Tag: realismo politico
Lorenzo Castellani, Sotto scacco_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange
Lorenzo Castellani, Sotto scacco, Liberilibri, Macerata 2022, pp. 115, € 14,00.
Il profilo più interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie, intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende d’attualità.
Così è per la pandemia. Il libro esordisce “Il potere politico si fonda sulla paura. E il caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e naturalmente il riferimento è, in primis, a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che “secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere, in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali paure sopire e quali far circolare”.
L’inconveniente, noto, è che per farlo, necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello necessario a forme politiche meno impegnative.
Anche se esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque rimesse all’autorità di esperti, illuminati dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e sulla capacità di prevedere del superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).
Ciò sarebbe anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è il risultato). Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società “c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in una macchina e la politica in ingegneria”.
Da questa e da altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire Hauriou, le fond è il medesimo. Con la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali, nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritatismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza a quello pandemico”.
Con la prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”.
Castellani ne individua i connotati già nella nota profezia di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a forme di delegittimazione ed esclusione dell’avversario. L’auctoritas prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia sull’inimicizia, la rule of law sul potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.
Teodoro Klitsche de la Grange
Stati Uniti! Piromani in azione_con Gianfranco Campa
L’epilogo del contenzioso, qualunque esso sia, sancirà formalmente l’ingresso nella fase multipolare. Putin ha posto agli Stati Uniti due questioni in una: il limite di avvicinamento del dispositivo militare offensivo della NATO al confine russo; il riconoscimento, per meglio dire, la presa d’atto della Russia come stato sovrano indipendente con cui trattare con pari dignità. Ha posto esplicitamente i termini di un accordo al leader degli Stati Uniti, non a quello ucraino e nemmeno ai governanti europei, suoi vicini di casa. Non ha nemmeno risposto alle profferte ucraine. Sardonicamente ha offerto asilo all’ex presidente ucraino Poroshenko, evidentemente in disgrazia e a rischio della vita nella democratica Ucraina, perdonandolo dei suoi “errori”. E’ probabile che la sua magnanimità si estenda ad Artem Sytnyk, direttore dell’Ufficio Nazionale Ucraino dell’Anticorruzione, complice del tentativo di coinvolgimento di Trump in un gioco di finanziamenti ed affari americani in Ucraina e insabbiatore del ruolo di Hunter, rampollo di Biden, e di alcuni diplomatici statunitensi tornati in auge con l’insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, in corposi traffici similari; prossimo evidentemente a cadere in disgrazia con tutte le implicazioni possibili in quel paese. https://twitter.com/realsaavedra/stat… . La conversazione continua ad offrire analisi ed informazioni partendo da un punto di vista negletto da quasi tutto il sistema di informazione europeo e italiano in particolare: quello dello scontro di potere interno ai centri decisori e politici americani all’interno del quale sono sussunte e spesso forzate le scelte di politica estera. La geopolitica definisce il sistema di relazione tra i paesi; la cultura, la storia dei popoli e delle loro élites tracciano le onde lunghe e la ricorrenza della storia. Sono però i conflitti, le rivalità contingenti e quotidiane, i “capricci” e i colpi bassi dei soggetti politici e dei centri decisori a determinare la variabilità e la rottura più o meno temporanea di questi perimetri. La classe dirigente statunitense è aggrappata ad ambizioni di egemonia globale; i suoi passi sembrano il viatico migliore, per quanto involontario, al multipolarismo nella sua forma più conflittuale ed imprevedibile. Lo scontro politico in corso da anni negli Stati Uniti, ivi comprese le carte bollate
https://www.justice.gov/sco/press-release/file/1433511/download sarà un interessante caso di studio affidato ai posteri. Sempre che ci sia un futuro. Per concludere, una chiosa ai tanti sostenitori acritici della indipendenza dell’Ucraina. Un paese ha certamente tutto il diritto di scegliere la propria strada. Se decide però di affidarsi ad una classe dirigente, in gran parte aliena, piombata all’occasione nel proprio paese; se fonda la propria ragione di esistere sulla ostilità aperta e dichiarata verso la Russia e sorda verso i momentanei alleati, vicini di casa; se costruisce la propria identità sull’ostilità nei confronti di una buona metà della propria popolazione non può pretendere la benevolenza del vicinato. Rischia di essere lo strumento e la vittima stupida di scelte estranee. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vuxqio-piromani-in-azione-negli-usa-con-g-campa.html
I nodi al pettine, di Roberto Buffagni
Leggi tutto! No. Evacuazione militare statunitense degli americani dall’Ucraina in caso di guerra!_di gilbert doctotow
Leggi tutto! No. Evacuazione militare statunitense degli americani dall’Ucraina in caso di guerra! |
Nella sua prima intervista televisiva del 2022 rilasciata a NBC News il 10 febbraio, Joe Biden ha esortato tutti gli americani a lasciare l’Ucraina ora tramite voli commerciali perché le forze armate statunitensi non entreranno per evacuarli. Perchè no? Per evitare qualsiasi possibile impegno militare diretto con le previste forze di invasione russe:
“È una guerra mondiale quando gli americani e la Russia iniziano a spararsi l’un l’altro. Non è che abbiamo a che fare con un’organizzazione terroristica. Abbiamo a che fare con uno dei più grandi eserciti del mondo. È una situazione molto diversa e le cose potrebbero impazzire rapidamente”.
