GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO_di Massimo Morigi

      GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO

 

L’ARTEFICE DELL’IMMAGINARIA COSTELLAZIONE DELL’ITALIA LAICA, IL SUO CONTRADDITTORIO REALISMO POLITICO NELLA FINE DELL’UTOPIA DELL’ITALIA DELLA RAGIONE E DEL PRI COME PARTITO DELLA DEMOCRAZIA NELLA NUOVA EPOCA DELL’ “IMPÉRIALISME EN FORME” INAUGURATA   DALLA    SECONDA   PRESIDENZA     TRUMP

 

di Massimo Morigi

 

         

 

Ma io, con il cuore cosciente

 

di chi soltanto nella storia ha vita,

potrò mai più con pura passione operare,

se so che la nostra storia è finita?

 

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

 

Giovanni Spadolini. Un Italiano 

         Cattedratico, storico, giornalista e, infine, uomo politico che in questa sua ultima dimensione ottenne i massimi risultati venendo eletto nel 1972 senatore nella lista del PRI, nel 1979, dopo la morte di Ugo La Malfa divenendo, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1987,  segretario del Partito Repubblicano Italiano, poi dal 28 giugno 1981 al 30 novembre 1982 ricoprendo il ruolo, incaricato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e primo laico nella storia dell’Italia repubblicana, di presidente del Consiglio, divenendo successivamente, dal 1983 al 1987,  ministro della difesa nei due governi Craxi, riuscendo a far raggiungere al PRI nelle elezioni politiche del 1983 il 5,08%, il massimo storico di quel partito e, infine, venendo il 2 luglio del 1987 nominato presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 14 aprile del 1994 quando il Parlamento gli preferì Carlo Scognamiglio con una votazione con pesantissimi  punti interrogativi sulla sua correttezza e Spadolini provò una grandissima sofferenza per questo esito opaco, una sofferenza che lo accompagnò fino alla morte che sarebbe avvenuta da lì a poco il 4 agosto 1994, era nato il 21 giugno 1925 (nel frattempo Spadolini nel 1992 aveva mancato la presidenza della Repubblica perché il Parlamento, in seguito all’attentato a Falcone preso dalla frenesia di eleggere in fretta e furia un presidente della Repubblica, gli preferì Oscar Luigi Scalfaro), Giovanni Spadolini, presso il vasto pubblico dei suoi ammiratori del tempo, non solo i c.d. laici e non solo i repubblicani, risultava non solo come un personaggio estremamente simpatico (la sua stessa barocca corpulenza non gli procurava in nessun modo scherno ma anzi ne accresceva la popolarità, si vedano a questo proposito le amichevoli vignette di Forattini che lo ritraevano quasi sempre come un obeso putto nudo e questo concorse a renderlo ancora più simpatico, quasi un barbapapà prestato alla politica) ed affidabile (nessuno mise mai in dubbio, in quell’epoca come l’odierna squassata dagli scandali politici, la sua integrità personale ed anzi il modo come da presidente del Consiglio riuscì a gestire lo scandalo della loggia massonica P2 consacrò giustamente questa sua immagine) ma anche come una specie di genio che era riuscito ad eccellere sia, appunto, come storico che come giornalista (giovanissimo collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, direttore del Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e poi fino al 1972 direttore del Corriere della Sera!). E se oggi presso le giovani generazioni (giovani si fa per dire, qui ci riferisce soprattutto agli appartenenti alla generazione dei Millenians, per quelle che seguono manco parlarne, e da queste parole si può ben capire la vetustà dello scrivente, un baby boomer, per non scendere in ulteriori imbarazzanti dettagli…) il nome di Spadolini non dice praticamente niente, ma questo è dovuto non tanto alla mancanza di spessore del personaggio ma al fatto che oggi e da molto tempo ormai si vive in un eterno presente, è singolare il fatto che, proprio mancanti pochi anni al trentesimo anniversario della sua scomparsa,  anche presso coloro che furono i suoi più stretti collaboratori e coloro che, molto più giovani, afferiscono a quello che può essere definito il cenacolo spadoliniano, la figura intellettuale e professionale di Spadolini fosse stata un po’, anche se soltanto un po’, ridimensionata. Cosa allora in questo ambiente viene anche detto di Spadolini? In pratica, si dice che Spadolini fu un grande storico ma non un grandissimo storico, cioè si afferma che i suoi lavori per quanto estremamente interessanti e dissodanti  per molti versi territori ancora in larga parte incolti, non costituiscono pietre miliari della scienza storica e si continua dicendo che se anche professionalmente come giornalista raggiunse, come s’e visto, le più altre vette, egli non fu assolutamente né un rinnovatore del linguaggio giornalistico  né un grande organizzatore della carta stampata, come per esempio un Eugenio Scalfari o un Indro Montanelli  che arrivarono  alla fine a fondare nuove  testate giornalistiche fortemente influenti sulla pubblica opinione.

          Ovviamente, in quest’opera di piccolo, piccolissimo, ridimensionamento del personaggio, viene salvata, oltre alla figura del cattedratico di grande successo e prestigio (e non potrebbe essere diversamente: «Già nel 1950 Spadolini è incaricato dell’insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze  «Cesare Alfieri », primo titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in Italia di Storia Contemporanea: secondo della terna Gabriele De Rosa, terzo Aldo Garosci. I suoi studi sono anticipatori di originali, successivi filoni di indagine e di ricerca storiografica: i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto italiano ed europeo. Molte sue opere sono ancora considerate autentici classici della storiografia italiana. In aspettativa per mandato parlamentare, non avrebbe mai lasciato la titolarità della cattedra del «Cesare Alfieri» »: Cosimo Ceccuti, Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni, introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, Firenze, Mauro Pagliai, 2014, p. 58, quindi in Cosimo Ceccuti, il più stretto collaboratore di Spadolini, mancanti però più di dieci anni dal trentesimo anniversario della sua scomparsa, si propone l’immagine di un Giovanni Spadolini grande storico) in toto la figura dell’uomo pubblico, del politico, anzi il politico viene innalzato come nessun altro sugli scudi sottolineando, molto opportunamente, oltre alla grande impresa di essere stato il primo laico ad assumere la carica di presidente del Consiglio, il suo successo nel riavvicinare la gente alla politica, oggi come allora totalmente screditata ma il fatto che questo sia stato un successo effimero – hanno buon gioco di sostenere costoro – non è certo imputabile a Spadolini e io su questo sono parzialmente d’accordo ma anche parzialmente in disaccordo. E mi spiego perché ho usato questa circonlocuzione che sa molto di linguaggio moroteo – o di necessità di una seduta psicoanalitica dello scrivente –  ma penso che non solo  presso il lettore sia  d’aiuto a far affiorare i contrastanti e contraddittori odierni sentimenti di una persona, il sottoscritto,  che visse in pieno e con convinzione i fasti spadoliniani   (ricordo  la grande emozione che provai quando nel 1986 con estrema gentilezza – bontà d’animo e disponibilità che apparentemente contraddittoriamente alla esibita consapevolezza del suo valore che sfiorava l’egocentrismo e, soprattutto,  ai suoi terribili scatti umorali, era un tratto distintivo del suo carattere –  Spadolini siglò il frontespizio della mia prima fatica nel campo della letteratura politica, Gloria alla Repubblica Romana. Compendio de «La Repubblica Romana del 1849 di Giovanni Conti», Ravenna, Edizioni Moderna, 1986  e per chi voglia rendersi direttamente conto di quella  che può essere considerata l’ultima pubblicazione palesemente e senza infingimenti retorica generata dal già morente mondo della religione politica mazziniana, può andare all’ URL di Internet Archive  https://archive.org/details/massimo-morigi-gloria-alla-repubblica-romana-compendio-de-la-repubblica-romana-d/mode/2up dove potrà apprezzare la scansione del documento col frontespizio siglato da Giovanni Spadolini) ma anche perché è proprio il lascito storico-culturale spadoliniano che, in ultima istanza, visto oggi ex post, non poteva che lasciare dietro di sé che un cumulo di macerie anche sul piano più prettamente politico.

          Una caratteristica, anzi l’autentica peculiarità distintiva di Spadolini è che, contrariamente ad altri intellettuali che ad un certo punto della loro vita decidono di dedicarsi alla politica, fu che, in un certo senso, tutta la sua precedente attività come cattedratico, storico e giornalista, può considerarsi una preparazione ai ruoli politici che egli avrebbe ricoperto in seguito. Egli non fu, quindi, il classico intellettuale, ma senza una specifica autoformazione riguardo alla vita pubblica, prestato alla politica e che magari sogna di divenire in finale di carriera una sorta di consigliere del Principe, egli,  al contrario, fu un intellettuale che sin dagli inizi volle farsi Principe e che, come intellettuale, inizia sin da subito a forgiare gli strumenti per ottenere questo risultato. E quali sono questi strumenti? Molto semplicemente, il cercare in maniera indefessa e diuturna di costruire attraverso l’attività di cattedratico, di storico e di giornalista la narrazione che, al di là della cultura marxista  e di quella più umile ma altrettanto pervasiva cattolica, in Italia è sempre esistita una cultura alternativa,  che egli definisce come Italia laica o Italia della ragione (vedi i titoli dei suoi più significativi lavori storici al riguardo: Gli uomini che fecero l’Italia, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, L’Italia dei Laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980) e, infine, Autunno del Risorgimento, libro pervaso da una vena malinconica e dalla sottesa consapevolezza che il Risorgimento ci ha lasciato profondissime e forse insanabili contraddizioni). Ora, il punto è che è vero che mai politicamente gli italiani si sono riconosciuti in blocco nei due predetti filoni ma non era proprio detto, anzi era una totale distorsione cognitiva spadoliniana, che coloro che non erano né “rossi” né “bianchi” potessero – allora come oggi! – essere considerati e quindi impiegati come una compatta falange politico-culturale prendendo come esempio – come fece Spadolini in queste ed altre sue  pubblicazioni ed in moltissimi suoi interventi sulla stampa – gli illustri personaggi del passato che erano stati fuori dall’orbita marxista o da quella confessionale. Invece, proprio questo Spadolini cercò di fare: dagli Uomini che fecero l’Italia, all’Italia della ragione, all’Italia dei laici ed  anche con Autunno del Risorgimento, tutti gli sforzi di Spadolini furono indirizzati alla costruzione di una narrazione politica (non dico ideologia politica, perché l’ideologia comporta il proporre uno schema di società che vada al di là della esaltazione degli eroi che devono porsi alla guida del processo di trasformazione, che poi l’ideologia rapidamente degradi nell’agiografia questo è un altro discorso ed appartiene comunque alla fase successiva della presa del potere quando necessitano ancor più facili schemi propagandistici per manipolare le masse) dove le virtù morali di coloro che non furono né marxisti né cattolici costituiscono il collante della narrazione spadoliniana  e l’esempio da seguire, secondo Spadolini, per la futura Italia.

