Finlandia e Svezia si uniranno alla NATO a spese di tutto_di Anatol Lieven

C’è un’ironia triste e piuttosto patetica sulla prevista richiesta di Finlandia e Svezia di aderire alla NATO.

Durante la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica è stata una superpotenza militare, ha occupato gran parte dell’Europa centrale, le sue truppe erano di stanza nel cuore della Germania e il comunismo sovietico, almeno per un po’, sembrava essere una vera minaccia alla democrazia capitalista occidentale . Per tutti quei decenni, tuttavia, Finlandia e Svezia rimasero ufficialmente neutrali.

Nel caso della Finlandia, la neutralità è stata una condizione del trattato con Mosca che ha concluso le guerre con l’URSS. Nel caso della Svezia, diciamo solo che c’erano grandi vantaggi pratici nell’essere in effetti sotto l’ombrello della sicurezza americana senza dover dare alcun contributo ad essa o correre alcun rischio per essa. C’erano anche grandi vantaggi psicologici nel godere di questa protezione de facto degli Stati Uniti pur rimanendo liberi in ogni occasione di sfoggiare la presunta superiorità morale della Svezia all’America imperialista e razzista.

Dalla fine della Guerra Fredda, la Russia si è ritirata mille miglia a est mentre la NATO e l’UE si sono espanse enormemente. Oggi le forze di terra russe stanno dimostrando in Ucraina di non essere in grado di rappresentare una seria minaccia per la NATO o la Scandinavia. Né lo facevano davvero in precedenza. Per arrivare in Svezia, la Russia dovrebbe attraversare la Finlandia o il Mar Baltico. E sia durante che dopo la Guerra Fredda, Mosca non ha mai minacciato la Finlandia. L’Unione Sovietica ha rigorosamente rispettato i termini del suo trattato con la Finlandia. Si ritirò persino da una base militare lì che per trattato avrebbe potuto reggere per altri quarant’anni.

Uno dei motivi era che, come l’Ucraina (ma in netto contrasto con la Svezia), l’eroica lotta della Finlandia contro l’esercito sovietico aveva convinto Mosca che la Finlandia era una persona troppo dura per cercare di schiacciare. Lo è ancora e rimarrebbe tale senza l’adesione alla NATO, perché, ancora una volta come l’Ucraina, i finlandesi sono determinati a difendere il loro paese.

Non c’era alcun motivo per pensare che la Russia avrebbe cambiato questa politica e avrebbe attaccato la Finlandia. Considerando che — per quanto si possa condannare fermamente l’invasione russa dell’Ucraina e le sue atrocità che l’accompagnano — le ragioni per cui Mosca l’ha attaccata sono ovvie. Da quando è iniziata l’espansione della NATO negli anni ’90, sia i funzionari russi che una serie di esperti occidentali, inclusi tre ex ambasciatori statunitensi a Mosca e l’attuale capo della CIA, hanno avvertito che era probabile la prospettiva che l’Ucraina si unisse a un’alleanza anti-russa per scatenare la guerra.

L’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia non è quindi necessaria per la loro sicurezza. Da parte loro, non portano nulla alla NATO. Se – Dio non voglia – la guerra in Ucraina provoca un’escalation della guerra tra Stati Uniti e Russia, loro saranno comunque in disparte. Per quanto riguarda gli impegni della NATO al di fuori dell’Europa, uno dei motivi per cui i membri europei della NATO hanno accolto così entusiasticamente il nuovo confronto con la Russia è che offre loro la scusa per evitare di inviare truppe in qualsiasi area (come l’Africa occidentale) dove potrebbero effettivamente dover combattere e muori; e dove la minaccia dell’estremismo islamista e della migrazione di massa crea vere minacce alla sicurezza interna europea e scandinava.

Aderendo alla NATO, la Finlandia sta buttando via qualsiasi remota possibilità esistente di svolgere un ruolo di mediazione tra Russia e Occidente, non solo per contribuire a porre fine alla guerra in Ucraina, ma in futuro per promuovere una più ampia riconciliazione. Invece, la Finlandia finirà di costruire l’ultima sezione di un nuovo confine della Guerra Fredda attraverso l’Europa, che probabilmente sopravviverà a qualsiasi tipo di regime alla fine succederà a quello di Putin in Russia.

L’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO può anche essere considerata come il momento simbolico in cui i paesi europei nel loro insieme hanno abbandonato ogni sogno di assumersi la responsabilità del proprio continente e si sono rassegnati alla completa dipendenza da Washington. Tuttavia, (come con la Svezia durante la Guerra Fredda) questa dipendenza sarà senza dubbio mascherata da lamenti e ringhi europei impotenti quando un nuovo presidente simile a Trump dimenticherà la necessaria sottile pretesa di cortesia e consultazione.

Alla fine di un editoriale del Financial Times pieno di sentimenti aspramente anti-russi (basati in parte su una conoscenza estremamente e forse intenzionalmente scarsa dei fatti), l’ex primo ministro finlandese Alexander Stubb ha scritto:

“La sicurezza non è un gioco a somma zero. Spero che un giorno anche il regime russo capirà questo. Questo ci permetterà di ristabilire buone relazioni con la Russia. Nel frattempo, aiuteremo a massimizzare la sicurezza in Europa aderendo alla NATO. Non è contro nessuno, ma per noi. Tutti noi.”

Questa è la stessa ipocrisia compiaciuta che ha infastidito la politica occidentale nei confronti della Russia e quella statunitense nei confronti della maggior parte del mondo. Dalla fine della Guerra Fredda, la politica degli Stati Uniti e della NATO nei confronti della Russia è stata in effetti a somma schiacciante zero, e i paesi europei sono rimasti obbedienti. La Finlandia ora si unirà a questo entourage zoppicante e codardo. È improbabile che le buone relazioni con la Russia vengano mai ristabilite, qualunque sia il regime che salga al potere a Mosca.

D’altra parte, la completa espulsione della Russia dalle strutture europee – per così tanto tempo obiettivo aperto dell’America e della NATO – potrebbe, a lungo termine, rendere la Russia completamente strategicamente dipendente dalla Cina e portare la superpotenza cinese ai confini più orientali dell’Europa. Sarebbe una ricompensa ironica ma non immeritata per la fatuità strategica europea. Si potrebbe persino trovarlo divertente, se non si fosse europei.

https://responsiblestatecraft.org/2022/05/13/finland-and-sweden-will-join-nato-at-the-expense-of-everything/

Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi? di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo.

Il testo offre una buona analisi dei meccanismi di condizionamento del sistema informativo e dell’esercizio democratico. Quanto alla soluzione offerta, pare opportuno porre alcune domande:

  • è così dirimente il rapporto tra libera circolazione dei capitali ed esercizio della libera informazione?
  • lo è altrettanto il livello di concentrazione dei capitali?
  • la stessa concentrazione di capitali non è comunque necessaria a garantire dimensione delle imprese, sviluppo tecnologico ed altri aspetti fondamentali della formazione sociale?
  • non si rischia di identificare troppo e ridurre l’esercizio del potere con il solo potere economico?
  • non si rischia di fossilizzarsi su una visione irenica del bene comune e del concetto di democrazia, rischiando per altro di associarla, secondo la teoria classica, all’esistenza di piccoli produttori?

Ritengo quesiti utili a favorire il dibattito.

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi?
di Davide Gionco
02.05.2022

Il paradosso della tolleranza di Popper
Il filosofo Karl Popper (1902-1994) propose nel 1945 all’attenzione dei suoi lettori (libro “La società aperta e i suoi nemici“) il paradosso della tolleranza. Secondo Popper una società tollerante, che accetta la diversità e la libertà di opinione, non può essere eccessivamente tollerante verso le opinioni che propongono di non accettare la libertà di opinione.
Cita il caso di Hitler, che non sarebbe salito al potere, mettendo a tacere ogni opposizione, se gli fosse stato impedito di esprimere pubblicamente ai tedeschi la sua dottrina politica antidemocratica e totalitaria, in nome del diritto democratico della libertà di opinione.

Conosciamo tutti la famosa affermazione attribuita a Voltaire “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo“, frase che in realtà fu scritta da Evelyn Beatrice Hall, per illustrare il pensiero di Voltaire.
Il paradosso posto da Popper si pone effettivamente come l’unica eccezione ammessa al principio fondamentale della libertà di parola, in quanto qualsiasi opinione “sbagliata” potrà sempre essere corretta quando i fatti lo dimostrino, esistendo la libertà di esprimere opinioni critiche per rendersene conto e di esprimere opinioni alternative per cambiare le decisioni. Se, invece, viene data attuazione all’opinione che prevede l’intolleranza verso opinioni dissenzienti, si perderà la possibilità di ascoltare giudizi critici e opinioni alternative, in quanto i detentori dell’unico punto di vista autorizzato sentiranno il diritto-dovere di mettere a tacere qualsiasi opinione che prospetti critiche e cambiamenti.

Questo è quanto sosteneva argutamente Karl Popper, ma a mio avviso oggi ci ritroviamo di fronte ad un altro paradosso, per il quale un eccesso di democrazia in molti casi ci porta ad altre forme di condizionamento dell’opinione pubblica, che limitano il pensiero critico e l’espressione di opinioni alternative.