Questa dichiarazione apparentemente non eccezionale è sicuramente la dichiarazione più importante di Biden relativa alla crisi al confine tra Ucraina e Russia da quando ha affermato all’inizio di dicembre 2021 che gli Stati Uniti non invieranno un solo soldato ad assistere l’Ucraina nel caso in cui si trovassero in combattimento militare con la Russia.
In un mondo politico statunitense che molto tempo fa è andato oltre i fatti per crogiolarsi in qualche fantasia interiore, quello che abbiamo qui nell’ultima dichiarazione di Biden è l’inizio di una presa di coscienza dei fatti sul campo, vale a dire che la Russia non è “una stazione di servizio mascherata da un paese”, come ha detto il famoso senatore John McCain, visceralmente anti-russo, né è un paese con solo armi nucleari scadute nel suo arsenale, armi che per loro natura non possono essere usate senza portare il Giorno del Giudizio per tutti noi.
A questo proposito, sembra che la guerra psicologica condotta da Vladimir Putin contro gli Stati Uniti e la NATO stia cominciando a dare i suoi frutti. Ora c’è una consapevolezza del pericolo rappresentato dalle forze militari convenzionali russe, un pericolo abbastanza grande da giustificare la misura in più di cautela che vediamo nelle osservazioni di ieri del presidente Biden.
Naturalmente, l’analisi della crisi da parte dell’amministrazione americana rimane semplicistica, con i binari della diplomazia o della guerra, dell’invasione o della non invasione. Ora è più che probabile che il Cremlino non organizzerà un’invasione su vasta scala. In effetti, potrebbe non dover sparare un colpo. Il signor Putin è impegnato in una guerra psicologica e sta facendo progressi lenti ma costanti nell’applicare pressioni sempre maggiori sull’Ucraina e, attraverso l’Ucraina, sugli Stati Uniti e sui suoi alleati della NATO.
Abbiamo sentito parlare molto dei 100.000 soldati russi al confine russo con l’Ucraina, a nord-est di Kharkiv. Impariamo ogni giorno su unità specializzate per il trasporto di carburante, banche del sangue e altri distaccamenti che arrivano in questo territorio e consentono un’invasione nel caso si verificasse. Ora sentiamo anche parlare delle esercitazioni militari congiunte bielorusso-russe iniziate ieri appena a nord del confine bielorusso con l’Ucraina ea meno di 100 km dalla capitale ucraina, Kiev. Ciò include più di 30.000 soldati russi e una grande quantità di nuovo equipaggiamento militare che probabilmente rimarrà indietro dopo che le esercitazioni termineranno il 20 e le truppe russe torneranno alle loro posizioni di origine.
La novità di oggi è un resoconto dettagliato sui crescenti distaccamenti navali russi che arrivano per le proprie esercitazioni militari in mare appena al largo della costa ucraina. Sì, potrebbero facilitare lo sbarco di truppe e carri armati se la Russia desidera impadronirsi di Odessa o di altre città sulla costa con una grande popolazione etnica russa. Tuttavia, come spiega un articolo di Amy Mackinnon sulla rivista Foreign Policy datato 10 febbraio, le forze russe hanno ora proibito la navigazione, sia commerciale che militare, durante le proprie esercitazioni, stabilendo di fatto un blocco navale sull’Ucraina. Se tale blocco dovesse essere mantenuto dopo la data di chiusura delle esercitazioni, potrebbe effettivamente strangolare il commercio estero ucraino.