          E il fatto veramente singolare di tutta questa costruzione – che potremmo definire una costellazione di medaglioni biografici che costituiscono la struttura delle predette pubblicazioni e costellazione e non galassia perché, come tutti sanno, al contrario di altre nomenclature celesti, le costellazioni sono solo una costruzione mentale e fantastica dell’osservatore che nulla di reale ci dicono sulle reali dinamiche dell’Universo – è che Spadolini, da vero, anche se non grandissimo, storico quale egli era, non sorvola affatto sulle caratteristiche culturali e politiche dei personaggi da lui presi in considerazione, da questo punto di vista egli è onestissimo e, a mio giudizio, è un esempio di deontologia applicata al lavoro dello storico, ma pretende che queste differenze non contino o contino poco o nulla  rispetto alla dimensione caratteriale quiritaria, come lui amava definirla, che idealmente accomuna questi personaggi e che avrebbe dovuto costituire, questa dimensione, il tratto morale base per i partecipanti  alla costruzione del futuro soggetto politico né cattolico né marxista. E così culturalmente egli liberale profondamente crociano, con una sorta di autentica devozione per Gobetti, il Gobetti della Rivoluzione liberale ma soprattutto del Risorgimento senza eroi, si trova costretto, in ragione di questo progetto politico, a dovere inserire nella sua teleologia storico-politica personaggi che non sono rivoluzionari anche se solo nel senso gobettiano della rivoluzione  liberale e che talvolta potrebbero essere definiti semplicemente come conservatori della più bell’acqua o che non sono nemmeno liberali, anzi sono consapevolmente e decisamente antiliberali. Come esempio di personaggio giudicato molto correttamente e perspicuamente da Spadolini come antiliberale, valga per tutti Giuseppe Mazzini e a tal proposito riproduciamo qui per intero il suo primo articolo su Mazzini, sul quale in seguito Spadolini  cercherà di svolgere un’operazione palinodica ma, per sua stessa ammissione, molto parziale: «Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui. Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschauung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva). E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
Qual è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche. In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità. Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra Stato e Chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzano le varie e inutili mostre commemorative. Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”. Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione. Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.»: Giovanni Spadolini, Mazzini oggi, in  “Il Messaggero”, 5 agosto 1948 ma anche in Id.,
Autunno del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 306-308 e nel blog “Termometro politico” all’URL https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250201085119/https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html.

          Ora, a parte il fatto che ingenuamente, molto ingenuamente, verrebbe da chiedersi come abbia fatto uno storico che pronuncia questi giudizi su Mazzini diventare segretario del Partito repubblicano che, anche se solo a livello di lip service, riteneva – e ancor meno razionalmente proclama tuttora, viste le sue posizioni politiche – Mazzini come una specie di Dio in terra e l’incisore delle tavole della legge per la fuoruscita dell’Italia dal suo stato di minorità che la accompagna sin dalla fine del Risorgimento, si tratta quello appena mostrato di uno scritto giovanile ma su questo giudizio una vera palinodia non verrà mai fatta, e quindi che un uomo valentissimo ma liberale sin nelle midolla come Spadolini sia potuto diventare segretario del PRI si spiega e con la debolezza politica di questo partito che dopo la morte di La Malfa richiedeva una altrettanto grande e rappresentativa figura da mettere al suo posto e alla sempre più declinante crisi della religione politica che formalmente ispirava (ed ispira del tutto superficialmente tuttora) il Partito repubblicano, cioè il mazzinianesimo (e sulla sempre più declinante religione politica del mazzinianesimo cfr. il mio  Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Una Riflessione Transpolitica per il suo Legittimo Erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di Trent’anni Dopo alla Dialettica Olistico-Espressiva-Strategica-Conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note Biografiche, Documenti e Testimonianze per una Storia dell’Antifascismo Democratico Romagnolo, pubblicato in quattro puntate sul presente sito di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, sempre sull’ “Italia e il Mondo” in un’unica puntata in data 8 marzo 2023 all’URL http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20230330090857/http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/ e, infine, caricato su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/lo-stato-delle-cose-dell-ultima-religione-politica-il-mazzinianesimo-repubblican/page/n39/mode/2up e https://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf), in realtà il punto più interessante per il nostro discorso è  quando Spadolini afferma che «Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.», dove emerge ben chiara la vera nota di fondo di  tutta la produzione spadoliniana sul Risorgimento, vale a dire la consapevolezza che l’unificazione italiana era stato un processo debolissimo, con scarsa base sociale ed opera quasi esclusivamente di élite. E questa consapevolezza attraversa come un sordo rintocco tutta la costellazione dei personaggi  della narrazione storico-politica spadoliniana, non si rivela solo trattando di Mazzini ma trova anche sorprendenti manifestazioni che espresse come vengono espresse mettono palesemente in crisi, se ben osservate in controluce,  anche la rappresentazione pubblica del disegno politico spadoliniano. Ecco cosa scrive
Spadolini riguardo a Gramsci: «Dal Cinquecento ad oggi[…], il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura che esalta il primo termine nel suo valore assoluto e totale. Molto meno si comprende la opposizione di certi spiriti liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare innanzitutto che, alle origini del nostro Risorgimento, Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana: e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo vide Niccolini,  come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48 impegnati a respingere le suggestioni e i fantasmi del ritorno neoguelfo. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del Principe, ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillati nelle pagine dei Discorsi. Non era difficile ribattere, ai detrattori “moderati” del Segretario fiorentino, come Balbo e Cantù, non era difficile ribattere allo stesso Mazzini, sempre pronto ad accettare la logica della teocrazia sia pure al servizio di un altissimo ideale democratico, che la più violenta polemica contro il “machiavellismo” era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato. […] Ma se Voltaire aveva ispirato la satira del principe prussiano,  se l’illuminismo e il razionalismo si erano opposti alle dottrine politiche di colui che presupponeva la fede nella storia e quindi la coscienza di una lotta implacabile contro la natura ed il male, il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò nel filosofo, che doveva giustificare idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno ed essere quindi scambiato per un conservatore: Giorgio Federico Hegel. Pochi ricordano che nel suo scritto giovanile Libertà e fato, che vide la luce postumo nel 1893, Hegel esaltò la tesi del Principe come la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dai più grandi sentimenti. Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia  in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. […] Il dissidio  fra l’essere e il dover essere, fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza –  dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente  che “uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti. Una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo  del procedimento più forte”. […] L’unico fra i recenti pensatori italiani, che abbia avuto  l’esatta percezione della funzione attuale del Machiavellismo, secondo la logica storicistica e dialettica, è stato Antonio Gramsci. Nelle pagine inedite, apparse nel quadro dell’opera postuma einaudiana, sulla concezione machiavellica della politica e della vita, il teorico del comunismo italiano ha identificato il “moderno principe” col partito della classe operaia e ne ha riassunto la missione nella costruzione dello Stato rivoluzionario che risolve il contrasto  fra la tecnica e la teologia, che annulla il dualismo fra i mezzi e i fini. Di fronte al pensiero di Gramsci, di fronte alla polemica dei comunisti, i liberali e i democratici italiani non saranno capaci di rivendicare l’eredità di Machiavelli? Per il solitario pensatore sardo, coerente a tutte le premesse dell’ “umanesimo marxista”, la funzione creatrice e liberatrice che Machiavelli aveva assegnato allo Stato trapassa naturalmente alla “classe”, secondo la stessa logica inesorabile per cui la guerra internazionale ha ceduto il posto a quella civile o il conflitto di nazioni si è spostato sul piano della lotta sociale. In ogni caso, qualunque sia oggi la posizione dei marxisti o dei liberali, lo Stato moderno non sarebbe mai nato senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un “laico”; Hegel era già un “credente”. Questa è la differenza. Lo stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la “Chiesa” del liberalismo.»: Ivi, pp. 263-268).

          Ora, a parte la  difesa del machiavellismo, aspetto sul quale torneremo fra breve, quello che sorprende è il ragionamento di Spadolini su Gramsci che ci porta ad una prima considerazione 1) che il moderno Principe di Gramsci, il Partito comunista della classe operaia e della classe contadina  che organizza queste masse, viene in linea di principio giudicato nient’affatto con sospetto,  anzi è quasi un modello da imitare, e ciò pone Spadolini ai margini della tradizione politica liberale cui appartiene, per la quale Gramsci e il suo moderno Principe sono sempre stati visti con estrema avversione, come una premessa, in altre parole, del totalitarismo. E sorprende anche che, però, il moderno Principe à la Spadolini non debba organizzare le masse operaie e contadine ma i democratici e i liberali, insomma già da questo si vede la debolezza della narrazione spadoliniana concepita non in funzione dell’organizzazione di  vaste masse elettorali e quindi di una grande mobilitazione interclassista ceti medi più masse operaie e contadine da contrapporre al moderno Principe à la Gramsci che organizza le masse proletarie contadine ed operaie – e che, per quanto riguarda i ceti medi, guarda quasi esclusivamente agli intellettuali in via di proletarizzazione, o sempre a ceti medi non meglio specificati professionalmente ma solo se e in quanto se, come gli intellettuali, in via di rapidissimo declassamento –, che devono costituire il cervello pensante del moderno Principe-Partito comunista ma unicamente per  compiere un’operazione esclusivamente all’insegna  di una politique d’abord e senza alcuna pretesa di egemonia politico-culturale su tutta la società ma  accatastando caoticamente e disorganicamente  in un solo partito quell’Italia minoritaria di ceti intellettuali medio-alti (e come da noi già sottolineato, tutt’altro che omogenea dal punto di vista ideologico) che non si riconosceva né  nella cultura cattolica né in quella comunista; 2) secondo critico aspetto della narrazione politica spadoliniana,  è che a Spadolini non  è affatto estranea la visione realistico-machiavelliana della politica, solo che, ahimè,  questo realismo deve costantemente fare i conti con il suo progetto politico-culturale di costruzione di una costellazione di personaggi e di racconti biografici  tutti diversi fra loro ma uniti non in virtù di una concezione realista della società e della politica, una concezione machiavelliana in altre parole,  ma in ragione del valore morale di questi personaggi. Un valore morale che Spadolini, ricorrendo ad un lemma richiamante emotivamente la Roma antica (e in questo possiamo udire l’ eco del  mito della Roma repubblicana filtrato attraverso Machiavelli), sovente definisce con l’aggettivo di ‘quiritario’, virtù quiritaria che avrebbe dovuto costituire quell’elemento distintivo di quell’ ‘Italia della ragione’  o di quell’ ‘altra Italia’ – termini entrambi carissimi a Spadolini anche se il secondo non era di conio spadoliniano ma che prima di Spadolini era stato impiegato come titolo per un serie di articoli che Ugo La Malfa aveva pubblicato su “Il Mondo” ma che, a sua volta, Ugo La Malfa aveva preso da Piero Gobetti,  uno degli intellettuali che Spadolini ebbe fra i suoi più amati – che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella marxista e tratto morale ‘quiritario’ come fomento generatore di quel ‘partito della democrazia’, altro termine molto caro a Spadolini, che avrebbe dovuto sorgere sulle basi del mazziniano PRI ben poco mazziniano già a quei tempi e ancor meno partito con possibilità di espansione. E che il realismo politico fosse una delle più vive contraddizioni del pensiero spadoliniano lo vediamo in questo rapido passaggio dove Spadolini ricorda lo storico Federico Chabod: «Munito di tutte le cautele del più agguerrito storicismo, lo Chabod non indulgeva mai alle pregiudiziali deterministiche e si guardava dalle pregiudiziali classificatorie: la sua sensibilità storiografica ripudiava gli schematismi e le astrazioni, respingeva le suggestioni delle “dottrine pure” e delle “pure strutture”, rifiutava il monopolio delle statistiche e dei diagrammi e, pur nell’indagare il giuoco degli interessi, non piegava alle assurde regole della “geopolitica”, non si muoveva sul piano della esclusiva e particolare storia diplomatica (pronto invece a cogliere la vibrazioni degli uomini, le sfumature delle correnti, le reazioni dell’opinione). »:Ivi, pp. 448-449.

