stato uno dei tentativi più audaci e controversi degli Stati Uniti di influenzare il clima politico all’interno di Cuba.

*

Quali conclusioni si possono trarre da questi due esempi di tentativi di cambio di regime da parte di Washington?

Secondo l’analisi dello storico brasiliano Luiz Alberto Moniz Bandeira, la politica estera degli Stati Uniti si concentra sul mantenimento e sull’espansione della propria sfera d’influenza globale, utilizzando una varietà di metodi per garantire che nessun Paese rappresenti una minaccia per i suoi interessi. Questo processo viene attuato indipendentemente dal contesto politico o geografico del Paese interessato.

La strategia americana di “correzione” è particolarmente incisiva nei confronti dei governi percepiti come ribelli o che si discostano dalla linea imposta dalla Casa Bianca. Bandeira sostiene che l’imperativo statunitense di sovrapporre i propri presupposti agli interessi stranieri si intensifica quando il dominio degli Stati Uniti sembra diminuire anziché crescere, perché in queste circostanze si avverte maggiormente la necessità di riaffermare il proprio potere.

Per mettere a tacere gli oppositori o eliminare gli ostacoli politici, gli Stati Uniti ricorrono ai loro servizi speciali, alle organizzazioni non governative e alle fondazioni private. Questi attori e i loro metodi (guerra psicologica, guerra dell’informazione, ecc.) hanno il compito di destabilizzare i governi avversari, sfruttando le loro tensioni interne e cercando di dirigere i disordini come se fossero spontanei e non influenzati dall’esterno, per evitare la resistenza che di solito segue la percezione di un’interferenza straniera. Ciò è stato eloquentemente illustrato in numerosi studi, non solo da Éric Denécé, ma anche da Christian Harbulot e dalla sua École de Guerre Économique (EGE).

L’obiettivo finale è il rovesciamento di un governo, idealmente attraverso un processo che sembra derivare dalla volontà popolare e dai principi democratici piuttosto che da un colpo di Stato. In questa prospettiva, un regime che crolla sotto la pressione di un movimento popolare apparentemente “spontaneo” è visto come un successo per la politica statunitense.

Per influenzare l’opinione pubblica e promuovere azioni civili contro i governi presi di mira, gli Stati Uniti fanno ampio uso dei media, di Internet e dei social network. Attraverso questi canali, possono manipolare le percezioni e indirizzare il dissenso – a volte incanalando il desiderio di vendetta o semplicemente il desiderio di migliorare le condizioni di vita – per stimolare le proteste contro il governo da rovesciare.

La “defiance politica”, termine adottato ufficialmente dagli Stati Uniti, consiste nell’orchestrare campagne per indebolire e infine disintegrare le basi di potere dei Paesi avversari. Questa strategia, ispirata alle teorie del politologo Gene Sharp e di un colonnello della Joint Military Attaché School, prevede una pianificazione meticolosa e una mobilitazione popolare per minare dall’interno i governi non allineati agli interessi statunitensi. Secondo Moniz, questi meccanismi potrebbero essere all’opera in varie parti del mondo, illustrando il coinvolgimento degli Stati Uniti nei processi di destabilizzazione.

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Il nazionalismo americano: la nascita di una politica estera messianica, di Éric Juillot

Dopo aver osservato, in un precedente articolo, le condizioni di nascita e l’estrema singolarità del nazionalismo americano, è ora opportuno avvicinarsi al suo dispiegamento storico, per coglierne le diverse modalità e la sorprendente resistenza al tempo. A tal fine, la politica estera di Washington nel corso dei decenni offre il miglior punto di osservazione.

pubblicato il 01/11/2023 Par Éric Juillot

Messianismo, realismo, isolazionismo: questi tre termini rappresentano le determinanti strutturali della politica estera americana. Ognuno di essi è plasmato dalla cultura politica del Paese, al centro della quale si trovano le convinzioni e le idee che costituiscono il nazionalismo.

Il realismo è caratterizzato da una preoccupazione per la moderazione e la moderazione, da un’enfasi sulla stabilità delle relazioni internazionali e da un’analisi approfondita dei rischi connessi all’eventualità di una guerra. Sebbene il realismo possa peccare di pusillanimità o cinismo, non è sinonimo di inerzia, ma di razionalità nella scelta o nel rifiuto della guerra. Nella sua versione americana, non presenta alcuna singolarità che lo distingua da quello di altre potenze.

Non si può dire lo stesso del messianismo, l’idealismo della nazione americana: l’estrema importanza del legame diretto e privilegiato con la Provvidenza – credenza incisa nel cuore del nazionalismo americano – induce un sentimento di elezione, la convinzione incrollabile della superiorità morale dell'”America” e della necessità della sua affermazione, per la propria felicità e per quella del resto dell’umanità. Forti di questa certezza, gli Stati Uniti hanno dato alla loro politica estera una dimensione guerrafondaia molto presto e a lungo termine. Sebbene il suo messianismo nel XIX secolo non fosse originale in linea di principio – poteva essere osservato in molte altre nazioni in un momento o nell’altro – era già evidente per la sua coerenza e intensità.

L’isolazionismo, infine, è una caratteristica specificamente americana, l’altra possibile conseguenza del sentimento di elezione: piuttosto che agire nel mondo e per esso, il nazionalismo americano sceglie di isolarsi dal mondo, a distanza dal suo tumulto e dalla sua corruzione, nella soddisfazione di una società e di un regime politico ideali sotto gli auspici del Creatore.

Sarebbe irrilevante cercare di individuare fasi della politica estera americana segnate a loro volta da ciascuno di questi tre elementi, poiché ognuno di essi è in realtà costantemente in gioco nell’elaborazione – in parte sotterranea – di un rapporto americano con il mondo, nel complesso processo di determinazione della politica estera e nei dibattiti politici che presiedono al processo decisionale. Emerge però una tendenza: l’isolazionismo, pur essendo una caratteristica specifica americana, è la tendenza più debole, quella che ha meno influenza sul corso degli eventi. Il messianismo, invece, è sorprendentemente costante e virulento. Al massimo, il realismo interviene regolarmente, sia per moderarlo che per rafforzarlo.

Espansione territoriale aggressiva
A parte l’acquisto della Louisiana dalla Francia (1803), della Florida dalla Spagna (1819) e dell’Alaska dalla Russia (1867), per non parlare del terribile destino riservato alle popolazioni indigene degli Stati Uniti, la formazione del territorio americano si inseriva in una politica estera apertamente bellicosa, in cui l’aggressione agli Stati vicini era apertamente accettata.

Il Canada fu la prima vittima di questo desiderio di espansione, che affrontò per decenni. Quella che oggi è la provincia di Québec fu oggetto di un tentativo di invasione militare già nel 1775, prima ancora della Dichiarazione di Indipendenza, che sancì la nascita degli Stati Uniti l’anno successivo. Le truppe americane conquistarono Montreal, ma non riuscirono a conquistare Quebec City. Al termine della Guerra d’Indipendenza, gli Stati Uniti ottennero comunque dalla Gran Bretagna la cessione di un vasto “Territorio del Nord-Ovest” incentrato sul lago Michigan: l’espansione territoriale oltre le tredici colonie originarie era avviata.

Nel 1812, approfittando del coinvolgimento del Regno Unito nelle guerre napoleoniche, l’aquilotto americano dichiarò guerra al vecchio leone britannico nella speranza di conquistare il Canada. Henry Clay, presidente della Camera dei Rappresentanti, ad esempio, dichiarò (1: citato in Stanley B. Ryerson, The Founding of Canada: Beginnings to 1815, Totonto, Progress Books, 1963, p.230.1):

“Non sono d’accordo sul fatto che dovremmo fermarci a Québec o in qualsiasi altro posto; propongo di prendere l’intero continente da loro, senza chiedere il loro parere. Non voglio la pace finché non avremo fatto questo. Dio ci ha dato il potere e i mezzi per farlo. Saremo colpevoli se non li useremo”.
Trent’anni prima della sua esplicita formulazione, il Destino Manifesto animava già alcune menti. A quel tempo, la certezza della superiorità della civiltà consentiva di arrivare agli estremi, almeno nel linguaggio utilizzato. Il generale americano alla testa delle truppe che invadevano l’Alto Canada (poi Ontario) non esitò a fare il seguente proclama (2: D.B. Read, Life and Times of Sir Isaac Brock, Toronto, William Briggs, 1894, p.125.2):

“Sono alla testa di un esercito che schiaccerà ogni opposizione. […] Se permetterete ai selvaggi [amerindi] di massacrare i nostri compatrioti, le nostre donne e i nostri bambini, sarà una guerra di sterminio. [Ogni bianco che combatte a fianco di un indiano non sarà fatto prigioniero, ma sarà massacrato sul posto”.
Il tentativo di invasione del Canada ebbe però vita breve. Anche se il conflitto culminò, in un simbolo molto sfortunato, nella cattura e nell’incendio di Washington da parte dell’esercito britannico nell’agosto del 1814, il Trattato di Gand che vi pose fine nel dicembre dello stesso anno determinò uno status quo ante bellum, di cui gli Stati Uniti potevano essere soddisfatti: la loro presunzione non si era trasformata nella catastrofe che avrebbe potuto provocare.

Trent’anni dopo, nel 1844, James Polk vinse la campagna per la presidenza degli Stati Uniti con lo slogan “54°40′ o guerra!”, utilizzando queste coordinate di latitudine per rivendicare il territorio fino ad allora occupato congiuntamente da sudditi britannici e cittadini americani, che comprendeva l’intera costa occidentale del Nord America, dall’Oregon all’Alaska. In difesa di questo slogan, il direttore del New York Morning News, John O’Sullivan, affermò nel suo articolo “The Authentic Title” (3: citato in Albert K. Weinberg, Manifest Destiny: A Study of Nationalist Expansionism in American History, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1935, p.145.3):

“Il nostro titolo è ancora più valido di qualsiasi titolo attestato da quegli antichi testi di diritto internazionale. Liberiamoci di quei polverosi volumi in cui sono registrati i diritti di scoperta, esplorazione, insediamento, continuità, ecc. Abbiamo un titolo più solido: quello che il destino ci ha dato per renderci padroni dell’intero continente che la Provvidenza ci ha lasciato in eredità”.
Al posto della diplomazia tradizionale, l’illuminismo politico fu usato come unica giustificazione per le ambizioni espansionistiche: un simile modo di pensare aveva pochi equivalenti in altre parti dell’Occidente, all’epoca o in seguito. Il Trattato dell’Oregon, firmato nel 1846, fu comunque il risultato di un compromesso: il confine americano-canadese a ovest delle Montagne Rocciose doveva essere un’estensione di quello già esistente a est, cioè lungo il 49° parallelo.

Forti di questo accordo con l’ex metropoli, gli Stati Uniti rivolgono ora la loro attenzione al Messico. Il Texas, divenuto indipendente dal Messico nel 1836, si unisce alla federazione americana nel 1845. La questione del confine americano-messicano generò ben presto una serie di tensioni tra i due Stati. Washington voleva che il confine corresse lungo il Rio Grande, mentre il Messico si opponeva al Rio Nueces, 300 km più a nord. Con posizioni inconciliabili, la guerra scoppiò infine nel 1846: gli Stati Uniti usarono l’imboscata di un piccolo distaccamento dell’esercito americano appartenente a una guarnigione da poco stabilita a Fort Texas, sul Rio Grande, come pretesto per dichiarare guerra al loro vicino meridionale il 13 maggio 1846.

Il partito della guerra dominava il Paese, soprattutto tra i politici e nella stampa. L’ampia maggioranza che votò a favore della guerra al Congresso trovava eco nelle dichiarazioni bellicose che abbondavano sui giornali. Per il New York Evening Post, “i messicani sono indiani nativi e devono condividere il destino della loro razza”. L’American Review spiegava che i messicani dovevano piegarsi a “una popolazione superiore […] che si stabilirà nel loro territorio, cambierà i loro costumi e […] li libererà dal loro sangue impuro” (4: Evening Post, dicembre 1847, citato in Graebner, Manifest Destiny, American heritage series N°48, 1968; American Review, marzo 1847, citato in Graebner, op. cit.4).

In risposta alla domanda del Segretario di Stato americano James Buchanan, “Come faremo a governare la razza bastarda che popola questo Paese?”, la Democratic Review propose una soluzione radicale: “Le azioni che abbiamo compiuto nel Nord – e con questo intendo il fatto che abbiamo cercato di reprimere gli indiani o di annientare la razza – devono essere compiute allo stesso modo nel Sud”. Da parte sua, l’ex presidente del Texas, Sam Houston, sostenne che grazie alla guerra “l’Essere Divino […] sta compiendo il destino della razza americana” (5: Democratic Review, xx, 1847, p.100, citato in Weinberg, op. cit., pp.168-169; Houston, citato in Weinberg, op. cit., p.178.5).

Nel gennaio 1848, quasi da solo, il futuro presidente Lincoln denunciò davanti al Congresso le provocazioni, le manipolazioni e l’aggressività da parte americana che avevano portato alla guerra. La guerra si concluse il 2 febbraio 1848 con la firma del Trattato di Guadalupe Hidalgo. Il Messico, sconfitto, riconobbe il Rio Grande come suo confine e cedette agli Stati Uniti un immenso territorio di 1,36 milioni di km², corrispondente essenzialmente agli attuali Stati della California, del Nevada e dello Utah, oltre ai due terzi settentrionali dell’Arizona.

La prima espansione oltremare alla fine del XIX secolo
Una volta raggiunto l’Oceano Pacifico e dopo aver superato il trauma della guerra civile americana, gli Stati Uniti intrapresero una politica estera apertamente espansionistica. Non si trattava più di dare alla giovane nazione il territorio di cui aveva bisogno; a partire da quella base territoriale, essa doveva affermarsi come potenza da tenere in considerazione nel concerto delle nazioni, inizialmente sulla scala del continente americano e poi, per spostamenti successivi, su quella del pianeta.

Le Hawaii furono il primo territorio interessato da questa strategia di espansione. Unificato alla fine del XVIII secolo sotto l’unica autorità di un monarca, l’arcipelago delle Isole Hawaii vide riconosciuta la propria indipendenza nel 1840 da Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Nei decenni successivi, l’apertura del Paese portò a una forte immigrazione asiatica, europea e americana, le ultime due sotto forma di minoranze benestanti che acquistarono attivamente terreni e svilupparono la coltivazione della canna e la produzione di zucchero. Nel 1898, alla vigilia dell’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti, il 90% della terra era di proprietà di stranieri, ricchi proprietari terrieri euro-americani.

Ansiosa di difendere i propri interessi, questa minoranza si scontrò frontalmente con le autorità politiche negli anni Ottanta del XIX secolo. La sequenza che portò all’annessione iniziò nel 1887, quando la Lega hawaiana, un gruppo di un centinaio di ricchi proprietari terrieri, usò la forza armata per imporre al re Kalakua la “Costituzione della baionetta”: la vecchia monarchia feudale fu abolita a favore di un sistema di tipo parlamentare, con il potere affidato principalmente a un’assemblea dominata da proprietari terrieri stranieri.