Le democrazie occidentali e la “censura statistica”
Quando dei poteri forti intendono imporre il loro punto di vista in paesi in cui vige formalmente una democrazia, non hanno bisogno di esercitare una censura ferrea come avviene nei paesi in cui vige la dittatura. Nei paesi democratici l’obiettivo viene raggiunto attuando una forma mascherata di censura, che potremmo definire “censura statistica”.
Il metodo consiste nel condizionare i mezzi di informazione, fornendo una narrativa alterata della realtà dei fatti, affinché la maggior parte dei cittadini non abbia gli strumenti sufficienti ad esprimere un giudizio critico e fondato sui fatti reali in merito alle decisioni del potere politico.
Nel contempo le opinioni critiche vengono rese difficilmente accessibili o presentate come poco credibili.
Questo metodo prevede anche, naturalmente, una parallela azione di condizionamento del potere politico, fatta con i metodi “tradizionali” della corruzione o dell’infiltrazione delle istituzioni con uomini o donne fedeli al potere forte.

Se avvenisse una censura assoluta, come avviene nelle normali dittature, a tutti risulterebbe evidente che ci si trova in una dittatura. Se invece si concede formalmente il diritto di parola a chi ha opinioni diverse, si presenta l’immagine di una apparente democrazia, per cui nei cittadini non suona il campanello d’allarme dell’arrivo della dittatura.
Il meccanismo di “censura statistica” si basa sul fatto che, per garantire il controllo del potere politico, è sufficiente che non si arrivi ad avere una maggioranza di cittadini in grado di votare per un effettivo cambio del potere politico, cosa che dovrebbe normalmente avvenire se i cittadini fossero informati correttamente sulle decisioni prese negli interessi dei poteri forti e ai danni del popolo.

Quindi per loro non è un problema se il 10%, il 20% o addirittura il 30% di cittadini si rende conto che chi governa sta compiendo scelte profondamente sbagliate. L’importante è che non se ne renda conto la maggioranza assoluta dei cittadini che vanno a votare.
Il polso della situazione viene continuamente monitorato tramite sondaggi sull’andamento dell’opinione pubblica, in modo che chi decide quale tipo di informazione deve essere data aggiusta il tiro, se il caso suggerendo al potere politico di non esagerare con le scelte che si presentano impopolari, se la narrativa dei mezzi di informazione non è stata in grado di renderli sufficientemente accettabili.
In questo senso possiamo parlare di “censura statistica”, definendola come un insieme di azioni di condizionamento dei mezzi di informazione finalizzate a garantire il mantenimento di un consenso maggioritario intorno alle decisioni politiche imposte dai poteri forti.

La finta opposizione politica
La prima azione da compiere è la creazione ed il mantenimento di una finta opposizione politica.
Si deve dare l’impressione dell’esistenza di un’alternativa politica, come si addice formalmente ad ogni democrazia. Per questo si creano molti spazi informativi in cui ci sono dei personaggi politici che giocano il ruolo della maggioranza e dell’opposizione, dicendosene di tutti i colori, mostrando di avere una visione politica apparentemente opposta.
Ma questo avviene solo su questioni marginali.
Ad esempio si lanciano infiniti dibattiti sulle questioni dei diritti civili, mentre sulla questioni economiche importanti, come quelle che ad esempio riguardano la lotta alla povertà o i fallimenti delle nostre piccole e medie imprese, non esistono sostanziali differenze. Su questi argomenti gli schieramenti opposti sono normalmente accumunati, a seconda dei casi, dall’accettazione rassegnata di conseguenze inevitabili o dal silenzio sulla questione, perché non hanno nulla da dire.

Eventuali forze politiche realmente alternative, che contestato il potere politico esistente, difficilmente trovano spazio sui mezzi di informazione principali. O, se lo trovano, vengono relegati a spazi “di serie B”, in modo che la maggior parte della popolazione non sia informata delle loro opinioni.

Una volta creata la figura della finta opposizione, non resta che influenzare la narrativa di lettura dei fatti politici per impedire che la maggioranza della popolazione contesti la credibilità delle principali forza politiche presenti sui mass media.
Le questioni devono essere presentate come non dipendenti dal potere politico o come ineluttabili. Come diceva Margareth Thatcher “There is no alternative“.
Ad esempio: aumenta la povertà, ma dipende dalla globalizzazione, non ci possiamo fare niente.
In alternativa si racconta che la soluzione si avrà votando la finta opposizione. Ad esempio: per diminuire le tasse, votiamo a destra. Oppure: per tutelare i diritti dei lavoratori dipendenti, votiamo a sinistra. Quando questo avviene, ovviamente, non cambia nulla.
La narrativa della censura statistica non permette di uscire da questi schematismi semplificati e che, in realtà, servono solo a mascherare l’assenza di una reale democrazia.

I finanziamenti dell’informazione
Per condizionare la narrativa dei mezzi di informazione esistono principalmente 3 meccanismi dei quali si servono i poteri forti, certamente anche nazionali, ma oggi soprattutto operanti a livello internazionale.

Se il potere politico è già stato acquisito, tale potere può stabilire l’erogazione di finanziamenti ai mezzi di informazione, anche molto cospicui, in cambio del loro allineamento alla linea politica richiesta. Se dai un certo tipo di informazione sei finanziato, se non lo fai resti senza finanziamenti.
A quel punto, prima di tutto per garantire la redditività dell’azienda e per i suoi dirigenti, gli editori, pubblici o privati che siano, troveranno il modo di motivare i giornalisti a conformarsi a quanto richiesto.

La grande disponibilità di finanziamenti consentirà a questi mezzi di informazione di disporre, a pagamento, della presenza di personaggi famosi (attori, calciatori, artisti, ecc.) e di disporre delle competenze dei migliori professionisti per realizzare dei contenuti che attirino il grande pubblico, al quale verrà poi rifilata la narrativa decisa dal potere politico.

Restano pertanto privi di finanziamenti i mezzi di informazione che, pur svolgendo un servizio pubblico, non si vogliono allineare al pensiero “governativo”. Pochi finanziamenti significa informare poche persone, il che significa evitare che la maggioranza della popèolazione rischi di cambiare opinione.

Un modo tutto sommato molto simile al precedente è il finanziamento dei mezzi di informazione tramite la raccolta pubblicitaria. Gran parte degli inserzionisti pubblicitari dei principali mass media sono tutti o grandi aziende nazionali o delle multinazionali, i cui dirigenti sono espressione o sono in strette relazioni con i poteri forti che hanno interesse a manipolare i mezzi di informazione per perseguire i propri interessi economici.
Chiunque voglia fare informazione ad un certo livello avrà bisogno dei finanziamenti degli inserzionisti e dovrà, quindi, adeguarsi alla linea informativa da loro richiesta. Pena il taglio delle inserzioni pubblicitarie ed il fallimento dell’editore.
Chi non si adegua perde i grandi finanziamenti e può al massimo accontentarsi della piccola pubblicità di imprese locali. Ancora una volta, pochi finanziamenti significa raggiungere poco pubblico ed essere irrilevanti per la censura statistica.

Vi è infine un terzo modo attraverso il quale i poteri forti riescono a manipolare i mezzi di informazione, persino nei casi in cui i finanziamenti pubblici siano distribuiti correttamente e in cui non sia necessario  finanziare l’informazione con le inserzioni pubblicitarie.
Tale modo, ovviamente, può convivere anche con i due sopra descritti.
Si tratta della corruzione mirata dei giornalisti e degli “opinion makers“, i quali vengono pagati per sostenere la narrativa desiderata da chi detiene il potere.
Chi sono gli “opinion makers“? Sono coloro che, in televisione, in radio, sui giornali e su internet si presentano con un’autorevolezza sufficiente ad essere creduti per quello che dicono, influenzando l’opinione dei cittadini.
Possono essere giornalisti, dei tecnici (economisti, medici, ecc.), dei personaggi dello sport o dello spettacolo. L’importante è che si sappiano presentare in modo credibile agli occhi della maggioranza dei cittadini, per condizionarli.

Senza voler accusare specificamente nessuno degli opinion makers attualmente operanti in Italia, possiamo citare il famoso caso tedesco di Udo Ulfkotte, famosissimo giornalista che faceva opinione sulle principali televisioni in Germania, autore di libri di gran successo.

Poco prima di morire nel 2017, per cause mai ben chiarite, Udo Ulfkotte rivelò: «Faccio il giornalista da 25 anni e sono stato educato a mentire, a tradire e a non rivelare la verità al pubblico…»
«con lo scopo di «portare ad una guerra contro la Russia, di manipolare l’opinione pubblica ed è quello che hanno fatto e fanno tuttora anche i miei colleghi, non solo in Germania, ma praticamente in tutta Europa».

Nel famoso “Piano di rinascita democratica” della Loggia massonica P2, ritrovato nella valigia della figlia di Licio Gelli, prevedeva al punto 1b):
«Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente.. »

Ritornando un po’ più indietro, è solo il caso di ricordare come un tal giovane giornalista chiamato Benito Mussolini, che nel 1914 era direttore dell’Avanti! (quotidiano socialista, partito che era contro l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra), ricevette cospicui finanziamenti dai servizi segreti francesi ed inglesi per caldeggiare l’ingresso in guerra dell’Italia. Abbastanza soldi per fondare dal nulla il nuovo giornale Popolo d’Italia, attraverso il quale fu perseguito l’obiettivo richiesto dai poteri forti del caso, quello di trascinare l’Italia in guerra, con un certo consenso popolare e parlamentare.
E’ solo il caso di ricordare che questa intromissione costò al nostro paese il prezzo di 1’240’000 morti-

Il metodo della preponderanza
Nei casi sopra citati non si è mai avuta la censura totale tipica delle dittatura, ma è stato adottato il metodo della preponderanza, che ha consentito ad un certo tipo di narrativa, quella conferma ai voleri dei poteri forti, di prevalere su visioni alternative e persino sulla narrazione oggettiva dei fatti, in modo da condizionare l’opinione della maggioranza statistica della popolazione.