          Singolarissimo passaggio che oltre a restituirci una vivida rappresentazione dello storico valdostano,  proprio per il difficoltosamente rattenuto pathos che lo pervade si presta anche ad essere un (molto poco) involontario ritratto di Spadolini stesso,  in realtà un autoritratto dal quale possiamo estrarre due elementi.

          Primo) Lo Spadolini-Chabod,  da vero storicista crociano rifiuta il determinismo marxista o meglio rifiuta il determinismo marxista di scuola marxista-leninista (semmai verrebbe da chiedersi quanto nell’Italia di inizio anni ’70 fosse egemone in seno alla sinistra il marxismo-leninismo mentre nel partito comunista era sicuramente più seguito il marxismo umanistico di Antonio Gramsci tradotto per le  masse del PCI e come instrumentum regni ideologico per i quadri e i dirigenti nella versione geneticamente modificata di Palmiro Togliatti del partito Nuovo e che del moderno Principe gramsciano, in pratica, non sapeva che farsene perché in questo partito Nuovo era solo il momento politico che avrebbe dovuto organizzare le masse e l’apporto degli intellettuali all’organizzazione e direzione del partito Nuovo non era visto alla luce di una continua prassistica dialettica momento intellettuale/momento politico ma solo come subordinazione degli intellettuali alla dirigenza politica – come infatti sempre fu il PCI di Togliatti e dei suoi successori – e abbandonando il partito Nuovo togliattiano ogni velleità egemonica sulla società, una egemonia che, secondo Gramsci,  avrebbe dovuto essere il prodotto politico della dialettica fra momento intellettuale e momento politico che nel partito comunista-moderno Principe avrebbe trovato la sua più alta entelechia ed efficacia perchè volto al coinvolgimento diretto delle   delle masse proletarie e contadine in questa stessa dialettica, in un processo sì egemonico su tutta la società ma egemonico non per l’esito autoritario in senso politico-istituzionale ma perchè realmente trasformatore di tutti i rapporti di classe e reali rapporti di forza fra queste – e in questo empito totalitario di Gramsci, totalitario cioè nel senso di trasformazione totale della società, come non vedere anche dei riflessi del totalitarismo mazziniano, per il quale repubblica significava trasformazione totale della società imponendone un imperativo di miglioramento etico-sociale: certo Gramsci guardava alla lotta di classe, Mazzini invece alla collaborazione di classe ma in entrambi incombe  la presenza, o si registra la presenza se vogliamo usare un verbo meno urticante,   di uno Stato etico mazziniano o di un  moderno Principe gramsciano, se si preferisce, che progetta di rivoltare come un calzino la società in dispregio a tutte le “conquiste” individualiste del liberalismo; inteso, invece, il partito Nuovo togliattiano esclusivamente come il generatore, seppur autoritario,  di una inclusività puramente addizional-matematica e non organica di tutte le classi sociali all’interno del partito, partito Nuovo di Togliatti,  quindi, autoritario ma non  nel senso del   Partito comunista-moderno Principe di Gramsci per il quale la decisione verticistica ed inappellabile era solo giusticata dalla finalità di far scaturire una libera dialettica sociale annientatrice della sottomissione di classe del regime capitalista, ma profondamente connotato da un autoritarismo che rinunciando ad una reale egemonia sulla società, aveva anche abbandonato ogni pretesa alla trasformazione dialettica della stessa  come invece avrebbe fatto il Partito comunista-moderno Principe,  limitandosi il partito Nuovo a dovere tracciare  una linea mediana di sintesi puramente geometrico-calcolatoria fra le varie e divergenti istanze della società; ma su queste sottigliezze preferiva sorvolare Spadolini tutto teso a compattare un fronte liberaldemocratico che, per quanto più a sinistra del partito liberale non poteva certo transigere sulla contrapposizione al comunismo o, meglio, sulla contrapposizione di quello che oramai solo nel nome e nella ingenua rappresentazione dei suoi detrattori e dei suoi militanti poteva essere definito Partito comunista. Un partito Nuovo togliattiano meramente addizionatore matematico delle spinte e controspinte che provengono dalla società   – insomma, una sorta di Democrazia Cristiana più di sinistra e che ha rinunciato ad ogni riferimento identitario alla religione cattolica, in altre parole, l’attuale PD – e non momento fondamentale della loro sintesi dialettica che conduce all’egemonia culturale e politica del partito sulla società e che perciò  è veramente la pallida e svirilita caricatura del partito comunista-moderno Principe di Antonio Gramsci, come cerca di farcelo accettare con debolissimo ragionamento –  in realtà dimostrando di non crederci nemmeno lui – Cino Tortorella:«Così il partito di cui Gramsci traccia l’idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il “moderno Principe”, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il “moderno Principe” stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l). Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata – come è stato fatto – quasi che essa costituisse l’imitazione o l’eco di quel che intanto andava accadendo nell’Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l’idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.»: Cino Tortorella, Partito come moderno principe, da noi citato all’URL dell’ “Associazione Enrico Berlinguer. Per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana” https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html,  Wayback Machine:     http://web.archive.org/web/20221205104904/https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, messo in Rete dall’Associazione Enrico Berlinger”  senza data ma sicuramente non dopo il  congelamento Wayback Machine avvenuto in data 15 agosto 2022  e articolo a  sua volta originariamente in Aldo Tortorella, Partito come «moderno Principe», in Carlo Ricchini, Eugenio Manca e Luisa Melograni (a cura di), Gramsci. Le idee nel nostro tempo, Roma, Editrice L’Unità, 1987, pagine del collocamento all’interno del documento ugualmente non disponibili).

         Secondo) Spadolini rifiuta sempre, in nome di una visione antideterminista, anche la geopolitica e su questo punto occorre soffermarsi. Oggi si fa un gran parlare e straparlare di geopolitica, la geopolitica serve per condire qualsiasi immangiabile pietanza ed effettivamente da parte dei suoi più beceri turiferari la geopolitica viene tirata in ballo per giustificare immancabilmente e deterministicamente  tutto e il contrario di tutto. Lo si è  ben visto nel corso dell’attuale guerra Nato-Russia, che dai sopraddetti turiferari viene raccontata come una guerra Russia-Ucraina dove la Russia sarebbe l’aggressore e l’Ucraina l’aggredito, mentre in realtà l’Ucraina non fa altro che agire per procura della Nato la quale sin da prima dello scoppio del conflitto, da Euromaidan del 2013 in poi,   aveva sempre  più aumentato la sua pressione sull’Ucraina per renderla nemica della Russia allo scopo di diminuire la profondità strategica di questa in un processo che nei disegni Nato avrebbe dovuto portare ad uno smembramento della stessa Federazione russa  (geopolitica non racconti di fate per masse incolte e credulone, please!), una geopolitica dove i Russi, per questi esimi autoproclamati esperti in questa disciplina, starebbero immancabilmente collassando in ragione del fatto che sarebbero costretti ad andare all’assalto con le pale per poi scoprire che l’apparato bellico russo è superiore come livello di produzione (e come qualità dei sistemi d’arma prodotti e dispiegati) a  quello di tutti i paesi dell’Unione europea messi assieme, una geopolitica che ci diceva che le sanzioni contro la Russia l’avrebbero schiantata in pochi mesi mentre ora la Russia prospera e quella che si sta economicamente schiantando  a causa  delle sanzioni è l’Europa (discorso diverso per gli Stati Uniti, che ha come non mai lucrato per le sanzioni europee contro la Russia in campo energetico: da questo punto di vista, se la Russia ha praticamente vinto il conflitto armato, l’altro vincitore, almeno dal punto di vista economico, sono gli Stati uniti. Ma su questo i nostri grandi geopolitici da talk show nulla dicono. Aspettiamo fiduciosi…) e  una geopolitica che,  nonostante le sue deliranti affermazioni sulle  immense perdite umane inflitte dagli Ucraini ai Russi, non riesce a dare una spiegazione minimamente razionale sul fatto gli ucraini sono costretti ad una sempre più pervasiva mobilitazione,  progettando di  richiamare alle armi anche i diciottenni (già fatto per i malati oncologici ed anche per chi soffre di gravi malattie mentali e deficit cognitivi, tanto per fare la carne da cannone…), delirando di costringere i paesi europei a farsi  consegnare i più o meno patriottici profughi ucraini per spedirli  immantinente al fronte,  in uno sconsiderato, inefficace e criminale  richiamo alle armi anche di coloro precedentemente risparmiati, dove le squadre dei reclutatori girano per strada compiendo rapimenti nello stile della vecchia marina britannica e che per questo rischiano regolarmente di incappare in schioppettate da parte dei reclutandi  mentre in Russia fanno la fila per essere volontariamente arruolati nell’esercito, invogliati da ciò sia dalle alte paghe che vengono corrisposte ai militari ma anche dall’innegabile dato di realtà che per un militare russo questo mestiere non corrisponde al suicidio mentre il contrario si può dire per un militare ucraino. Caposcuola di questa esimia figliata di geopolitici fai da te è un certo personaggio, una sorta di Fantomas (o se si preferisce, di Lex Luthor o anche di Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now di Coppola) de Noantri,  certamente loquace nel presentare la sua mercanzia sciorinandoci le sue profonde verità geopolitiche ma al, al contrario, afasico e  poco trasparente nel rappresentarci con dovizia di altrettanto illuminanti particolari i suoi quarti di nobiltà accademici, che di per sé non fanno un geopolitico ma che, come in questo caso, nelle modalità con cui costui ce li rende di pubblico dominio,  gettano un’ombra sulla pubblica affidabilità del suo sentenziare, quarti di nobiltà, comunque,  con i quali o senza i quali  il nostro eroe in questione è un campione del mondo di analisi geopolitiche sballate e regolarmente smentite e ridicolizzate dai fatti successivi ma mai da lui pubblicamente riconosciute come tali e rettificate.