Nel gennaio 1893, la nuova regina Liliuokalani annunciò la sua intenzione di abrogare la Costituzione. La reazione dei piantatori fu travolgente: raggruppati attorno a un Comitato di Salvezza Pubblica, organizzarono e riuscirono a fare un colpo di Stato il 17 gennaio, chiedendo aiuto al governo degli Stati Uniti: “Non siamo in grado di proteggerci senza assistenza esterna e quindi speriamo nella protezione delle truppe americane”. Con l’appoggio di 162 marinai della USS Boston – ma senza spargimento di sangue – i membri del comitato presero il potere, formarono un governo provvisorio e costrinsero il sovrano ad abdicare.

I cospiratori non intendevano perdere tempo: il 18 gennaio fu inviata a Washington una commissione per chiedere l’annessione dell’arcipelago agli Stati Uniti. Tuttavia, quest’ultimo passo si scontrò con la volontà del nuovo presidente americano, Grover Cleveland, un democratico anti-espansionista. Cleveland chiese l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle circostanze del colpo di Stato, che stabilì formalmente che le minacce ai cittadini americani nelle Hawaii erano false e che l’intervento americano era illegale. L’annessione avvenne solo diversi anni dopo e con l’elezione di un nuovo presidente, William McKinley. Il 7 luglio 1898, il Congresso degli Stati Uniti adottò unilateralmente la Risoluzione di Newlands, che rese le Isole Hawaii un territorio degli Stati Uniti.

Se un tempo l’idealismo poteva ostacolare l’espansione, nel caso delle Hawaii dovette piegarsi alle realistiche necessità della geostrategia: nel contesto della guerra che allora opponeva gli Stati Uniti alla Spagna, Washington riteneva che fosse nel suo massimo interesse mettere le mani sulle Hawaii una volta per tutte, poiché la sua posizione nel Pacifico centrale, a metà strada tra Asia e America, era eminentemente strategica. La marina statunitense, la principale componente delle forze armate americane, si stava sviluppando rapidamente sotto l’influenza degli scritti di Alfred Mahan – il grande teorico della talassocrazia americana – ed era in grado di espandere senza controllo la base di Pearl Harbor, dove si trovava dal 1887.

Contemporaneamente all’annessione delle Hawaii, gli Stati Uniti erano in guerra con la Spagna da diverse settimane: il Congresso aveva approvato l’entrata in guerra il 25 aprile 1898, poche ore dopo la dichiarazione di guerra spagnola, mentre la Marina statunitense imponeva il blocco a Cuba da quattro giorni. Per gli Stati Uniti si trattava di sostenere la causa dell’indipendenza cubana, sostenuta da alcuni abitanti dell’isola che nel 1895 avevano intrapreso la lotta contro la loro metropoli. Più che le considerazioni economiche, la dimensione umanitaria sembra aver giocato un ruolo importante nell’influenzare l’opinione pubblica a favore dell’intervento.

Per mesi e mesi, la stampa sensazionale riportò – in articoli che non tardarono a suscitare l’indignazione – le crudeltà e le atrocità commesse dalle forze spagnole incaricate di sedare l’insurrezione, ignorando deliberatamente la violenza degli insorti. A questa indignazione si aggiungeva un elemento più decisivo: il fervore di un nazionalismo che ormai manifestava apertamente le sue mire espansionistiche sui territori francesi d’oltremare. Sebbene gli ambienti economici fossero divisi sulla prospettiva del conflitto e alcuni esponenti di spicco dell’establishment politico dessero prova di moderazione – a cominciare dal presidente McKinley -, nel corso dei mesi si formò un partito della guerra che penetrò in tutti gli ambienti e si espresse con una virulenza tale da costringere la presidenza ad agire.

Quando, il 15 febbraio 1898, la USS Maine esplose nel porto dell’Avana dove il governo americano l’aveva inviata tre settimane prima, causando la morte di 266 marinai, il furore nazionalista e bellico di gran parte dell’opinione pubblica esplose nelle strade, sui giornali, nelle piattaforme di partito e nelle aule parlamentari. La pressione divenne così forte che i moderati iniziarono a piegarsi. Il Chicago Times Herald disse, con lucidità e rassegnazione: “L’intervento a Cuba è ormai inevitabile. Le nostre condizioni politiche interne rendono impossibile rimandarlo”.

Le operazioni militari durarono dieci settimane, durante le quali l’esercito statunitense, nonostante le sue debolezze materiali e umane, riuscì a prevalere sulle forze di terra spagnole schierate sull’isola. Le battaglie più decisive, tuttavia, si svolsero in acqua, a migliaia di chilometri di distanza, quando la Flotta americana del Pacifico distrusse le navi spagnole ancorate nella baia di Manila il 1° maggio 1898. Con la loro vittoria, sancita dal Trattato di Parigi, gli Stati Uniti non solo garantirono l’indipendenza di Cuba – che occuparono militarmente fino al 1902 – ma, applicando con vigore la Dottrina Monroe, distrussero le ultime vestigia dell’ordine coloniale europeo nel continente americano; si impadronirono di Guam e soprattutto delle Filippine, conquistando un punto d’appoggio in Asia e partecipando a pieno titolo, insieme agli altri imperialisti occidentali, all’espansione che li stava guidando in quel momento.

In questo senso, la piccola guerra contro la Spagna rappresentò un punto di svolta: fece convergere la maggioranza sull’idea che il proprio Paese potesse e dovesse intromettersi negli affari del vasto mondo. Un editoriale del Washington Post lo chiarì ancor prima della fine della guerra, il 2 giugno 1898, in un momento in cui era possibile dare libero sfogo a una sfrenata smania di potere:

Una nuova coscienza sembra entrare in noi – un sentimento di forza accompagnato da un nuovo appetito, un vivo desiderio di mostrare la nostra forza […]. Ambizione, interesse, sete di conquista territoriale, orgoglio, puro piacere di combattere, comunque lo si voglia chiamare, siamo animati da una nuova sensazione. Siamo di fronte a uno strano destino. Il sapore dell’Impero è sulle nostre labbra, come il sapore del sangue nella giungla.
Da quel momento in poi, la linea era stata presa: il sentimento nazionale americano era ormai compatibile con il fatto che gli Stati Uniti si impadronissero del vasto mondo e usassero le loro forze armate in nome della civiltà americana, dei loro legittimi interessi e dei loro diritti in virtù della loro superiorità morale. L’arrivo al potere di Theodore Roosevelt accelerò, se ce ne fosse stato bisogno, questo cambiamento: presidente dal 1901 al 1909, nel 1903 appoggiò la creazione di Panama – che si era emancipata dalla Colombia – per garantire la costruzione del Canale di Panama, di cui gli Stati Uniti presero il controllo.

Il 18 novembre 1903, in base al trattato Buneau-Varilla, Panama concesse agli Stati Uniti “l’uso, l’occupazione e il controllo di una zona di terra (…) per la costruzione, la manutenzione, il funzionamento, l’igiene e la protezione del suddetto canale”, dove Washington installò molto rapidamente diverse basi militari con 10.000 uomini. Nel 1904, in un famoso discorso, Roosevelt affermò che gli Stati Uniti avevano il dovere di intervenire in America Latina e nei Caraibi quando i loro interessi erano minacciati (6: Theodore Roosevelt, Discorso al Congresso, 6 dicembre 1904.6):

L’ingiustizia cronica o l’impotenza che derivano da un generale allentamento delle regole della società civile possono alla fine richiedere, in America o altrove, l’intervento di una nazione civile, e nell’emisfero occidentale l’adesione degli Stati Uniti alla Dottrina Monroe può costringere gli Stati Uniti, per quanto a malincuore, in casi flagranti di ingiustizia e impotenza, a esercitare il potere di polizia internazionale“.
“In America o altrove”: questo discorso, presentato come un “corollario alla Dottrina Monroe”, contribuì in realtà a metterla in discussione. Tredici anni dopo, la partecipazione alla Prima guerra mondiale avrebbe completato questa conversione al mondo con un’ingerenza su larga scala negli affari europei di cui, cento anni prima, la giovane nazione americana non aveva voluto sentir parlare.

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Esternare i nostri odi. Ucraina e Gaza. Di nuovo. _ di AURELIEN

Esternare i nostri odi.
Ucraina e Gaza. Di nuovo.

AURELIEN
8 NOV 2023

Dato che alcuni degli argomenti di cui scrivo possono essere controversi, c’è sempre il rischio che si sviluppino discussioni di cattivo umore su aspetti periferici, come è successo con l’ultimo saggio. Mi preme cercare di mantenere questo spazio libero da polemiche (ce ne sono già in abbondanza), quindi vi prego di cercare di esprimervi con moderazione.

Grazie a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta ora pubblicando anche alcune traduzioni in italiano.

Questi saggi saranno sempre gratuiti, e potete sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri e ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno già contribuito.

E ora ….

Ho già scritto in passato del simbolismo più profondo dell’atteggiamento dell’élite occidentale nei confronti della guerra in Ucraina. “Sostegno” è una parola inadeguata per descrivere la loro posizione isterica e xenofoba, meno a favore dell’Ucraina, a dire il vero, che contro la Russia. E poi, come ho sostenuto, la “Russia” in questo senso non è un Paese vero e proprio, ma un nemico simbolico da distruggere, perché contravviene alle più care nozioni ideologiche universalistiche della nostra Casta Professionale e Manageriale e, continuando comunque a esistere, suggerisce che esse potrebbero non essere assolutamente universali, dopo tutto.

È chiaro che questa intolleranza della differenza è una parte importante dell’odio cieco che l’Occidente porta nelle sue azioni nel conflitto tra Ucraina e Russia. E chiaramente spiega anche in parte l’atteggiamento occidentale nei confronti del conflitto a Gaza. Israele si è sempre presentato socialmente e ideologicamente come uno Stato occidentale, piuttosto europeo, quindi distinto dai suoi vicini arabi, con un sistema politico che assomiglia ad alcuni paesi europei e basato su alta tecnologia e alti livelli di istruzione. (Quanto questa sia una descrizione accurata di Israele non posso dirlo, perché non ci sono mai stato). Inoltre, mentre la dimensione di uno Stato europeo di coloni è stata minimizzata negli ultimi anni, c’è ancora un forte richiamo non dichiarato al tipo di persone che hanno sostenuto la Rhodesia e il Sudafrica dell’apartheid in passato. E poi l’opinione pubblica occidentale è sempre propensa a guardare con favore ai Paesi che fanno della tecnologia militare avanzata un feticcio. Quindi c’è sempre stata un’identificazione istintiva di Israele con gli Stati Uniti, piuttosto che con Loro.

Eppure. C’è qualcosa nell’inanità robotica della risposta politica occidentale a Gaza, con la sua ripetizione meccanica di slogan vuoti e il suo atteggiamento di mite interesse non giudicante mentre gli edifici vengono fatti saltare in aria, che fa pensare che possano essere all’opera anche forze più profonde e inconsce. In questo saggio voglio suggerire quali potrebbero essere almeno alcune di esse. Non entrerò nei dettagli di ciò che sta accadendo a Gaza, né tanto meno dei diritti e dei torti: Lascio questo compito ai più informati. Ma, al contrario, è stato detto molto poco sulle dinamiche e sulle origini più profonde degli atteggiamenti occidentali, ed è su questo che voglio concentrarmi qui. Suggerirò anche che una variante della stessa logica è all’opera sull’Ucraina, oltre ai fattori che ho discusso nel mio precedente saggio. Parlerò soprattutto dell’Europa, concentrandomi in particolare sulla Francia, ma sospetto che molte delle stesse argomentazioni si applichino agli Stati Uniti. Ma iniziamo con Gaza, attraverso una piccola escursione nella sociologia occidentale, perché temo che Gaza sia il primo esempio di nuove sollecitazioni per alcuni sistemi politici europei, a cui potrebbero non sopravvivere.

Un aspetto sorprendente della storia di Gaza è lo scollamento tra l’atteggiamento delle élite e quello della popolazione in Occidente. Si tratta di uno sviluppo relativamente nuovo. Nella maggior parte dei Paesi occidentali, fino a poco tempo fa, gli israeliani erano visti come degli occidentali che davano un calcio a quei maledetti arabi, come avremmo dovuto fare noi. Ma forse negli ultimi vent’anni, gli atteggiamenti popolari hanno iniziato a divergere da quelli delle élite, e questo può essere in qualche modo rintracciato nei sondaggi d’opinione. Di per sé questo non è sorprendente: riflette in parte la scomparsa di una generazione che dava per scontato il colonialismo e l’uso della forza contro i neri e gli uomini di colore, sostituita da generazioni che sono cresciute sentendo parlare sempre di diritti umani. D’altra parte, questo scollamento tra le opinioni popolari e quelle delle élite è molto tipico dei nostri sistemi politici occidentali, quasi a prescindere dall’argomento, il che induce a pensare che anche in questo caso possano esserci forze più ampie all’opera.

Possiamo partire dal giudizio che, in tutta la storia moderna, raramente si è verificata una maggiore distanza tra le opinioni e gli interessi delle élite, riflessi nei media e nel discorso politico, e quelli della gente comune. A volte si fanno paragoni con il XVIII secolo, ma in realtà nella Francia pre-rivoluzionaria c’era molta più omogeneità di pensiero di quanta ce ne sia oggi nella nostra società. C’erano certamente potenti correnti liberali, ma erano più che controbilanciate dai tradizionalisti a tutti i livelli della società: era la gente comune della Vandea, dopo tutto, che andava a combattere gli eserciti rivoluzionari con lo slogan “per Dio e per il Re”: questi due elementi erano per loro, così come per l’aristocrazia, l’intera base della società. In effetti, credo sia ormai assodato che la dottrina dell’estremo liberalismo sociale ed economico sposata dal PMC abbia il sostegno veramente entusiasta solo di una parte molto piccola della popolazione occidentale: forse il dieci per cento al massimo. L’effettivo controllo dei principali partiti politici occidentali da parte dell’ideologia del PMC nasconde in qualche modo questo dato, ma i sondaggi d’opinione e i referendum mostrano con grande chiarezza che gli elettori occidentali vogliono qualcos’altro. Possono registrare un voto di protesta o non votare affatto, e al massimo possono votare per quello dei principali partiti che quella settimana sembra meno ripugnante.

Il PMC lo sa, ed è per questo che i suoi discorsi e i suoi scritti sono spesso solo delle filippiche contro coloro che, a loro dire, minacciano la democrazia, la civiltà, la libertà, i diritti umani e altre cose degne di nota. Non avendo politiche concrete che offrano vantaggi specifici alla gente comune, ci invitano a mobilitarci contro le minacce di nemici chimerici, in particolare il “fascismo”, l'”estrema destra”, i “nazionalisti intransigenti” e altri bersagli in gran parte intercambiabili. Il che è strano, se si considera da dove proviene la violenza contro le società occidentali, per la maggior parte, negli ultimi anni. Ma certe cose è meglio non dirle. In parole povere, il PMC odia e disprezza il resto di noi, che ancora si aggrappa a idee superate come giustizia ed equità, società e famiglia, uguaglianza e solidarietà, a prescindere dalle convenzionali differenze tra destra e sinistra. Ma in realtà è un po’ più complicato di così.

