Sebbene i bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee, al termine di un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare di comprendere cosa ci riserva il futuro.
Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.
Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.
Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.
I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.
Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.
L’incursione ucraina nella regione russa di Kursk con il probabile aiuto occidentale, ad agosto, preannunciava un autunno che si sarebbe rivelato drammatico, soprattutto in Medio Oriente, dove nel frattempo la campagna di sterminio condotta da Israele a Gaza non accennava a diminuire di intensità.
L’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, l’invasione israeliana del Libano e lo scambio missilistico fra Iran e Israele hanno segnato la definitiva regionalizzazione della crisi scoppiata a Gaza all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Tale regionalizzazione ha portato inaspettatamente alla caduta del regime del presidente Bashar al-Assad in Siria, disarticolando l’asse filo-iraniano e aprendo la strada a una possibile ridefinizione degli equilibri mediorientali.
Nel frattempo, l’elezione di Trump in un’America in crisi ha acceso flebili speranze sulla possibilità di avviare un negoziato con la Russia, ed aperto nuovi interrogativi sulle future politiche USA nei confronti di Europa, Medio Oriente e Pacifico.
Nel corso di quest’anno, ha destato crescente preoccupazione lo stato di salute della democrazia all’interno del fronte occidentale che, nella retorica americana, sarebbe minacciato da uno schieramento di “autocrazie” guidato da Russia e Cina.
L’impeachment del presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol dopo il suo ingiustificato tentativo di imporre la legge marziale, l’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania, l’ostinazione con cui il presidente francese Emmanuel Macron ha ignorato i risultati elettorali nel suo paese, la caduta del governo Scholz in una Germania sempre più disorientata, rappresentano altrettanti segnali di un modello occidentale in crisi.
Particolarmente preoccupanti gli eventi verificatisi in Corea del Sud e Romania, in quanto indicativi di una finora trascurata fragilità delle cosiddette “democrazie”.
Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol era stato in precedenza accusato di gravi episodi di corruzione e di abuso di potere, volti soprattutto a bloccare le indagini a carico di sua moglie. I retroscena che hanno preceduto il suo tentativo di imposizione della legge marziale sono inquietanti.
Nel quadro delle crescenti tensioni con la Corea del Nord (Yoon è un alleato chiave degli Stati Uniti nel Pacifico, e nel 2023 si erano avuti nella penisola coreana 200 giorni di esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul), sarebbero stati inviati droni in territorio nordcoreano dal governo di Seul, allo scopo di suscitare una reazione di Pyongyang che avrebbe giustificato l’introduzione della legge marziale.
Non meno sconcertante è quanto accaduto in Romania, dove la Corte Costituzionale ha annullato i risultati del primo turno di elezioni presidenziali, dopo il quale era in vantaggio il candidato “antisistema” Calin Georgescu, sulla base di vaghe accuse di ingerenze russe. Una decisione condannata perfino da Elena Lasconi, l’avversaria centrista ed europeista di Georgescu, che ha definito tale decisione “illegale e amorale” affermando che essa “distrugge l’essenza stessa della democrazia”.
Georgescu si oppone al sostegno militare europeo all’Ucraina e vorrebbe aprire un dialogo con Mosca. Un cambiamento che “avrebbe conseguenze molto negative sulla cooperazione di sicurezza degli USA con la Romania”, ha ammonito il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller.
Secondo le accuse, la popolarità di Georgescu sarebbe stata alimentata da una campagna propagandistica russa su alcuni social media, ed in particolare su TikTok, smascherata dai servizi di intelligence.
Ma un reportage investigativo apparso sulla stampa rumena ha rivelato che tale campagna sarebbe stata organizzata da un’agenzia di marketing ingaggiata dal Partito Nazionale Liberale, il partito di governo che ha appoggiato l’annullamento delle elezioni.
La Romania è un paese strategico per lo sforzo bellico NATO a sostegno dell’Ucraina. Essa ospita la base aerea Mihail Kogălniceanu sul Mar Nero, che al termine degli attuali lavori di ampliamento diventerà la più grande base NATO in Europa.
Il partito al potere avrebbe dunque usato i servizi di intelligence per annullare le elezioni, sulla base di prove riguardanti presunte “ingerenze straniere” in realtà fabbricate dal partito stesso, probabilmente allo scopo di impedire una svolta nell’orientamento geopolitico del paese.
In una simile eventualità, la Romania andrebbe infatti ad aggiungersi a paesi come Ungheria e Slovacchia, mettendo ulteriormente a repentaglio la compattezza del fronte europeo contro la Russia.
Quanto avvenuto in Romania è emblematico del clima che si respira in Europa, dove uno stuolo di personalità politiche, dal ministro degli esteri britannico David Lammy all’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri Kaja Kallas, al segretario generale della NATO Mark Rutte, solo per citarne alcuni, stanno lavorando per far naufragare ogni futura apertura negoziale con Mosca eventualmente promossa dal neoeletto presidente americano Donald Trump.