La preponderanza consente di far prevalere una narrativa sulle altre non in virtù della sua fondatezza, ma in funzione di altri criteri artificiali.
Il primo meccanismo è quello della “quantità” o della “frequenza“. Se una certa narrativa dei fatti viene presentata nel 90% del tempo, attribuendo alle visioni alternative solo il 10% del tempo, il risultato sarà l’adesione di almeno il 60-70% della popolazione alla prima versione, nonostante la maggiore credibilità dell’opinione alternativa.
Una variante di questo criterio è dedicare gli spazi informativi con molto pubblico (ad esempio in prima serata) alla narrazione che deve prevalere, relegando alle ore con poco pubblico le narrazioni alternative. Stesso tempo messo a disposizione (l’apparenza democratica è salvata), ma numero di destinatari molto diverso.

Il secondo meccanismo è presentare insieme in un confronto le diverse narrative, ad esempio nei talk show, ma creando delle situazioni nelle quali la narrazione dei poteri forti ha il sostegno di 4-5 persone presentate come autorevoli, contro una sola che la pensa diversamente. Il messaggio di fondo che passerà è che l’opinione della sola persone è minoritaria, per cui la maggioranza dei cittadini dovrà ritenere ragionevole schierarsi con la maggioranza degli opinionisti rappresentata in quel talk show.

Il terzo meccanismo è quello di presentare come iperqualificati gli opinionisti favorevoli alla narrativa da imporre, presentando nel contempo persone oggettivamente poco qualificate e non credibili a sostegno della visione alternativa.

Democrazia o dittatura?
In tutti questi casi non si può tecnicamente parlare di censura, come ai tempi del fascismo, per cui nessuno potrà contestare a quegli editori e a quei giornalisti di operare al di fuori della democrazia.
Se vogliamo, dal punto di vista formale non vi è alcuna violazione dell’art. 21 della Costituzione, che cita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…

Nello stesso tempo non possiamo dire di trovarci in una democrazia compiuta, perché al di là dell’apparente assenza di censure, il sistema di informazione è chiaramente pilotato artificialmente non per informare il popolo (demos), affinché possa conoscere la realtà e prendere adeguate decisioni di auto-governo (demo-crazia), ma per nascondere al popolo la realtà, affinché non possa prendere a ragion veduta le necessarie decisioni di auto-governo. Tali decisioni, come è ovvio, vengono invece prese da coloro che hanno investito sulle azioni di controllo dei mezzi di informazione, per trarne certamente un maggior profitto. A spese del popolo inconsapevole, naturalmente.

La situazione paradossale è che le democrazie sembrano essere indifese nei confronti di questi meccanismi di condizionamento dell’opinione pubblica.
Viceversa nei sistemi a governo autoritario l’esistenza di controllo politico sui mezzi di informazione riesce generalmente ad impedire che altri poteri forti esercitino la loro influenza nei mezzi di informazione.
Chi legge penserà: cosa ci abbiamo guadagnato? In un caso l’informazione viene condizionata dai poteri forti esterni, mentre nell’altro caso dal potere dittatoriale. Dovendo scegliere, ci teniamo la democrazia ad informazione limitata, che ci evita almeno di subire i soprusi e le violenze tipici di una dittatura.

Ovviamente si tratterebbe della scelta giusta, se ci trovassimo di fronte ad una dittatura feroce e che impoverisce economicamente il paese. Pensiamo, ad esempio, alle classiche dittature africane, in cui il dittatore arricchisce se stesso e la propria famiglia, lasciando che i poteri forti esterni facciano man bassa delle ricchezze del paese.
Ma se la scelta fosse fra un regime democratico-autoritario, ma non eccessivamente violento e che tutela gli interessi economici del paese  (come poteva essere quello di Gheddafi in Libia) ed una democrazia debole (ad esempio molti stati dell’America centrale), in cui le decisioni politiche ed i mezzi di informazione sono asserviti gli interessi di poteri forti esterni?
In questo caso quale sarebbe la scelta migliore?
La vera domanda da porci è: come possiamo difendere i mezzi di informazione delle democrazie dai condizionamenti dei poteri forti?

La questione chiave: l’eccessiva liberalizzazione dei capitali
Alla base dei meccanismi di condizionamento, siano essi volti al condizionamento dei decisori (i politici), o volti all’attuazione dei metodi della censura statistica per condizionare l’opinione pubblica, sta sempre la disponibilità di grandi capitali, che i poteri forti possono investire per poi trarne un maggior profitto.
Se gli investimenti economici vanno ad influenzare le decisioni politiche di interesse nazionale e se vanno ad alterare la narrazione dei mezzi di informazione, per impedire al popolo di esercitare il proprio diritto democratico di giudizio dei governanti, le democrazie vengono svuotate nel loro fondamento.

Per questa ragione sarebbe molto opportuno evitare che si verifichino eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi, non perché si debba necessariamente perseguire l’uguaglianza sociale per odio contro i ricchi, ma perché certi tipi di corruzione “su scala nazionale” sono possibili solo a chi disponga di grandi capitali da investire in tal senso.

Quindi il modo migliore per evitare che la narrativa dei mezzi di informazione sia subordinata ad interessi economici è prima di tutto necessario evitare che vi sia una concentrazione di ricchezza economica tale da essere in grado di incidere pesantemente sui bilanci della maggior parte dei mezzi di informazione o da essere in grado di corrompere decine e decine di giornalisti o i governanti e i funzionari di un paese.
Per evitare questi rischi, a livello nazionale potrebbe essere sufficiente contrastare fiscalmente l’eccessivo accumulo di ricchezza da parte di persone o di società. Nulla a che vedere con la classica “patrimoniale” che colpisce le prime e le seconde case. Il problema non è se una persona guadagna 200 mila euro l’anno o ha 2 o 3 ville al mare o se un imprenditore possiede stabilimenti industriali per 10 milioni di euro per potere produrre. Il problema è che dobbiamo evitare di avere soggetti, come ad esempio intendeva fare la loggia massonica P2, in grado di condizionare i mezzi di informazione grazie alle ingenti disponibilità di capitali.

Per quanto riguarda il rischio, forse ancora più grave, di condizionamenti provenienti da poteri forti che operano a livello internazionale, l’unico modo per limitarli è porre dei ferrei controlli ai flussi di capitali provenienti dall’estero.
Stando agli attuali trattati dell’Unione Europea e di adesione al WTO (l’organizzazione del libero commercio mondiale), la libera circolazione dei capitali è uno dei requisiti fondamentali che si richiedono ad uno stato democratico. Se uno stato non liberalizza la circolazione dei capitali, non è considerato democratico dalla comunità internazionale degli stati democratici.

In realtà è proprio questo “eccesso di democrazia” nel campo finanziario a rendere le democrazie indifese di fronte ai condizionamenti dei poteri forti sui mezzi di informazione. Se vogliamo davvero avere una democrazia effettiva, in cui il popolo è correttamente informato per giudicare le decisioni che vengono prese dal potere politico, dobbiamo avere il coraggio di sottrarci ai vincoli dei trattati internazionali che ci impediscono di controllare e limitare i flussi di capitali dall’estero.
Dopo di che dobbiamo avere il coraggio di introdurre una forte tassazione che impedisca gli eccessivi accumuli di ricchezza in Italia, per evitare che rappresentino un rischio per la nostra democrazia.

Per difendere ulteriormente la libertà di informazione è anche necessario non considerare le imprese che operano nel settore dell’informazione come delle normali imprese. E’ fondamentale garantire, con specifiche leggi anti-trust, che si realizzino delle concentrazioni di proprietà nel settore, sia in campo editoriale, sia in campo della raccolta pubblicitaria.
Una volta fatto questo, potremo anche studiare degli organismi di garanzia del pluralismo dell’informazione, i quali potranno funzionare solo se cesseranno le pressioni di ordine economico sui mezzi di informazione.

In realtà non è la troppa democrazia a fare male alla libertà d’informazione, ma è l’attuazione di un modello di democrazia sbagliato, che antepone gli interessi economici (la circolazione di capitali) alla salvaguardia della democrazia stessa.

UNIVERSO E PLURIVERSO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIVERSO E PLURIVERSO

Sullo scorcio del secolo scorso, appariva sicuro, a seguire la comunicazione imperante, che l’assetto del pianeta era avviato all’uniformità, dato che era diventato unipolare dopo l’implosione del comunismo e dell’U.R.S.S., onde l’unica potenza egemone erano gli U.S.A. Così la prospettiva che iniziava era che la politica – e il suo scenario – si trasformavano dal pluriverso, cui alcuni millenni di storia ci hanno abituati, all’universo. Una (sola) potenza egemone; uno il contesto (il pianeta globalizzato); una la conseguenza, la pace; una avrebbe dovuto essere la forma politica ossia la democrazia più liberal che liberale; una l’ideologia, il rispetto dei diritti umani; uno il nemico, chi a tanto bene si opponeva. E via unificando.