Ho spesso sostenuto che ha senso trattare il PMC come qualcosa di simile al vecchio Partito Comunista Sovietico, con tendenze e fazioni e dispute politiche interne, ma con una salda presa collettiva sul potere. Mi viene in mente che un’altra immagine utile potrebbe essere quella del Partito in 1984, con la sua distinzione tra livelli interni ed esterni. In realtà, gran parte della PMC, che ulula e sbraita contro Putin, che firma petizioni per i bagni per transessuali e che ora assiste con tranquilla indifferenza alla distruzione di Gaza, è in realtà l’equivalente del Partito Esterno, che gode di pochi dei benefici e dei vantaggi di cui godono i suoi equivalenti del Partito Interno, ma che spera disperatamente di unirsi a loro un giorno. Dopotutto, se si considerano alcune delle parti più ferventi del PMC (docenti universitari, giornalisti, ONG, manager della finanza, avvocati di medio livello, per esempio), è difficile sostenere che l’attuale sistema economico e sociale dia loro molti vantaggi reali. Infatti, anche se possono indossare l’uniforme grigia e conservare la fantasia di entrare un giorno nel Partito Interno, la maggior parte di loro lavora in condizioni di stress e insicurezza che non avrebbero mai potuto immaginare nemmeno vent’anni fa. E anche i loro persecutori (gli androidi delle risorse umane, per esempio, la Polizia del Pensiero di oggi) hanno i loro problemi e il loro stress. Nessuno è felice.

Esiste quindi un conflitto profondo e inconciliabile tra gli interessi della PMC nel suo complesso (soprattutto il Partito Esterno) e le vere élite, spesso descritte come “l’uno per cento” o, in questo modo di analizzare le cose, il Partito Interno. Il Partito Esterno è soggetto a disciplina, controlli di fedeltà e conformità ideologica obbligatoria, ma sembra godere di uno status aggiuntivo o di vantaggi concreti rispetto alla gente comune. Il Partito Esterno è il discendente storico della classe dei servitori intellettuali: i precettori e i segretari, i funzionari delle grandi case, gli avvocati e gli intellettuali. È forse significativo che sia questa la classe che ha sottratto la Rivoluzione francese alla gente comune e l’ha portata alla sua conclusione. Come gli intellettuali del XVIII secolo, il Partito Esterno di oggi premia (o si affeziona a) la logica, la scienza e la razionalità. E come quegli intellettuali, sospetto che ribollano di ambizione e rabbia frustrata, odiando l’aristocrazia da un lato e la gente comune dall’altro.

Supponiamo che tu sia un membro del Partito Esterno: un ricercatore senior presso una ONG per i diritti umani in un grande Paese occidentale. Avete trascorso tre o quattro anni all’università per conseguire una laurea in legge, poi un altro paio di anni di specializzazione in diritto dei diritti umani, seguiti da un prestigioso stage presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e un altro presso le Nazioni Unite. Non male, eh? Beh, in alcuni Paesi potresti essere indebitato per il resto della tua vita, e anche nei Paesi in cui l’istruzione è gratuita probabilmente hai trascorso un decennio vivendo alla giornata. Questo è il vostro secondo contratto a breve termine senza diritto alla pensione. La tua ONG dipende per la maggior parte della sua esistenza dai finanziamenti di una Fondazione che sta “rivalutando le sue priorità strategiche” e la sua dirigenza passa la maggior parte del tempo a occuparsi di controversie interne sulla discriminazione e sulla sottorappresentazione delle minoranze. Tua sorella, di qualche anno più grande, che studia economia e ha un lavoro da dirigente medio un po’ insicuro in una banca, si è appena separata dal suo compagno e sta cercando di trovare un modo per occuparsi del loro bambino, visti gli orari assurdi che le vengono richiesti. Non è sicura di potersi permettere di rimanere nella casa che la coppia ha comprato. Vostro cugino, giornalista, lavora dodici ore al giorno, sette giorni su sette, per pubblicare un numero sufficiente di articoli che fanno da click-bait per guadagnarsi da vivere. Tuo zio è andato in pensione anticipata dal servizio sanitario perché non ce la fa più e tua zia ha rinunciato a un buon lavoro in un’azienda energetica privatizzata per lo stesso motivo. Non puoi fare a meno di pensare a quanto fosse più semplice e facile la vita dei tuoi genitori (un’insegnante e un funzionario dell’amministrazione locale, che non sono mai andati all’università, ma avevano una casa di proprietà).

Ma non si tratta solo di insicurezza e della necessità di placare i finanziatori. La pressione del lavoro è incessante e vi viene chiesto continuamente di aderire a campagne, firmare petizioni, sostenere cause e, soprattutto, di esprimervi sempre nel modo giusto usando le parole giuste. Tutto questo sta diventando più che sopportabile e può solo peggiorare. Siete molto arrabbiati, ma non osate esprimere la vostra rabbia, nemmeno in privato, contro le persone che ritenete responsabili. Partecipate a sessioni pubbliche di odio contro nemici ufficialmente designati, isti e ismi, ma i veri bersagli del vostro odio sono altrove. E l’Ucraina è, ovviamente, un’opportunità meravigliosa e liberatoria per lasciar andare un po’ di quell’odio e unirsi ad altri che gridano alla morte e alla distruzione, senza alcun rischio per voi stessi. E ben al di sopra di voi nella gerarchia del Partito, persone che in sostanza non sono più felici della vostra vita, provano lo stesso sentimento, nei confronti di chi sta sopra di loro e di chi sta sotto.

Ma con Gaza c’è un elemento in più. Non ha un nome certo, e tende a chiamarsi come la politica del giorno richiede. Forse “movimento di massa dei popoli” è il termine migliore. Ma comunque lo si descriva – immigrazione, ricerca di asilo, movimenti di rifugiati – si tratta in realtà di un fenomeno abbastanza nuovo, che ha origini specifiche e che ora sta cominciando a generare problemi specifici e intrattabili che persino i membri più anziani del Partito Interno fanno fatica a ignorare. Per generazioni, individui, famiglie e piccoli gruppi si sono trasferiti in Europa per sfuggire alle persecuzioni e trovare una vita migliore (non conosco abbastanza i dettagli dell’esperienza statunitense per commentare a lungo, ma credo sia la stessa cosa). (I due primi ministri francesi più importanti del periodo tra la Prima guerra mondiale e l’ascesa al potere di De Gaulle, Léon Blum e Pierre Mendes-France, provenivano entrambi da famiglie ebree immigrate).

Negli ultimi trent’anni, tuttavia, senza alcuna discussione o decisione formale, le élite occidentali hanno optato per un nuovo modello di immigrazione di massa dai Paesi poveri, per lo più, ma non esclusivamente, islamici, in gran parte per fornire una classe operaia più compiacente, e senza alcuna seria considerazione delle cose che dovevano essere fatte per rendere accettabili e di successo tali massicci cambiamenti sociali. In Francia, ad esempio, alcune parti del sistema politico volevano solo manodopera a basso costo, mentre eventuali problemi sociali potevano essere risolti da altri. In pratica, si trattava per lo più di giovani maschi single e non qualificati, che potevano essere fatti lavorare fino all’esaurimento della loro utilità e poi scambiati con una nuova partita. Solo in seguito, e sempre senza un serio dibattito, è diventato comune consentire ai lavoratori migranti di portare con sé le proprie famiglie e ai bambini nati in Francia di richiedere la cittadinanza francese in determinate circostanze. All’epoca nessuno pensava che fosse un problema importante.

Le ragioni di questi sviluppi sono complesse e richiederebbero un lungo saggio per essere spiegate, ma, oltre che con l’avidità dei datori di lavoro, hanno a che fare con l’avvento al potere e l’influenza della sinistra post-1968 (o “sinistra”, se preferite), che ha abbandonato le tradizionali priorità economiche a favore di nuove priorità sociali. Quando questa nuova politica iniziò a diffondersi in Francia negli anni ’80, Georges Marchais, il leader di lungo corso del Partito Comunista, si oppose fermamente, sostenendo che avrebbe solo fatto scendere i salari e peggiorato le condizioni di lavoro. Naturalmente aveva ragione, ma la sua opposizione è naufragata sull’entusiasmo della generazione post-1968 per la “libera circolazione dei popoli” e altre idee astratte di fratellanza e unità, oltre che sulla loro totale mancanza di interesse per il benessere della gente comune. Se appartenete a quella generazione, ricorderete il facile ottimismo dell’epoca sulla mescolanza di popoli e culture. Siamo tutti fratelli e sorelle, in realtà. Il colore della pelle non ha significato. Le differenze possono essere appianate con discussioni amichevoli e campagne antidiscriminatorie. Uniamo le mani e portiamo la pace nel mondo, cantando Kumbaya.

Soprattutto, la religione non era un problema. Era un’epoca di secolarizzazione galoppante, non solo nella generale separazione tra Chiesa e Stato in Occidente, ma anche nel precipitoso calo della frequenza alle chiese e nell’altrettanto repentino declino dell’importanza sociale e politica della religione organizzata. Il cristianesimo stesso ha abbandonato in gran parte ogni pretesa di autorità morale o di giustificazione soprannaturale e ha dedicato i suoi sforzi a rendere Dio “rilevante” per il mondo moderno, il che è strano, se ci si pensa, dato che se si fosse davvero un cristiano credente, la questione sarebbe sicuramente opposta.

Questo atteggiamento si è esteso anche alle altre religioni e ai movimenti verso il culto ecumenico e le buone relazioni tra le diverse fedi. Si presumeva che le altre fedi e i leader religiosi del mondo avrebbero ricambiato. La religione, in quanto tale, era vista come un fenomeno puramente sociale, una questione di identità culturale che sarebbe scomparsa con il tempo, man mano che il mondo sarebbe diventato sempre più omogeneo. È per questo motivo che l’ayatollah Khomeini fu rimandato in Iran nel 1979 senza troppa riflessione: come leader religioso ci si aspettava che fosse una forza di pace e di moderazione, un misto, se vogliamo, di Gandhi e Martin Luther King. Tutti commettiamo errori, ma alcuni sono davvero gravi.

La PMC dell’epoca aveva scarsa conoscenza o interesse per la vita della gente comune nei Paesi da cui sarebbe arrivata la nuova immigrazione. I cittadini che conoscevano erano stati educati in Europa o negli Stati Uniti e pensavano e parlavano come noi. Ma qui c’era una grande opportunità per sentirsi bene con se stessi, per espiare, a loro modo di vedere, i precedenti misfatti coloniali e, soprattutto, per trovare una nuova comunità da patrocinare. In Francia, ad esempio, la sinistra aveva progressivamente perso interesse per la becera classe operaia francese: aveva successivamente sposato la causa dell’FLN in Algeria, della rivoluzione cubana, dei vietnamiti, dei maoisti cinesi durante la Rivoluzione culturale, persino dei manifestanti iraniani che portarono Khomeini al potere. Ma le lotte anticolonialiste erano ormai finite (non c’è mai stato molto interesse per il Sudafrica) e la difesa delle preferenze sessuali delle minoranze poteva portare solo fino a un certo punto. Con la fine della Guerra Fredda, è arrivata la fine dei partiti di massa della vecchia sinistra, basati sulla classe, e la loro trasformazione in consulenze sullo stile di vita.

I partiti della “sinistra” non sono mai stati molto interessati all’Islam, così come non hanno mai letto, anziché sventolare, il Libretto Rosso di Mao o non hanno mai tentato di dare un senso ad Althusser. Piuttosto, la religione era accessoria per poter codificare le nuove comunità di immigrati di massa non solo come vittime di cui la “sinistra” poteva difendere la causa, vittime del razzismo, della violenza, della discriminazione, della repressione o di qualsiasi altra cosa, ma anche come vittime su cui si poteva contare per votare nel modo giusto, e quindi mantenere la “sinistra” al potere, soprattutto a livello locale. Oltre a trattarli come materia prima per le proprie ambizioni politiche e spettacoli performativi, la “sinistra” non aveva alcun interesse per queste comunità di immigrati e faceva poco o nulla per loro. Naturalmente gli immigrati in Francia avevano storicamente votato per la vecchia sinistra, anche perché un numero sproporzionato di loro apparteneva alla classe operaia. L’appello tradizionale al voto degli immigrati si basava in gran parte sulla solidarietà di classe, non sull’attribuzione dello status di vittima. Tra gli elettori immigrati più anziani, questa memoria popolare è rimasta potente e non è ancora scomparsa del tutto.

Ma, saltando rapidamente su una storia lunga e complessa, la “sinistra” non ha capito che queste comunità avevano i loro costumi sociali, la loro fede religiosa e le loro organizzazioni politiche. Hanno dormito durante l’arrivo degli imam radicali finanziati dagli Stati del Golfo e dalla Turchia e delle moschee costruite con i soldi dei loro governi. Poiché non prendevano sul serio la religione, e non riuscivano a immaginare perché qualcun altro avrebbe dovuto farlo, hanno respinto tutte le preoccupazioni sul radicalismo islamico, sulla progressiva presa di controllo di parti delle città da parte di bande religiose e sulla crescente violenza verbale e reale contro le scuole e gli insegnanti, perché non rientravano nel loro atteggiamento utilitaristico e paternalistico nei confronti di queste comunità. Invece, chiunque si lamentasse di questi problemi, o anche solo riconoscesse la loro esistenza, poteva essere liquidato come un “islamofobo”. ”

Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo punto soprattutto per la Francia, perché la Costituzione francese, in un riflesso delle terribili battaglie contro la Chiesa cattolica nel XIX secolo, è sempre stata laica: cioè la completa separazione tra Chiesa e Stato è esplicitata. Per gli islamisti radicali, l’idea stessa è un’eresia, perché vedono l’esistenza stessa dello Stato come dipendente dalla direzione religiosa. Come recita il ricorrente slogan islamista: “se le leggi ripetono ciò che c’è nel Corano, non hanno alcuna importanza. Se differiscono da ciò che è scritto nel Corano, sono peccaminose e non devono essere rispettate”. La “sinistra” francese ha potuto ignorare questo problema qualificando le rivolte, gli omicidi e gli attacchi terroristici come reazioni al “razzismo istituzionale” o altro: l’idea che le persone possano essere realmente motivate a uccidere da un credo religioso è al di là della loro comprensione.

Sono successe diverse cose che hanno disturbato questo comodo stato di cose. Il Partito vive in gran parte lontano dalle comunità di immigrati che patrocina, e gli attacchi alle scuole e agli insegnanti, per esempio, sono trattati brevemente, se lo sono. L’ultimo omicidio di un insegnante, avvenuto ad Arras il mese scorso, è stato però significativo perché l’aggressore (figlio di una famiglia di rifugiati ceceni) stava cercando un insegnante di storia da uccidere. È stato affrontato da diversi insegnanti (uno dei quali è stato ucciso) e da alcuni membri del personale di supporto, che alla fine lo hanno sopraffatto. La storia fece un breve scalpore, anche se il Partito Interno educa i suoi figli altrove, per cui l’interesse svanì rapidamente. Ma perché un insegnante di storia? La questione si fa interessante e potenzialmente significativa.