Altrettanto pericolosa è la proposta, ventilata dalla Francia e da altri paesi europei, di schierare una “forza di pace” europea in Ucraina, al di fuori della cornice NATO, una volta raggiunto il cessate il fuoco nel paese.
Secondo le intenzioni, una tale forza dovrebbe essere composta da almeno 50-60.000 uomini, e pesantemente meccanizzata, al fine di costituire un efficace elemento di deterrenza nei confronti di una possibile volontà russa di riprendere le ostilità.
Una forza del genere non sarebbe permanente, ma verrebbe schierata per il tempo necessario a permettere a Kiev di riarmarsi ad un livello tale da dissuadere un eventuale attacco russo.
Inoltre, sebbene la proposta non preveda lo schieramento di truppe USA, una forza europea richiederebbe un sostegno americano a livello di pianificazione, logistica, e intelligence.
In altre parole, quello proposto sarebbe in concreto un contingente di guerra composto dagli stessi paesi che sostengono Kiev, appoggiato dagli Stati Uniti, cioè a tutti gli effetti (sebbene non ufficialmente) un insediamento della NATO in Ucraina – esattamente lo scenario che la Russia considera inammissibile, e per scongiurare il quale ha invaso il paese.
Un cessate il fuoco che preveda l’ingresso di forze NATO in Ucraina e permetta a Kiev di riarmarsi sarebbe del tutto inaccettabile per Mosca, e dunque rifiutato in partenza.
Fortunatamente, è abbastanza difficile che gli europei abbiano le capacità per mettere insieme un simile contingente, tanto più che paesi come Germania e Polonia hanno già espresso in vari modi la loro riluttanza a partecipare ad una simile operazione.
Prima ancora di pensare a un cessate il fuoco, peraltro, va sottolineato che non è affatto scontato che Trump e il presidente russo Vladimir Putin arrivino ad un accordo, per la semplice ragione che non sono affatto chiare le loro reali intenzioni.
Secondo le notizie più recenti, Trump si sarebbe persuaso a mantenere invariata la fornitura di armi USA a Kiev dopo il suo insediamento, e intenderebbe armare l’Ucraina anche dopo il raggiungimento di un cessate il fuoco allo scopo di garantire la sicurezza del paese in base al principio “peace through strength” a lui così caro.
Ma questo, ancora una volta, sarebbe uno scenario inaccettabile per Mosca, che chiede un’Ucraina neutrale e smilitarizzata.
D’altra parte, l’entourage di Trump sarebbe ossessionato dalla paura di riprodurre in Ucraina un esito analogo al caotico ritiro dall’Afghanistan compiuto dal presidente Joe Biden nel 2021.
Fra i timori e i ripensamenti di Trump e della sua squadra, e l’atteggiamento non cooperativo di molti paesi europei, però, le prospettive di giungere a un’intesa con Mosca si riducono terribilmente.
L’Europa rappresenta uno dei teatri più caldi e strategici nella battaglia in corso per la ridefinizione degli equilibri mondiali.
Grazie al conflitto ucraino, Washington ha per il momento bloccato uno dei fattori chiave dell’integrazione euro-asiatica che metterebbe a rischio la sua egemonia: il consolidarsi di un sistema economico integrato euro-russo.
La nuova cortina di ferro venuta a crearsi in Europa non può pertanto essere messa a rischio da una risoluzione della guerra ucraina, secondo la prospettiva dell’establishment USA. Al più, si potrebbe pervenire ad un congelamento del conflitto che preservi l’attuale contrapposizione geopolitica.
D’altra parte, se la rinnovata divisione del vecchio continente costituisce un successo per Washington, l’inaspettata resilienza dell’economia russa di fronte al durissimo sistema di sanzioni imposto da USA e UE, la perdurante popolarità di Putin in patria, e l’offensiva sempre più incisiva delle forze di Mosca in Ucraina, hanno finora costituito altrettanti elementi di preoccupazione per gli strateghi americani.
Ad essi si affianca la sfida ancor più seria rappresentata dall’ascesa cinese. Il Covid-19, la ridefinizione delle catene di fornitura (di volta in volta denominata “decoupling”, “de-risking”, ecc.), l’introduzione dei dazi, la decisione americana di bloccare l’accesso cinese ai semiconduttori più avanzati, avrebbero dovuto frapporre considerevoli ostacoli allo sviluppo dell’economia di Pechino.
Ma tutto ciò sembra essere sufficiente al più a rallentare, ma non a fermare, la corsa cinese. Secondo le previsioni della UN Industrial Development Organization (UNIDO), nel 2030 la Cina fornirà il 45% della produzione industriale mondiale, mentre gli Stati Uniti contribuiranno ad appena l’11%.
Si tratta di una crescita sbalorditiva, se si pensa che nel 2000 la quota cinese era pari ad un magro 6%, mentre gli USA primeggiavano con una quota pari al 25%.