Nessuno sa se questa sia semplicemente una dimostrazione di forza ai fini di una discussione rafforzata in qualsiasi negoziato con Kiev sull’attuazione degli accordi di Minsk o se verrà utilizzata per danneggiare sufficientemente l’economia ucraina per portare a un cambio di regime a Kiev. In entrambi i casi, la Russia non infliggerebbe una sola vittima al suo avversario con tali PsyOps.
Fin qui tutto bene. Con un po’ di fortuna, sia gli americani che i russi continueranno a mostrare moderazione nell’uso della forza e ci risparmieranno una guerra cinetica che potrebbe sfuggire al controllo nel senso inteso ieri da Joe Biden.
©Gilbert Doctorow, 2022
Le fasi della guerra, Di: George Friedman
Le fasi della guerra
Pensieri dentro e intorno alla geopolitica.
Di: George Friedman
Considerando l’affermazione americana secondo cui la Russia intende attaccare l’Ucraina – che il Cremlino nega – è utile considerare in forma schematica le fasi della guerra per comprendere non solo la sequenza ma anche le difficoltà e i rischi della guerra.
Ci sono quattro fasi per attaccare e occupare un paese:
Fase 1: Perspicacia. Comprendere chi stai combattendo, le sue intenzioni e capacità e ciò che la guerra intende raggiungere.
Fase 2: Guerra. Avviare il movimento e la potenza di fuoco destinati a infrangere la volontà e la capacità di resistere del nemico.
Fase 3: Occupazione. Occupare il Paese, o quella parte che è necessaria per raggiungere il fine politico desiderato.
Fase 4: Pacificazione. Pacifica il terreno occupato e spezza la volontà del popolo di resistere.
Questo è un riassunto ordinato di quella che probabilmente è la cosa più disordinata che gli esseri umani sperimentano. Ogni fase è più complessa e disordinata di quanto possa sembrare possibile e il numero di fasi può sconvolgere la mente. Tuttavia, semplificare e ordinare il caos della guerra ci aiuterà a porre le domande giuste e forse a intravedere le risposte.
L’intelligence è la prima fase e precede la decisione di combattere. Comprendere le intenzioni di un potenziale nemico ti dice se ciò che intende è compatibile con i tuoi interessi. Comprendere le sue capacità ti dice se dovresti correre l’enorme rischio di andare in guerra. Le intenzioni e le capacità sono cose che tutti i paesi cercano di capire anche sull’avversario meno probabile. Ti dicono chi devi combattere e chi potrebbe combattere con te. L’intelligence può anche guidarti su chi potrebbe essere il nemico. Quando il Giappone invase la Cina, non prevedeva che a tempo debito avrebbe potuto affrontare gli Stati Uniti. Se c’è un’invasione russa dell’Ucraina, gli Stati Uniti hanno un’idea abbastanza chiara di chi potrebbero combattere se intervenissero. (È improbabile che la Cina abbia la capacità di proiettare una forza decisiva durante il periodo di un qualsiasi conflitto tra Stati Uniti e Russia.) La Russia non conosce l’ordine di battaglia che dovrà affrontare, anche se potrebbe essere chiaro quale tipo di forza potrebbe portare un potenziale avversario dell’orso. L’incertezza politica crea incertezza militare.
La seconda fase è l’inizio e il proseguimento della guerra. L’aggressore decide per il difensore. Quando la Germania, alleata con l’Unione Sovietica, invase la Polonia, l’intelligence di Berlino non le parlò della serie di nazioni e delle capacità a lungo termine che avrebbe dovuto affrontare. La decisione di entrare in guerra ha lo scopo di anticipare la forma finale della guerra. L’intelligence politica è molto più difficile da raccogliere dell’intelligence militare. I motori della guerra possono essere nascosti solo imperfettamente. Le intenzioni dei paesi sono difficili da capire, poiché anche quegli stessi paesi non sono consapevoli di ciò che potrebbero fare. Tuttavia, è essenziale valutare cosa faranno di fronte alla guerra che stai lanciando, ora o nel lungo periodo. Devi sapere questo per conoscere l’ordine di battaglia che dovrai sconfiggere. Hitler capì i suoi potenziali nemici. Non apprezzò l’ordine di battaglia che gli Stati Uniti avrebbero messo in atto o la resilienza della difesa sovietica. Qualunque sia l’obiettivo della Russia in Ucraina, la sua incertezza su chi potrebbe essere il suo nemico è un deterrente. Questo è vero a meno che l’intelligence russa non sia penetrata in profondità nel processo decisionale americano.