La Francia ha la più grande comunità ebraica d’Europa ed è politicamente potente, anche se molto più piccola della comunità musulmana. Ha avuto successo nel promuovere le sofferenze della comunità ebraica in Francia durante la Seconda guerra mondiale, e in effetti il programma scolastico ufficiale di storia per quel periodo pone grande enfasi su quella che i francesi chiamano la shoah, adottando la parola ebraica per la persecuzione e l’assassinio degli ebrei sotto il Terzo Reich. Negli ultimi anni, tuttavia, i genitori musulmani hanno iniziato a opporsi, talvolta in modo violento, a questo insegnamento. Alcuni hanno fatto proprie le teorie cospiratorie diffuse da predicatori radicali, secondo cui le persecuzioni non sono mai avvenute, o perlomeno sono state esagerate. Molti altri le considerano semplicemente una propaganda, che oscura e giustifica il trattamento israeliano dei palestinesi. Oggi è pericoloso essere un insegnante di storia, e mai come dopo l’inizio dei combattimenti a Gaza.

La “sinistra” non si preoccupa di qualche insegnante morto e tra i suoi più ferventi sostenitori ci sono proprio i giovani insegnanti che hanno accettato completamente la sua nuova agenda sociale e che vedono i loro alunni musulmani come una minoranza perseguitata. Tuttavia, si sta cominciando a capire che in Francia c’è un’ampia popolazione di immigrati con idee sociali e religiose prevalentemente conservatrici, molti dei quali non accettano i precetti fondamentali di una democrazia o di una repubblica, pesantemente influenzati da predicatori estremisti e alcuni dei quali hanno già mostrato una propensione alla violenza. Questa comunità vota e, come la popolazione rurale della Francia di un secolo fa, spesso lo fa seguendo le indicazioni dei leader religiosi. Per molto tempo, i membri della PMC “dell’immigrazione”, come dicono i francesi (e sono numerosi), hanno pensato e si sono comportati come il resto della PMC. Ma ora cominciano a comparire rapper e stelle dello sport della classe operaia immigrata che fanno proprio il vocabolario dell’Islam politico. Gaza ha complicato enormemente la situazione. Se i media ufficiali e la classe politica sono quasi istericamente a favore di Israele, si sta aprendo una vera e propria spaccatura nella società francese, e non solo tra “musulmani” in senso banale e “non musulmani”. Ad esempio, una parte consistente della popolazione “araba” della Francia è costituita da libanesi, siriani ed egiziani cristiani, che tuttavia provano una certa solidarietà con la popolazione di Gaza.

Pertanto, l’ingresso incontrollato in Francia (e in altri Paesi) di un gran numero di immigrati, spesso poco istruiti, ma religiosamente e socialmente conservatori, che ora iniziano a organizzarsi e a votare secondo le loro convinzioni, ha avuto conseguenze facilmente prevedibili, ma ovviamente non previste. Nelle elezioni in Europa hanno già iniziato a comparire partiti islamici politici appena mascherati. Chi avrebbe mai potuto immaginarlo? Cosa faremo al riguardo? Vi sorprenderà sapere che né il Partito Interno né il Partito Esterno ne hanno la più pallida idea, ed è per questo che articoli seri e preoccupati sulla possibilità di un esodo di massa degli ebrei francesi dopo l’ultima serie di slogan imbrattati sulle sinagoghe coesistono con fotografie e testimonianze sull’assalto a Gaza, spesso l’uno accanto all’altro sulla pagina, o in sequenza in un notiziario. Le due cose esistono in mondi diversi e non possono essere conciliate. Lo sporco segreto è che, nella misura in cui l’antisemitismo attivo è davvero un problema in Francia al giorno d’oggi, non proviene tanto dall’estrema destra tradizionale, quanto dai giovani musulmani radicalizzati. Sono stati loro a deturpare le sinagoghe all’inizio di quest’anno, durante i disordini che M. Mélenchon ha definito una “rivolta popolare”. Il PMC non ha idea di come affrontare tutto questo e spera solo che sparisca.

In nome dell’agenda del PMC, che prevede l’apertura delle frontiere, la libera circolazione delle persone, manodopera a basso costo, qualcuno da trattare con condiscendenza e verso cui sentirsi superiori, abbassando i salari e lasciando che qualcun altro faccia il lavoro sporco, l’immigrazione ha creato una popolazione per lo più povera e insicura, spesso radicalizzata, che ora rappresenta una forza elettorale formidabile da catturare per qualsiasi partito politico, ma che, d’altra parte, ha opinioni ben al di fuori e in ritardo rispetto al mainstream della politica dei Paesi dell’Europa occidentale, soprattutto in Francia. Ironia della sorte, questa forza elettorale sta iniziando a far sentire la sua voce su questioni come l’aborto, l’omosessualità e persino l’educazione di bambini e bambine nella stessa scuola, di cui i partiti consolidati dovranno tenere conto se vogliono i loro voti. Si può sentire M. Mélenchon soffocare da qui. Ma il problema è più ampio: è chiaro che l’intera politica è stata un disastro e un fallimento. Da un lato, non ha prodotto la forza lavoro flessibile e flessibile sognata dai datori di lavoro. Gli standard educativi sono bassi e in calo, perché si è investito poco, ad esempio, nell’insegnamento della lingua francese, mentre i diversi costumi sociali continuano a creare grattacapi ai datori di lavoro su questioni come i maschi e le femmine non sposati che lavorano uno accanto all’altro. E dall’altra parte della spartizione politica, la “sinistra” non può più contare sul voto degli immigrati (più immigrati=più voti!) come in passato. In effetti, il voto degli “immigrati” si sta spostando lentamente verso destra, soprattutto per ragioni sociali.

Le cose sono andate così male che anche il partito deve prendere atto. Alcuni membri del partito esterno devono mandare i loro figli nelle scuole pubbliche e vedere i risultati della guerra islamista all’istruzione in prima persona e la vendita di droga fuori dalle scuole. Non possono protestare, a causa del razzismo, ma questo non fa che aumentare la loro rabbia e la loro disperazione. Persino l’Inner Party sta iniziando a notare che i suoi ristoranti preferiti nei centri cittadini chiudono prima, per paura di scontri violenti tra bande di immigrati per le loro quote di criminalità organizzata. Non doveva essere così.

Se la crisi a Gaza si protrarrà ancora a lungo, in diversi Paesi europei si aprirà una frattura politica che non ha precedenti né rimedi evidenti. Non si tratta solo della lobby ebraica contro un blocco elettorale importante e radicalizzato: anzi, questa è solo una piccola parte del problema. Il partito, in tutta Europa, è già massicciamente alienato dalle preoccupazioni economiche e sociali della gente comune, e ora, grazie alla pressione di Gaza, una comunità elettoralmente significativa le cui preoccupazioni sono selvaggiamente lontane da quelle del PMC sta trovando voce, e i partiti che vogliono essere eletti dovranno corteggiarla. Una cosa è liquidare gli elettori bianchi con atteggiamenti socialmente conservatori come fascisti e idioti, un’altra è liquidare gli elettori non bianchi che dicono la stessa cosa, perché ancora una volta si tratta di razzismo.

Ma cosa può fare il Partito? Per definizione, non ha mai torto: può solo essere messo in difficoltà dalla realtà. Molte cose possono essere gettate nel buco della memoria della storia, ma il Partito non può controllare tutto e non può controllare il modo in cui la gente comune vive la vita. Il che ci riporta di nuovo all’Ucraina. Il Partito (e in particolare il Partito esterno) ha trovato negli ultimi due anni uno sfogo per la sua rabbia e il suo odio repressi nei confronti della gente comune e delle loro idee arretrate e reazionarie, oltre che, naturalmente, dei suoi stessi padroni. Se non può distruggerli letteralmente, allora può distruggerli simbolicamente, distruggendo la Russia, un Paese che hanno arbitrariamente deciso di rappresentare tutte le peggiori caratteristiche non-PMC dei loro stessi Paesi. Non funzionerà, ovviamente, perché le soluzioni simboliche non funzionano mai davvero, ma per un po’ darà uno sfogo alla rabbia e all’odio, ed è per questo che pensano che la guerra debba continuare.

I paragoni sono sempre difficili, ma è almeno possibile che Gaza occupi una parte dello spazio mentale all’interno delle teste dei membri scontenti del Partito Esterno adiacente a quella occupata dalla Russia. (Proprio come i sogni originari di alcuni dei sionisti più moderati, le fantasie del Partito di comunità di culture radicalmente diverse che vivono in pace fianco a fianco in Occidente si sono rivelate irrimediabilmente sbagliate e fuorvianti. Forse se tutto fosse stato fatto in modo diverso? Chi lo sa. Ma il fatto è che né il sogno della destra di una forza lavoro istruibile, disperata, flessibile e sostituibile, né quello della “sinistra” di una docile base elettorale da assecondare e da usare per sentirsi bene con se stessa, hanno mai potuto realizzarsi. In entrambi i casi, le motivazioni erano egoistiche ed egoiste, e l’unica funzione degli immigrati era quella di svolgere i ruoli loro assegnati. Non sono un esperto di Stati Uniti, ma ho la sensazione che qualcosa di simile possa accadere anche lì.

Quindi la massa di immigrati, molti dei quali alla seconda generazione, altri alla terza, ha deluso gli ideatori del progetto. Ora, se solo potessimo fare qualcosa con queste persone deludenti… se solo potessimo trasferirle, mandarle via, rimandarle a casa. Naturalmente, a causa dei nodi del Pensiero-Criminale in cui la “sinistra” si è legata, queste idee non possono mai essere espresse. Anzi, non devono essere pensate consapevolmente. Così, invece, abbiamo l’indecente entusiasmo della “sinistra” occidentale per l’espulsione dei palestinesi da Gaza, come sostituto sublimato e non riconosciuto.

Non si possono fare paragoni troppo azzardati tra Gaza e le aree ad alta densità di immigrati delle città occidentali, naturalmente, ma mi ha colpito molto la somiglianza tra i tetri e squallidi condomini di Gaza e i sordidi grattacieli ai margini dei principali centri abitati in Francia, dove le comunità di immigrati sono state parcheggiate, per essere dimenticate se non quando possono essere utili a qualcosa. Come nel caso di Gaza, il problema delle comunità di immigrati in Europa è rimasto eternamente irrisolto, e per molti versi non affrontato. E ora è troppo tardi.

Comincio a chiedermi se, dopo aver esternato tutto il resto, non ci sia rimasto altro da esternare che l’odio per altri membri della nostra società. .

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Letto all’estero. L’evoluzione della guerra in Ucraina vista dalla Russia_ da REVUE CONFLITS

Letto all’estero. L’evoluzione della guerra in Ucraina vista dalla Russia
da REVUE CONFLITS

 

In questo testo, scritto da Vassily Kashin, uno dei principali pensatori strategici russi, l’autore presenta la sua analisi e la sua visione dello stato attuale della guerra in Ucraina e della possibile evoluzione del conflitto. È un’analisi da conoscere se si vuole capire come vengono percepite le cose dall’altra parte del conflitto.
Vassily Kashin ha conseguito un dottorato in scienze politiche. È ricercatore presso il Centro di studi avanzati europei e internazionali dell’Università nazionale di ricerca e della Scuola superiore di economia. È anche ricercatore senior presso l’Istituto dell’Estremo Oriente russo. Il testo che segue, tradotto dai redattori di Conflits, è stato pubblicato sul giornale russo Profil, che tratta temi economici e commerciali.

L’articolo è apparso sul sito web originale il 1° novembre. Lo stesso giorno, il generale ucraino Valery Zaluzhny, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha riconosciuto il fallimento della controffensiva in un’intervista a The Economist. Di fronte a una guerra di logoramento e a forze ucraine esauste, ci si chiede cosa possa fare la Russia nel 2024. Vassily Kashin fornisce alcune risposte nella sua analisi.

Non ha funzionato: il fallimento della controffensiva ucraina e le sue conseguenze
L’obiettivo della grande offensiva ucraina era quello di infliggere una pesante sconfitta strategica alla Russia, tagliando il corridoio terrestre che portava alla Crimea. Tuttavia, tra gli ufficiali militari e i politici occidentali realmente informati, pochi o nessuno credevano che le Forze Armate dell’Ucraina (AFU) sarebbero state in grado di raggiungere un tale risultato. Sarebbe strano aspettarsi un atteggiamento diverso: durante tutta la guerra, gli ucraini non sono mai riusciti a sfondare le difese preparate delle truppe russe.

L’offensiva di Kharkov del settembre 2022 fu condotta contro forze russe estremamente ridotte e distribuite lungo il fronte, che non disponevano di un serio sistema di fortificazioni. Anche l’offensiva nella regione di Kherson dell’agosto-novembre 2022 è stata condotta contro una forza russa esausta e tesa, ma ha consentito solo avanzamenti limitati a costo di pesanti perdite, finché la minaccia di distruzione dei punti di attraversamento del Dnieper ha costretto le forze russe a ritirarsi sulla riva sinistra.

Alla luce di quanto sopra, sarebbe stato imprudente aspettarsi un successo degli ucraini in queste nuove condizioni. Nell’estate del 2023, l’equilibrio delle forze si era spostato a favore della Russia. La linea di difesa russa era perfettamente equipaggiata e fortificata. Anche la mobilitazione dell’industria nazionale cominciava a dare risultati evidenti.

Il vero obiettivo dell’offensiva non era quindi quello di sconfiggere le forze russe con accesso al Mar d’Azov, ma di costringere Mosca a negoziare a condizioni favorevoli all’Occidente. A tal fine, era necessario in primo luogo dimostrare che l’Ucraina manteneva l’iniziativa strategica, in secondo luogo infliggere pesanti perdite all’esercito russo, che avrebbero destabilizzato la situazione all’interno del Paese, e in terzo luogo compiere progressi che avrebbero permesso di rivendicare la vittoria.

Crisi della strategia ucraina
L’offensiva ucraina aveva obiettivi essenzialmente politici e il criterio principale del suo successo avrebbe dovuto essere il cambiamento dell’umore della società russa e la percezione della situazione da parte dei leader del Paese. Questa pianificazione è stata caratteristica di Kiev per tutta la durata del conflitto. Gran parte dello sforzo dell’Ucraina, e forse la maggior parte delle sue perdite, erano legate a operazioni progettate per creare un forte effetto mediatico.

La difesa ostinata di città dichiarate “fortezze” in condizioni deliberatamente sfavorevoli, le rischiose incursioni di squadre di sabotatori appositamente addestrati nell’ex territorio russo e la pubblicazione di video su TikTok, così come gli attacchi a oggetti simbolici nelle città russe (il Cremlino, i grattacieli di Mosca) sono esempi tipici di questo tipo di azione. È probabile che questa strategia si basi sul trasferimento sconsiderato in Russia delle idee occidentali sull’atteggiamento del pubblico nei confronti della guerra, formatesi durante le campagne americane ed europee all’estero, come le guerre in Vietnam e in Iraq.

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Per usare una metafora cinematografica, l’Ucraina ha cercato di interpretare il ruolo di un maestro di kung fu in un vecchio film d’azione di Hong Kong che, puntando il dito su specifici punti dolenti, spera di mettere fuori gioco un avversario di forza e dimensioni superiori. Ma il maestro non conosce bene l’anatomia e sbaglia continuamente, colpendo punti in cui ci sono poche terminazioni nervose.

L’atteggiamento della società russa nei confronti della NATO è tale che accetterà di ammettere la sconfitta e di ritirarsi dal conflitto solo dopo una serie di gravi fallimenti sul campo di battaglia (accerchiamento e sconfitta di grandi gruppi militari). Ogni fallimento minore incoraggerà la Russia a utilizzare sempre più risorse per raggiungere la vittoria. E in termini di risorse, la Russia è di gran lunga superiore all’Ucraina (anche con tutto l’aiuto che l’Occidente può fornire).