L’irresistibile ascesa di Pechino traina la crescente popolarità dei BRICS, raggruppamento recentemente allargatosi a nove paesi, il quale sta creando attorno a sé una vera e propria sfera d’influenza che include nazioni dell’America Latina, del continente africano, ed ora anche del Sudest asiatico.
Nel frattempo gli Stati Uniti continuano ad essere afflitti al proprio interno da una crescente disuguaglianza, da un debito sempre più insostenibile, da una declinante produttività, e da una crisi politica e sociale che probabilmente si aggraverà ancora nei prossimi anni.
Se Washington è riuscita a riconsolidare la dipendenza europea nei confronti degli USA, lo ha fatto al prezzo di sprofondare gli alleati del vecchio continente in un declino economico che li sta portando verso un progressivo impoverimento.
Ciò si traduce in una crescente crisi dei partiti di governo europeisti e filo-atlantici, a vantaggio delle cosiddette formazioni “populiste” ed euroscettiche.
Neanche nel Pacifico la situazione è rosea per Washington. Alleati chiave come Corea del Sud e Giappone sono indeboliti dalle rispettive fragilità politiche interne e, malgrado la recente superficiale riconciliazione, continuano ad avere un rapporto bilaterale guastato da annose dispute storiche.
In un quadro così precario, gli improvvisi quanto insperati successi militari israeliani in Libano, poi coronati dal rovesciamento del regime di Assad in Siria, e dal conseguente indebolimento dell’asse iraniano nella regione, hanno riacceso aspettative negli ambienti del “Deep State” americano.
Un simile effetto domino non era stato previsto dagli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca, i quali nei mesi precedenti avevano insistentemente suggerito prudenza a Israele, temendo una deflagrazione regionale che avrebbe danneggiato pesantemente gli interessi statunitensi.
Sia l’intelligence USA che quella israeliana avevano delineato scenari potenzialmente catastrofici nel caso di un’escalation militare contro Hezbollah in Libano, con centinaia – se non migliaia – di vittime fra la popolazione israeliana, causate dai missili del gruppo sciita libanese.
Secondo testimonianze di responsabili americani intervistati dal Times of Israel, il governo Netanyahu era consapevole di questo rischio quanto l’amministrazione Biden, ma aveva concluso autonomamente che era necessario pagare un simile costo.
In altre parole, quando ha deciso di tentare l’attacco che avrebbe portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah, il governo di Tel Aviv era pronto a sacrificare centinaia, se non migliaia di vite israeliane.
Il 27 settembre, data dell’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha rappresentato uno spartiacque negli eventi del 2024. L’attacco avrebbe potuto fallire, o comunque avere conseguenze terribili per la popolazione israeliana.
La temuta reazione di Hezbollah è stata invece relativamente contenuta, forse perché una parte del suo arsenale missilistico era stata distrutta da Israele nei giorni precedenti, ma più probabilmente perché quel che restava della leadership del gruppo non se l’è sentita di compiere una rappresaglia che avrebbe inevitabilmente comportato, non solo gravi danni per Israele, ma anche la totale distruzione del Libano.
Secondo quanto scritto da Frederick Kempe, presidente dell’Atlantic Council (uno dei think tank più influenti a Washington), da quel giorno l’amministrazione Biden ha smesso di cercare di contenere l’azione israeliana scegliendo invece di sfruttare al meglio il successo militare che si stava profilando.
Con l’aiuto della mediazione americana, Israele ha ottenuto in Libano un cessate il fuoco vantaggioso, che lascia all’aviazione israeliana piena libertà d’azione nei cieli libanesi.
Mentre Hezbollah è costretto a ritirarsi a nord del fiume Litani, Israele ha continuato a distruggere aree residenziali, terreni agricoli e strade nel sud del Libano (in piena violazione dell’accordo sul cessate il fuoco e della risoluzione 1701 dell’ONU).
Il cessate il fuoco, che non implica la fine delle ostilità a Gaza, ha avuto anche l’effetto di lasciare Hamas totalmente isolato nella Striscia, nella cui parte settentrionale Israele sta compiendo una violenta e sanguinosa pulizia etnica.
Nel corso del 2024 si sono accumulati i rapporti, redatti dall’ONU, e da organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch, e Médecins Sans Frontières (solo per citare le principali), secondo i quali ciò che Israele sta compiendo a Gaza è un vero e proprio genocidio.
Nella vicina Siria, il crollo di Assad è stato favorito da anni di conflitto e dal durissimo embargo americano, che hanno fatto contrarre il PIL del paese dell’85%. Ancora una volta, le sanzioni secondarie imposte da Washington si sono rivelate un’arma dirompente.
Nei giorni successivi alla caduta del regime di Damasco, avendo occupato un’ulteriore zona cuscinetto nel Golan e distrutto, con una campagna di oltre 500 attacchi aerei, più dell’80% del potenziale bellico siriano, il governo Netanyahu si è assicurato la supremazia militare sulla vicina Siria, e il controllo dello spazio aereo siriano, forse per anni a venire.