La terza fase è l’occupazione del territorio o del paese preso di mira. L’occupazione è un fine. Il mezzo a tal fine deve essere la distruzione dell’esercito nemico, fisicamente o per motivi di morale. La Francia aveva la capacità materiale di continuare a resistere alla Germania nazista, ma non aveva il morale. L’occupazione di un paese è un processo difficile e che richiede tempo anche quando non c’è resistenza. C’è prima di tutto l’assoluta dimensione fisica del paese e la cautela che deve accompagnare un’informazione imperfetta sulle forze nemiche. Poi c’è la questione della logistica. I soldati devono mangiare e, nella guerra moderna, la benzina deve essere consegnata ai veicoli, insieme alle munizioni per sostituire ciò che è stato consumato. In un assalto corazzato, come sarebbe il caso in Ucraina, i veicoli corazzati, anche se ben tenuti, hanno la tendenza a rompersi. Quando 50 tonnellate di parti mobili incontrano la strada, le parti potrebbero guastarsi. E non dobbiamo sottovalutare le armi anticarro date all’Ucraina. Qualsiasi assalto dovrebbe essere metodico e consapevole delle possibili minacce, e lo stesso movimento logistico è più vulnerabile della spinta principale e altrettanto essenziale. Se l’occupazione incontra resistenza, il movimento rallenterà drasticamente. In caso contrario, la preoccupazione per la possibilità di resistenza rallenterà il movimento. Ciò ha ramificazioni politiche, poiché una rapida sconfitta di una forza preclude il rafforzamento da parte delle potenze straniere: dovrebbero invadere di nuovo. Un esteso processo di occupazione aumenta la probabilità che le potenze straniere sentano pressioni per intervenire a favore dei difensori – o almeno la forza offensiva deve considerare la possibilità.
La quarta fase potrebbe essere la più dispendiosa in termini di tempo e politicamente irritante. Alcune popolazioni occupate accettano la sconfitta. Altri no. Il miglior esempio dell’efficacia militare della resistenza post-occupazione è la stessa Russia, dove le forze militari e civili hanno continuato a resistere dietro l’avanzata tedesca, costringendo i tedeschi a dirottare le forze verso la pacificazione, cosa che ha ulteriormente alienato la popolazione e aumentato la resistenza dietro la linea del fronte. La Gran Bretagna in India ha affrontato questo problema nel 19° secolo. La pacificazione è una questione politica imperniata sulla lealtà della popolazione al suo governo e sull’ostilità degli occupanti. Dal punto di vista degli occupanti, la pacificazione è un’arma a doppio taglio, che limita la resistenza e la incoraggia attraverso la sua natura brutale. Ovviamente non è chiaro quanto il popolo ucraino sia leale al governo o al principio di un’Ucraina indipendente, né è chiaro quanto non gli piacciano i russi e quanto una pacificazione russa possa incoraggiare la resistenza.
Nel caso di Russia e Ucraina, i russi non possono essere certi di quanto gli Stati Uniti sarebbero coinvolti o quali armi userebbero. Nella guerra moderna non è necessario avvicinarsi a un chilometro da un carro armato per distruggerlo. I missili a lungo raggio possono attaccare la forza e, in modo più redditizio, il sistema logistico che supporta quella forza. Un intervento degli Stati Uniti sarebbe il più pericoloso per la Russia e Mosca non può fidarsi di ciò che dice Washington, in particolare se la resistenza ucraina è rigida, le vittime sono alte e gli Stati Uniti si trovano sotto pressione per intervenire. È un caso in cui gli stessi americani non sanno cosa faranno. In tal caso, quella che i russi intendevano essere una breve guerra potrebbe trascinarsi, con incerte probabilità di una pacificazione riuscita.