La visione occidentale della fine del conflitto
Il fallimento della “controffensiva” ha dimostrato che la strategia di porre fine al conflitto a condizioni accettabili per l’Occidente ha raggiunto un’impasse. Quali sono queste condizioni?

Non è mai stato seriamente ipotizzato un ritorno ai confini del 1991, o addirittura allo stato del 23 febbraio 2022. Inoltre, l’integrità territoriale dell’Ucraina non era una priorità per gli Stati Uniti e i loro alleati. Né il desiderio di annettere nuovi territori era la motivazione principale di Mosca per lanciare un’operazione militare speciale.

La ragione del conflitto era un disaccordo sul posto dell’Ucraina nel sistema di sicurezza regionale. La Russia ha cercato di eliminare l’Ucraina come potenziale fonte di minaccia, costringendola ad adottare uno status di neutralità e ad accettare restrizioni sull’industria della difesa e sulle forze armate.

Per gli Stati Uniti, è importante preservare l’Ucraina come potenziale testa di ponte militare. Di conseguenza, per Washington, l’esito del conflitto è accettabile: l’Ucraina perde una parte significativa del suo territorio, ma rimane un avamposto degli Stati Uniti – con il conseguente riarmo, lo spiegamento di basi militari statunitensi e così via. In altre parole, per l’America non importa quanto territorio perda l’Ucraina, purché rimanga economicamente vitale, cioè controlli i suoi principali centri economici e politici.

Ponendo fine al conflitto in queste condizioni nel prossimo futuro, gli Stati Uniti potrebbero ridurre temporaneamente la spesa per il sostegno militare a Kiev, “congelando” di fatto il conflitto. Ciò consentirebbe all’America di concentrarsi sulle crisi in altre parti del mondo e, soprattutto, di concentrare i propri sforzi sul contenimento della Cina.

In futuro, con l’Ucraina integrata nel sistema delle istituzioni occidentali e gestita da un regime nazionalista e russofobico, Washington potrebbe in qualsiasi momento tornare a utilizzare l’Ucraina come strumento militare per scoraggiare o sconfiggere strategicamente la Russia.

In futuro, con l’Ucraina integrata nel sistema delle istituzioni occidentali e governata da un regime nazionalista e russofobo, Washington potrebbe in qualsiasi momento riprendere a usare quel Paese come strumento militare per dissuadere o sconfiggere strategicamente la Russia.

Cosa cerca la Russia?
Per Mosca, un tale risultato significa un’alta probabilità di una nuova guerra, molto più distruttiva, forse in un futuro non troppo lontano. Naturalmente, questa guerra non è predeterminata. Anche supponendo che il conflitto si concluda in termini accettabili per Washington, molte cose potrebbero andare storte.

Ad esempio, gli Stati Uniti potrebbero rimanere impantanati in conflitti in Medio Oriente con l’Iran e i suoi alleati e in Estremo Oriente con la Cina e Taiwan. Se le cose vanno male per gli americani in queste parti del mondo, non potranno mai tornare al progetto di ricostruzione e rimilitarizzazione dell’Ucraina.

Il problema, tuttavia, è che queste probabilità dipendono da molti fattori sui quali Mosca ha poca o nessuna influenza.

La pianificazione russa deve basarsi sullo scenario peggiore, ovvero la rapida rimilitarizzazione dell’Ucraina. Di conseguenza, dal punto di vista di Mosca, la NATO non può essere chiusa finché questa minaccia non sarà eliminata.

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Nel marzo 2022, la Russia è stata vicina ad accettare un accordo di pace in base al quale non avrebbe acquisito alcun nuovo territorio, ma avrebbe ricevuto garanzie di smilitarizzazione e neutralità dall’Ucraina. E proprio questo accordo, come ormai sappiamo per certo, è stato vanificato dall’intervento diretto di Stati Uniti e Regno Unito.

Da allora, la situazione è cambiata. La Russia si trova di fronte al compito di raggiungere i confini esterni delle sue quattro nuove entità costitutive della Federazione. La Costituzione russa rende impossibile qualsiasi compromesso territoriale. L’elevata minaccia di provocazioni, sabotaggi e attività terroristiche da parte dell’Ucraina potrebbe creare la necessità di raggiungere altri confini. In ogni caso, la questione territoriale sarà risolta sul campo di battaglia. L’attuale confine si troverà probabilmente lungo la linea di contatto al momento del cessate il fuoco.

L’equilibrio di potere
La posizione strategica dell’Ucraina si sta deteriorando. I segni di stanchezza sono sempre più evidenti. Lo dimostra l’ordinanza del Ministero della Difesa ucraino pubblicata all’inizio di settembre, che consente di dichiarare idonee al servizio militare le persone affette da epatite virale, HIV asintomatico, lievi disturbi mentali, malattie del sangue e degli organi circolatori e una serie di altri disturbi. Altre misure sono state adottate per aumentare il numero di persone che possono essere mobilitate (laureati, studenti in congedo, medici donne, disabili a carico, ecc.) I certificati di invalidità rilasciati in precedenza sono in corso di revisione, le commissioni militari sono state ispezionate e le pratiche di mobilitazione estreme – raid, consegne forzate alle commissioni militari e pestaggi degli evasi – sono ampiamente utilizzate.

A quanto pare, le perdite irrecuperabili rappresentano un importo significativo rispetto alle risorse di mobilitazione a disposizione di Kiev. Allo stesso tempo, l’attuale tasso di aumento delle perdite è tale che l’Ucraina non sarà in grado di mantenerlo a lungo. Il limite della forza potrebbe non essere di anni, ma di mesi.

Naturalmente, la cerchia di persone che possono essere mobilitate può ancora essere allargata. Dopo tutto, durante la Grande Guerra del Paraguay del 1864-1870, il Paraguay riuscì a mandare nell’esercito e a perdere sul campo di battaglia fino al 90% della popolazione maschile e, nella fase finale del conflitto, a mettere sotto le armi donne e bambini.

Tuttavia, la capacità dello Stato ucraino di controllare la società è limitata. La corruzione e l’evasione dal servizio militare sono massicce. Inoltre, il costante rinnovo dell’elenco delle categorie di cittadini soggetti alla mobilitazione ha portato a un declino della qualità dei coscritti e a un ulteriore aumento del numero di vittime. Inviando nell’esercito reclute sempre meno sane e addestrate, è stato possibile comprare una piccola tregua dalla sconfitta a costo di grandi sacrifici.

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La guerra in Ucraina: uno studio sulle operazioni non convenzionali

I politici e gli esperti occidentali ripetono ormai come un mantra che sia l’Ucraina che la Russia sono incapaci di condurre operazioni offensive su larga scala. La prima parte di questa tesi è stata confermata dal fallimento della controffensiva ucraina. Tuttavia, nulla fa pensare che la Russia non sia in grado di fare un passo avanti sul campo di battaglia. In termini di numeri e di armamenti, l’esercito russo continua a diventare più forte del nemico.

Dalla primavera, le truppe russe hanno iniziato ad acquisire grandi quantità di armi che prima erano del tutto assenti (ad esempio, i moduli di pianificazione e correzione universali per le bombe) o utilizzate in piccole quantità (munizioni di sbarramento, droni FPV). In alcune aree precedentemente problematiche (uso dei droni per la ricognizione), la Russia ha eguagliato o addirittura superato il suo nemico.

Un risultato importante è stata la transizione della Russia, a giudicare dagli ultimi documenti pubblicati, verso l’uso di nuovi tipi di munizioni di sbarramento in grado di attaccare un bersaglio in modo autonomo, utilizzando l’intelligenza artificiale e le tecnologie di riconoscimento dei modelli.

Infine, il conflitto in Medio Oriente scoppiato il 7 ottobre e la crescente minaccia di una grave crisi politico-militare intorno a Taiwan nel 2024 hanno già portato a una riallocazione delle risorse militari statunitensi e a una riduzione degli aiuti all’Ucraina.

La capacità di lanciare una grande offensiva dipende in gran parte dalla capacità dell’esercito russo di sviluppare nuove tattiche per superare l’attuale crisi posizionale. Se tali tecniche verranno trovate, le dinamiche del conflitto potrebbero cambiare radicalmente.

Una fase pericolosa
Il deterioramento della situazione in Ucraina ha portato a un’intensificazione delle discussioni in Occidente sulle modalità di risoluzione del conflitto. Tale soluzione potrebbe essere raggiunta attraverso i negoziati. Ma il loro avvio è ostacolato dalla crisi politica interna in corso negli Stati Uniti, dalla lotta tra diverse parti dell’attuale amministrazione americana e dal timore di indebolire l’unità occidentale.

Il problema della futura collocazione dell’Ucraina nel sistema di sicurezza europeo, che è la chiave per porre fine al conflitto, è stato parzialmente risolto. Le infrastrutture del Paese sono state distrutte. Il bombardamento degli impianti energetici nell’autunno-inverno del 2022-2023 non ha portato al collasso del sistema energetico solo perché il calo del consumo di elettricità, soprattutto nell’industria, è stato così brutale da superare i danni causati dai missili russi alla capacità produttiva e alle reti.

Il potenziale demografico continua a ridursi: gli emigrati ucraini in Europa si stanno stabilendo (trovano lavoro, i loro figli frequentano le scuole locali) – la probabilità di un loro rimpatrio sta diminuendo. La fine del conflitto e l’apertura delle frontiere potrebbero portare non al ritorno dei rifugiati, ma all’esodo della popolazione maschile ancora intrappolata in Ucraina.

Il perdurare dei combattimenti si ripercuote anche sul clima imprenditoriale. L’Ucraina rimane un Paese incredibilmente corrotto. Allo stesso tempo, sotto la copertura del conflitto armato e dei poteri straordinari dell’esercito e del controspionaggio, è in corso una ridistribuzione su larga scala delle proprietà con la forza. Chiaramente, non sono questi i presupposti per un decollo economico postbellico.

Di conseguenza, la ricostruzione dell’Ucraina potrebbe essere difficile o richiedere molto più tempo e denaro del previsto. Tuttavia, poiché questi fattori sono difficili da prevedere, la Russia cercherà in ogni caso di ottenere garanzie che non vi sarà una rimilitarizzazione su larga scala dell’Ucraina. Il prezzo di queste garanzie per gli Stati Uniti e i suoi alleati è ora ridotto.

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Parlare di questo argomento sarà doloroso per Washington e i suoi partner. Probabilmente non vogliono vedere l’Ucraina nella NATO, ma dare a Mosca tali impegni è per loro inaccettabile. Inoltre, il livello di fiducia tra Russia e Stati Uniti è negativo: le parti potrebbero sospettare l’una dell’altra di non essere disposte a negoziare e di voler semplicemente far trapelare informazioni sul dialogo per ottenere un rapido effetto politico.

Il conflitto entra quindi in una fase pericolosa. L’avversario si rende conto che la sua posizione si sta deteriorando e può cercare di sbloccare la situazione con una brutale escalation.

Già oggi si moltiplicano i tentativi di colpire il territorio russo entro i confini del 1991 e la Crimea. Anche il trasferimento di nuovi missili all’Ucraina va visto in questo contesto.

Le attività sovversive e terroristiche stanno diventando pericolose. Il recente tentativo fallito dei servizi segreti ucraini di organizzare l’avvelenamento di massa di diplomati e insegnanti della scuola di aviazione di Armavir è un segno della transizione dei servizi di sicurezza ucraini verso l’organizzazione di attacchi terroristici di massa, tipici dell’epoca delle guerre nel Caucaso settentrionale.

Un cambiamento radicale dell’equilibrio di potere sul campo di battaglia a favore della Russia potrebbe anche rimettere all’ordine del giorno l’opzione di introdurre truppe della NATO nel territorio ucraino, il che potrebbe portare Russia e Stati Uniti sull’orlo di una crisi nucleare.

Il tentativo di cambiare le dinamiche del conflitto attraverso un’escalation non porterà a un risultato positivo. La posta in gioco è troppo alta per la Russia e gli Stati Uniti, quindi un’eventuale crisi nucleare potrebbe rivelarsi pericolosa senza precedenti. Questa situazione può essere evitata solo se i principali partecipanti al conflitto avviano un dialogo che tenga conto delle condizioni oggettivamente esistenti.

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La guerra in una nuova epoca: Il ritorno dei grandi eserciti, di Vasily Kashin, Andrei Sushentsov

Ottobre 2023 Club Valdai

Partecipanti all’analisi situazionale:Yevgeny Buzhinsky,Presidente del Centro PIR, Tenente Generale (in pensione), membro e vicepresidente del RIACVasily Kashin,Ricercatore senior, direttore del Centro per la ricerca globaleIlya Kramnik,Borsista di ricerca, Gruppo di valutazione del rischio, IMEMO, Accademia russa delle scienze (RAS)Sergei Markedonov,R i c e r c a t o r e capo, Centro per la sicurezza euro-atlantica, Università MGIMOViktor Murakhovsky,Capo redattore della rivista “Arsenal”, esperto militare, colonnello (in pensione)Alexander Nikitin,Direttore del Centro di Sicurezza Euro-Atlantica, Università MGIMONikolai Silayev,Direttore, ricercatore capo, Laboratorio per l’analisi dei dati intellettuali, Università MGIMODmitry Stefanovich,Ricercatore, Settore Economia Militare e Innovazioni, Istituto di Economia Mondiale e Relazioni Internazionali (IMEMO), Accademia delle Scienze Russa (RAS)Andrei Sushentsov,Direttore del programma del Valdai Discussion Club; Preside della Scuola di Relazioni Internazionali dell’Università MGIMO.

Si ringrazia lo studente del Master MGIMO Alexei Danilenko per l’assistenza tecnica nella preparazione di questo rapporto.

Contenuti

La Grande Guerra: dal passato al presente

3 Esiste una base di confronto?

7 La guerra per il futuroLa guerra di Corea Il conflitto in Ucraina

11 Le grandi guerre in una nuova era

11 Come nascono gli eserciti e l’inutilità dell’esperienza

13 Politica manifatturiera: Ritorno alle origini

14 La produzione della difesa può essere autonoma?

15 Incursioni informative in un conflitto militare

16 La propaganda in evoluzione

19 Le conseguenze delle grandi guerre per la società e l’economia

19 Ideologia

19 Emigrazione

21 Vantaggi degli eserciti di massa

21 Interesse per la politica estera

21 Base industriale

22 Sfere prioritarie

22 Sviluppo di sistemi di difesa aerea e civile

22 Potenza spaziale

23 Un mondo nuovo e coraggioso

 

La Grande Guerra: dal passato al presente

La guerra ad alta intensità in Ucraina rappresenta il più grande conflitto militare in termini di forze coinvolte, vittime e durata dalla guerra Iran-Iraq del 1980-1988. Ma è solo l’entità dei combattimenti a giustificare un confronto. Dal punto di vista politico, gli eventi attuali sono unici nella storia recente.La guerra Iran-Iraq è stata uno scontro tra due potenze regionali, causato dalle l o r o differenze. Le operazioni militari lanciate dalle coalizioni guidate dagli Stati Uniti contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 hanno visto il leader mondiale attaccare una potenza regionale indebolita. Inoltre, nel 2003 l’Iraq era completamente isolato da dieci anni e non era in grado di acquistare o mantenere sistemi d’arma sofisticati. La guerra delle Falkland nel 1982 e il conflitto tra Georgia e Ossezia meridionale nel 2008 hanno coinvolto avversari altamente diseguali, il che ha reso questi impegni così brevi.