Poco tempo dopo, con l’attentato dell’11 settembre, tale costruzione già presentava vistose e sanguinarie falle: un’organizzazione più terroristica che partigiana aveva colpito duramente il territorio U.S.A. A parte l’incrinarsi (a dir poco) delle prospettive rosee, era evidente che il problema reale, che quelle avevano più che sottaciuto, occultato, era ciò che millenni di pensiero politico avevano considerato: le differenze tra gli uomini, il loro voler vivere in comunità (relativamente) omogenee, in spazi costituenti il limite (anche giuridico) tra interno ed esterno. Così chi afferma l’universo e l’uniformità non riduceva il numero dei (possibili) nemici, ma lo incrementava di tutti coloro che non concordavano né con l’egemonia di una potenza, né con quella di una forma politica, né di un uguale “tavola dei valori” per tutti i popoli del pianeta e via distinguendo.

Di guisa che quello che con espressione involontariamente strapaesana la stampa nazionale chiamava l’“ulivo mondiale” si è rivelato un moltiplicatore (o almeno un non-riduttore) di zizzania planetaria. Abbiamo avuto guerre etniche, partigiane, religiose oltre a quelle più “tradizionali” di competizioni per la potenza e l’appropriazione (politica ed economica).

A questo hanno contribuito due elementi, l’uno consistente in una regolarità politica, quindi ineliminabile: il conflitto. Da Machiavelli a Schmitt passando per Hobbes e (tanti) altri lotta, conflitto e amico-nemico sono stati considerati intrinseci alla natura umana. Per cui è impossibile eliminarli; ed è difficile ridurli, anche se non impossibile.

In fondo sia la teologia politica cristiana che il diritto internazionale westphaliano erano volti a realizzarlo. In particolare la riduzione dei legittimi contendenti agli Stati sovrani (justi hostes) diminuiva il numero di guerre limitando chi ne poteva far uso, garantendo così lunghi periodi di pace e comunque di guerre limitate (guerres en dentelles) alle nazioni europee. A ciò concorrevano altri precetti fondamentali del diritto pubblico (internazionale e interno): il monopolio della violenza legittima e della decisione politica, le frontiere (conseguenti al carattere territoriale delle comunità sedentarie), le distinzioni giuridiche (romanistiche) tra nemico e criminale e carattere pubblico della guerra. Il diritto di ciascuna comunità di vivere secondo le proprie scelte e consuetudini, ovviamente all’interno del proprio territorio, ne garantiva il pluralismo ed il rispetto da parte delle altre.

L’universo non è in linea con tale metodo sperimentato nella storia, che è poi, come scriveva de Maistre, la politica applicata. Buona parte dell’armamentario di propaganda spiegato, da ultimo (ma non solo) nella guerra russo-ucraina è il contrario di quanto efficacemente praticato in qualche secolo di storia d’Europa. Il nemico è un “criminale, macellaio, pazzo”. Le sue pretese sono quelle di un malato grave, a Putin hanno fatto anche delle visite psichiatriche via televisione con diagnosi tutte infauste (dal tumore alla demenza).

Il fatto che quanto fatto da Putin somigli assai alla politica dei suoi predecessori negli ultimi secoli (da Pietro il grande a Caterina la grande passando per Alessandro I e II, Nicola I), rivolti a guerreggiare per acquisire la supremazia nel (e intorno al) Mar Nero, può avere due risposte: o che, per interessi, in primo luogo geopolitici, la Russia tende a conquiste ed accessi ai “mari caldi” tra cui in primis, il Mar Nero, e di tale tendenza occorre tener conto; ovvero che la Russia da Pietro il Grande ad oggi è stata governata per gran parte dalla sua storia, da dementi (tuttavia due dei quali fregiati dagli storici con l’appellativo di “grande”). La lotta sarebbe tra democrazia contro autoritarismo – argomento che ricorda assai quello del “mondo libero” contro il “totalitarismo comunista” – solo che nel primo caso, aveva fondamenti ben più seri. L’autoritario è ovviamente Putin (ma anche Erdogan, Xi-Jin-Ping, Orban, Modi ecc. ecc.). Dimenticando che, se per difendere la democrazia fosse necessario propiziare la guerra a Russia, Cina, India, ecc. ecc., il confronto risulterebbe assai problematico. Argomenti che hanno tutti i connotati comuni: a) di non riconoscere l’avversario come nemico giusto; b) di considerare le frontiere come intollerabile limite d’influenza; c) e di discriminare essenzialmente in base a “tavole di valori” nelle quali i “diritti umani” rivestono un ruolo fondamentale.

Ora se è vero che vivere in una democrazia liberale (reale, meno in quelle parlate come purtroppo – in parte – è l’Italia) è molto meglio che vivere in uno Stato autoritario e forse anche in una democrazia illiberale, è parimenti vero che altro è tenersi il proprio modo di esistenza e rispettare quello degli altri, altro è cercare di esportarlo con inopportune ingerenze, e ancor più con guerre (dirette o per procura).

Ancor più quando il fondamento è la diversità di valori, la cui conseguenza è, come scriveva Schmitt, che valorizzarne alcuni significa comunque dis-valorizzare altri, collocarli in una “scala” da quello superiore a quello inferiore. E quindi discriminare coloro che condividono quelli “in basso”..

Come sosteneva Max Weber la competizione tra valori crea una lotta dove non è possibile “nessuna relativizzazione e nessun compromesso”. Onde Schmitt riteneva: “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi… nel dibattito sulla questione della guerra giusta” perché crea così il nemico assoluto “Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per la imposizione del valore supremo”[1].

Soprattutto per questo il pluriverso è preferibile all’universo – in politica, e specialmente nei rapporti tra popoli. E l’inclusione dell’orbe nell’urbs, capacità di cui i Romani erano maestri, richiede secoli e rispetto delle differenze. Tempo carente ed attitudine assente tra i globalizzatori. Onde il pluriverso, fondato sul rispetto della diversità tra i popoli, possiede un’attitudine pacificatrice superiore all’ “alternativa” universalista.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] E prosegue: “Tutte le categorie del diritto di guerra classico del jus publicum europaeum – nemico giusto, motivo di guerra giusto, proporzionalità dei mezzi e condotta conforme alle regole, debitus modus – cadono vittime, inesorabilmente, di questa mancanza di valore”, v. Carl Schmitt, La tirannia dei valori, A. Pellicani Editori, Roma 1987, p. 72.

FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI, di Massimo Morigi

                      FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI

 