          Ma questo riguarda l’oggi ma agli inizi degli anni ’70, quando Spadolini scrive quelle parole qual è la situazione della conoscenza presso il più vasto pubblico – ed anche presso gli intellettuali – della geopolitica? A questo  si può rispondere che la geopolitica in quegli anni era praticamente sconosciuta, ma anche aggiungere che, nonostante questo, si può dire che Spadolini ne aveva una  buona conoscenza  che in virtù del difetto principale in cui può incorrere la geopolitica – e incisivamente rilevato, come s’è visto, da Spadolini scrivendo su Chabod –, e cioè una visione troppo sovente determinista delle dinamiche politiche, economiche e geostrategiche, gli consentiva di rigettarla nel suo insieme. Ma avanziamo ora un’ipotesi  su questa esibita diffidenza   di Spadolini verso la geopolitica, una idiosincrasia  che, riteniamo, fosse più un atteggiamento pubblicamente rappresentato che profonda convinzione perché a Spadolini non era affatto estranea la dimensione machiavelliana e quindi realistica, e l’ipotesi è – ma ipotesi molto forte perchè totalmente compatibile con tutto il suo profilo intellettuale e politico fin qui tracciato – che questa  contrarietà verso la geopolitica fosse stata pubblicamente ostentata  perché questa scienza tendeva, pur nelle varie sfumature dei suoi autori, a mettere assolutamente in secondo piano, fino a ritenere del tutto ininfluenti, tutti quei fattori sovrastrutturali di tipo  quiritario e morale (meglio: moralistici tout court) che Spadolini aveva tanto cari e per l’edificazione del suo progetto politico in Italia ed anche per il mantenimento della narrazione filoccidentale e filoatlantica cui il Professore tanto teneva non so quanto per convinzione personale ma certamente fondamentale per posizionare il futuro partito della ragione –  al tempo di quel giudizio sulla geopolitica Spadolini non era ancora segretario del PRI, ma certamente più di un pensiero in proposito doveva averlo fatto! e se divenire segretario del Partito repubblicano non era certo obiettivo programmabile in anticipo, non altrettanto si può dire di una carriera politica da notabile all’interno della c.d. area laica, per Spadolini preferibilmente  il Partito repubblicano o quello liberale  –  come il più affidabile guardiano del dogma atlantista (già il PRI,  i liberali e i socialisti di Saragat lo erano  ma Spadolini Segretario del PRI riuscirà ad accentuare ancor di più questa caratteristica del Partito repubblicano). Per farla breve, nel novero dei personaggi pubblici e politici,  egli fu il più accanito filoatlantista  ed anche filoisraeliano che mai fosse apparso e mai più apparirà  in Italia e un posizionamento che a livello pubblico venne sempre giustificato da Spadolini in base a ragionamenti di natura extrastorica ed intrinsecamente antigeopolitica   di matrice unicamente moralista basati sulla necessità di difesa dell’occidente e della democrazia e mai  perché magari si doveva fare così e schierarsi così perché le alternative, geopolitiche o geostrategiche o storiche che dir si voglia, non consentivano di far diversamente.

 

          Ritengo molto opportuno a questo punto, per dare forma compiuta a questo discorso su  Spadolini,  sul suo progetto politico,  sulle sue contraddizioni  e,  soprattutto,  su quanto queste contraddizioni possano farci da segnalatore d’incendio sulle  attuali, intese come costituzione materiale ideologica di un paese  che – destra e sinistra in questa Stimmung ideologica accomunate indifferentemente –  non riesce a darsi una decente narrazione che faccia veramente gli interessi globali dell’ Italia vista come  comunità nazionale dotata di una sua peculiare identità, che è il suo bene più prezioso da tutelare (insomma, per mettere a fuoco quanto questo discorso su  Spadolini  possa essere d’aiuto per un’Italia formata in senso rigorosamente ed autenticamente  mazziniano), ricorrere al Nomos della Terra di Carl Schmitt: «Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, databile tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso nel campo della civiltà: quello di circoscrivere e definire giuridicamente la guerra in ambito europeo. Come osserva Alfred von Verdross nella sua recensione al Nomos, è di importanza centrale il passaggio, avvenuto attorno ai secoli XVI-XVII, dall’analisi teologico-morale della justa causa belli a quella puramente giuridica dello justus hostis (e quindi del bellum justum interstatale). Questo passaggio è realmente importante e merita di essere evidenziato, anche perché il concetto di “equilibrio interstatale” che esso introduce si sarebbe mantenuto sostanzialmente inalterato fino a tutto il secolo XIX. Cessata l’unitarietà medievale dei punti di riferimento e di orientamento spaziale, è l’uguaglianza tra le nuove figure (o “persone”) statali che determina la limitazione dei mezzi bellici consentiti nel bellum justum. Non più valutazioni contenutistiche tese a giustificare (o ingiustificare) il ricorso alle armi in base a verità ultime ed esclusive, ma solo la precisa definizione giuridico-formale delle parti contendenti come Stati sovrani titolari di un potere effettivo può consentire l’esercizio del bellum justum. La guerra statale si contrappone allora alla guerra di religione che alla guerra civile, assumendo  un’inconfondibile forma giuridica, facendosi cioè guerre en forme. Se gli Stati territoriali, nella veste di personae publicae, si considerano sempre cavallerescamente l’un l’altro come justi hostes, ne consegue che la guerra riesce a diventare qualcosa di analogo a un duello, a un combattimento tra personae morales individuate territorialmente e radicate nell’ambito spaziale europeo. A confronto con la brutalità espressa dalle guerre di religione e di fazione, che sono per la loro stessa natura guerre di distruzione in cui i nemici si discriminano a vicenda come criminali, e a confronto con le guerre coloniali, condotte contro i popoli “selvaggi”, ciò significa una razionalizzazione ed un’umanizzazione di grande valore.  Ad entrambe le parti in lotta spetta lo stesso riconoscimento giuridico-formale, con la conseguenza di poter distinguere, grazie a criteri certi, il nemico dal criminale. Il concetto di  nemico non corrisponde più a “qualcosa da annientare”, ovvero ad un assoluto negativo,  al quale non è dovuto neppure alcun rispetto umano e morale. Ora aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa pertanto possibile procedere ad un trattato di pace con i vinti e   – cosa egualmente importante – diventa possibile agli Stati estranei al conflitto mantenersi in uno status giuridico-internazionale di neutralità, quali terzi. Ora, va riconosciuto che con il secolo XX proprio questa funzione, limitativa del diritto internazionale è venuta meno, determinandosi un quadro segnato: a) dalla sempre possibile guerra di annientamento totale (dove il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quello delle armi nucleari non è ‘trattenuto’ se non da occasionalismi storico-politici); b) dalla perdita irreversibile del senso di una normatività naturale (che era stata, per il passato, la condizione di possibilità, quasi l’a priori metafisico, del nomos della terra); c) dalla falsa ipotesi  teorica, che informa assai spesso la prassi dei governi, secondo cui cause di tipo economico-strutturale (ad esempio relative alla distribuzione delle risorse materiali) sono sufficienti a spiegare il  problema dell’equilibrio mondiale e le ragioni profonde del  conflitto (escludendo quindi tra l’altro che le leggi del ‘politico’ abbiano una loro ben chiara autonomia nei confronti di quelle dell’ ‘economico’ o del ‘giuridico’).»: Carl Schmitt, Il Nomos della Terra Nel Diritto Internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, traduzione e postfazione di Emanuele Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 20064, pp. 437-439.

          Con una piccola modifica della locuzione ‘guerre en forme’ possiamo dire che con la seconda presidenza Trump siamo passati da un imperialismo che aveva bisogno di  giustificazioni politico-morali per agire (la difesa della  democrazia e/o dell’occidente ed altre autentiche corbellerie come la difesa dei diritti delle minoranze, solo che vallo a far capire a queste assatanate zucche vuote – od autosvuotate, «Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone», come si dice dalle parti di Partenope – di imperialisti old style che, ammesso e non concesso che in una data area del globo vi siano queste minoranze conculcate,  fare una guerra in loro nome non ne accresce certo la popolarità presso i loro oppressori. Ma niente paura: empiricamente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste minoranze sono pienamente rispettate e tutelate e i problemi arrivano dopo i salvifici interventi occidentali, nel senso che coloro che subentrano agli immaginari conculcatori, si mettono di buzzo buono a fare il contrario di quello di coloro che hanno rovesciato con l’aiuto occidentale, Siria docet, con  l’odierna pietosa condizione, fra le altre minoranze,  dei cristiani dopo il criminale rovesciamento del legittimo presidente Bashar al-Assad ad opera dei jihādisti ed altre variopinte formazioni di tagliagole appoggiate logisticamente  e foraggiate finanziariamente dalla Nato, dalla Turchia e da Israele, ad ognuno di questi signori della guerra il suo tagliagole preferito fino al prossimo definitivo smembramento della Siria e vicendevole macello fra queste salvifiche formazioni di tagliagole con aggiunta dello sterminio delle minoranze che si diceva di volere proteggere) ad un ‘impérialisme en forme’ per il quale per agire sono dannose ed assurde le astratte regole del diritto internazionale ma vale solo l’interesse dell’agente statale imperiale, che per raggiungere i suoi obiettivi può anche ricorrere alla guerra che non si giustifica più in quanto avviene contro un nemico dell’umanità (egli, infatti, da ora  da demone si tramuta in justus hostis: se notiamo, per Trump Putin non è più un pazzo criminale ma un amico, o un quasi nemico, col quale si deve trattare, e che se non ragiona, si tramuterà in justus hostis da colpire con sanzioni verso la Russia ma non certo un pazzo criminale, come espressamente faceva intendere Biden, da cancellare dalla faccia della Terra, solo che, ovviamente, ciò non era tecnicamente possibile ma per Biden, per tutto la sua amministrazione e più in genere, per tutta la genia dei suoi amici imperialisti infrolliti non ‘en forme’, nulla poteva essere escluso – non poteva, cioè, essere esclusa  una bella guerra  nucleare in Europa ma solo in Europa perché si può essere dal punto di vista del realismo politico e della salute mentale ‘fuori forma’ quanto si vuole ma lo spettro di una guerra termonucleare totale e combattuta anche sul territorio  degli Stati uniti contro la Russia che detiene l’indiscusso primato in questo tipo di armamenti è capace di far rinsavire anche le menti più tarde e a gelare anche i più bollenti ed ottusi spiriti …) ma in quanto la guerra (e nel nostro caso, le mire imperialistiche) sono una modalità corretta e naturale dei rapporti internazionali fra Stati. Ci prendiamo il canale di Panama perché è nostro ed è stato un errore cederlo a Panama, ci prendiamo la Groenlandia perché ci conviene e non ha senso che un insignificante regno come la Danimarca voglia negarne il possesso a noi che siamo tanto più forti e capaci di farla fruttare e se così agendo si sovverte l’ordine internazionale basato sull’ipocrita precedenza del diritto sulla forza chissene …, e, infine, ci prendiamo il Canada perché siamo due fratelli e non ha senso che si viva in case separate mentre vivendo assieme potremmo dividere le spese, rectius: così gli Stati uniti possono spalmare meglio  il loro immenso debito pubblico e l’altrettanto pauroso deficit della bilancia commerciale. Sovviene un dubbio: non è che Trump, al contrario di tutti i gallinacci impagliati liberal-liberisti e senescenti imperialisti vecchio stile, sia stato ispirato tramite una seduta spiritica – dubitiamo che sia un accanito lettore della letteratura economica ma non si sa mai! – dall’economista austriaco Kurt W. Rothschild laddove disse, già nel 1947, che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith e i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege? Vista la timida ed introversa natura del nuovo presidente degli Stati uniti nel quale la discrezione sulla sua vita privata e formazione è il tratto dominante della sua personalità  e la natura altamente spirituale, per non dire esoterica, della domanda, forse non lo sapremo mai… ma per chi volesse approfondire la più prosaica  questione dello sconcertante consiglio per le deboli menti degli imperialisti ‘fuori forma di Rothschild, si cita, tanto per iniziare, da p. 135 di  Michael Landesmann, Kurt Rothschild’s ‘Price Theory and Oligopoly’ Revisited, in Altzinger, Wilfried, Guger, Alois, Mooslechner, Peter, Nowotny, Ewald, Economics as a Multi-Paradigmatic Science. In Honour of Kurt W. Rothschild (1914-2010), Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 2014, pp. 132-136: «Kurt Rothschild throughout his article prefers the language of Clausewitz (‘Principles of War’) to that of either game theory or to biological or psychological terms to characterise the behaviour of oligopolists (see pp. 305-07). This is also linked to Rothschild’s life-long interest in the role of power in economics; see his well known Penguin volume (Rothschild, 1971) [versione PDF del documento all’URL https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf, Wayback Machine:   https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf ].», da p. 8 di Eckhard Hein and Achim Truger, Interview with G.C. Harcourt. The General Theory is not a book that you should read in bed!:«Doing my undergraduate dissertation I was very much influenced by K.W.Rothschild. He published this extraordinary paper Price theory and oligopoly (1947) about using Clausewitz’s Principles of War to examine oligopolist behaviour, about how secure profits are as important as maximum profits, in price wars and in the intervals between wars. [documento disponibile solo nella versione PDF all’URL https://www.elgaronline.com/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro “congelamento” autonomo su Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250204213148/https://www.elgaronline.com/downloadpdf/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro caricamento autonomo su Internet Archive: https://archive.org/details/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi e https://ia904504.us.archive.org/35/items/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi/Kurt%20W.%20Rothschild%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Massimo%20Morigi.pdf ] » e, infine, citando direttamente dal Price theory and oligopoly di K.W. Rothschild, dove alle pp. 299-320  di “The Economic Journal”, vol. 57, n° 227 (Sep., 1947) viene pubblicato il predetto documento e dove a p. 307 si può apprezzare la famosa sentenza dello stesso Rothschild su Clausewitz e il suo Vom Kriege: «The oligopoly-theorist’s classical literature can neither be Newton and Darwin, nor can it be Freud; he will have to turn to Clausewitz’s Principles of War. There he will not only find numerous striking parallels between military and (oligopolistic) business strategy, but also a method of a general approach which – while far less elegant than traditional price theory –  promises a more realistic treatment of the oligopoly problem. To write a short manual on the Principles of Oligopolistic War would be a very important attempt towards a new approach to this aspect of price theory; and the large amount of descriptive material that has been forthcoming in recent years should provide a sufficient basis for a start. [documento da noi raggiunto all’URL https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf, Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20210308202431/https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf          e nostro caricamento autonomo su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi e  https://ia600608.us.archive.org/29/items/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi/Kurt%20Wilhelm%20Rothschild%2C%20Kurt%20W.%20%20Rothschild%2C%20Price%20Theory%20and%20Oligopoly%2C%201947%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf ]». Ma a questo punto della nostra acribia citatoria, siamo fiduciosi di aver reso un buon servizio non solo ai lettori de “L’Italia e il Mondo ma anche al neoeletto presidente Trump che così, sulla scorta di questo documento di cui forse non era a conoscenza, potrà rendere ancora più  teoricamente scaltriti e concretamente operativi ed efficaci i suoi imérialisme en forme e le appena iniziate guerre doganali che ne sono il necesssario corollario e dal quale ci aspettiamo, per questo, un cenno di ringraziamento, anche privatamente, vista la discrezione che è il suo marchio di fabbrica. Attendiamo speranzosi…