Esiste una base di confronto?

Il conflitto in Ucraina è il risultato delle divergenze tra due grandi potenze, gli Stati Uniti e la Russia. Pertanto, il precedente storico più vicino al conflitto ucraino è la guerra di Corea, conclusasi quasi settant’anni fa. Era molto diversa in termini di tattiche ed equipaggiamento militare, ma piuttosto vicina agli sviluppi attuali per quanto riguarda gli aspetti politici. In entrambi i casi, una grande potenza nucleare ha dovuto impegnare le proprie forze in una campagna militare prolungata contro uno Stato regionale non nucleare che riceve supporto militare ed equipaggiamento militare da una potenza nucleare ostile. In entrambi i casi, il conflitto riguarda il futuro dell’ordine mondiale, non i l destino del Paese che ospita il teatro delle operazioni.Nel suo discorso sulla politica asiatica degli Stati Uniti del gennaio 1950, il Segretario di Stato americano Dean Acheson lasciò la Corea al di fuori del “perimetro di difesa” dell’America in Asia, concepito per contrastare quello che definì “l’imperialismo sovietico”.1 L’entrata in guerra degli americani non aveva tanto a che fare con il destino della Corea quanto con il timore che la vittoria dei comunisti nella penisola coreana sarebbe stata il prologo della loro marcia vittoriosa in Asia e nel mondo. Dopo la guerra, il presidente Dwight Eisenhower concettualizzò questa visione come “teoria del domino”. 

L’esito del conflitto ucraino, qualunque esso sia, deciderà il futuro dell’ordine globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora prima dell’inizio dell’operazione militare speciale (SMO) della Russia, il 17 febbraio 2022 il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che “la posta in gioco va ben oltre l’Ucraina. Si tratta di un momento di pericolo per la vita e la sicurezza di milioni di persone, nonché per le fondamenta della Carta delle Nazioni Unite e dell’ordine internazionale basato sulle regole che preserva la stabilità in tutto il mondo”.2 In seguito, sono seguite ripetute dichiarazioni che collegavano l’esito dei combattimenti in Ucraina a l destino dell’attuale ordine globale stabilito dagli Stati Uniti e dai loro alleati unilateralmente e nel loro interesse.In combinazione con il fattore nucleare, questa alta “posta in gioco” ha predeterminato la natura dell’attuale conflitto. Come l’URSS in Corea, gli Stati Uniti utilizzano le proprie forze armate in Ucraina in modo limitato, ma altamente sofisticato. Come in Corea, questo coinvolgimento è volto a minimizzare la probabilità di un’escalation verticale.L’Unione Sovietica inviò in Corea le sue unità di aviazione da combattimento, l’artiglieria di difesa aerea e le truppe radar. Pur essendo dislocate nelle retrovie, queste forze giocarono un ruolo importante nella guerra. Durante il conflitto, i sovietici abbatterono centinaia di aerei da guerra statunitensi e uccisero numerosi militari americani. Ma il coinvolgimento dell’URSS in quanto tale fu un fattore di i m p o r t a n z a strategica ancora maggiore. Fu l’Unione Sovietica a impedire alle forze ONU guidate dagli Stati Uniti di sfruttare la loro superiorità aerea, di tagliare le linee di rifornimento cinesi e nordcoreane e di isolare l’area delle operazioni di combattimento. Il risultato fu una guerra prolungata, con perdite considerevoli per gli Stati Uniti (36.000 morti e oltre 100.000 feriti) e un esito incerto.In Ucraina, i satelliti di ricognizione, gli aerei e i droni statunitensi fanno parte di una forza d’attacco integrata di ricognizione che comprende armi da fuoco controllate dall’Ucraina, come i sistemi missilistici. Il targeting americano è probabilmente alla base della maggior parte degli attacchi ucraini a lungo raggio che uccidono i soldati russi.Come in Corea, il coinvolgimento limitato della superpotenza ostile nelle operazioni di combattimento non è un segreto per la controparte. Il desiderio di evitare un’escalation è stato un fattore limitante per gli Stati Uniti negli anni Cinquanta. Lo stesso sentimento dissuade la Russia dall’attaccare le forze nemiche coinvolte nel conflitto. Gli Stati Uniti non hanno colpito le basi dell’aviazione da combattimento sovietica. La Russia finora si è astenuta dall’abbattere i velivoli spaziali statunitensi, i satelliti, il perno dei sistemi di ricognizione, comunicazione e comando ucraini.Oggi, le superpotenze e i loro più stretti alleati che non sono direttamente coinvolti nella campagna militare sono responsabili della consegna della maggior parte dei rifornimenti a coloro che sostengono il peso dei combattimenti. Questo richiede molte risorse. Secondo l’Istituto di Kiel per l’economia mondiale, gli aiuti esteri all’Ucraina tra il gennaio 2022 e il maggio 2023 sono stati pari a 165 miliardi di euro e questa cifra continua a crescere.Non sappiamo quanto denaro abbia speso l’URSS per la guerra di Corea. Le spedizioni di armi inviate in Corea consistevano per lo più in eccedenze e trofei lasciati dalla Grande Guerra Patriottica, ma anche questi costavano molto. In alcuni casi, l’URSS fornì ai suoi alleati cinesi e coreani armi avanzate, come gli aerei da combattimento MiG-15, che costarono anch’essi un bel po’ di soldi tra gli sforzi del dopoguerra per risanare l’economia sovietica e l’estrema povertà dell’URSS.Come la guerra di Corea, la campagna in Ucraina si svolge all’ombra delle armi nucleari, che non vengono utilizzate ma definiscono il quadro delle operazioni militari. A un certo p u n t o , l’escalation porta inevitabilmente a considerare le opzioni nucleari. Durante la guerra di Corea, il generale Douglas MacArthur esortò il presidente Harry Truman ad autorizzare l’uso di armi nucleari per evitare la minaccia della sconfitta. La Russia non ha mai dichiarato ufficialmente l’intenzione di usare le armi nucleari in Ucraina, nonostante le accuse dell’Occidente di voler brandire la sua “clava nucleare”. Né ha mai dato motivo di pensare che il loro uso fosse seriamente contemplato. Le dichiarazioni russe relative a una potenziale escalation nucleare avevano lo scopo di impedire l’aperta interferenza della NATO nel conflitto (ci riferiamo, ad esempio, alle opzioni di no-flight zone discusse nei primi mesi dell’operazione militare speciale) e si sono rivelate piuttosto efficaci.La guerra di Corea fu innescata dalle divergenze tra i due regimi coreani. Sebbene sia stato il Nord a lanciare l’attacco massiccio che ha scatenato la guerra, entrambi i regimi coreani nutrivano un’estrema ostilità nei confronti dell’altro nel periodo precedente la guerra e covavano piani per stabilire il controllo sulla penisola coreana. Si sono verificati regolarmente scontri armati tra i due regimi (il che ricorda la situazione del Donbass tra il 2015 e il 2021). Molte di queste schermaglie sono state avviate dal Sud, ambizioso e duro quanto il Nord.Il Nord considerava la conquista del Sud come essenziale per la propria sopravvivenza politica. Temendo le minacce del Sud, il Nord agiva sulla base di informazioni imprecise ed eccessivamente ottimistiche sulla situazione interna del Paese.

I nordcoreani credevano che un attacco decisivo e riuscito avrebbe portato alla caduta del regime sudcoreano, proprio come le élite russe hanno sottovalutato la disponibilità dell’Occidente a fornire una sostanziale assistenza militare e tecnico-militare a Kiev, permettendo all’Ucraina di continuare la sua resistenza militare.

La guerra per il futuro

Sia la guerra di Corea che l’operazione militare speciale russa in Ucraina sono esempi di scontri sul diritto di giocare un ruolo specifico nella formazione del futuro ordine internazionale. Entrambe sono emerse durante periodi di trasformazione strutturale del sistema di relazioni internazionali.

La guerra di Corea

La guerra di Corea ha segnato un passo significativo nell’istituzione di un sistema bipolare di relazioni internazionali, riflettendo la tendenza all’egemonia americana emersa dopo la Seconda guerra mondiale. Se gli Stati Uniti avessero ottenuto una vittoria convincente nella penisola coreana, sconfiggendo le forze comuniste e unificando la regione sotto il controllo d e l regime di Seoul, l’emergere del bipolarismo avrebbe potuto essere impedito o rimandato indefinitamente.L’assenza di una chiara vittoria americana, nonostante i notevoli sforzi compiuti dagli Stati Uniti (durante la guerra di Corea furono ripristinate alcune pratiche di gestione economica di emergenza risalenti alla seconda guerra mondiale, tra cui il controllo dei prezzi e dei salari), portò all’emergere di un avversario paragonabile all’America. I successivi successi sovietici nello sviluppo industriale, nella missilistica e nella tecnologia nucleare, insieme al raggiungimento della parità nucleare, hanno ulteriormente consolidato questa tendenza.D’altra parte, pur non riuscendo a raggiungere i propri obiettivi globali, gli Stati Uniti sono riusciti a evitare una grave sconfitta. La Corea del Sud è stata salvata, il sistema di alleanze americane è stato rafforzato e gli Stati U n i t i h a n n o ristrutturato e migliorato le loro politiche in ambito militare ed economico.Nei decenni successivi, gli Stati Uniti si trovarono sulla difensiva, mentre l’Unione Sovietica era all’offensiva, diffondendo la sua influenza in tutto il mondo. Ciononostante, gli Stati Uniti furono in grado di  mantenere la sua posizione di “superpotenza numero uno” fino al m o m e n t o i n cui, negli anni ’70, l’URSS ha iniziato ad avvicinarsi visibilmente al suo declino.Il successivo grande cambiamento nell’ordine mondiale – la transizione dal bipolarismo all’unipolarismo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 – non è stato accompagnato da ostilità a causa della rinuncia unilaterale dell’Unione Sovietica alle sue posizioni nella politica internazionale, seguita dall’autodissoluzione.I cambiamenti nella struttura delle relazioni internazionali si basano su spostamenti dell’equilibrio di potere nell’economia, nell’industria, nella scienza e nella tecnologia, e persino nella cultura e nell’ideologia. Questi cambiamenti si accumulano fino alla transizione verso una fase qualitativamente nuova. Di conseguenza, gli Stati si trovano ad affrontare sia nuove minacce strategiche sia nuove opportunità. Queste minacce e opportunità sono abbastanza convincenti da spingere i Paesi a sostenere le spese significative e gli enormi rischi associati alla guerra moderna.La minaccia di una grande guerra persiste durante tutta la fase di transizione nell’evoluzione dell’ordine mondiale. Il fatto che la guerra di Corea, un conflitto indubbiamente unico tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta, si sia conclusa con un armistizio non era predeterminato; è stato un colpo di fortuna per tutta l’umanità. Diverse crisi in quel periodo avevano il potenziale per degenerare in una vera e propria guerra prolungata, forse con una conseguente escalation nucleare.

Conflitto in Ucraina

Nel contesto della crisi ucraina, la Russia come grande potenza – pur essendo direttamente coinvolta – non è il motore principale dei cambiamenti in corso nell’equilibrio di potere globale, anche se vi contribuisce. I cambiamenti sono in gran parte legati all’indebolimento interno degli Stati Uniti, che si manifesta con il declino del loro ruolo nell’economia globale, il rapido accumulo di debito, le crescenti tensioni socio-politiche e la crescente disfunzione della politica interna. In questo contesto, i progressi della Cina hanno portato all’emergere di un centro economico alternativo che, pur rimanendo indietro rispetto agli Stati Uniti in termini di ruolo nella finanza globale, di PIL nominale e di livello di sviluppo di alcune tecnologie, li supera di gran lunga in termini di capacità industriale e sta rapidamente riducendo il divario in altri settori. Lo sviluppo di altre nazioni non occidentali non è forse progredito a un ritmo così vertiginoso, ma ha anche complicato notevolmente la posizione dell’America.La logica seguita dagli Stati Uniti e dai loro partner in queste circostanze è stata apertamente descritta nelle dichiarazioni pubbliche dei politici occidentali. Essi percepiscono l’Ucraina come uno strumento per infliggere una sconfitta strategica 

sulla Russia, che forse non è il loro più grande, ma certamente il loro più resistente e attivo avversario sulla scena internazionale. Questa sconfitta, come minimo, dovrebbe diminuire il ruolo della Russia come attore significativo nella politica internazionale e dare una lezione ad altri potenziali avversari, mentre il risultato massimo sarebbe un cambio di regime a Mosca e l’affermazione degli Stati Uniti come egemone indiscusso. I principali strumenti scelti per raggiungere questi obiettivi sono stati il sostegno militare all’Ucraina e l’imposizione di sanzioni a oltranza alla Russia. In combinazione con ostilità prolungate e un numero crescente di vittime, ci si aspettava che il crollo dell’economia russa destabilizzasse il Paese e lo costringesse a ritirarsi dal conflitto, completamente sconfitto, nel giro di poche settimane.Eliminando la Russia dallo scacchiere geopolitico, gli Stati Uniti hanno cercato di concentrare tutte le risorse, proprie e degli alleati, nell’isolamento economico e nella pressione militare sulla Cina. L’obiettivo dell’America è quello di minare la crescita economica della Cina e di innescare una destabilizzazione interna tagliandole l’accesso ai mercati esterni, alle fonti di tecnologia e alle risorse strategicamente importanti. Le dimensioni dell’avversario cinese rendono possibile il successo solo se gli Stati Uniti impiegano tutte le loro risorse per raggiungere questo obiettivo.A prescindere da dove sarà il confine finale dopo la conclusione dell’operazione militare speciale, si può affermare che il conflitto in Ucraina è già diventato un grave fallimento strategico per gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno già subito perdite significative a causa della loro incapacità di impedire alla Russia di lanciare l’operazione militare speciale, di provocarne una rapida sconfitta e di proteggere il loro partner, l’Ucraina, da perdite e distruzione. Le sanzioni contro la Russia sono state associate a grandi costi economici sia per gli Stati Uniti che per l’Europa, forse superiori alle perdite subite dalla Russia in t e r m i n i assoluti. Il sequestro dei beni russi all’estero ha accelerato il processo di allontanamento dal dollaro e dai servizi dell’infrastruttura finanziaria occidentale in tutto il mondo. Nonostante le azioni ostili dell’Occidente collettivo e le restrizioni imposte, la Russia è riuscita a evitare la destabilizzazione economica e politica interna, ha intrapreso la militarizzazione della sua economia e ha ampliato il suo esercito. È molto probabile che dopo la campagna, qualunque sia il suo esito, la Russia rappresenti una sfida maggiore per gli Stati Uniti di quanto non fosse prima dell’inizio dell’operazione militare speciale. Parlando dei “successi” degli avversari, vale la pena notare che gli Stati Uniti sono riusciti a solidificare il loro controllo sull’Europa e su alcuni alleati chiave nella regione Asia-Pacifico, a consolidare la propria élite attorno a nuovi obiettivi strategici e ad avviare il processo di creazione di un’economia militare innovativa.  Anche se la Russia non ha ancora eliminato il regime ostile in Ucraina, ha minato in modo significativo il potenziale economico e demografico del Paese (a causa dell’emigrazione di massa), riducendo la capacità degli Stati Uniti di utilizzare l’Ucraina come risorsa strategica contro la Russia in futuro. Considerando l’entità della distruzione economica in Ucraina, è possibile che nel prossimo futuro l’Ucraina si trasformi da risorsa strategica a passività strategica, richiedendo decine di miliardi di dollari all’anno per il suo mantenimento. In Russia, l’operazione militare speciale in Ucraina è diventata uno strumento per cambiamenti radicali nella politica interna, per la nazionalizzazione delle élite e per una nuova valutazione dei fondamenti della politica economica. Questi cambiamenti probabilmente non si sarebbero potuti realizzare in un contesto di stabilità fin troppo familiare.Gli Stati Uniti stanno preparando il terreno alla possibilità che il conflitto in Ucraina si concluda con un cessate il fuoco senza una soluzione politica globale, simile al modello della guerra di Corea. Questo non è in linea con i piani della Russia per raggiungere gli obiettivi della sua operazione militare speciale. In ogni caso, il conflitto ucraino servirà da preludio a successivi conflitti militari su larga scala in altre parti del mondo.