E per la chiarezza concettuale e terminologica e per  iniziare l’indispensabile  percorso già indicato ai lettori in “Regnum Cliens”, (all’ URL  de “L’Italia  e il mondo” https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20220424164612/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/; screenshot:  https://web.archive.org/web/20220424164625/http://web.archive.org/screenshot/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, ed anche su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia e  https://ia801505.us.archive.org/10/items/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia/REGNUM%20CLIENS%2C%20REPUBBLICANESIMO%20GEOPOLITICO%2C%20MASSIMO%20MORIGI%2C%20ITALIA.pdf )  è ora necessario fare un esempio concreto per instradarci verso una nuova pedagogia nazionale che si contrapponga alle vecchie e divisive narrazioni, iniziando innanzitutto da coloro che possono sembrare affini ma, in realtà, ammettendo pure la loro  buona fede, non fanno altro che seminare confusione nel campo di coloro che si stanno rendendo conto che l’Italia non è nient’altro che un “regnum cliens” degli Stati Uniti. Ci riferiamo al prof. Alessandro Orsini, del quale qui di seguito si indica per punti la complessa e contraddittoria fenomenologia di questo comunque interessante personaggio pubblico. Punto primo della fenomenologia di Orsini. Il professore accusato  –  vigliaccamente e distorcendo le sue parole bisogna sottolineare – di essere  fascista,  anziché rimarcare il ruolo paralizzante del mito della resistenza e dell’antifascismo, denuncia anche giustamente di essere stato volutamente frainteso per le posizioni assunte sulla guerra russo-ucraina e per queste sue  posizioni che si sta operando sulla sua persona una sorta di ridicola e deformante “reductio ad fascem” ma facendo ciò ribadisce la sua fedeltà ai valori paralizzanti di cui sopra e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello (l’abbiamo già detto,  gli si concede la buona fede) che per l’Italia è fondamentale il passaggio ad una nuova pedagogia nazionale che si lasci completamente dietro di sé, appunto, il miti confusionari, divisivi e sommamente paralizzanti  dell’antifascismo e della resistenza e che risultano essere un fenomenale compattatore delle classi dirigenti e parassitarie italiane e, in prospettiva storica, nient’altro che una mitologia costruita ad hoc da un’Italia che aveva perso il secondo conflitto mondiale e che necessitava di questa mitologia per accreditarsi pubblicamente presso i vincitori come una nazione rinnovata ed affidabile (nella realtà inconfessabile, certamente affidabile perché col mito dell’antifascismo e della resistenza si rinunciava alla propria sovranità persa con la guerra ma rinnovata proprio no, anzi il mito copriva il fatto che le strutture dello stato erano sempre quelle fasciste – e quali avrebbero potuto essere ? – e gli italiani non erano per natura antifascisti ma, per la maggior parte, fascisti che avevano perso la guerra cui faceva gioco raccontare all’estero ed anche al loro foro interiore che erano sempre stati antifascisti). Punto secondo della fenomenologia di Alessandro Orsini. Non c’è praticamente alcuna pubblica dichiarazione del professore dove egli non si professi ammiratore della democrazia degli Stati Uniti (???) e nel contempo non affermi che l’Italia deve rendersi più autonoma da questi e cercando di fare i propri interessi, imitando, per giunta, proprio gli Stati Uniti dal professore ritenuti maestri nel perseguire il proprio interesse nazionale. Si tratta, come è di tutta evidenza, di una posizione in sé fortemente contraddittoria (perché allora rendersi autonomi da una potenza che promana tanta civiltà democratica?) ed anche antistorica, perché se è vero che gli Stati Uniti sanno fare i loro interessi (e anche questo è tutto da dimostrare, meglio dire che gli Stati Uniti  hanno di volta in volta grande capacità di imporre agli alleati e agli stati clienti – per l’Italia abbiamo già detto che questa è la definizione che meglio si attaglia riguardo al suo rapporto con gli Stati Uniti – la loro politica del momento), bisogna vedere cosa significhi, a livello di politica interna degli Stati Uniti, fare i propri interessi, che negli ultima trent’anni – se facciamo eccezione dell’amministrazione Trump – non è mai stato l’interesse di quella che più o meno si può definire una classe media (cosa che si intuisce importa molto al prof. Orsini) ma solo quello delle grandi corporation. Quindi, per farla breve e per essere benevoli, Orsini fortemente succube del mito americano e non andiamo oltre. Punto terzo. Orsini si definisce grande europeista e, purtroppo, c’è da credere alla sua sincerità, ma si tratta di una sincerità che confligge – e anche su ciò diamo credito ad Orsini sulla sua sincerità e quindi sul suo accecamento – con la sua volontà di voler rendere l’Italia più assertiva ed efficace in politica  estera. L’Unione Europea è nata per la volontà degli Stati Uniti di controllare il Vecchio continente uscito con le ossa rotte dal Secondo conflitto mondiale e, come si vede nella vicenda della guerra russo-ucraina, svolge egregiamente questo ruolo e non c’è molto altro da dire se non riflettere sull’ingenuità del prof. Orsini, ed anche, se proprio si vuole aggiungere una postilla, concordare  con il ragionamento di Orsini in merito al fatto che per la Francia l’Unione Europea è un moltiplicatore di potenza, ma anche sottolineare che, a differenza dell’opinione di Orsini, è assolutamente velleitario pensare che questo moltiplicatore di potenza possa valere anche per l’Italia, per il semplice fatto che per moltiplicare potenza, potenza bisogna avere e siccome la potenza internazione dell’Italia è uguale a zero, hai voglia a moltiplicare… . Quarto e ultimo punto. Orsini sostiene che l’Italia è un satellite degli Stati Uniti. Errore, grosso errore, errore da sottolineare con la matita blu. L’Italia non è un satellite degli Stati Uniti, perché com’è noto in astronomia, un satellite esercita una sua forza di gravità sul corpo celeste maggiore che va sotto il nome di pianeta, e usando quindi nella relazione di potenza fra Stati Uniti ed Italia la metafora del satellite, ciò vorrebbe dire che l’Italia esercita una pur minima influenza sugli Stati Uniti, ma questo è empiricamente smentito dai fatti, ricevendo l’Italia passivamente e servilmente i desiderata degli Stati Uniti senza portar un pur minimo contributo autonomo agli stessi (vedi sempre guerra russo-ucraina con la ridicolaggine che l’Italia è letteralmente indemoniata nel dire che bisogna fare a meno del gas russo, dimenticando il piccolo dettaglio che essa è la nazione occidentale che più dipende dallo stesso. In realtà l’Italia non è uno stato satellite degli Stati uniti come possono esserlo la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, l’Italia è uno stato cliente degli Stati Uniti, dove, come nell’antica Roma, noi attribuiamo a questo termine il significato di uno stato che ha formale personalità giuridica internazionale e formale libertà di scegliersi al suo interno i propri governanti, ma che non solo in materia di difesa militare ma anche in quella delle scelte economiche vitali per il benessere della sua popolazione non può e non deve avere alcuna parola se non quella che direttamente le viene trasmessa dalla nazione con la quale è formalmente alleata ma, nella realtà, completamente sottomessa militarmente ed economicamente (rinuncia al gas russo per ordine degli Stati Uniti anche se questo può uccidere la nostra economia; aumento, sempre su direttiva degli Stati Uniti, delle spese militari per l’Italia anche se questo rischia di far schizzare la già nostra disastrata spesa pubblica, sempre su ordine diretto degli Stati Uniti, invio di armi all’Ucraina, anche se questo ci espone al rischio di essere la prima vittima sacrificale di una ritorsione nucleare da parte della Russia. I Romani con i regni clientes si comportavano esattamente come gli Stati Uniti con noi italiani: prelevavano soldati per le legioni, depredavano i territori dei regni clientes delle risorse minerarie, agricole ed umane, cioè, oltre ai soldati, imponevano de facto  presso costoro anche la fornitura di schiavi oltre quelli che già si procacciavano con la diretta brutale violenza dagli stati debellati tout court dalla loro forza militare). L’interesse della fenomenologia testé tratteggiata  è data dal fatto che col prof. Orsini ci troviamo di fronte ad uno studioso  –  contrariamente alla stragrande maggioranza  degli esponenti del circo intellettual-mediatico mainstream palesemente in malafede e/o talmente istupidito dal crollo delle ideologie novecentesche che “tout va très bien madame la marquise” –   che pur possedendo realmente una competenza geopolitica e pur volendo sinceramente far valere questa competenza a beneficio della nazione cui appartiene, non è riuscito ad acquisire quella necessaria souplesse che gli consenta di sbarazzarsi con decisione di tutti quegli idola fori  del c.d. Occidente che permettono ai gruppi alfastrategici di questo fantomatico e fantasmagorico Occidente di prevalere senza alcuno sforzo sui gruppi omegastrategici che vengono letteralmente privati della loro capacità critica e di autoconservazione vitale tramite l’uso   parareligioso della mitologia dei diritti dell’uomo e della c.d. democrazia rappresentativa (in Italia, sottomiti e diretta gemmazione del mito principale, mito dell’antifascismo presente anche all’estero ma mito dei vincitori per imporre la loro volontà di potenza agli sconfitti mentre in Italia è il mito degli sconfitti e per imporre la volontà di potenza delle classi egemoni sulle classi subalterne e mito della resistenza, anche questo presente all’estero ma in Italia particolarmente farlocco ed arma di “distrazione di massa” a totale detrimento, come nel primo caso, dei gruppi omegastrategici), democrazia e diritti dell’uomo che, secondo questo racconto mitologico, non solo dovrebbero essere imposti sui popoli che non ne vogliono sentire parlare ma, addirittura, dovrebbero essere la chiave di spiegazione universale per interpretare e giudicare le vicende storiche, culturali ed esistenziali dell’Umanità (e se l’imposizione è segno di mentalità imperialista mai morta, e questo passi,  scagli la prima pietra di chi non è mai stato imperialista magari solo sul piano personale, la spiegazione dell’avventura umana lungo le rotaie dei diritti umani e della democrazia quando non di malafede, è veramente segno di profonda ingenuità). In conclusione. Speriamo che la fenomenologia del prof. Orsini, pur segno a nostro giudizio, di buona volontà e anche di buone conoscenze in fatto di geopolitica, possa subire una sua evoluzione verso posizioni più mature ed adulte, speriamo cioè che il segno molto evidente della “fatica del concetto” rappresentato da questo studioso possa portare ad una Epifania Strategica non solo riservata a gruppi ristretti di intellettuali che pur onesti, si lasciano ancora abbindolare dagli idola fori liberaldemocraticistici lasciatici in eredità dal secondo dopoguerra ma anche ad un aumento dell’intelligenza collettiva che, per quanto non nutrita da approfondite conoscenze nelle masse, avverta  e sappia finalmente riconoscere quando i gruppi alfastrategici  tirano fuori le loro  supercazzole ideologiche per fregare gli omegastrategici nel sempiterno conflitto strategico fra gruppi con diverso livello di potere, una fregatura che oggi potrebbe avere come posta in gioco la distruzione dei gruppi omegastrategici stessi attraverso le prime fasi di un conflitto nucleare, prime fasi verso le quali i gruppi dirigenti avrebbero, c’è da scommetterlo, l’intelligenza e le risorse per mettersi al riparo in tempo mentre per i gruppi omegastrategici non ci sarebbe alcuno scampo se non raccomandare l’anima all’Altissimo (su questo punto Orsini è molto lucido: in polemica con Cacciari, per lui la guerra nucleare non significa distruzione di tutta l’Umanità ma, almeno all’inizio, distruzione delle classi più basse e subalterne della società: opinione banale, se vogliamo, ma di una banalità che è segno anche di anticonformismo e profondo realismo politico e sociale). Intanto, per quanto ci riguarda, teniamoci ben stretto, come il nostro (ed altrui, ce lo auguriamo) bene più prezioso la chiarezza terminologica e concettuale riguardo la condizione dell’Italia: l’Italia è stato cliente degli Stati Uniti e, come precedentemente detto, lungo questa consapevolezza si accettano suggerimenti, e perché no? anche dal nostro simpatico seppur non sempre del tutto conseguente prof. Orsini, al quale, comunque, va tutta la nostra solidarietà per i vili e stupidi attacchi ai quali è stato oggetto che testimoniano della sua libertà di studioso e che, ci auguriamo, porti ad una positiva evoluzione del suo pensiero. 