Questa concatenazione di eventi, che pochi mesi fa nessuno aveva previsto, ha riacceso l’ottimismo negli ambienti politici israeliani così come nell’establishment USA.
Dalle pagine di Foreign Affairs, Amos Yadlin (ex generale dell’aeronautica israeliana) e Avner Golov (già membro di spicco del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele) hanno prefigurato la possibilità di creare un nuovo “ordine israeliano” in Medio Oriente.
L’idea, condivisa da diversi strateghi ed esponenti politici a Washington, è di approfittare della condizione di vulnerabilità senza precedenti in cui si trova l’Iran a seguito dell’indebolimento dei suoi alleati regionali per sconfiggere una volta per tutte il progetto iraniano nella regione.
Teheran, in realtà, si troverebbe al crocevia non di uno, ma di due assi. Oltre ad essere il leader del cosiddetto “asse della resistenza” a livello regionale, l’Iran farebbe parte di quello che qualcuno a Washington ha definito “l’asse delle dittature”, composto anche da Cina, Russia e Corea del Nord.
Secondo questa tesi, la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente rappresenterebbero altrettanti punti di saldatura di questi due schieramenti. Teheran, che facilita agli avversari dell’Occidente l’accesso alla regione mediorientale ed ha supportato con l’invio di droni lo sforzo bellico russo in Ucraina, costituirebbe dunque uno snodo fondamentale di entrambi gli assi.
Isolare l’Iran, se non addirittura rovesciarne il governo, assumerebbe, secondo questa visione, un’importanza strategica. Secondo i vertici israeliani, lo Stato ebraico dovrebbe perseguire questo obiettivo in stretto coordinamento con gli Stati Uniti, oltre che con partner regionali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) e con paesi europei come Gran Bretagna e Germania.
Un’idea, questa, condivisa anche da esponenti del “Deep State” USA come il già citato Frederick Kempe, i quali puntano a persuadere Trump a cogliere questa occasione “storica”, approfittando anche della crisi energetica che sta affliggendo l’Iran (favorita dal sabotaggio di due importanti gasdotti locali ad opera di Israele lo scorso febbraio, secondo quanto riferisce il New York Times).
Un passo intermedio potrebbe essere dato da un attacco massiccio contro gli Houthi nello Yemen, alleati dell’Iran che continuano a bersagliare Israele con missili e droni, ed a minacciare il traffico marittimo nel Mar Rosso.
L’aviazione israeliana ha già colpito numerosi obiettivi nello Yemen. Una campagna di bombardamenti ancora più massiccia potrebbe avvenire in collaborazione con Stati Uniti e Gran Bretagna.
Mentre ci sono indicazioni secondo cui Washington starebbe esercitando pressioni su Riyadh e Abu Dhabi affinché abbandonino i negoziati di pace con gli Houthi e riprendano le operazioni belliche contro di loro.
Ma in Israele c’è addirittura chi ritiene che si debba puntare direttamente all’Iran.
Il piano contro Teheran potrebbe prevedere sforzi volti a favorire la destabilizzazione interna del paese, incoraggiando ad esempio i movimenti di protesta popolare; una campagna di “massima pressione” economica, come quella già imposta da Trump durante il suo primo mandato; ed eventualmente bombardamenti aerei volti a distruggere le installazioni nucleari iraniane, al fine di scongiurare la possibilità che l’Iran si doti dell’arma atomica.
A Washington molti nutrono la convinzione che la caduta di Assad in Siria abbia rappresentato una sconfitta anche per Mosca, e possibilmente il segnale di un’inversione di tendenza anche nel braccio di ferro con la Russia.
La crescente svalutazione del rublo, ed alcuni segnali di rallentamento dell’economia russa, indicherebbero che non è il momento di cedere e di allentare la morsa delle sanzioni, a giudizio di diversi strateghi statunitensi.
Secondo questa visione, gli eventi epocali di questi mesi in Medio Oriente potrebbero perciò preludere ad una sconfitta dell’Iran, a un indebolimento della Russia, ed in ultima analisi ad un isolamento della Cina, l’avversario più pericoloso di Washington.
Senz’ombra di dubbio, Teheran è vista in questo momento come l’anello debole dello schieramento anti-occidentale, e un’eventuale ridefinizione degli equilibri mediorientali come un possibile “game changer” nella lotta globale per l’egemonia.
Se queste idee dovessero far presa sull’amministrazione Trump che si insedierà a gennaio, c’è da attendersi un pericoloso inasprimento delle tensioni mediorientali, un possibile fallimento degli sforzi negoziali in Ucraina, e un ulteriore deterioramento del panorama internazionale.
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Kim R. Holmes, Ph.D.
@kimsmithholmes
Ex vicepresidente esecutivo
A prima vista, il nuovo nazionalismo dei conservatori sembrerà benigno e persino incontestabile. Nel suo libro “The Case for Nationalism”, Rich Lowry definisce il nazionalismo come il risultato della “naturale devozione di un popolo verso la propria casa e il proprio Paese”. Anche Yoram Hazony, nel suo libro “La virtù del nazionalismo”, dà una definizione piuttosto anodina di nazionalismo. Significa “che il mondo è governato al meglio quando le nazioni accettano di coltivare le proprie tradizioni, senza interferenze da parte di altre nazioni”.