Le grandi guerre in una nuova era

La campagna militare in Ucraina non è affatto un confronto locale transfrontaliero, né un intervento di una forza superiore contro uno Stato più debole, né una guerra contro una guerriglia. Nei decenni passati, le grandi potenze sono state per lo più coinvolte in questi tre tipi di ostilità che hanno distorto l’economia delle loro politiche di difesa e degradato la loro abilità militare.

Come nascono gli eserciti e l’inutilità dell’esperienza

Nelle prime fasi del conflitto, sia l’esercito russo che quello ucraino dimostrarono di non avere le capacità necessarie per condurre una guerra su larga scala. Errori nel comando e nei rifornimenti hanno causato perdite significative per entrambe le parti.Le sfide che dovettero affrontare andavano oltre il fatto che la loro scienza e tattica militare si dimostrarono inadeguate allo scoppio del conflitto. Addestrato durante l’era precedente, il comando dell’esercito non era preparato psicologicamente ad affrontare le alte perdite, mentre era costantemente sotto pressione, essendo sotto  minaccia di armi di alta precisione, con nuovi strumenti di ricognizione e di guida, nonché il nuovo ruolo svolto dai fattori politici nella conduzione della guerra.In queste condizioni, i principali Paesi hanno scoperto che l’esperienza accumulata per decenni nel combattere le insurrezioni o nel confrontarsi con avversari più deboli si è rivelata non solo inutile, ma anche dannosa. Questo problema era già stato individuato in precedenza. In particolare, è un fatto che il comando militare sovietico aveva un motivo per non incoraggiare lo studio dell’esperienza della guerra in Afghanistan. Durante la perestrojka, i generali sovietici che lo facevano potevano essere criticati per essere troppo rigidi e arretrati, anche se ora è chiaro che avevano assolutamente ragione.All’inizio del 2023, la parziale mobilitazione della Russia ha eroso la schiacciante superiorità di uomini di cui l’Ucraina aveva goduto nel 2022. Il confronto si è evoluto in una guerra di trincea, almeno al momento della stesura di questo rapporto, mentre i tentativi d i entrambe le parti di lanciare un’offensiva decisiva n o n hanno raggiunto i loro obiettivi.Nell’ultimo anno, entrambi gli eserciti hanno subito cambiamenti radicali. È attraverso il loro coinvolgimento in azioni di combattimento e quindi dovendo pagare un prezzo molto alto in termini di perdite che la Russia e l’Ucraina hanno assistito alla nascita di eserciti equipaggiati per combattere una guerra terrestre su larga scala nella prima metà del XXI secolo.Gli eserciti russo e ucraino hanno ormai acquisito un know how unico in termini di tattiche e formazione del personale. Una grande guerra richiede una trasformazione così profonda che un Paese che non ha l’esperienza necessaria nel suo recente passato e che entra nel conflitto con il fardello di partecipare a operazioni ibride, antiterrorismo, anti-insurrezione, di mantenimento della pace o umanitarie, difficilmente riuscirà in questo sforzo.Gli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 e il successivo conflitto armato dimostrano chiaramente che il conflitto ucraino è diventato una pietra miliare nello sviluppo dell’arte della guerra.Le tattiche delle Forze di Difesa Israeliane, uno degli eserciti più esperti e meglio equipaggiati del mondo occidentale, sono state commentate nei termini più sprezzanti dai partecipanti all’operazione militare speciale in Ucraina e dagli esperti militari, sia russi che ucraini.Secondo i commentatori, la ricognizione israeliana a livello tattico era debole rispetto agli standard del conflitto in Ucraina. Non c’era protezione contro i droni da combattimento utilizzati massicciamente dal nemico, mentre il personale non aveva le competenze per c o n t r a s t a r l i . È stato notato che grazie ai droni  la concentrazione di truppe e veicoli allo scoperto, il dispiegamento di pezzi di artiglieria a poca distanza l’uno dall’altro e vicino alle munizioni s a r e b b e impensabile in Ucraina a causa dell’efficienza del fuoco di controbatteria e della minaccia permanente dei droni. Sulla base dell’esperienza dei combattimenti a Mariupol, Soledar e Bakhmut, le tattiche di combattimento della fanteria israeliana nelle aree urbane appaiono obsolete e primitive.È possibile che gli eserciti asiatici, che non hanno avuto alcuna esperienza di combattimento negli ultimi 30 anni, tra cui Cina, Giappone, Corea del Sud e Vietnam, siano meglio equipaggiati per operare in questa nuova realtà rispetto a quelli che hanno passato questi anni a inseguire uomini musulmani barbuti con RPG-7 arrugginiti attraverso colline e deserti, pensando che la guerra fosse questo.

Politica manifatturiera: Tornare alle basi

Il conflitto in Ucraina ha dimostrato ancora una volta la saggezza delle parole di Friedrich Engels, secondo cui “la guerra è diventata un ramo della grande industria”.3 Ma l’Occidente sembra aver dimenticato questo principio, avendo spostato la produzione in Paesi con manodopera più economica. Questo, a sua volta, ha portato a un paradosso quando una coalizione di 50 Paesi che riforniva l’Ucraina non è riuscita ad eguagliare la Russia in termini di fornitura di proiettili d’artiglieria per il fronte.

Anche la Russia ha perso gran parte del suo potenziale manifatturiero durante i l periodo post-sovietico e ha dovuto affrontare molteplici colli di bottiglia in questo s e n s o . Sebbene sia stata in grado di aumentare la produzione di sistemi di difesa più velocemente rispetto all’Occidente, il ritmo non è ancora riuscito a soddisfare le aspettative d e l l e forze armate russe.

Come nelle epoche precedenti, ma con la dovuta considerazione per i progressi della tecnologia, per avere successo in guerra occorre la capacità non solo di produrre armi ed equipaggiamenti ad alta tecnologia, ma anche di fabbricare prodotti che rientrano nei livelli medi o addirittura inferiori in termini di sofisticazione tecnologica. Tra questi si possono annoverare camion, munizioni d’artiglieria non guidate e proiettili per fucili, uniformi e equipaggiamenti militari.

Vale la pena ricordare che un Paese può mettere al servizio della causa militare, in un modo o nell’altro, tutte le sue capacità di lavorazione ed estrazione, nonché l’agricoltura. Allo stesso tempo, il settore dei servizi è praticamente inutile e cade in secondo piano quando si tratta di sostenere gli sforzi militari, fatta eccezione per i trasporti, le TIC e la medicina.

Poiché i servizi dominano nella struttura del PIL delle economie moderne, sono quasi inutili come indicatore per misurare le capacità militari nazionali. Il fatto che i servizi rappresentino una grossa fetta delle economie degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, con circa il 78% e il 73% dei rispettivi PIL, potrebbe indicare la loro capacità relativamente limitata di convertire questa potenza economica in una risorsa militare.

Ciò appare evidente se si considera che i Paesi sviluppati h a n n o faticato a fornire armi all’Ucraina, anche se i Paesi del G7 da soli rappresentano il 44% dell’economia mondiale rispetto alla Russia.3,2%. Ma questa quota apparentemente piccola è compensata da settori estrattivi altamente sviluppati, dall’agricoltura e da un’industria manifatturiera relativamente sviluppata.Ciò presenta l’equilibrio del potere militare nel mondo sotto u n a nuova luce.

Ad esempio, la Cina da sola ha una produzione manifatturiera doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e del Giappone, le due maggiori economie del G7.Le principali potenze militari stanno ora riflettendo se tornare ai principi di base della politica industriale risalente alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, dando priorità alla capacità di scalare la produzione nel settore della difesa.

La produzione della difesa può essere autonoma?

Oggi, a differenza della prima metà del XX secolo, non c’è nessun Paese al mondo in grado di raggiungere la piena autonomia nella produzione della difesa, il che è attribuibile alle catene di produzione sempre più complesse e al fatto che tutti i prodotti militari o i beni civili strategici richiedono oggi un mix più ampio di materiali, componenti e attrezzature.Gli Stati Uniti si affidano in larga misura a una rete di alleanze con le potenze industriali, non solo per unire gli sforzi militari, ma anche per promuovere la cooperazione industriale nella produzione della difesa. La Russia, invece, dipende meno dai legami di cooperazione nel settore della difesa. Tuttavia, la Russia non è in grado di soddisfare la propria domanda interna di attrezzature di produzione e di alcuni componenti elettronici.La Cina si è probabilmente avvicinata più di ogni altro Paese al livello di autonomia di cui godeva l’URSS al suo apice, anche se Pechino ha ancora un po’ di strada da fare, dato che continua a fare affidamento su componenti importati per alcuni dei suoi sistemi.

Altri Paesi sono ancora più vulnerabili, soprattutto quelli europei, dove la produzione di difesa probabilmente cesserebbe del tutto in caso di gravi interruzioni delle catene di approvvigionamento internazionali.Nel mondo di oggi, la dipendenza dalla divisione internazionale del lavoro per la produzione di beni strategici crea una grande vulnerabilità, con vari Paesi che cercano sistematicamente di capitalizzare questo fattore nel tentativo di indebolire i loro avversari.Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni a tappeto alla Russia nella speranza non solo di portare la sua economia verso il baratro, ma anche di minare la sua produzione di difesa. Questo piano è fallito, in gran parte a causa di un’errata comprensione del funzionamento del settore manifatturiero in Russia e dell’atteggiamento di sostegno dei Paesi in via di sviluppo nei confronti della Russia, c h e h a persino contribuito a mantenere aperti alcuni canali di fornitura.L’interruzione delle catene di produzione dell’avversario è emersa come una priorità nella guerra fredda in corso tra Stati Uniti e Cina. Gli americani hanno vietato l’esportazione di microchip avanzati e di attrezzature per la loro produzione in Cina, mentre i cinesi hanno imposto restrizioni all’esportazione di componenti e materiali per la produzione di pannelli solari al di fuori del Paese.In questi tempi di incertezza, le grandi potenze sono state spinte a riqualificare la produzione dei loro principali prodotti civili strategici e dei principali armamenti, nonché a chiudere le loro catene di produzione. In effetti, l’aspirazione allo status di grande potenza implica ora l’autosufficienza nella produzione di questi prodotti, anche se ciò comporta un prezzo in termini di qualità inferiore e costi più elevati.

Incursioni informative in un conflitto militare

L’uso delle informazioni come componente della guerra moderna è diventato uno strumento efficace per sostenere gli alleati e condurre guerre per procura. Negli ultimi decenni gli sforzi per sviluppare la tecnologia militare si sono concentrati sulla ricognizione, il monitoraggio, le comunicazioni e il comando, mentre quasi tutti i Paesi, comprese le grandi potenze, hanno continuato a fare affidamento sulla tecnologia dell’era della Guerra Fredda in tutti gli altri settori. Tuttavia, le nuove strutture di ricognizione e di raccolta di informazioni, di comunicazione e di comando hanno cambiato radicalmente il modo in cui vengono utilizzate le armi più vecchie.In Ucraina, gli Stati Uniti sono riusciti a  migliorare le capacità delle Forze Armate ucraine comunicando efficacemente agli ucraini i dati provenienti dalla sua costellazione di satelliti di ricognizione, la più grande al mondo nel suo genere, nonché dai suoi aerei di rilevamento radar a lungo raggio dislocati nei Paesi dell’Europa orientale della NATO e dai centri americani di intelligence elettronica e di cyber-operazione in questi Paesi. I sistemi di comunicazione utilizzati dalle Forze armate ucraine si basano sulla tecnologia statunitense e su Starlink, anch’esso un sistema di produzione americana di cui la Russia non d i s p o n e . Questo tipo di assistenza è di primaria importanza per le Forze armate ucraine, superando anche le consegne di armi letali, tra cui cannoni, carri armati e missili.Sembra che nelle prime fasi del conflitto, l’Ucraina abbia beneficiato dei dati satellitari ricevuti dall’Occidente per sferrare i suoi colpi più distruttivi dal Tochka-U, un vecchio sistema missilistico di epoca sovietica, o da MRL altrettanto vecchi. Quando l’Ucraina ha ricevuto sistemi moderni come gli HIMARS, questi non sono riusciti a fare una differenza radicale in termini di prestazioni, poiché il fattore chiave sono stati i dati di intelligence provenienti dai satelliti occidentali, insieme alle contromisure della Russia, comprese le difese aeree, le tattiche di camuffamento, dispersione e fortificazione. Il flusso di dati di intelligence è rimasto invariato, mentre la Russia ha migliorato le sue difese aeree e le sue capacità di guerra elettronica, oltre a migliorare l’occultamento e la dispersione delle sue truppe.Questa componente informativa consente all’Occidente di avere un serio impatto sul modo in cui si svolge la campagna militare, fornendo informazioni in tempo reale all’Ucraina e condividendo le infrastrutture di comunicazione. Questo non porta a un’escalation, ma solo finché i politici e i militari rimangono all’interno del paradigma esistente. Prima o poi, il fatto che questo coinvolgimento non letale comporti pesanti perdite renderà le infrastrutture informatiche coinvolte nel conflitto un obiettivo legittimo, indipendentemente dal loro scopo originario.

La propaganda in evoluzione

Ciò che distingue l’Ucraina dai conflitti precedenti è che si svolge in un ambiente mediatico totalmente nuovo, in cui le parti in conflitto hanno un controllo minimo, se non nullo, sui flussi di informazione.