Le operazioni militari richiedono la minimizzazione dell’incertezza. Tuttavia, è nella natura della guerra la moltiplicazione delle incertezze. Gli Stati Uniti hanno respinto l’idea di una controffensiva tedesca alla fine della seconda guerra mondiale. Risultò la battaglia delle Ardenne. Gli Stati Uniti si aspettavano che il Vietnam del Nord abbandonasse il suo desiderio di unire il Vietnam. Ha calcolato male. E Stalin non si aspettava un’invasione tedesca nel 1941.
L’intelligence spesso fallisce. Le operazioni militari subiscono fallimenti di comando, comunicazione e morale. La resistenza all’invasore aumenta inaspettatamente. Gli alleati del difensore emergono a sorpresa, con attacchi militari e non. Le superbe fonti di informazioni dalla capitale del nemico risultano funzionare per il nemico. Per entrare in guerra, deve esserci un interesse prevalente per il quale non è possibile altra soluzione o mitigazione.
Quando utilizziamo le fasi della guerra come uno scheletro su cui drappeggiare le varie fasi, la guerra diventa un’idea poco attraente. Per i russi, che non hanno condotto una guerra multidivisionale estesa in quasi 75 anni, l’opzione potrebbe sembrare allettante. Il tempo nasconde le verità. Ma nel caso della Russia, ci vorranno secoli per dimenticare la verità della guerra. I russi ricordano la seconda guerra mondiale nelle loro ossa. Ricordano anche quante cose Hitler ha calcolato male, dalla resistenza russa alle nazioni che hanno sostenuto la Russia. E ricordando quella guerra, considerando il modello con cui ho armeggiato qui e le vaste incognite, i russi, non credo, ne inizieranno un’altra. Avrebbe poco senso.
La vera storia della crisi dei missili a Cuba, di Gianfranco la Grassa
Le origini del fallimento francese nel Sahel
I beati, i beoti e il loro Presidente_di Giuseppe Germinario
Se si dovesse esprimere un giudizio sintetico sull’epilogo della recente rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica e sul suo discorso di investitura al Parlamento in seduta plenaria, si potrebbe sintetizzare così: per riaffermare la propria trionfale ragione di “riesistere”, ha dovuto glissare sulle ombre del corretto assolvimento alle proprie prerogative per assumersene di altre e ulteriori, proprie di un organo politico esecutivo e deliberativo.
Aspetti, tutti e due presenti e ben rappresentati in quel consesso. Il tutto tra gli applausi scroscianti di beati e beoti, ormai sempre più accomunati e omologati.
Il discorso del Presidente, investito per altro nel suo ruolo di presidenza, tra l’altro, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio della Difesa, nella sua banalità si focalizza su quattro punti apparentemente anodini: il richiamo potente e retorico al rispetto e alla promozione della dignità in diciotto delle sue applicazioni; il rispetto delle prerogative del Parlamento; la riforma della giustizia; l’adesione incondizionata agli indirizzi della Unione Europea.
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La retorica della dignità, nelle sue diciotto prerogative, con la quale ha impregnato la parte essenziale del discorso sottende in realtà un netto indirizzo politico, se non un vero e proprio programma di governo. Si può affermare tranquillamente che gli equilibri e la maschera istituzionale propri della prima repubblica siano definitivamente caduti nella sostanza, ma non purtroppo nella forma. Non si sa se gli applausi ostentati di Mario Draghi siano la manifestazione di un senso di liberazione da un fardello governativo anche per lui sempre più opprimente o di una presa d’atto a denti stretti della magra figura fatta nelle trattative in corso e del ridimensionamento delle proprie ambizioni.
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Il richiamo scontato al rispetto delle prerogative del Parlamento è un motivo ricorrente di tutti i discorsi di insediamento presidenziale. Non di meno il paradosso di una presidenza che ha avallato in quantità industriale ogni decreto e mozione di fiducia riduce il richiamo in uno strepito.
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Il paradosso si trasforma in sconcerto con il richiamo ad una riforma della istituzione e dell’ordinamento giudiziario in un contesto nel quale avrebbe dovuto usare le proprie prerogative per fissare punti fermi sullo scandalo Palamara piuttosto che glissare elegantemente.