Stati Uniti! Turbolenze interne e avventure esterne_con Gianfranco Campa

Una amministrazione e una compagine politica in crescente difficoltà. Il tentativo di recuperare una narrazione che riesca ad attirare almeno in parte i consensi nel ceto medio professionale americano migrato ormai nell’area repubblicana. L’impossibilità di far corrispondere alle parole i fatti. La percezione che gli equilibri interni e il dominio degli attuali centri decisori siano ormai scossi definitivamente dal consolidamento della fase multpolare. Un mix esplosivo che sta spingendo i centri decisori verso scelte di vero e proprio avventurismo militare e di pura provocazione. La guerra in Ucraina è solo un momento di uno stillicidio sempre più frenetico. Il viaggio della famiglia reale di Giordania e di Mario Draghi negli Stati Uniti, l’opzione di ulteriore riarmo del Kossovo offrono qualche indizio sulle pedine più solerti e disponibili ad essere utilizzate in questa strategia della tensione continua e sulla geografia di questi futuri esercizi temerari. Le élites stanno cogliendo il punto di svolta e cominciano ad adeguarsi alla nuova realtà e ad approfittare delle nuove opportunità. E’ tempo di sollevare gli sguardi e uscire dall’apatia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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“NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022, di Roberto Buffagni

NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022.

 

Il discorso del presidente Putin al “Consiglio dei legislatori” del 27 aprile1 segue immediatamente le dichiarazioni del Ministro della Difesa e del Segretario di Stato americani a Kiev2, che individuano come obiettivo strategico “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“; e la riunione della NATO a Ramstein, con le dichiarazioni del presidente Biden, secondo il quale ci troviamo in un frangente storico analogo al crollo dell’URSS3.

Le dichiarazioni ufficiali americane chiariscono che l’obiettivo strategico statunitense è la distruzione dell’integrità politico-territoriale della Russia, una frammentazione della Federazione russa sul modello jugoslavo analoga a quella che seguì il collasso dell’URSS. Infatti, solo così è possibile “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“. Finché la Russia resta politicamente coesa, essa resterà una grande potenza, che sarà SEMPRE in grado di muovere guerra ad altri paesi. Non lo sarebbe più soltanto quando fosse disgregata in entità politiche troppo piccole e deboli per designare autonomamente un nemico.

Ovviamente, su questa base è assolutamente impossibile ogni trattativa tra Ucraina e Russia, tra paesi occidentali e Russia. Le dichiarazioni ufficiali americane risultano infatti in una chiara minaccia esistenziale per la Russia.

Il discorso del Presidente Putin ne prende atto, e reagisce con fermezza, chiarendo che la Russia è disposta a opporvisi con tutti i mezzi a sua disposizione, e si richiama all’esperienza storica del suo paese:

Non abbiamo dimenticato i barbari piani dei nazisti per il popolo sovietico: scacciarlo. Ricordate, vero? Volevano costringere chi ne fosse in grado a lavorare come schiavi, a fare un lavoro servile, costretti in schiavitù. Chi venisse ritenuto superfluo, andava inviato oltre gli Urali o al Nord, per estinguervisi. Questo progetto è documentato, documentato storicamente. Noi non ce ne siamo dimenticati.

Ricordiamo anche come gli stati occidentali hanno incoraggiato terroristi e criminali nel Caucaso settentrionale nei primi anni ’90 e 2000, come hanno sfruttato i problemi del nostro passato, problemi reali, ingiustizie del passato nei confronti di interi popoli, compresi i popoli del Caucaso. Ma non lo hanno fatto per renderci migliori, nient’affatto. Hanno fatto tutto questo per riportare nel nostro presente i problemi del passato, per incoraggiare atteggiamenti separatisti nel nostro paese, e finalmente dividerlo e distruggerlo. Ecco perché hanno fatto tutto questo. Volevano ricacciarci nell’arretratezza. Molti hanno cercato di fare lo stesso con la Russia, in tutte le epoche.

[…] “Consentitemi di sottolinearlo ancora una volta: se qualcuno intende intervenire dall’esterno e creare una minaccia strategica per la Russia per noi inaccettabile, deve sapere che i nostri attacchi di rappresaglia saranno fulminei. Ne abbiamo gli strumenti, strumenti di cui nessun altro, oggi, può disporre. Non ci limiteremo a minacciare; li useremo, se necessario. E voglio che tutti lo sappiano: tutte le decisioni necessarie, su questo punto, sono già state prese.”

Da quanto sopra risulta che la Russia si dispone a combattere con tutte le sue forze per la propria sopravvivenza, e che è pronta a compiere gli stessi – spaventosi – sacrifici che l’hanno salvata dalla distruzione sia nella Seconda Guerra Mondiale (27 milioni di morti), sia nel più lontano passato, ad esempio contro l’invasione delle forze di coalizione europee guidate dalla Francia napoleonica.

Il 30 maggio 1962, alla Camera dei Lord, il Maresciallo Bernard Montgomery, Viscount El Alamein, disse: “Rule 1, on page 1 of the book of war, is: ‘Do not march on Moscow’.

L’Italia sta per partecipare a una guerra che si propone lo scopo di distruggere la Russia senza darsi neppure la pena di dibatterne in Parlamento. Per il bene dell’Italia, è necessario che tutti gli italiani protestino con la massima fermezza, in tutti i modi possibili e legali, contro questa decisione politica che coinvolge loro e i loro figli in una avventura bellica sciagurata.

2 “We want to see Russia weakened to the point where it can’t do things like invade Ukraine.” (Ministro della Difesa Austin) https://www.pbs.org/newshour/world/blinken-austin-return-from-visit-to-ukraine-say-russia-is-failing-in-war-efforts

Grammatica del costituzionalismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

REGNUM CLIENS, di Massimo Morigi

REGNUM CLIENS

Una precisazione (e per aprire una nuova fase) non solo della nostra discussione ma anche presso coloro che sentono insopportabili gli odierni vincoli internazionali cui è sottoposto il nostro paese, una proposta terminologica : l’Italia non è un paese alleato degli Stati uniti con scarsissima voce in capitolo in merito alle decisioni strategiche che lo riguardano, l’Italia non ha alcuna voce in capitolo non solo riguardo a queste decisioni strategiche, l’Italia non ha nemmeno alcuna voce in capitolo riguardo alle decisioni economico-produttive che impattano direttamente sulla vita dei suoi cittadini e ne configurano il suo assetto nell’economia del c.d. occidente, talché è totalmente fuorviante sostenere che l’Italia è il membro più debole di un’alleanza dove gli Stati unti sono il fratello maggiore, l’Italia non può quindi essere definito un alleato più o meno sottomesso vista questa disparità di forze ma la giusta definizione é Ital ia stato cliente degli Stati uniti, recuperando così la definizione di “regnum cliens” impiegato dai Romani, col la quale essi designavano quegli stati che formalmente avevano una vita politica autonoma (potevano avere una loro autonoma gerarchia politica purché non si mettesse di traverso a Roma) ma dovevano versare tributi a Roma e, all’occorrenza, fornire manovalanza militare. E si sottolinea un ulteriore fatto. Tale stato di “clientelaggio” dell’Italia verso gli Stati uniti è un’assoluta novità, anche se, ovviamente , le premesse c’erano tutte nella natura di un’alleanza squilibrata che, dopo, la fine della guerra fredda non poteva che evolversi, in mancanza di una reale discussione ed elaborazione da parte dei centri strategici nazionali (figurarsi!, vero La Grassa?) sulla mutata situazione internazionale (da questo punto di vista l’odierna situazione italiana è peggiore, molto peggiore, di quella preunitaria, laddove in quel periodo della nostra stor ia l’Italia era divisa in piccoli stati, alcuni clienti dell’Austria, ma altri, vedi il Piemonte e lo Stato della Chiesa avevano una loro individualità che, sebbene a fatica, si opponeva, se necessario e talvolta con estrema violenza, ai diktat della potenza egemone sul nostro territorio). Per concludere e per porre chiaramente una nostra primazia, nostra dell’ “Italia e il mondo”, voglio dire. La conclusione è che l’Italia adottando le scriteriate sanzioni antirusse imposte dall’America si è definitivamente trasformata da alleata degli Stati uniti in un “regnum cliens” degli stessi. La primazia che l’ “Italia e il mondo” deve rivendicare rispetto non solo alle pseudoriviste di geopolitica, magari molto scaltrire promozionalmente ma la cui funzione è simile a quella che una volta si diceva della filosofia, cioè che la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale, ma soprattutto rispetto a tutti coloro, che nel passato come ancora oggi (oggi per la verità sempre più sparuti) si definiscono “sovranisti”, dove il problema non è tanto essere sovrani rispetto a tutto un resto del mondo che viene percepito ingenuamente come nostro nemico , ma il problema è, unicamente, uscire dalla condizione di “regnum cliens” degli Stati uniti. Chiarezza terminologica e chiarezza di obiettivi. Si accettano da tutti suggerimenti in proposito, ma dalla chiarezza concettuale e terminologica è indispensabile iniziare il percorso

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica_di Davide Gionco

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica
Tutti i danni che subiamo dalle privatizzazioni nel mercato dell’energia
Davide Gionco
21.04.2022

L’acqua, le infrastrutture pubbliche e l’energia
Nel 2011 gli italiani votarono a larga maggioranza (95,8%) a favore del referendum per il mantenimento del controllo pubblico sui servizi idrici.
La maggioranza degli italiani aveva capito che l’acqua è un bene comune fondamentale, senza del quale non possiamo vivere, la cui disponibilità non può dipendere dagli interessi economici di soggetti privati.
Senza acqua non possiamo sopravvivere come esseri umani e non possiamo produrre il cibo che mangiamo. Senza acqua molte aziende dovrebbero fermare la loro produzione, non avremmo il turismo, non avremmo i servizi pubblici. Senza acqua non potremmo neppure produrre energia elettrica tramite la combustione di gas, idrocarburi o carbone.
Se venisse a mancare l’acqua in un certo territorio del paese, quel territorio si spopolerebbe in brevissimo tempo, obbligando gli abitanti ad emigrare verso altri territori.
La disponibilità di acqua è un bene comune, una infrastruttura fondamentale da cui dipende la vivibilità e la sostenibilità economica del nostro Paese.