Non possiamo sapere come Spadolini avrebbe reagito politicamente e pubblicamente di fronte a questa rozza manifestazione di geopolitica à la Trump, (espressa per ora solo verbalmente ma siamo agli inizi del suo secondo mandato e diamo tempo al tempo), un ‘impérialisme en forme’ che ha letteralmente disintegrato tutti i  velami ideologici della difesa dell’occidente, della democrazia  et similia. Su un piano strettamente interiore, sono sicuro che avrebbe condiviso, come la quasi totalità della pubblica opinione ma anche come la quasi totalità  di coloro che, pur addentro negli arcana imperii,  della politica non hanno una visione informata ad un concetto di realismo di marca predatoria, lo sdegnato orrore che naturalmente e giustamente  ispira questa inedita situazione di ‘impérialisme en forme’.  (Come predatorio non è il  realismo del Repubblicanesimo Geopolitico, machiavellianamente conflittualista  ma  tutt’altro che predatorio perché basato su una filosofia della prassi che implica un rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto, che non sfocia  mai nella soppressione di uno di questi due momenti, che rifiuta espressamente, cioè, al contrario che in Carl Schmitt,  l’eliminazione del nemico, ma  è consustanziale e quindi  necessariamente complementare alla continua trasformazione dell’amico e del nemico attraverso il loro incessante confronto dialettico di vicendevole superamento ma non annientamento, lungo una linea di pensiero dialettico  che parte dal realismo del conflittualismo civile e repubblicano di Niccolò Machiavelli, passa  per  l’ Aufhebung delle forme storiche e politico-sociali e della dialettica continuamente evolutiva e trasformatrice del rapporto servo-padrone concepiti da Hegel, comprende in sé  l’impostazione olistica della comunità nazionale di Giuseppe Mazzini,  per il quale repubblica non significa la mera sostituzione di un re con un presidente ma quella forma di Stato che sappia garantire, al contrario della monarchia, il continuo rafforzarsi di questa natura olistica della società contro tutte le spinte disgregatrici ed anomizzanti ingenerate dalla concezione del diritto individuale che dovrebbe sempre prevalere sui doveri sociali così come vorrebbe il liberalismo, mentre, per Mazzini, l’organizzazione politico-sociale deve poggiare su una teoresi e pratica politica dove i doveri dell’uomo verso la società sono sempre gerarchicamente superiori ai diritti che la società concede – per Mazzini:  concede come corrispettivo dei doveri compiuti ma non che deve concedere per una sorta di inesistente diritto naturale, diritto naturale inesistente ma molto presente nella mente dei moderni a causa dell’ideologia liberal-liberista che, in realtà, con questa menzogna vuole rendere gli uomini schiavi e l’un contro l’alto armati  attraverso l’azione anomizzante e disgregatrice del vincolo sociale di questi “diritti naturali” – ai suoi componenti, fino a giungere al marxismo cultural-volontaristico ed antideterministico e  alla filosofia della prassi di Antonio Gramsci, gemmazione diretta quest’ultima, attraverso il suo rifiuto di  un marxismo positivista e sotto la forte influenza di una Weltanschauung profondamente segnata dal volontarismo sorelliano,  dell’idealismo italiano nella versione dell’attualismo di Giovanni Gentile:  idealismo italiano che come fiume carsico attraversa, anche se a monte di fine percorso  dividendosi in corsi gettantisi in mari politici di diverso nome e vocazione, il rivoluzionario Gramsci e il patriota liberale ma anche gobettiano nel senso della Rivoluzione Liberale Giovanni Spadolini!)  

          Ma siccome Spadolini, oltre che l’immaginifico assemblatore di costellazioni di personaggi che,  in fondo, in comune avevano ben poco, era anche, quando lo voleva, un solido realista,  in chiusura di questo ragionamento, mi sia consentito di sintetizzare la Gestalt più profonda di  questo profilo di Giovanni Spadolini, citando le parole conclusive che egli stesso,  negli Uomini che fecero l’ Italia impiegò nel suo medaglione su Salandra, dove il nome del biografato può non solo essere sostituito, mantenendo la moralità del testo,  con quello del compianto Professore ma anche con i nomi di tutti quelli che, lo scrivente compreso, forse non hanno compreso in tempo il ‘compiuto peccato’ di un’Italia che forse perché non poteva fare diversamente ma anche perché non l’ha voluto si è adagiata, dopo il secondo conflitto mondiale, sui comodi ma falsi  concetti, miti e parole dei più potenti pseudoamici d’oltreoceano: «Ora che tante di quelle passioni sono spente, nessuno può valutare esattamente il posto che Salandra occuperà nel quadro della storia italiana. Con le sue stesse contraddizioni, le sue intransigenze ideali ed i suoi compromessi politici, Salandra rappresenta un momento  della vita del paese, riflette passioni che furono anche generose ed alte. Difficile pensare che sopravviva, di lui, una vera e propria concezione politica; altrettanto difficile pensare che basti, a difenderne la popolarità, il giurista, pur così eminente. Più facile supporre che il suo nome, affidandosi alle memorie dell’intervento e della prima guerra mondiale, sarà ricordato con affettuoso rispetto da generazioni di ragazzi e giovani, da tutti coloro che crederanno ancora ai valori della patria e alla sua continuità. E che non si porranno mai quei problemi che interessano solo lo storico di professione.»: Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, vol. II, Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972, p. 185.

          Giovanni Spadolini «È sepolto nel cimitero monumentale delle Porte Sante, ai piedi della basilica di San Miniato, nel piccolo prato che sovrasta Firenze, accanto a Vasco Pratolini, Pietro Annigoni, Giorgio Saviane e Mario Cecchi Gori. Davanti alla cappella della famiglia, dove riposano, fra gli altri, i genitori.»: Cosimo Ceccuti, cit., p.63. Per sua disposizione volle che sulla sua lapide – una lapide che nella forma ci vuole suggerire l’immagine di fogli sparsi e libri, quei libri che egli tanto amò – fosse incisa unicamente la scritta ‘Un Italiano’.

  1. S. Non so se queste mie parole possano costituire una risposta alle considerazioni suscitate a ws dai miei precedenti interventi in tema di Risorgimento, mazzinianesimo e Partito repubblicano.  Personalmente, ricostruire il profilo politico-intellettuale di Giovanni Spadolini, non è stato solo un esercizio di conio di un medaglione biografico e ulteriore chiarificazione di teoria politica dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico ma è stato, anche sotto l’aspetto  sentimentale,  una recherche du temps perdu, che mi ha  profondamente toccato. Spero solo che un po’ di questa emozione, non per le limitate capacità espressive dello scrivente, ma per il valore umano e di inattingibile  esempio di pubblica moralità – al di là dell’ attualità delle sue concezioni ideali  e delle sue azioni politiche – di Giovanni  Spadolini  che volle incarnare le speranze o le illusioni per un Italia migliore e lo ha fatto nei momenti in cui c’era ancora una gioventù  e un popolo che, al di là delle appartenenze politiche,  credeva  ancora in questa possibilità, siano state trasmesse ai gentili lettori dell’  “Italia e il Mondo”, anche  se non soprattutto a coloro di diversa origine politica ma che, fondamentale,  sono accomunati nell’amore per l’Italia, un amore che fu l’unica  vera passione che costantemente ispirò l’operato e le speranze di  Giovanni Spadolini.

Massimo Morigi, terzo intervento sul mazzinianesimo pubblicato dal blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” in data  IX Febbraio 2025, 176° anniversario   della proclamazione della Repubblica Romana del 1849

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ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA

Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v. “Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale, ecc. ecc.).

Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Montesquieu:

“In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…

Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.

Ossia è attività che da secoli  se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.