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Nulla di nuovo nell’ostentato lirismo europeista ed atlantista richiamato nel discorso. Sono il segno e il sollievo da un pericolo scampato, piuttosto che di una realtà politica ormai di nuovo supinamente allineata a quegli indirizzi. Un capo dello stato attento alle proprie prerogative, piuttosto che indugiare in un lirismo ormai fuori contesto, dovrebbe soffermarsi su una definizione dell’interesse nazionale che possa plasmare la coesione e la crescita di una formazione politico-sociale e sulla sua modalità di perseguimento in un agone dove i diversi stati nazionali non si fanno scrupolo di rappresentare e contrattare i propri. Quel lirismo serve sempre più a coprire la passività, l’arroccamento e la subordinazione di una intera classe dirigente.
- L’aspetto più significativo e rumoroso è però rappresentato da un silenzio: l’abdicazione dal suo ruolo di figura rappresentativa della unione e coesione nazionale e di punto di equilibrio in un momento di emergenza protratta. La gestione catastrofica ed approssimativa della crisi pandemica, la criminalizzazione di ogni rilievo critico e perplessità della gestione, la strumentalizzazione crescente della lunga congiuntura hanno creato una situazione di divisione manichea della società ed una condizione tale da rendere praticamente impossibile una revisione delle politiche che non sconfessi platealmente e “cruentemente” i responsabili, incluso ormai il capo del governo. Su questo ha brillato la sua assenza, se non la connivenza della figura simbolicamente più importante delle istituzioni. A memoria non si ricorda un solo suo atto solenne e significativo teso a ricondurre il dibattito in termini razionali e civili tali da scoraggiare la demonizzazione e gli esorcismi. Una mancanza le cui ripercussioni si protrarranno nel tempo ed appariranno nella loro ampiezza in un prossimo futuro.
L’espressione e le manifestazioni fisiche e comportamentali del personaggio politico valgono più di tante parole.
L’ostentazione del trasloco in corso, la scenografia disegnata e la serafica e beata accettazione del reincarico valgono più delle parole, pur esse importanti.
Giorgio Napolitano, figlio almeno dell’eredità morale e dell’ipocrisia di una classe dirigente sorta dalle ceneri della guerra, ebbe l’ardire di rimbrottare duramente il ceto politico e i rappresentanti di un parlamento che lo avevano appena rieletto. Sergio Mattarella, espressione di un regime incompiuto e decadente già al suo sorgere, ha sorvolato sul problema come una nuvoletta leggera e fugace.
La dinamica che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella è il segno della miseria di un ceto politico; è il prodotto della sua espressione politica più compiuta, il PD, abbarbicato e capace di determinare le scelte a prescindere dagli esiti elettorali. Suo compito principale si concentrerà nel tentativo di essere il garante del procrastinamento di questa convenzione e di circoscrivere in questo quadro l’azione di Mario Draghi. Ha smascherato definitivamente il ruolo spregevole di personaggi come Berlusconi e la pochezza, non vale la pena di utilizzare altri termini, del personale politico ormai a corollario più o meno consapevole di questa trama.
Entro certi limiti, il confronto e lo scontro tra centri politici decisori prevede la complementarietà e la surroga di alcune istituzioni, più coese od efficaci e disponibili, rispetto alle prerogative e alle competenze di altre. Quando però questa dinamica si perpetua per troppo tempo e le fasi di transizione si impantanano, si trasformano in un disordine istituzionale e in un contrasto destabilizzante e dissolutorio.
La gestione della pandemia, colta inizialmente come una occasione e un campo di azione, sta diventando sempre più un mero pretesto per altri disegni tesi a procrastinare l’esistenza di questo ceto politico e la permanenza di una classe dirigente decadente ed arroccata, incapace di organizzazione, ma decisa a sopravvivere al proprio stesso paese. Il tripudio visto in Parlamento sono la manifestazione di questa dissociazione ormai patologica.
Il terreno favorevole ad una dinamica politica di fatti compiuti e colpi di mano a dispregio delle stesse forme e della necessaria autorevolezza è predisposto.
Molti vedono in questo l’inizio della fine e la possibilità di una rinascita radicale.
Non è assolutamente detto.