Non c’è nulla di particolarmente controverso in queste affermazioni. Definito in questi termini, sembra poco più che una semplice difesa della nazionalità o della sovranità nazionale, motivo per cui Lowry, Hazony e altri insistono sul fatto che la loro definizione di nazionalismo non ha nulla a che fare con le forme più virulente che coinvolgono l’etnia, la razza, il militarismo o il fascismo;
Ecco il problema. Suppongo che ognuno di noi possa prendere qualsiasi tradizione che abbia una storia definita e semplicemente ridefinirla a proprio piacimento. Potremmo quindi darci il permesso di incolpare chiunque non sia d’accordo con noi di averci “frainteso” o addirittura diffamato.
Ma chi è il vero responsabile del fraintendimento? Le persone che cercano di ridefinire il termine o quelle che ci ricordano la vera storia del nazionalismo e ciò che il nazionalismo è stato nella storia? Il che solleva una domanda ancora più grande: Perché seguire questa strada?
Se dovete passare metà del vostro tempo a spiegare “Oh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, perché volete associare una venerabile tradizione di patriottismo civico americano, di orgoglio nazionale e di eccezionalismo americano ai vari nazionalismi che si sono verificati nel mondo? Dopo tutto, i conservatori americani hanno sostenuto che una delle grandi cose dell’America era che era diversa da tutti gli altri Paesi. Diverso da tutti gli altri nazionalismi;
Ecco il mio punto di vista. Il nazionalismo non è la stessa cosa dell’identità nazionale. Non è la stessa cosa del rispetto della sovranità nazionale. Non è nemmeno la stessa cosa dell’orgoglio nazionale. È qualcosa di storicamente e filosoficamente diverso, e queste differenze non sono semplicemente semantiche, tecniche o preoccupazioni degli storici accademici. In realtà, riguardano l’essenza stessa di ciò che significa essere americani.
Credo di capire perché alcune persone siano attratte dal concetto di nazionalismo. Il Presidente Trump ha usato il termine nazionalismo. I nazionalconservatori pensano che il Presidente Trump abbia attinto a un nuovo populismo per il conservatorismo e vogliono approfittarne. Pensano che il conservatorismo fusionista tradizionale e l’idea dell’eccezionalismo americano non siano abbastanza forti. Queste idee non sono sufficientemente muscolari. Vogliono qualcosa di più forte per opporsi alle pretese universali del globalismo e del progressismo, che ritengono antiamericane. Vogliono anche qualcosa di più forte per respingere le frontiere aperte e l’immigrazione senza limiti.
Lo capisco. Capisco molto bene il desiderio di avere una reazione muscolare alla tracotanza della governance internazionale e del globalismo, e non ho alcun problema a sostenere che un sistema internazionale basato sugli Stati nazionali e sulla sovranità nazionale sia di gran lunga superiore, soprattutto per gli Stati Uniti, a uno gestito da un organo di governo globale democraticamente distante dai cittadini.
Qual è allora il problema? Perché non possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che il nazionalismo definito in questo modo è ciò che noi conservatori americani siamo stati e abbiamo sempre creduto – che è solo una nuova bottiglia più alla moda per un vino molto vecchio? Beh, perché la nuova bottiglia cambia il modo in cui il vino sarà visto. Perché abbiamo bisogno di una nuova bottiglia? Sarebbe come mettere un ottimo cabernet californiano in una bottiglia etichettata dalla Germania o dalla Francia o dalla Russia o dalla Cina;
Il problema sta in quel piccolo suffisso, “ismo”. Indica che la parola nazionalismo indica una pratica, un sistema, una filosofia o un’ideologia generale che vale per tutti. Esiste una tradizione di nazionalismo di cui noi americani facciamo parte. Tutti i Paesi hanno “nazionalismi”. Tutte le nazioni e tutti i popoli si distinguono per ciò che li rende diversi. Il loro patrimonio comune di nazionalisti è in realtà la loro differenza. Le loro diverse lingue, le loro diverse etnie, le loro diverse culture.
Allo stesso tempo, tutte le nazioni dovrebbero condividere la stessa sovranità e gli stessi diritti dello Stato nazionale, indipendentemente dalla loro forma di governo. Uno Stato nazionale sovrano e democratico non è, da questo punto di vista, diverso da uno Stato nazionale sovrano e autoritario. A prescindere dai diversi tipi di governo, ciò che conta è la comunanza dello Stato-nazione. Pertanto, la sovranità dell’Iran o della Corea del Nord, secondo questo modo di pensare, non è moralmente e giuridicamente diversa dalla sovranità degli Stati Uniti o di qualsiasi altra nazione democratica.