A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante.

Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.

La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto.

Al contrario se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.

Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al  pereat mundus (verso il quale ha una  certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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DeepSeek: L’Intelligenza poco intelligente, di Cesare Semovigo

DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere

 

L’abbiamo sospettato fin dal principio! DeepSeek non era ciò che sembrava.
Mentre il coro degli apologeti, abbagliato, si spellava le mani applaudendo alla “rivoluzione dell’AI open-source cinese”, l’olezzo della truffa aleggiava già nell’aria. Non era solo un prodotto scadente, ma un test sociale e un’arma geopolitica: un perfetto specchietto per allodole progettato per misurare la reazione e la permeabilità del pubblico, manipolare l’informazione e valutare il livello di assuefazione globale alla narrazione prefabbricata.
E la verità è che non si trattava di un’arma esclusiva della Cina contro l’Occidente, come le apparenze hanno indotto all’inizio. No, DeepSeek è stato un esperimento e un’arena globale, per meglio dire bipolare; un Running Man digitale, in cui Arnold Schwarzenegger siamo tutti noi, costretti a muoverci in un labirinto virtualizzato dove la menzogna è la regola e la verità dev’essere scovata con il bisturi della spietata lucidità.
Non è solo una piattaforma mal funzionante! È un esperimento sulla percezione collettiva, per vedere quanto velocemente si potesse imporre una narrativa fittizia e censurare ogni dissenso, quanto potesse durare una bolla costruita sul nulla prima di scoppiare, e quante persone sarebbero rimaste intrappolate a credere nella favola anche quando i numeri stessi dimostravano il fallimento. Con il corollario non trascurabile di sferrare qualche colpo basso alle élites emergenti negli States.
Noi, per fortuna o per grazia ricevuta, riteniamo di aver compreso in tempo reale che eravamo di fronte a un’operazione di ingegneria dell’illusione.
Il vero esperimento non era il giocattolo DeepSeek in sé. Le cavie eravamo noi. Perché oggi, per non farsi ingannare, non basta più essere informati. Bisogna essere spietati. Serve una mentalità tech-rinascimentale, una fusione tra cinismo geopolitico, competenza informatica, diffidenza strutturata, lettura dei segnali subliminali, comprensione dei pattern di manipolazione e fiuto per le truffe. Un’epoca in cui l’inganno è la regola e l’informazione è un campo di battaglia. Un’epoca in cui solo chi sa leggere tra le righe ha qualche possibilità di capire cosa stia realmente accadendo.
Lo ripeto: DeepSeek è stato un fallimento? No, è stato un test. Il vero test era su di noi. E chi ha abboccato alla narrazione, chi ha esultato per un’illusione, chi ha difeso l’indifendibile senza porsi domande, ha dimostrato di non aver ancora capito le regole del gioco.
Rathbones 27 gen 2026
La Lista Nerd a Sei Punti: L’Esperimento sul Campo
Abbiamo voluto provare DeepSeek di persona, non per fideismo sulle magnifiche sorti, ma per smanioso desiderio di smascherarne la reale natura. Ecco che cosa è emerso, :
Sreenshot dal nostro profilo personale di DeepSteek antecedente il blocco. Improvvisamente sono sparite tutti i prompt e le risposte. Il flusso di tutti questi dati dove è finito?
1. Investitori misteriosi
Gli abbiamo chiesto chi c’è dietro. DeepSeek ha risposto con dichiarazioni all’estremo della sua “creatività”, spesso contraddicendosi tra un prompt e l’altro. Un caleidoscopio di nomi inventati, falsi storici e sigle inesistenti, come se ci trovarsi in un romanzo di spionaggio di bassa lega trash. L’esito delle nostre domande vi confesso è stato tra il comico e uno schema predeterminato e fuorviante
ChatGPT riporta le incongruenze della indicizzazione e delle informazioni fuorvianti su vari portali 28 gen 2026
2. Dati di mercato incongruenti
Volevamo capire se ci fosse un business plan serio. Risultato? Numeri gonfiati, trend economici da “mondo dei desideri” e previsioni prive di alcun fondamento. Se chiedi conferma, cambia versione con l’agilità di un prestigiatore da fiera di paese.
Variazioni imbarazzanti dei benchmark dei vari tester . 29 gennaio
3. Emissione di token
La narrazione ufficiale parlava di decentralizzazione, coin e libertà digitale. La verità è che mancava qualsiasi documentazione su blockchain, governance e obiettivi reali. Un’operazione di finanza creativa più simile allo schema di una truffa che a una “rivoluzione open-source”.
report Mike Genovese (analista di Rosenblatt)- da Investing.com
4. Shadow banning e indexing manipolati
Ogni post o articolo critico è stato declassato, nascosto o rimosso. Reddit, Twitter/X, blog specializzati: tutto setacciato. Nel frattempo, i contenuti elogiativi salivano in testa alle ricerche come per magia, accompagnati da commenti entusiastici prefabbricati. Chiunque chiedesse prove o cifre era tacciato di essere un “agente del discredito”.
(dai grafici, incrociati con i successivi, si evince un’incongruenza con l’effettiva operatività possibile)
5. Selezione matematica, non logica
DeepSeek si rifugia nelle operazioni di base (somme, moltiplicazioni, calcoletti) per apparire affidabile. Appena si passa alla logica complessa, all’analisi geopolitica o alle interpretazioni storiche, crolla in un mare di banalità e incoerenze. Un centralino, non un’AI. Un proxy intelligente che fornisce illusioni di scelta invece di elaborare un pensiero autonomo. Un organismo che vive di memoria parassita, privo di “motu proprio”
6. L’Effetto Tetris
L’apoteosi del grottesco. Abbiamo visto gente esaltarsi perché DeepSeek era riuscito a generare un Tetris. Gente che urlava al “Miracolo!” con la stessa enfasi di uno sciamano che assiste a un’eclissi solare, ignorando il fatto che un Commodore 64 gestiva ben di più. Il Tetris è diventato il simbolo di una manipolazione collettiva: è bastato un giochino anni ’80, ed ecco i “guru” tech in estasi mistica.
Il risultato di questa lista?
Ci conferma, senza ombra di dubbio, che DeepSeek non era un’avanguardia tecnologica, ma uno specchietto per le allodole con il quale testare il livello di creduloneria e plasmabilità dell’ecosistema digitale. Una macchina che non produce conoscenza, ma indirizza e filtra quella già esistente, riportandoci all’analogia del “centralino”: un sistema di smistamento, non un modello cognitivo evoluto.
Chi ha creduto davvero in DeepSeek senza fare domande ha perso la partita due volte: una sul piano tecnico, scambiando un colabrodo per un cappello, e l’altra sul piano dell’analisi critica, perché ha dimostrato di non saper riconoscere i segnali di un esperimento di disinformazione organizzata.
Chi, invece, l’ha usata come poligono di tiro per svelarne i limiti, ha confermato ciò che avevamo intuito: c’è un abisso tra l’apparenza “open-source rivoluzionaria” e la realtà di un proxy manipolativo, progettato per raccogliere dati, falsificare metriche e alimentare un hype del tutto sganciato dalle prestazioni reali con in non secondario accessorio dei guadagni speculativi sui ribassi.
È da qui che poi partono le implicazioni geopolitiche e la parte caustica sull’Europa-cervo e la “ghigliottina”, perché se DeepSeek è stato un test, l’Europa è stata il laboratorio perfetto, con una classe dirigente che si fa turlupinare dai Tetris colorati e da una propaganda scadente, invece di chiedere numeri e verità. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Abbiamo provato di persona cosa significhi interagire con DeepSeek. Non ci siamo limitati a leggere recensioni o report degli esperti: abbiamo messo le mani nel motore, cercando di capire se davvero questa IA fosse l’erede designata a surclassare ChatGPT e soci. Gli abbiamo chiesto tutto: dagli investitori dietro al progetto (risultato: silenzio o menzogne), ai dati di mercato su se stesso (risultato: cifre inventate o assurde), fino alle missioni future dell’IA (risultato: un collage tra Mago di Oz e Orsetti del Cuore, pieno di risposte motivazionali, ma vuote di contenuto). I numeri parlano chiaro: tra il 63% e l’86% delle risposte fornite da DeepSeek risulta errato o fuorviante.
Ma il punto più assurdo non è solo la quantità di risposte sbagliate, bensì il modo risentito in cui le critiche sono state trattate. Nel giro di poche ore, si è scatenata un’operazione di shadow banning sulle piattaforme più importanti: post critici spariti da Reddit, articoli scettici deindicizzati o schiacciati dalle lodi sperticate di qualche testata “alternativa”. A chi osava chiedere trasparenza, si rispondeva gridando al complotto. L’accusa ricorrente? “Non capire la rivoluzione open-source”. Senza mai, ovviamente, presentare uno straccio di prova contraria.
Ed ecco l’Effetto Tetris: c’è gente che gridava al miracolo perché DeepSeek aveva generato un Tetris. Un Tetris, nel 2024.
Come se fosse la prova suprema dell’intelligenza artificiale. A quel punto, ci siamo detti: se la nuova frontiera del futuro è replicare un gioco dell’84, tanto valeva chiedere a un Commodore 64 di scrivere un paper sulla rivoluzione quantistica. Eppure questi erano i “guru” della contro-informazione digitale, estasiati come se avessero assistito allo sbarco su Marte.
Il sospetto è diventato certezza quando abbiamo visto quanto fosse blindata la narrativa. Questo non è marketing aggressivo, è una campagna di manipolazione su larga scala, in cui chiunque chieda dati reali viene bannato, e chiunque applaude viene premiato con l’eco mediatica. Non è un caso di hype gonfiato: è qualcosa di stratificato, come se qualcuno avesse non solo prenotato il campo da calcio, ma comprato i giocatori, l’arbitro e pure la genetica dell’erba del prato all’inglese. Un’operazione che ha scelto la matematica invece della logica complessa, perché il calcolo si verifica subito e illude i gonzi, mentre il ragionamento va dimostrato. È lì che DeepSeek crolla miseramente.
Cos’è quindi veramente DeepSeek? Non è un prodotto tecnologico evoluto. È un centralino, un router di informazioni, un proxy intelligente che non crea nuove sintesi, ma smista richieste e fornisce output preconfezionati. Un generatore di illusioni di scelta che, in realtà, nasconde la mancanza di alternative reali. Se gli chiedi qualcosa di matematico, ti risponde. Se gli chiedi una visione geopolitica o storica, ti svicola con banalità o bug clamorosi.
È un call center, non un’AI autonoma.