Potrebbe piuttosto essere la procrastinazione di una fase crepuscolare dove impera e prospera lo scetticismo passivo ed anarcoide, la mancanza di autorevolezza di una qualsiasi autorità in essere e in divenire, l’esistenza di una classe dirigente e dominante arroccata ed auto-eteroreferenziale; dove su una opposizione politica chiara e determinata prevale il tumulto indistinto, una fase tribunizia opportunista ed incapace sul quale poter continuare a galleggiare sia pure precariamente.
La facilità e la disponibilità alla cooptazione rivelata da questa classe dirigente è sorprendente, data la precarietà crescente di risorse ed assetti.
Rivela il timore del mix esplosivo di una riorganizzazione e di un regresso della condizione socio-economica che si sta realizzando.
Si parla spesso e ricorrentemente della costruzione di un soggetto politico in grado di offrire una alternativa seria e credibile. Qua e là sorgono iniziative improvvise, rivelatesi sempre meteore smarrite, impazzite o in rotta di collisione.
Non è questo, purtroppo, il tema all’ordine del giorno.
Il solipsismo che affligge la società, affligge purtroppo nella stessa misura l’area dalla quale potrebbe sorgere il soggetto politico necessario.
Il tema vero è come arrivare a costruirlo, con quale retroterra culturale e organizzativo, con quali referenti nei centri decisionali ed amministrativi che pur esistono.
Su questo manca ancora una minima, sufficiente consapevolezza e disponibilità al dialogo nell’ambito stesso di una possibile formazione di questa realtà politica.
In mancanza di esso il divario tra aspirazione, necessità e possibilità è destinato ad allargarsi drammaticamente.
Più la situazione si incancrenisce, più la fretta è cattiva consigliera.
‘A gatta pe’ jì ‘e pressa, facette ‘e figlie cecate
Pensando all’annientamento globale, Di: George Friedman
Siamo nel bel mezzo di un grande confronto tra USA e Russia. Ero lì quando il presidente Ronald Reagan ha bluffato i sovietici nel tentativo di tenere il passo con lo sviluppo di armi spaziali che gli Stati Uniti in realtà non avevano. Ero lì quando, mentre i sovietici minacciavano di inviare una forza aerea per intervenire nella guerra arabo-israeliana, gli Stati Uniti andarono a DEFCON 3. Uno dei miei primi ricordi da bambino cresciuto nel Bronx è stato l’intervento sovietico in Ungheria nel 1956, quando si dice che i carri armati russi abbiano raso al suolo il vecchio quartiere da cui provenivano i miei genitori e dove vivevano ancora i miei parenti.
Sono un conoscitore delle crisi globali, in particolare quelle tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Hanno la sottile patina della sottigliezza unita alla disonestà. Le crisi non sono l’unico dominio di Washington e Mosca, ma per i miei soldi, non c’è crisi come una crisi USA-Russia. Nemmeno l’Impero Romano poteva annientare il mondo.
Data la mia esperienza nelle crisi, sto prendendo in considerazione quella attuale mentre un sommelier beve un’annata che conoscono bene – in attesa, ma pronto a rimanere deluso. Finora la crisi ha tutte le caratteristiche dei classici. I russi hanno mobilitato tre gruppi di carri armati e affermano di non pianificare la guerra. Hanno avanzato richieste che non possono essere accettate e vengono insultate quando le richieste vengono respinte. Gli Stati Uniti hanno invocato l’ira della NATO, i cui membri si disperdono prontamente come un branco di gatti. La NATO in seguito accuserà gli Stati Uniti di aver abbandonato il proprio impegno nell’alleanza. Questa crisi alla fine si concluderà con un esito incoerente garantito per innescarne di più in futuro. E a tempo debito, arriverà un’orda di dissertazioni e memorie illeggibili della crisi, a mostrare come gli autori abbiano costretto da soli l’altra parte a capitolare.
Da crisi gli do un 86 su 100, bevibile ma manca male qualcosa. Il qualcosa è la minaccia di una guerra termonucleare. L’hardware che è stato mobilitato manca dell’energia di due potenze nucleari che spostano la loro posizione di difesa appena al di sotto della catastrofe globale, le riunioni tese nei bar di Vienna, Voronezh o Arlington, dove “quasi” alti funzionari pubblici parlano tra loro come se ne avessero possibilità di fare la crisi, trasformati in statisti alla tastiera. Infine, c’è un’intensa incertezza di una popolazione su un futuro già definito dalla realtà.