Sono fermamente convinto che non tutti gli Stati nazionali siano uguali. Nella storia ci sono stati momenti in cui le nazioni sono state associate al razzismo, alla supremazia etnica, al militarismo, al comunismo e al fascismo. Questo significa che tutti gli Stati nazionali sono così? Certo che no, ma c’è un’enorme differenza tra il fenomeno storico del nazionalismo e il rispetto della sovranità di uno Stato nazionale democratico. Il nazionalismo celebra le differenze culturali e persino etniche di un popolo, indipendentemente dalla forma di governo. Lo Stato nazionale democratico, invece, fonda la sua legittimità e la sua sovranità sulla governance democratica.
Il problema principale che causa questo fraintendimento è il non riconoscere la vera storia del nazionalismo. Si tratta, come ho già detto, di confondere l’identità nazionale, la coscienza nazionale e la sovranità nazionale con il Nazionalismo con la N maiuscola.
Il nazionalismo come lo conosciamo storicamente non è nato in America, ma in Europa. Il nostro movimento per l’indipendenza fu una rivolta del popolo contro il tipo di governo che avevamo sotto gli inglesi. All’inizio i fondatori si consideravano inglesi, ai quali il Parlamento e la corona negavano i loro diritti. Sì, gli americani avevano certamente un’identità, ma non era basata solo sull’etnia, sulla lingua o sulla religione. Avevano già sviluppato una concezione molto distinta dell’autogoverno, e questa fu la chiave della Rivoluzione.
A quel tempo, gli americani avevano già un senso di identità abbastanza forte, ma questa identità non era il nazionalismo. Perché? Perché il nazionalismo non era ancora stato inventato. Non esisteva all’epoca della Rivoluzione americana;
Il nazionalismo moderno è nato in Francia, con la Rivoluzione francese. La rivoluzione fu una chiamata alle armi del popolo francese. La nazione francese è nata con la Rivoluzione francese. Il Terrore e l’imperialismo napoleonico furono la massima espressione del neonato nazionalismo francese;
L’imperialismo nazionalista di Napoleone, a sua volta, scatenò l’ascesa di un nazionalismo contro-reazionario in Germania e in tutta Europa. Tedeschi, russi, austriaci e altre nazioni scoprirono la propria coscienza nazionale e l’importanza della propria cultura nell’odio verso gli invasori francesi.
In seguito, il nazionalismo ha imperversato nei secoli XIX e XX come celebrazione di nazioni basate su una cultura nazionale comune, una lingua comune e un’esperienza storica comune. Il nazionalismo era, in questo senso, particolaristico. Era populistico. Era esclusivo. Era a somma zero. Celebrava le differenze, non la comune umanità del cristianesimo come era stata conosciuta nel Sacro Romano Impero o nella Chiesa cattolica o anche nell’Illuminismo.
La chiave del nazionalismo era lo Stato-nazione. Tecnicamente, non era il popolo stesso a essere libero o sovrano in quanto popolo, ma il popolo rappresentato da e in nome dello Stato-nazione. In altre parole, i loro governi. La sovranità risiedeva in ultima analisi nello Stato, non nel popolo. Lo Stato era al di sopra del popolo, non del, dal e per il popolo come nell’esperienza americana. Ancora oggi, questa idea vive, ad esempio, nella monarchia britannica, dove la Regina è il sovrano ultimo, non il popolo o il Parlamento.
Purtroppo è un errore storico comune quello di equiparare il nazionalismo all’ascesa storica dello Stato nazionale in Europa e al sistema statale internazionale sorto dopo la Pace di Westfalia del 1648. La Pace di Westfalia ha riconosciuto la sovranità dei principi, al di là delle pretese universali del Sacro Romano Impero e della Chiesa, ed è vero che la Riforma protestante ha consolidato la sovranità dei principi e dei principati come precursori dello Stato nazionale.
Ma si trattava di principi. Erano monarchie. Erano dinastie. Solo molto più tardi è sorto nella storia il moderno Stato-nazione e soprattutto il sentimento popolare del nazionalismo. Qualunque sia stato questo sistema statale, non è il nazionalismo. Il nazionalismo è un fenomeno storico che non è emerso per altri 150 anni dopo il 1648. Affermare il contrario è solo cattiva storia, pura e semplice.
Questo mi porta all’idea dell’eccezionalismo americano, che è, a mio avviso, la risposta alla domanda sull’identità nazionale dell’America e su cosa dovrebbe essere;
È un concetto bellissimo che cattura sia la realtà che l’ambiguità dell’esperienza americana. Si basa su un credo universale. Si basa sui principi fondanti dell’America: la legge naturale, la libertà, il governo limitato, i diritti individuali, i controlli e gli equilibri del governo, la sovranità popolare e non la sovranità dello Stato-nazione, il ruolo civilizzatore della religione nella società civile e non una religione stabilita associata a una classe o a un credo, e il ruolo cruciale della società civile e delle istituzioni civili nel fondare e mediare la nostra democrazia e la nostra libertà”;
Noi americani crediamo che questi principi siano giusti e veri per tutti i popoli e non solo per noi. Questo era il modo in cui li intendevano Washington e Jefferson, e certamente lo intendeva Lincoln. È questo che li rende universali. In altre parole, il credo americano ci fonda su principi universali.