Analogamente alla disponibilità di acqua, un paese moderno non può sussistere senza disporre dell’accesso comune, a prezzi abbordabili, ai prodotti alimentari fondamentali, ad una rete stradale, ai servizi sanitari, all’istruzione di base, alle telecomunicazioni.
L’accessibilità ai servizi energetici, intesi come disponibilità di energia elettrica e come disponibilità di combustibile per produzione di energia termica, è con ogni evidenza una questione fondamentale per la sussistenza del nostro paese.
Senza energia, infatti, non possiamo garantire livelli di comfort accettabili nelle abitazioni, ma soprattutto non possiamo garantire la produzione di beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere, dalla produzione di cibo, ai servizi sanitari, alla scuola, alla sicurezza, alle costruzioni, ecc.

La lungimiranza dei politici della Prima Repubblica
La classe politica che guidò l’Italia nel secondo dopoguerra, portandola dalle rovine della guerra al miracoloso boom degli anni ’60-’70, aveva le idee molto chiare riguardo al ruolo fondamentale delle infrastrutture pubbliche nello sviluppo del Paese.
A titolo esemplificativo richiamiamo le motivazioni espresse nel 1962 (“Nota aggiuntiva”) da Ugo La Malfa riguardo alla creazione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), tramite la nazionalizzazione di 11 aziende private del settore.
Il problema di fondo da risolvere era in primo luogo che le 11 aziende private miravano unicamente a realizzare i propri profitti, per cui tendevano a creare degli oligopoli o addirittura dei monopoli, per poi massimizzare i prezzi di vendita, non avendo gli acquirenti privati delle alternative. E questo fattore risultava penalizzante per la competitività delle aziende che si trovavano obbligate a pagare prezzi troppo elevati per l’energia elettrica.
In secondo luogo quelle aziende private del settore elettrico non avrebbero mai esteso il servizio alle zone più arretrate del Paese, in quanto non redditizio per i loro bilanci. Ma nessuno sviluppo economico delle aree arretrate del Paese sarebbe mai stato possibile senza avere accesso alla rete elettrica.

La soluzione ovvia, per la lungimirante classe politica del tempo, fu l’acquisizione di quelle aziende private e la loro nazionalizzazione. Dopo di che vi fu un piano nazionale di investimenti, con la realizzazione delle linee ad alta tensione, dei collegamenti con le nazioni estere e, infine, la decisione del 1967 di mettere l’ENEL sotto la sorveglianza diretta del CIPE (Comitato Interministeriale di Programmazione Economica), di concerto con il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.

Era chiaro a tutta la classe dirigente del tempo che l’energia elettrica non era una merce come tante altre, che poche aziende private potevano vendere per realizzare i propri profitti. Tali profitti, infatti, sarebbero stati ben poca cosa rispetto ai danni economici per mancata crescita causati all’intero Paese.
Il fatto di garantire a tutti, su tutto il territorio ed ad un prezzo “politico”, uguale per tutti e non esposto alle (inevitabili) manovre speculative dei rivenditori privati era un requisito fondamentale affinché decine di migliaia di imprese private potessero sviluppare la loro capacità di produrre beni e servizi di ogni genere.
La decisione del 1962 fu probabilmente fra le più determinanti per innescare l’incredibile boom economico italiano degli anni 1960.

Per ragioni del tutto analogo Enrico Mattei rifondò l’ENI stringendo tutta una serie di accordi internazionali, che consentirono all’Italia di approvvigionarsi di petrolio in modo continuo ed a prezzi controllati, senza essere esposti alle azioni speculative delle famose “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Mobil, Texaco, Socal, Gulf, Shell, BP). Con molta probabilità questa azione fu la causa principale della morte in dinamiche mai chiarite dello stesso Mattei. Con la stessa logica i successori di Mattei alla guida dell’ENI stipularono accordi per la fornitura di gas con la Russia, con l’Algeria e con la Libia. L’obiettivo era sempre lo stesso: assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento di energia a prezzi abbordabili.

Il fondamento teorico di questa visione politica furono con ogni probabilità le pubblicazioni dell’economista Paolo Sylos Labini, il quale nel suo libro del 1956 “Oligopolio e progresso tecnico” spiegava come l’esistenza di poche imprese oligopoliste su fattori produttivi chiave, come ad esempio la distribuzione di energia, potesse di fatto impedire lo sviluppo di molte altre aziende. La soluzione proposta è che fosse lo Stato a prendere il controllo delle aziende distributrici di energia, in modo da eliminare l’obiettivo del massimo profitto e finalizzandole a garantire a tutti la fornitura di base dell’energia.

Non il prezzo più basso, ma prezzi stabili e approvvigionamento certo
Siccome il mercato internazionale dell’energia, in particolare del petrolio (dato che l’Italia decise presto di svincolarsi dal carbone) è sempre stato soggetto a speculazioni e fluttuazioni in conseguenza di cambiamenti geopolitici, ENEL ed ENI avevano il mandato di operare, per quanto possibile, per garantire prima di tutto l’approvvigionamento certo di energia, fondamentale per non rischiare l’arresto delle attività produttive. Il secondo obiettivo, per quanto possibile, era quello di garantire prezzi il più possibile stabili. Tale obiettivo era importante, perché anche le eccessive fluttuazioni dei prezzi dell’energia possono creare dei problemi al settore produttivo. Infatti l’eccessiva fluttuazione del costo dell’energie rende difficile la determinazione dei costi di produzione e, quindi, anche la pianificazione industriale.
Questo significa che, a livello politico-economico, è meglio per le industrie avere un prezzo dell’energia mediamente un po’ più altro, ma stabile, piuttosto che un prezzo dell’energia fortemente altalenante, anche se mediamente inferiore.
Per questo motivo l’ENI, che si occupava dell’approvvigionamento di energia primaria, tendeva a stipulare con i soggetti esteri dei contratti di fornitura di 20-30 anni, a prezzi concordati.
Questo tipo di contratti, peraltro, risultavano convenienti anche per i fornitori esteri, i quali potevano essere certi di ammortizzare i loro investimenti, come ad esempio quelli necessari per realizzare un gasdotto di 4000 km dalla Siberia settentrionale all’Italia.

I geni dell’Unione Europea e le liberalizzazioni
Fatte salve le eccezioni del 1974 (crisi energetica causata dalla guerra del Kippur) e del 1979-80 (crisi energetica causata dalla rivoluzione in Iran e poi dalla guerra Iran-Irak), nelle quali le oscillazioni dei prezzi dell’energia furono inevitabilmente scaricate sugli utilizzatori, il meccanismo dell’energia pubblica a prezzo controllato ha dimostrato di funzionare bene per diversi decenni.

Dopo di che, nel 1992, l’Italia sottoscrive il Trattato di Maastricht di istituzione dell’Unione Europea ed i successivi trattati che hanno via via ceduto sempre più poteri alle istituzioni europee.
Le prime richieste, già degli anni ’90, messe in atto convintamente da personaggi dal nome di Romano Prodi e Mario Draghi, furono quelle di privatizzare le grandi compagnie energetiche nazionali.
Tutto questo senza grandi analisi economiche, ma sulla base dell’assioma neoliberista per cui “privato è più efficiente e costa meno”.
Da quel momento ENI ed ENEL pensarono sempre di meno a garantire energia a prezzo controllato a cittadini e imprese in Italia e sempre di più a realizzare utili per i propri azionisti, come tutte le altre multinazionali del mondo.

Non stiamo dicendo che, quando ENI ed ENEL erano pubbliche, non ci fossero sprechi ed inefficienze. Ma stiamo dicendo che, come la storia ha dimostrato, gli obiettivi “statutari” di garantire l’approvvigionamento di energia a tutti gli italiani ed a prezzi controllati venivano assicurati, senza ridurre sul lastrico delle famiglie e senza portare alla chiusura le fabbriche a causa di un eccessivo aumento dei costi dell’energia.

L’aumentare del grado di privatizzazione nel settore dell’energia ha portato dapprima alla moltiplicazione del numero di rivenditori, portando in Italia non alla riduzione dei prezzi, ma soprattutto ad una riduzione della trasparenza nel settore, con la moltiplicazione di truffe e dei contratti-capestro venduti telefonicamente ad ignari consumatori e responsabili di piccole imprese, che non potevano essere specialisti di contratti energetici.

Il livello di privatizzazioni ha raggiunto il suo culmine la scorsa estate 2021, con l’attualizzazione della finanziarizzazione del mercato europeo del gas naturale.
Da allora il prezzo di vendita al dettaglio del gas non viene più determinato dai prezzi dei contratti di fornitura a lungo termine sottoscritti dall’ENI (o società omologhe di altre nazioni) con Russia, Algeria & c., ma dalle contrattazioni giornaliere presso la borsa TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, dove centinaia di soggetti privati scambiano quantitativi virtuali di gas, con liquidazione attuale o differita (futures).

Il risultato di queste “riforme” non è stata la diminuzione del prezzo del gas in Europa, ma è stato un aumento medio del prezzo unito a fortissime oscillazioni del prezzo.