Il portabandiera di tali episodi è la crisi dei missili cubani, una bella miscela di pericolo e stronzate. Avevo 13 anni quando si è verificata la crisi. Vivevamo allora nel Queens, New York, vicino all’aeroporto di Idlewild, poi chiamato Aeroporto Internazionale John F. Kennedy. Sapevo che Idlewild poteva essere usato come aeroporto militare, ed era pieno di carburante, e quindi sapevo che nella guerra a venire i sovietici avrebbero piazzato due missili a circa tre miglia dal mio prezioso sedere. Sapevo che i russi erano armati quanto gli americani e sapevo che questo poteva finire solo con l’annientamento nucleare. Lo sapevo perché nel 1962 i ragazzini prendevano la guerra nucleare tanto seriamente quanto prendevano il baseball. E come per il baseball, non sapevano molto.
E in tutti i libri e film successivi, la paura della guerra incombeva su tutti. In effetti, l’episodio era il materiale su cui sono costruite le storie. Robert Kennedy ha incontrato Anatoly Dobrynin, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, in un ultimo disperato tentativo di scongiurare l’apocalisse. Si scopre che Kennedy ha registrato tutte le riunioni dell’ExComm, il comitato che gestisce la crisi, e che i fascicoli sovietici sono stati aperti dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Entrambi questi documenti rivelano cose simili: ciascuna parte voleva rendere eccitante la crisi in modo che potessero apparire eroici e statisti, ma in realtà non era quello che sembrava essere.
In primo luogo, i sovietici avevano tra i due ei 15 missili in Russia che si diceva fossero in grado di raggiungere gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti avevano quasi 200 missili affidabili, più otto sottomarini nucleari anch’essi armati di armi nucleari. Gli Stati Uniti avevano anche una grande flotta di bombardieri nucleari B-52 in allerta continua. I sovietici non avevano né una significativa forza di bombardieri a lungo raggio né una capacità nucleare operativa.
Quando John F. Kennedy si candidò alla presidenza, affermò che c’era un divario missilistico. Era una bugia, ma sapeva che Dwight Eisenhower e Richard Nixon non potevano rivelare la verità. Gli Stati Uniti avevano completamente sconfitto i sovietici, per non parlare degli obsoleti missili a corto raggio di stanza in Turchia.
Il motivo per cui il premier sovietico Nikita Khrushchev voleva Cuba è che, senza una capacità missilistica a lungo raggio, potrebbe usare Cuba come trampolino di lancio per attacchi nucleari che coinvolgono armi a corto raggio. Krusciov pensava che gli Stati Uniti non avrebbero colpito la Russia se la Russia avesse avuto la capacità di uccidere un milione circa di americani. Tutto dipendeva dal fatto che i sovietici rendessero operativi i missili prima che gli Stati Uniti lo scoprissero. Gli Stati Uniti lo scoprirono appena in tempo. Ma come abbiamo scoperto dopo la crisi, gli Stati Uniti non hanno attaccato la Russia anche quando i russi non avevano mezzi di rappresaglia.
Kennedy e Krusciov lo capirono entrambi. L’idea che la guerra termonucleare sia stata a malapena evitata non è del tutto corretta. Una cosa che gli americani non sapevano era che i sovietici avevano inviato a Cuba armi nucleari tattiche che l’esercito sovietico era libero di usare in un’invasione. Il loro uso potrebbe aver innescato un attacco degli Stati Uniti contro la Russia. La guerra nucleare sarebbe potuta accadere solo se gli Stati Uniti avessero colpito unilateralmente, cosa che non sarebbe accaduta. La leggenda secondo cui siamo stati occhio contro occhio e solo che la Russia sbattesse le palpebre per prima non ha senso.
Amo questa crisi per lo straordinario dramma del momento e per il modo in cui entrambi i leader hanno cercato di rendersi eroici. Adoro le memorie di aspiranti eroi. Adoro il modo in cui l’intera storia è uscita e che quello che sembrava essere armageddon si è trasformato in un bluff chiamato. Ecco come appare un grande conflitto USA-Russia: l’umanità sull’orlo dell’annientamento, che circonda un mucchio di letame di cavallo.
Sospetto fortemente che l’attuale crisi sia in effetti come la crisi dei missili cubani, come alcuni hanno affermato con profondo terrore. Io, per esempio, spero che lo sia.