Quando i grandi Paesi hanno affrontato avversari scarsamente armati in un conflitto ibrido, le loro macchine propagandistiche hanno potuto facilmente far fronte a questa nuova realtà. In primo luogo, gli invasori avevano il controllo del modo in cui la guerra avanzava e del suo ritmo. Affrontando un nemico praticamente disarmato, potevano ridurre al minimo l’esposizione pubblica a eventi traumatizzanti come le perdite, le intere unità intrappolate in un accerchiamento o la possibilità che il nemico facesse prigionieri. In secondo luogo, ogni volta che gli eventi prendevano una brutta piega, potevano semplicemente abbandonare tutto e a n d a r s e n e , proprio come hanno fatto gli Stati Uniti in Afghanistan.Tuttavia, questo diventa impossibile in un conflitto su larga scala. Entrambe le parti, sia vincenti che perdenti, subiscono pesanti perdite, traumi e compiono passi sconsiderati per tutto il t e m p o , dal primo all’ultimo giorno del conflitto.Ad esempio, la Germania nazista ottenne la sua ultima grande vittoria sull’URSS nella battaglia di Bautzen del 21-30 aprile 1945, quando i tedeschi sopraffecero una forza combinata dell’Armata Rossa e della Polonia durante l’offensiva sovietica contro Berlino. I tedeschi uccisero generali sovietici e polacchi, accerchiarono una divisione sovietica e la battaglia causò diverse migliaia di vittime. Anche se questo fatto non ebbe alcuna rilevanza per l’offensiva sovietica contro Berlino, non è difficile immaginare come questa sconfitta avrebbe potuto influenzare l’opinione pubblica con la guerra vicina alla fine, cioè se qualcuno avesse saputo di queste perdite.Tuttavia, nel regno dei nuovi media non è p o s s i b i l e nascondere i grandi fallimenti o i passi falsi. Tutto ciò che si può fare è riconoscerli e poi muoversi rapidamente per scoprire cosa è successo, spiegarlo e rassicurare tutti che non si ripeterà. Durante l’operazione militare speciale, la Russia è stata la prima a r e n d e r s e n e conto, facendo di centinaia di canali Telegram il suo principale strumento di propaganda. Ogni canale si rivolge a un pubblico specifico, offrendo vari punti di vista su ciò che accade sul campo di battaglia. Ma nel loro insieme sono tutti progettati per sostenere lo sforzo bellico e mobilitare il sostegno popolare per gli obiettivi principali della campagna militare in corso.L’Occidente, compresa l’Ucraina, ha scelto un approccio diverso alla sua campagna militare nello spazio mediatico. Pur utilizzando i social media e i messaggeri, ha scelto di concentrarsi sui media tradizionali in un massiccio sforzo di propaganda sostenuto dal prestigio delle principali testate occidentali cosiddette indipendenti. Sfortunatamente, ciò ha portato alla pubblicazione ricorrente di  disinformazione che può essere facilmente sfatata. Poiché il pubblico è in grado di capire questi sforzi, ciò mina la fiducia nei confronti di questi m e d i a . Lo stesso vale per i politici occidentali e ucraini. Ad esempio, a l l ‘inizio del 2023, Vladimir Zelensky ha parlato di lunghe code ai centri di leva e ha parlato di uno sforzo di mobilitazione civile, mentre la gente ha caricato online centinaia di video che mostravano uomini inseguiti per le città ucraine dagli ufficiali di leva.L’Ucraina ha inasprito la censura di guerra durante il conflitto e ha cercato di portare il settore dei media sotto il controllo centralizzato del governo, introducendo qualcosa di simile a un divieto generalizzato di discutere le azioni di combattimento sui social media, reprimendo qualsiasi informazione sulla distruzione e sui danni causati dagli attacchi russi e sulla loro efficacia, esagerando al contempo le prestazioni delle difese aeree dell’Ucraina.Anche i Paesi occidentali che sostengono l’Ucraina hanno espresso la loro preoccupazione per la portata della propaganda, temendo che i media non riflettano la situazione reale. Questo sentimento sta diventando sempre più diffuso in Ucraina, dove il governo ha dovuto adottare misure draconiane p e r arruolare i coscritti nell’esercito.E tutto ciò avviene nonostante le risorse stanziate per lo sforzo propagandistico, la cura con cui vengono redatti i messaggi, la persistente reputazione dei media internazionali in lingua inglese e l e costose trovate pubblicitarie delle Forze Armate ucraine per mantenere viva la fiducia nella vittoria e sollevare il morale degli alleati. Spesso tutto ciò ha un prezzo altissimo, come nel caso dell’incursione nel distretto di Graivoronsky della regione di Belgorod nel maggio 2023.Nel complesso, l’operazione militare speciale ha dimostrato che, nel mondo di oggi, un’azione militare su larga scala richiede nuovi metodi in termini di preparazione della società ad accettare perdite e privazioni inevitabili, nonché di copertura del modo in cui si svolge la campagna militare. Modellato dalle circostanze più che dalla progettazione, l’approccio russo presenta molti difetti, tra cui la rapida diffusione di dati non verificati, i regolari attacchi di panico e l’uso di una rete decentrata di risorse mediatiche nelle lotte politiche interne. Tuttavia, offre anche alcuni vantaggi, come la possibilità di facilitare un dialogo franco con milioni di abbonati a Telegram o la possibilità di inviare aggiornamenti sull’operazione militare speciale in tempo reale a persone al di fuori della zona dell’operazione militare speciale. Ciò significa che le linee di comunicazione sono aperte per interagire con il pubblico.

Le conseguenze delle grandi guerre per la società e l’economia

A differenza delle guerre “ibride” degli anni ’90-’90, le ostilità su larga scala come l’operazione militare speciale non permettono alla società di “nascondersi” o “chiudersi” al loro impatto. Tendono a causare gravi traumi psicologici alle persone, dividendo il tempo in “prima” e “dopo” il conflitto. L’inevitabile coinvolgimento di un numero significativo di persone in una campagna militare attraverso la coscrizione, la mobilitazione o il reclutamento di soldati a contratto da tutti i gruppi della popolazione trasforma gli eventi in u n a causa nazionale.

Ideologia

Questi sforzi sono impossibili senza che la società si riunisca intorno a idee unificanti che vadano oltre valori comuni ma importanti come il patriottismo e la “difesa dell’integrità territoriale”. La Costituzione russa vieta l’ideologia di Stato obbligatoria nel suo primo capitolo. Per modificarla sarebbe necessaria l’adozione di una nuova Legge fondamentale. Tuttavia, in realtà, un’ideologia di Stato consolidata ha iniziato a formarsi spontaneamente dopo il 2014, e questo processo si è accelerato con l’inizio dell’operazione militare speciale. Alcune idee hanno iniziato ad acquisire una dimensione legislativa (come la legislazione conservatrice), mentre altre sono state percepite dalla società come nuove norme universalmente accettate, la cui violazione ha scatenato reazioni estremamente ostili (questo includeopinioni consolidate della società sui risultati storici dell’Unione Sovietica e sul suo ruolo nella Seconda Guerra Mondiale).

Emigrazione

L’incapacità di una parte della società russa di abbracciare nuove regole e un nuovo sistema di valori ha portato molti ad emigrare. Forse questa tendenza può essere un fattore di cambiamento nella composizione dell’élite russa. Allo stesso t e m p o , si registra un significativo deflusso di popolazione dall’Ucraina, sia verso l’Occidente che verso la Russia.

Vantaggi degli eserciti di massa

L’impossibilità di condurre operazioni militari con piccoli eserciti professionali nell’attuale conflitto, la trasformazione della guerra in una causa nazionale, come è avvenuto dalla metà del XIX secolo fino alla metà d e l XX, dovrebbe portare al riemergere di alcune vecchie priorità politiche. Questa tendenza non deve essere vista in una luce completamente negativa.Per esempio, durante l’epoca degli eserciti di massa, un aspetto positivo era l’attenzione che la maggior parte dei governi prestava all’istruzione universale, poiché le scuole erano considerate un elemento cruciale per la formazione e l’educazione dei futuri soldati, da cui dipendeva la sopravvivenza dello Stato. L’ascesa degli eserciti di massa è legata anche allo sviluppo dell’assistenza sanitaria tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nonché all’enfasi posta sugli sport di massa (in contrapposizione agli sport ad alte prestazioni, che si sono trasformati in una forma di show business durante la Guerra Fredda). Nella fase iniziale, queste tendenze sono già evidenti in Russia.

Interesse per la politica estera

Nella nuova realtà, l’interesse per la politica estera sta crescendo tra ampi gruppi di persone. A differenza del periodo di stabilità degli anni 2000 e 2010, quando le relazioni internazionali erano principalmente appannaggio di pochi specialisti e non suscitavano un interesse pubblico diffuso, oggi tutti possono vedere il legame tra gli eventi globali e il proprio benessere personale. A differenza del p a s s a t o , uno Stato non può permettersi di condurre la politica estera solo in base alle proprie considerazioni, lasciando alla propaganda la spiegazione delle proprie azioni sulla scena internazionale. Si richiede invece una comunicazione diretta, sincera e aperta con il pubblico sulle ragioni delle decisioni, compreso il riconoscimento degli errori.

Base industriale

In termini di politica economica, una potente base industriale è tornata ad essere un attributo obbligatorio di una grande potenza. Questa base dovrebbe essere in grado di garantire il funzionamento stabile del complesso della difesa e dei settori strategicamente importanti anche in presenza di interruzioni delle connessioni esterne. Per la Russia, gli obiettivi critici che richiedono sforzi significativi includono il rilancio dell’industria meccanica e della produzione di microelettronica.

Sfere prioritarie

In questa nuova era, lo Stato deve dare priorità non solo all’industria, ma anche all’agricoltura, alle TIC e ai trasporti. È fondamentale investire maggiormente nella scienza e nell’istruzione. Ciò è importante sia per lo sviluppo interno, in un contesto di interruzione dei legami con l’esterno e di minori opportunità di collaborazione internazionale, sia per innalzare il livello intellettuale dei soldati di leva che si arruolano nell’esercito.

Sviluppo di sistemi di difesa aerea e civile

Durante l’operazione militare speciale, è emerso chiaramente che il costo e la diffusione dei mezzi per condurre attacchi di precisione a lungo raggio sono diminuiti in modo significativo. Ad esempio, i droni kamikaze con gittate di centinaia o addirittura migliaia di chilometri sono disponibili a prezzi che vanno dalle migliaia alle decine di migliaia di dollari. Tali armi sono potenzialmente facilmente accessibili anche ad attori non statali.Alla luce di ciò, è necessario riconsiderare gli approcci alla sicurezza delle infrastrutture, al backup di siti e sistemi critici e allo sviluppo di sistemi di difesa aerea. È necessaria anche una nuova prospettiva sui sistemi di difesa civile, che comprenda la costruzione di strutture protette dedicate, la formazione del pubblico e il miglioramento del sistema di amministrazione pubblica.

POTENZA SPAZIALE

Un potente gruppo orbitale non è solo un fattore cruciale per l’efficacia delle proprie forze armate, ma anche un mezzo ideale per influenzare l’equilibrio di potere e il corso delle ostilità in qualsiasi parte del mondo, come è apparso evidente durante l’operazione militare speciale. La capacità di fornire dati di ricognizione e di puntamento in tempo reale dai satelliti per le proprie forze armate o per quelle alleate, garantendo al contempo l’affidabilità delle comunicazioni spaziali, consente di modificare in modo significativo il corso della guerra senza alcun rischio e a costi contenuti. Lo spazio esterno come strumento per l’influenza globale e la proiezione di forza sostituisce e supera lo strumento tradizionale della Marina. Sembra che lo sviluppo di capacità spaziali debba essere un obiettivo primario per lo Stato, derivante dalle esigenze di difesa nazionale e di politica estera.

Un mondo nuovo e coraggioso

La ridistribuzione del potere e dell’influenza nel mondo, insieme alle mutevoli dinamiche di potere tra le principali nazioni, è diventata il catalizzatore di differenze estremamente acute tra di esse. Queste differenze, intensificandosi, coinvolgono l’ideologia, l’economia e i legami tecnicoscientifici e umanitari. I fattori che in passato hanno impedito alle grandi potenze di arrivare a un’escalation si stanno indebolendo. Per la prima volta dagli anni Sessanta, questi Paesi si trovano ad affrontare una minaccia reale di conflitti non nucleari su larga scala contro avversari comparabili.Tali conflitti possono portare all’escalation della minaccia di un conflitto nucleare, anche se non devono necessariamente culminare nell’uso di armi nucleari. Le armi nucleari stabiliscono piuttosto il quadro geografico e politico all’interno del quale le grandi potenze conducono tali guerre e impongono anche limitazioni all’uso di alcuni armamenti non nucleari.Le forze armate emerse nel periodo successivo alla Guerra Fredda non rispondono adeguatamente a questo nuovo livello di minacce militari. È necessaria una crescita quantitativa significativa degli eserciti moderni. Inoltre, conflitti come quello in Ucraina non possono essere combattuti pienamente da formazioni militari costituite su base volontaria, come dimostrano le esperienze di Russia e Ucraina. La mobilitazione della popolazione nelle forze armate diventa inevitabile, così come il mantenimento e l’espansione delle pratiche di coscrizione.La minaccia di una grande guerra e la rottura dei legami economici per motivi politici catalizzeranno inevitabilmente la diversificazione del sistema finanziario globale, portando al graduale emergere di diversi centri di crescita industriale e tecnologica indipendenti con potenzialità diverse.Ogni centro di questo tipo rappresenterà un’alleanza di Stati di diversa potenza, che perseguono il cammino dell’integrazione economica e industriale e puntano all’espansione.Per le nazioni di piccole e medie dimensioni, il desiderio naturale sarà quello di mantenere la massima autonomia politica il più a lungo possibile, diversificando i propri legami esterni. Cercheranno di formare coalizioni per contrastare la pressione delle grandi potenze che cercano di imporre loro delle scelte. È possibile che tali coalizioni di “piccole e medie dimensioni” si evolvano nel tempo in alleanze “militari ed economiche” e competano tra loro intorno alle grandi potenze.

Ogni centro cercherà di acquisire una propria piattaforma ideologica e valoriale ben definita, che in diversi Paesi e gruppi di Paesi costituirà una combinazione di concetti politici, ideologie e nazionalismi in proporzioni variabili. Il ruolo maggiore svolto dall’ideologia contribuirà all’alienazione tra questi centri, all’approfondimento delle linee di divisione e a un minore spazio di manovra in politica estera per l e élite al potere. Tutti i principali Paesi saranno costretti a ricorrere a quadri ideologici per le loro politiche estere e interne, con restrizioni della gamma di opinioni ammissibili e della libertà di parola (una tendenza che si osserva già tra tutti i principali attori della politica globale).La forma prevalente di conflitto tra le grandi potenze sarà quella delle guerre per procura di tipo nuovo, ossia conflitti di grandi dimensioni in cui una grande potenza nucleare concede al suo cliente l’accesso alle sue capacità informative (ricognizione e puntamento satellitare, infrastrutture di comunicazione, ecc.), nonché alla tecnologia e alle competenze militari e, se necessario, effettua u n intervento diretto limitato nel conflitto che non provochi un’escalation nucleare.Tuttavia, la minaccia di uno scontro militare diretto tra grandi potenze e di una guerra nucleare persisterà e, forse, diventerà ancora più acuta che durante la Guerra Fredda. L’obiettivo principale della diplomazia in questo nuovo mondo sarà quello di sviluppare un kit di strumenti che permetta di sopportare decenni di turbolenze senza bombardamenti nucleari. Questo obiettivo può essere raggiunto solo nel quadro di un rigoroso realismo di politica estera e di un graduale sviluppo di regole e restrizioni alla concorrenza.

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