Le conseguenze del provvedimento europeo, dopo un anno di “liberalizzazioni”, dovrebbe portare immediatamente a fare retromarcia, essendo evidente che le dinamiche della finanza speculativa si adattano molto male ad un mercato fatto di rigidità strutturali come quello del gas naturale.
Ma non lo faranno, perché probabilmente l’obiettivo delle lobbies finanziarie che la fanno da padrone negli uffici di Bruxelles era proprio l’aumento delle rendite finanziarie nel settore dell’energia. Le rendite finanziarie vengono garantite sia dagli alti prezzi, sia dalle frequenti fluttuazioni dei prezzi.
Per questi soggetti l’energia è una merce come tante altre, mentre per cittadini ed imprese è quasi come l’aria che respiriamo, di cui non possiamo fare a meno.

I contratti oil-link e gas-to-gas
Per spiegare le ragioni delle disfunzionalità delle liberalizzazioni europee nel mercato dell’energia, in particolare del gas naturale, dobbiamo prima di tutto comprendere le tipologie di contratti di acquisto del gas naturale.
Siccome oltre il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia è generata dalla combustione di gas naturale, il prezzo del gas naturale incide direttamente sul prezzo dell’energia termica (riscaldamento, produzione industriale), sia indirettamente, causando un aumento del prezzo dell’energia elettrica.

La quasi totalità del gas naturale importato in Italia è acquistato all’ingrosso da 3 operatori: ENI, Enel ed Edison. Questi operatori hanno stipulati dei contratti a lungo termine (durata 20-30) per grandi quantitativi di gas. Vengono definiti “oil-link” in quanto generalmente il prezzo di acquisto del gas è modulato in funzione dell’andamento del prezzo del petrolio (oil in inglese).
La caratteristica più importante di questi contratti non è solo la relativa stabilità del prezzo, ma è il fatto che gli ordinativi di grandi quantità di gas vengono fatti tenendo conto delle previsioni di consumo dell’Italia (famiglie, imprese e produzione di energia elettrica) e tenendo conto delle possibilità di stoccaggio del gas in Italia. I fornitori esteri, per il fatto di utilizzare condotte del gas di un certo diametro, hanno una capacità di punta di consegna del gas limitata, quindi prevedono la consegna anticipata del gas durante i periodi a bassa domanda (primavera, estate, autunno) in modo da fare fronte alla domanda di picco invernale. Un’altra caratteristica di questi contratti è il “take or pay” ovvero che il gas ordinato deve essere pagato, anche se poi non ne viene richiesta la consegna, per il fatto che il fornitore non può garantire di essere in grado di consegnare la stessa quantità in seguito, a causa dei limiti di capacità dei gasdotti.
Il concetto di fondo di questi contratti è la pianificazione, la quale consente di ottimizzare l’uso degli impianti sia lato paese fornitore, sia lato paese consumatore, nonché di tenere abbastanza sotto controllo i prezzi.
Pianificazione è ciò che è necessario per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti, famiglie e industrie, il necessario approvvigionamento di energia.

Questo tipo di contratti sono stati la norma dagli anni ’70, con le prime forniture di gas dall’estero, fino allo scorso anno 2021. Dopo di che l’Unione Europea ha “liberalizzato” il mercato del gas naturale, consentendo a molti piccoli soggetti di stipulare dei “mini-contratti” di acquisto di gas, con il prezzo di acquisto slegato dal prezzo del petrolio e per questo denominati “gas-to-gas”.
Il prezzo di acquisto del gas viene quindi stabilito dal fornitore sulla base degli ordinativi che riceve.
Il prezzo di vendita del gas sul mercato europeo viene deciso dalle contrattazioni giornaliere presso la sopra citata borsa TTF di Amsterdam, con il meccanismo del prezzo marginale.
In sostanza, nelle regole di incontro fra domanda e offerta, i prezzi di vendita del gas vengono gradualmente aumentati fino a soddisfare tutta la domanda di gas, dopo di che il prezzo della “quota finale” di gas venduta per soddisfare la richiesta degli ultimi acquirenti di gas viene utilizzato come prezzo di vendita di tutto il gas.
Facciamo un esempio per spiegare meglio: se il 50% del gas viene acquistato dai venditori a 25 €/MWh e poi un altro 45% al prezzo di 50 €/MWh e infine il restante 5% viene acquistato al prezzo di 75 €/MWh, tutto il gas messo in vendita viene prezzato a 75 €/MWh, consentendo grandi utili a chi lo ha acquistato a 50 €/MWh e ancora di più per chi lo ha acquistato a 25 €/MWh.
Fra i venditori di gas non ci sono soltanto i produttori (Gazprom & c.), ma ci sono anche tutti gli investitori che hanno acquistato precedentemente gas ad un prezzo inferiore che ora lo rivendono ad un prezzo superiore.
Così come fra gli acquirenti di gas non ci sono soltanto coloro che poi lo distribuiscono a famiglie e imprese, ma ci sono anche coloro che lo acquistano oggi, per poi rivenderlo a domani ad un prezzo superiore.
E, come sempre avviene nei mercati finanziari, ci sono coloro che guadagnano sulle vendite allo scoperto e sui futures, scommettendo sulle variazioni future dei prezzi del gas.

Data la possibilità di realizzare grandi utili finanziari, la domanda di gas verso i pochi produttori di gas reale è stata “drogata” dalla stipula di moltissimi contratti a breve termine, definiti contratti “spot”, della durata di poche settimane o addirittura di un solo giorno.
Lo scopo di questi contratti non è garantire l’effettiva consegna di gas agli utenti finali, ma unicamente realizzare dei profitti finanziari.
Quindi, senza la minima pianificazione, i produttori di gas hanno ricevuto dei contratti di acquisto di gas “spot” che non tenevano per nulla conto della capacità di consegna fisica del prodotto.
Di conseguenza hanno fissato dei prezzi di vendita molto elevati, sia per fare maggiori utili, sia per scoraggiare questo tipo di contratti totalmente disfunzionali per il loro mercato.
Anche perché in questi contratti di breve termine “gas-to-gas” non esiste l’impegnativa al ritiro della merce, se non viene pagata.
Il risultato è stato che questi prezzi “marginali” relativi a contratti di ordinativi di gas “teorici”, gas che in molti casi non è mai stato né pagato né consegnato, hanno determinato il prezzo marginale del gas naturale nella borsa di Amsterdam e, quindi, il prezzo di vendita del gas a livelli mai visti sul mercato europeo.
Naturalmente le incertezze sulle future forniture di gas, a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni europee alla Russia, hanno ulteriormente esasperato queste dinamiche che erano in atto già a partire dalla scorsa estate.

Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la questione consigliamo la lettura di questo articolo.

I danni causati all’economia italiana
Queste disfunzionalità derivanti dal cambiamento dei metodi di quotazione del gas in Europa hanno già causato e stanno causando danni immensi all’economia italiana.
Stiamo parlando di un “furto”, tutt’ora in corso, del valore di alcune decine di miliardi di euro a carico delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
Alcune imprese particolarmente energivore (acciaierie, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta) hanno già ridotto o addirittura arrestato la produzione, in quanto con questi prezzi dell’energia non sono in grado di produrre a prezzi che i loro clienti possano sopportare.
Questo ci costa fin d’ora un aumento della disoccupazione.

Il rincaro del gas naturale e dell’energia elettrica (prodotta bruciando gas) ha già portato ad un aumento considerevole dei prezzi al consumo, così come alla riduzione dei margini di guadagno di moltissime imprese.
Non essendoci le condizioni per un aumento dei salari, questo porterà ad un aumento della povertà in Italia (oltre agi attuali 5 milioni di poveri assoluti).

Ma i danni peggiori ci arriveranno dalla mancanza di pianificazione.
Stanti gli attuali alti prezzi di acquisto del gas e stante la perdita di quote di mercato da parte dei grandi distributori storici, come ENI, in questo momento nessuno ha interesse ad acquistare gas a prezzi elevati per immagazzinarlo in vista del prossimo inverno.
Il rischio reale è che il prossimo inverno ci ritroviamo con scorte insufficienti di gas, perché non ce ne sarà abbastanza per soddisfare la domanda di punta del prossimo inverno.
A quel punto Mario Draghi, per coprire il misfatto, ci dirà che “abbiamo deciso” di applicare delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, per cui dovremo “fare sacrifici” e rinunciare ad una parte rilevante (20-25%) delle forniture di gas, per “punire Putin”.
Questo mentre in realtà la vera causa della carenza di gas del prossimo inverno saranno le dinamiche speculative e prive di pianificazione del mercato del gas europeo.

Il risultato, inevitabile, sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas in Italia, questa volta a causa della scarsa disponibilità di fronte alla domanda. Il tutto unito al razionamento del gas, per cui molte imprese dovranno forzatamente ridurre la propria produzione e licenziare del personale.
Lo stesso avverrà con l’energia elettrica, dato che con la scarsa disponibilità di gas sarà necessario razionare anche l’energia elettrica (prepariamoci a delle interruzioni periodiche), oltre al fatto che la pagheremo a prezzi mai visti.

Tutto questo lo scriviamo ora, che siamo ancora in tempo a cambiare le regole di determinazione dei prezzi e per reintrodurre dei criteri di pianificazione nelle forniture di gas.
Che qualcuno intervenga, prima del disastro nel nostro Paese, a preservare l’infrastruttura pubblica che è l’energia.
Le autorities dell’energia o  la Magistratura.

PACE E GUERRA IN UCRAINA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

  1. a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
  2. b) li si applica alla situazione concreta
  3. c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass – quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

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