Ma allora cosa ci rende così eccezionali? Se è universale, cosa ci rende eccezionali? È, infatti, il credo.
Crediamo che gli americani siano diversi perché il nostro credo è universale ed eccezionale allo stesso tempo. Siamo eccezionali per il modo unico in cui applichiamo i nostri principi universali. Non significa necessariamente che siamo migliori di altri popoli, anche se credo che probabilmente la maggior parte degli americani creda di esserlo. Non si tratta di vantarsi. Piuttosto, è una dichiarazione di fatto storico che c’è qualcosa di veramente diverso e unico negli Stati Uniti, che si perde quando si parla in termini di nazionalismo.
Un nazionalista non può dire questo, perché non c’è nulla di universale nel nazionalismo se non il fatto che tutti i nazionalismi sono, beh, diversi e particolaristici. Il nazionalismo è privo di un’idea o di un principio di governo comune, tranne che per il fatto che un popolo o uno Stato nazionale può essere quasi tutto. Può essere fascista, autoritario, totalitario o democratico.
Alcuni dei nuovi nazionalisti dubitano esplicitamente dell’importanza del credo americano. Sostengono che il credo non è così importante come pensavamo per la nostra identità nazionale;
Cosa significa dire che il credo non è poi così importante? Se il credo non è importante, cosa c’è di così speciale nell’America?
È la nostra lingua? Beh, no. Lo condividiamo con la Gran Bretagna e ora con gran parte del mondo.
È la nostra etnia? Beh, neanche questo funziona, perché non esiste un’etnia americana comune;
È una religione specifica? Siamo effettivamente un Paese religioso, ma no, abbiamo la libertà di religione, non una religione specifica.
È per i nostri bellissimi fiumi e montagne? No. Abbiamo alcuni bellissimi fiumi e montagne, ma anche altri Paesi.
È la nostra cultura? Sì, credo di sì, ma come si fa a capire la cultura americana senza il credo americano e i principi fondanti?
Lincoln definì l’America “l’ultima migliore speranza del mondo”, perché era un luogo dove tutte le persone possono e devono essere libere. Prima di Lincoln, Jefferson la definì un impero di libertà;
Gli immigrati sono arrivati qui e sono diventati veri americani vivendo il credo e il sogno americano. Si può diventare cittadini francesi, ma per la maggior parte dei francesi, se si è stranieri, non è la stessa cosa che essere francesi. Qui è diverso. Si può essere veri americani adottando il nostro credo e il nostro stile di vita.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la via americana e la nostra devozione alla democrazia sono diventate un faro di libertà per il mondo intero. Questo è stato il fondamento della nostra pretesa di leadership mondiale durante la Guerra Fredda, e non è diverso oggi. Se diventiamo una nazione come tutte le altre, francamente non mi aspetterei che altre nazioni ci concedano una fiducia o un sostegno particolari.
Un altro vantaggio dell’eccezionalismo americano è che si autocorregge. Quando non riusciamo ad essere all’altezza dei nostri ideali, come nel caso della schiavitù prima della Guerra Civile, possiamo appellarci, come fece Lincoln, alla nostra “natura migliore” per correggere i nostri difetti. È qui che entra in gioco l’importanza centrale del credo. Applicare correttamente i principi della Dichiarazione di Indipendenza ci ha permesso di riscattare noi stessi e la nostra storia quando ci siamo smarriti;
Non c’è identità americana senza il credo americano. Tuttavia, i nazionalisti hanno ragione su una cosa, nel suggerire che l’identità americana non è solo un insieme di idee. Queste idee sono vissute nella nostra cultura – questo è vero. È anche vero, come disse Lincoln a proposito dei suoi famosi “accordi mistici della memoria”, che la nostra esperienza comune e la nostra storia comune formano una storia unica. È una storia che incarna le vite e le relazioni molto reali delle persone e un’esperienza culturale condivisa in uno spazio e in un tempo condivisi nella storia che chiamiamo Stati Uniti.
La condivisione dell’esperienza nello spazio e nel tempo – e di per sé – non è diversa da quella che vive qualsiasi altra nazione. Al livello più elementare, sì, direi che tutte le nazioni sono simili sotto questo aspetto. Ma ciò che lo rendeva diverso per Lincoln era che egli credeva e sperava che i “migliori angeli della nostra natura”, che erano fondati nel credo americano, avrebbero toccato le corde mistiche della memoria che compongono quella storia – ed era quel “tocco” che ci distingueva dalle altre nazioni.