(i commenti di natura tecnic su reddit iniziano e riemergere appena dopo il blocco dell’applicazione)
Il suo ruolo strategico è stato far credere al mondo che la Cina avesse sfornato in pochi mesi una IA in grado di rivaleggiare con anni di ricerca e miliardi di dollari investiti da colossi americani. In realtà, DeepSeek non rappresenta la Cina come blocco, bensì la guerra ibrida condotta da chi tiene le fila di un gioco più grande: il Cerbero a due teste, dove una testa politica in grado di coordinare parte della finanza angloamericana con il motore manifatturiero cinese; in mezzo c’è l’Europa che si crede giocatrice, ma è solo un campo di battaglia dove testare le armi di manipolazione.
Le cronache su come la Cina avrebbe “asfaltato” il mondo occidentale si basano spesso su letture semplificate di dati macroeconomici e su una retorica che confonde il ruolo del partito al potere con l’idea stessa di socialismo. In realtà, la traiettoria cinese è frutto di un compromesso tra pianificazione statale e incentivi di mercato, con un coinvolgimento capillare dei privati su cui lo Stato esercita un controllo certo meno liberale di quanto vorrebbero i fautori del capitale occidentale, ma ben distante dalle società egualitarie che la parola “socialismo” potrebbe evocare. Il risultato è un modello ibrido che ha permesso alla Cina di diventare un gigante produttivo, contando inizialmente sulla delocalizzazione industriale e sulla enorme disponibilità di manodopera a buon mercato; tuttavia, ciò non significa che abbia eliminato le diseguaglianze o instaurato un sistema veramente “collettivistico”.
La spinta alla crescita cinese poggia su alcuni pilastri difficilmente replicabili altrove: un bacino demografico sterminato, una struttura industriale sorretta da investimenti colossali in infrastrutture, e una classe dirigente che pianifica per obiettivi pluriennali—avvantaggiata, almeno nel suo stato nascente, dal non dover rispondere alla frenesia di scadenze elettorali immediate e dall’essere sottoposta a criteri di selezione più rigorosi. Questo però porta con sé problemi di sostenibilità e squilibri interni (debitamente mascherati dalla governance), dalla pressione sull’ambiente alle tensioni socioeconomiche nelle aree rurali e periferiche. Il “socialismo con caratteristiche cinesi” non punta tanto a emancipare le classi subalterne, quanto a garantire la stabilità del sistema, accettando e promuovendo ampie sacche di capitalismo privato e concentrando la ricchezza in poche mani, purché esse restino fedeli al piano generale del partito. La stessa espansione dei ceti medi professionali è il frutto tipico di una società in fase espansiva, attenta alle esigenze di coesione e complessità.
Dal punto di vista macro, l’idea che la Cina abbia superato definitivamente l’Occidente ignora i vincoli strutturali interni (come la dipendenza energetica e la necessità di sbocchi di mercato) e la stessa interdipendenza con gli Stati Uniti in settori come la tecnologia, i semiconduttori e la finanza. Più che una vittoria di un socialismo coerente, è un caso di “capitalismo di Stato” che ha saputo sfruttare la globalizzazione—spesso ai danni dei lavoratori, cinesi ed esteri, pur con tuti i vantaggi offerti dal superamento di una civiltà prevalentemente agricola. Sbandierare la “superiorità” cinese come panacea universale è, dunque, una scorciatoia intellettuale: il sistema cinese funziona nell’ottica di una crescita accelerata e di un controllo centralizzato, riduce ma non elimina né povertà né diseguaglianze, tantomeno si oppone davvero ai meccanismi di mercato. L’unico aspetto in cui si discosta dal liberalismo occidentale è la minore tolleranza per il dissenso politico; per il resto, siamo di fronte a una superpotenza che usa in modo sistematico e spregiudicato i canali commerciali mondiali, più che a un modello socialista “puro” o rivoluzionario.
I russi se ne sono accorti da un pezzo: Kazan doveva sancire la fine del dominio del dollaro, ma si è trasformato nel trionfo della strategia cinese del “falco e della pentola sul fuoco”. Lula ha fatto il sabotatore, e Putin ha guardato con più interesse a Teheran, perché l’Iran, per quanto scomodo, si è rivelato un alleato appena più sincero, non un opportunista di passaggio. Nel frattempo, negli Stati Uniti si sta consumando una lotta interna che vede emergere figure come Kennedy Jr. e Tulsi Gabbard, mentre il vecchio establishment demoneocon vacilla e in Europa invece si celebra il funerale dell’autonomia politica, con Starmer, Scholz e i falchi baltici a recitare il copione del feudo bancario nero.
È troppo facile immaginare la Cina come un monolite che incarna un “nuovo socialismo trionfante” o, all’opposto, un capitalismo di Stato pronto a schiacciare tutti i competitor. In realtà, Pechino opera secondo logiche che sfuggono alle categorie novecentesche di “mercato vs. piano”: da un lato, si proclama erede del marxismo (riadattato alla storia nazionale), dall’altro, è fortemente integrata nell’economia globale, al punto che il principale cliente dei suoi prodotti rimane proprio quel “Occidente decadente” che si vorrebbe superare. Da questo intreccio discende una dipendenza reciproca: non solo gli USA assorbono una parte enorme, anche se in via di ridimensionamento, dell’export cinese, ma la Cina è anche tra i maggiori acquirenti di Treasury bond americani, con un’esposizione che negli ultimi anni si è aggirata intorno ai 1000 miliardi di dollari (circa un terzo delle riserve in valute estere di Pechino). Questo significa che, in caso di collasso finanziario degli Stati Uniti, Pechino vedrebbe evaporare parte del proprio tesoretto, vanificando la narrazione di un “Socialismo di Mercato” impermeabile agli scossoni esterni. Allo stesso modo, se la Cina smettesse di sostenere il debito americano, l’economia globale subirebbe scossoni imprevedibili, inclusa la stessa manifattura cinese, che prospera grazie ai consumi occidentali. È dunque una partita a scacchi in cui Washington e Pechino non possono (ancora) permettersi di ribaltare la scacchiera e andarsene: si tratta di una relazione post-ideologica, che supera il vecchio schema bipolare e si fonda su un macro-equilibrio di costrizioni reciproche, più che su una sfida puramente ideologica. Presentare Xi Jinping come il nuovo Messia del socialismo e gli Stati Uniti come un gigante dai piedi d’argilla significa ignorare la rete di interessi tangibili che lega le due potenze e scambia vendite di T-bond con approvvigionamenti di semiconduttori e import-export di beni essenziali. In altre parole, la Cina non è un blocco coerente di “socialismo rinato”, ma un ibrido che oscilla fra pianificazione e libera concorrenza, dettato tanto dal pragmatismo geopolitico quanto dai rapporti di forza sul mercato mondiale. Pronta a confliggere e colludere.
DeepSeek andrebbe visto, quindi, almeno in parte come un episodio di questo rapporto di odio/amore tra i due contendenti o parti di essi.
E l’Europa? Il continente più stupido della Storia Contemporanea, che, invece di giocare per vincere, gioca per perdere bene, paralizzato come un cervo sotto i fari di un tir lanciato a tutta velocità. Il paradosso è che il cervo, come una fenice, resuscita, ma solo per farsi investire di nuovo, magari urlando contro Putin per sentirsi ancora più eroico mentre si fa maciullare. Perché oggi, la coerenza è un crimine, la strategia è un optional, e la classe dirigente UE sembra specializzata nell’aggiornare regolamenti green e quote arcobaleno di un mercato che non gestisce, senza accorgersi che la realtà si è spostata altrove.
Meglio la ghigliottina di un tempo che l’ipocrisia dei salotti televisivi, verrebbe da dire.
Nel frattempo, DeepSeek rimane lì, a farci da monito: non era un’IA potente, ma un’illusione studiata con cura per vedere chi ci sarebbe cascato, come un bambino che crede di aver scoperto la televisione a colori nel 2024. Un call center intelligente che smista, registra e cataloga, venduto come rivoluzione tecnico-culturale, mentre dietro le quinte si muovono poteri più antichi e più spietati di quanto l’entusiasta medio possa immaginare. Una Cina polimorfa che gioca a incassare vantaggi e un blocco angloamericano che finge di combatterla mentre in realtà la utilizza come partner in un duopolio malsano, con la Russia relegata a giocare partite alternative e l’Iran pronto a esser l’alleato di chiunque sappia riconoscere che i veri nemici non sono i popoli, ma i poteri politici, finanziari e industriali annessi, che muovono i fili.
Il problema non è DeepSeek in sé, ma la facilità con cui un bluff di questa portata può prendere piede se organizzato da chi conosce bene le leve della propaganda, i meccanismi di SEO e la psicologia di un’umanità pronta a credere in qualsiasi “rivoluzione” pur di sentirsi contro il sistema. E allora Tetris diventa il simbolo di un’epoca in cui il ridicolo non è più un’anomalia, ma la norma. E la prossima volta, potremmo vedere gente gridare al miracolo perché un’IA cinese “aperta” avrà ricreato Pang in 4K. E lì, gli applausi diventeranno ancora più assordanti.
Ma forse siamo noi a esagerare. Forse i tempi sono così maturi da coltivare l’arroganza in convento e il convento alla Rocco Academy. Forse gli angeli caduti vanno in ferie a Cervia e gli influencer si candidano da soli per manifesta incapacità. E forse, dopo tutto, DeepSeek non è il fallimento di un modello, ma la prova che la Storia ha deciso di farsi beffe di noi, come quell’adolescente viziata che dice di essere rimasta incinta per caso. E voilà, ecco la prossima rivoluzione che nasce. O forse no.
In fondo, la vera magia è saper generare la singolarità dove non è il guru a sperare di essere testimonial, ma il testimonial a essere già guru senza saperlo. Scegli me, e così sia. Un errore di calcolo della realtà, un salto triplo di un ovulo ai campionati di tuffi. Eccoci qui a rimirare un’illusione chiamata DeepSeek, che ci ricorda che siamo nel Truman Show di noi stessi, un eterno esperimento dove la verità non interessa a nessuno, e la menzogna è la valuta preferita del mercato e della narrazione globale. Finché avremo la forza di ridere e puntare il dito, forse resteremo un po’ meno prigionieri.
Perché l’unico valore, in questo gioco, è il potere. E chi non ce l’ha, semplicemente non esiste.
DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere
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Trump annuncia la “Riviera levantina”: il mega-progetto di pulizia etnica e terraformazione del futuro!_di Simplicius