Concludo con due osservazioni;
Uno: il grado di plausibilità del conservatorismo nazionale si basa su un profondo equivoco storico. Le affermazioni che di per sé suonano vere e persino attraenti devono essere sospese in uno stato di amnesia storica per avere senso;
Quando Hazony dice: “La coesione nazionale è l’ingrediente segreto che permette alle istituzioni libere di esistere”, fa un’affermazione quasi ovvia e banale, almeno per i paesi che sono già liberi. Il problema inizia quando lo associa alla tradizione generale delle virtù del nazionalismo come concetto. Allora il discorso si fa davvero complicato;
La coesione nazionale è l’ingrediente segreto per liberare le istituzioni dai nazionalisti in Russia? In Cina? O in Iran? Difficilmente. In realtà, il nazionalismo in questi Paesi è l’acerrimo nemico delle istituzioni libere. Se la risposta è: “Beh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, allora la domanda si fa davvero difficile: Perché fare affermazioni generali sul nazionalismo se le eccezioni sono così grandi? Se in effetti le eccezioni finiscono per essere la regola?
Il mio secondo punto è questo. Se questo fosse solo un dibattito accademico sull’idea di nazionalismo, suppongo che non sarebbe poi così importante. Si potrebbe lasciare che gli intellettuali spacchino il capello in quattro e gli storici facciano le loro considerazioni sulla storia del nazionalismo, e si potrebbe andare a vedere se il concetto di nazionalismo ci aiuta davvero politicamente – se è vero o no.
Temo che il problema sia più grande per i conservatori. Il movimento conservatore si trova oggi ad affrontare enormi minacce ai nostri principi fondamentali. Da sinistra, ci troviamo di fronte a progressisti che hanno sempre detto che il nostro credo e le nostre pretese di eccezionalità americana erano una frode. Hanno sempre sostenuto che siamo una nazione come le altre. Anzi, i più radicali sostengono che in realtà siamo peggiori di altre nazioni proprio perché i nostri principi fondanti erano presumibilmente basati sulla menzogna.
Ora ci troviamo di fronte a una nuova sfida alla santità del credo americano, proveniente da un’altra direzione. Questa volta, da destra. Il primo passo è quello di confondere le distinzioni tra il nazionalismo praticato e l’unicità dell’eccezionalismo americano. Poi, si passa a sollevare lo spettro dello Stato-nazione come un’idea – se non l’idea centrale – del conservatorismo americano. Non è diverso da quello che probabilmente direbbe un conservatore dell’Europa continentale sulle proprie tradizioni;
Francamente, non lo capisco affatto. I conservatori americani sono scettici nei confronti del governo. Sono scettici nei confronti dello Stato-nazione. È questo che ci rende conservatori. Allora perché elevare il concetto di Stato-nazione che è così estraneo alla tradizione conservatrice americana?
Temo che la risposta possa avere a che fare con la più profonda trasformazione filosofica che sta avvenendo all’interno di alcuni circoli politici conservatori. Per alcuni conservatori sta diventando di moda criticare il capitalismo e il libero mercato. Alcuni sostengono addirittura che non ci sono più principi limitanti a ciò che lo Stato e il governo possono o devono fare in nome della loro agenda politica;
Una volta si chiamava conservatorismo “big government”. All’epoca era visto come una proposta liberale e, a mio avviso, lo è ancora. Condivide un principio preoccupante con il progressismo moderno. In fondo, far sì che sia il governo a prendere le decisioni importanti per la vita dei cittadini non è diverso, in linea di principio, da un progressista che sostiene la necessità di un governo per porre fine alla povertà ed eliminare le disuguaglianze.
A quanto pare l’idea è che, con i conservatori a capo del governo, questa volta sarà diverso. Questa volta ci assicureremo che il governo che controlliamo guidi gli investimenti nella giusta direzione e prenderemo le giuste decisioni su quali siano i compromessi;
Vi suona familiare? I difensori del grande governo non sostengono sempre che questa volta sarà diverso?
Mettiamo da parte per un momento il fatto che noi conservatori potremmo mai controllare un governo del genere per fare sufficientemente le cose che vogliamo che faccia. Vogliamo dare ancora più potere a un governo che, nell’ambito della politica industriale e di altri tipi di politica economica e sociale, userà sicuramente questo maggiore potere per distruggere ciò che amiamo e crediamo di questo Paese?
Il modo migliore, a mio avviso, per proteggere la grandezza dell’America, le sue rivendicazioni speciali, la sua identità se volete, è credere in ciò che ci ha reso grandi in primo luogo. Non è stata la nostra lingua. Non era la nostra razza. Non è stata la nostra etnia. Non è stata la nostra politica industriale. Non è stato il potere del governo a decidere quali siano i compromessi. Non si trattava di un governo che decide quale tipo di lavoro è dignitoso e quale no. E certamente non si trattava di una fede nello Stato-nazione o nella grandezza del nazionalismo.
Sono stati il nostro credo e il sistema di credenze personificato e vissuto in una cultura, le nostre istituzioni di società civile e il nostro modo democratico di governare a fare dell’America la più grande nazione nella storia di tutte le nazioni. In una parola, è stata la nostra convinzione di essere un popolo buono e libero. È questo che ha reso l’America eccezionale. È questo che ci ha reso un Paese libero. E continua a farlo anche oggi.
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