Trump annuncia la “Riviera levantina”: il mega-progetto di pulizia etnica e terraformazione del futuro!

(Non preoccupatevi, è per il popolo!)

6 febbraio
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Trump ha scioccato il mondo oggi con i suoi piani spensierati e senza scuse per la pulizia etnica di massa e la terraformazione di Gaza, dopo aver ricevuto un ricordo del “cercapersone d’oro” da un Netanyahu sorridente: difficilmente si potrebbe immaginare un quadro più cretino:

La quantità di contraddizioni fa girare la testa come un dreidel. “Nessuno può vivere lì, quel posto è un inferno”, spiega Trump con gli occhi gonfi, solo pochi istanti prima di dichiarare trionfante che il posto sarà trasformato in una “Riviera levantina” simile a un casinò per “la gente del mondo”; forse si tratta di persone elette ?

Trump sostiene che i palestinesi meritano di vivere in un luogo in cui non saranno ignominiosamente “morti”, ecco perché un campo profughi artificiale (o meglio, una città) dovrebbe essere costruito in Giordania, eppure dimentica di menzionare che l’uomo accanto a lui è la ragione per cui quegli indigeni di quella terra stanno “misteriosamente” morendo a frotte.

L’intera conferenza stampa sapeva di un surreale teatro dell’assurdo, come guardare dei “carini” Munchkins del Paese di Oz che sbranano voracemente una carcassa con le bocche intrise di sangue. Un Trump dall’aria servile blatera i suoi piani per il più grande genocidio e la più grande campagna di pulizia etnica della storia moderna con l’aria disinvolta di qualcuno che ordina un panino per la colazione. Come al solito, però, il vero schiaffo del tradimento sta nell’indifferenza dei fanatici dei media istituzionali, il cui lavoro avrebbe dovuto essere quello di mettere in discussione e indagare a fondo, appiccare una fiamma giornalistica a tali oltraggi della coscienza comune e della decenza.

Notate come Trump eluda in modo untuoso la domanda su chi vivrà a Gaza, non una, ma due volte. Nel video qui sopra, un reporter chiede a Trump se saranno costruiti insediamenti ebraici a Gaza: Trump finge di non aver sentito e risponde alla domanda con il pretesto che erano gli insediamenti palestinesi a essere stati interrogati.

Poi nel video qui sotto, afferma che gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza e ne “saranno proprietari”, quindi un mandato americano per il mondo moderno?

Infine, Kaitlan Collins della CNN gli chiede direttamente se i gazawi potranno tornare e, in caso contrario, chi Trump immagina che viva a Gaza dopo che gli USA si saranno trasformati in un “bel posto”? La risposta di Trump è uno studio storico di artificio scivoloso e deve essere vista per essere creduta:

“Immagino…persone del mondo che vivono lì.”

Popoli del mondo ? Sono forse imparentati con i misteriosi Popoli del Mare , per caso? Sono venuti a saccheggiare e reclamare il Levante per la seconda volta in altrettanti millenni? Gli antropologi di tutto il mondo sono in sospeso.

Si è mai vista una dimostrazione più esasperante di apologia del genocidio, sfoggiata e ricoperta di rossetto arancione?

Ebbene, cosa si può dire, Israele ha trovato il suo perfetto servitore fedele:

Qualcuno vuole un po’ di pilates proskynesis prima di pranzo?

Netanyahu ha regalato a Trump due cercapersone durante un incontro del 4 febbraio: “uno normale e uno placcato in oro”, ha dichiarato l’ufficio del primo ministro. Trump ha risposto dicendo che “è stata una grande operazione”.

Prima della sua elezione, Trump aveva definito la Striscia di Gaza “un luogo di prim’ordine” in una telefonata con Netanyahu e gli aveva chiesto di riflettere su quali tipi di hotel avrebbero potuto essere costruiti lì.

Sono l’unico a pensare che un cercapersone sia più un promemoria discretamente minaccioso per restare in fila, piuttosto che un grazioso ricordo di un vecchio amico?

Bene, quindi un giornalista è riuscito a mettere in discussione in modo piuttosto diretto i coraggiosi piani di acquisizione di Trump:

Quindi, secondo quanto sopra, Trump vuole togliere completamente la situazione di Gaza dalle mani di tutti i soggetti coinvolti e marchiarla veramente come una specie di protettorato degli Stati Uniti. C’è forse una minuscola possibilità che Trump stia effettivamente sovvertendo Israele a lungo termine con una specie di mossa di “scacchi olografici 5D”. Persino il famoso esperto di Medio Oriente Alastair Crooke, nella sua ultima intervista con la gente di Duran , ha suggerito che Trump ha essenzialmente “salvato” Netanyahu con queste ultime aperture per impedire ai veri estremisti di destra del Likudnik di prendere il sopravvento, perché “meglio il diavolo che conosci” . In altre parole, Trump almeno sa come lavorare con il più prevedibile Netanyahu e tenerlo in qualche modo in riga.

Penso che alcune persone sottovalutino le astuzie di Trump, quindi dobbiamo lasciarlo un po’ aperto per ora, ma a prima vista non sembra una bella cosa. Dopotutto, proprio ieri Trump ha tacitamente invocato il Grande Israele lamentando le piccole dimensioni di Israele rispetto al resto del Medio Oriente:

Quindi Israele ha finalmente ottenuto il suo più alto e autorevole riconoscimento per essersi finalmente liberato di quegli indigeni fastidiosi e combattivi: è un colpo di grazia israeliano senza precedenti, non è vero?

Be’, non proprio .

Le nuvole continuano ad addensarsi appena oltre il confine, come abbiamo sottolineato fin dall’inizio.

Jolani, ora ribattezzato con il nome di visir puro e semplice Ahmed al-Sharaa, è arrivato ad Ankara per prostrarsi finalmente davanti al suo più grande benefattore:

Finalmente, eminenza! Ho riportato indietro alcuni dei vostri camion Toyota, non ne abbiamo più bisogno.

E cosa ne sai? Come previsto, ci si aspetta che tra i due Paesi si mettano in moto cose importanti:

Il nuovo leader siriano offre a Erdogan di schierare basi militari turche nel paese, — Reuters

▪️Durante i colloqui ad Ankara, Ahmed al-Sharaa discuterà del patto di difesa siro-turco, che include la creazione di basi aeree turche nella Siria centrale, scrive l’agenzia.

▪️Nel frattempo, al-Sharaa ha già incontrato il presidente turco Erdogan e lo ha invitato a visitare Damasco.

Esatto, al centro delle discussioni c’è lo spiegamento di un esercito turco e di basi aeree in tutta la Siria centrale , nonché l’addestramento di un nuovo esercito siriano da parte delle forze turche.

Un funzionario dell’intelligence regionale, un responsabile della sicurezza siriana e una delle fonti di sicurezza estera con sede a Damasco hanno affermato che i colloqui includerebbero l’istituzione di due basi turche nella vasta regione desertica centrale della Siria, nota come Badiyah.

Un funzionario della presidenza siriana ha dichiarato alla Reuters che Sharaa avrebbe discusso con Erdogan “dell’addestramento del nuovo esercito siriano da parte della Turchia, nonché di nuove aree di dispiegamento e cooperazione”, senza specificare i luoghi dello spiegamento.

Seguono suggerimenti secondo cui la Turchia sarebbe in grado di difendere lo spazio aereo siriano:

Un alto funzionario dell’intelligence regionale, un responsabile della sicurezza siriana e una delle fonti di sicurezza estera con sede a Damasco hanno affermato che le basi in discussione consentirebbero alla Turchia di difendere lo spazio aereo siriano in caso di futuri attacchi.

Gli S-400 turchi potrebbero tornare a far parte del menu?

Le possibili sedi delle basi aeree turche sono state indicate come l’aeroporto militare di Palmira e la famigerata base T4 a Homs. Naturalmente, ciò darebbe anche alla Turchia un nuovo dominio sulle regioni curde dall’aria.

Tutto questo è accaduto pochi giorni dopo che Jolani si è finalmente dichiarato formalmente presidente della Siria, anziché un ambiguo “leader di transizione”:

Israele sta diventando così nervoso che i suoi apologeti sono costretti a scrivere tesi sempre più assurde, come quella seguente dell’ex funzionario del Pentagono Michael Rubin per 19FortyFive:

Un rischio maggiore è la possibilità che la Turchia possa utilizzare il suo impianto nucleare per acquisire materiale fissile per un’arma nucleare. I funzionari turchi, e persino le controparti americane, potrebbero dire che l’impianto di Akkuyu è a prova di proliferazione. Tralasciando che “a prova di proliferazione” non è mai assoluta. Come nel caso del reattore nucleare civile iraniano di Bushehr, il problema non è mai stato lo sviamento presso l’impianto energetico civile, ma piuttosto l’utilizzo del programma civile come copertura per acquisire e dirottare beni verso un programma segreto.

Vedete quanto velocemente la Turchia sta sostituendo l’Iran, quasi nello stesso ruolo? Presto sarà la Turchia nel paese a rischio di essere colpita dalle bombe dell’IAF mentre convoglia armi in Siria, e accusata di essere perennemente “prossima a ricevere la bomba atomica”.

Da quanto sopra:

Se la Turchia acquisisse un’arma nucleare, potrebbe non solo dare seguito alle sue minacce contro altri stati della regione, ma potrebbe anche sentirsi così immune dietro il suo deterrente nucleare da poter aumentare la sua sponsorizzazione del terrorismo senza timore di ritorsioni o responsabilità. Tale preoccupazione politica rispecchia quella con cui molti paesi occidentali considerano la possibilità di un’acquisizione nucleare iraniana.

Quanto è comodo!

L’articolo cita come precedente l’attacco di Israele all’impianto nucleare iracheno di Osirak nel 1981. L’autore sostiene che le difese della Turchia non hanno alcuna possibilità contro gli F-35 israeliani, proprio come non ne hanno avute quelle dell’Iran. Oh, aspetta, proprio oggi l’Iran ha appena pubblicato un nuovo video che mostra i suoi sistemi missilistici Bavar-373 e S-300 in piena operatività, dimostrando che gli attacchi fasulli di Israele che “hanno spazzato via l’intera flotta iraniana di S-300” mesi fa erano in realtà una fantasia, come la maggior parte delle persone dotate di cervello ha dedotto:

L’Iran mostra i sistemi missilistici Bavar-373 e S-300 potenziati in esercitazioni in tandem.

Le esercitazioni, che si sono svolte l’ultimo giorno delle imponenti esercitazioni Eqtedar 1403 (letteralmente “1403 maggio”), hanno visto l’impiego di sistemi di difesa aerea a lungo raggio di fabbricazione iraniana e russa, impegnati in attacchi contro nemici fittizi nel deserto di Kavir, nel nord del Paese.

Oltre a testare l’efficacia dei sistemi, le esercitazioni hanno sfatato le affermazioni israeliane sulla distruzione degli S-300 iraniani durante gli attacchi dell’ottobre scorso e hanno consentito alla Forza di difesa aerea dell’esercito iraniano di presentare una nuova versione del Bavar-373, che ora è dotato di un proprio radar che consente operazioni completamente indipendenti.

-Ho visto i due sistemi collegati alla potente rete di difesa aerea nazionale dell’Iran

Negli ultimi mesi, l’Iran ha svelato e dispiegato una serie di nuovi sistemi di difesa aerea e missili balistici, nonché una base missilistica sotterranea, nel contesto delle crescenti tensioni con gli Stati Uniti e Israele.

In ogni caso, nei prossimi mesi e anni ci si aspetta di sentire altre dichiarazioni simili a quelle sopra riportate sulla Turchia, mentre la scimitarra ottomana si avvicina sempre di più alla gola scoperta di Israele.

Per quanto riguarda Riyadh, si dice che il re non sia rimasto impressionato dai piani di Trump di riqualificare la Striscia di Gaza trasformandola in un lido di lusso per i ricchi goy occidentali dello Shabbos:

In definitiva, dobbiamo aspettare e vedere esattamente cosa Trump ha in mente per la presunta presa di controllo “americana” di Gaza; potrebbe esserci più di quanto non sembri. Israele, ovviamente, gioca sempre a lungo termine, con Netanyahu che probabilmente acconsente al piano di Trump anche se apparentemente non dà a Israele il controllo della Palestina, per ora, perché Netanyahu sa nel profondo della sua milza che i presidenti americani vanno e vengono, ma la colonia di coloni continuerà sempre a pullulare come un tumore, molto tempo dopo che i mandati mortali dei suoi burattini requisistiti saranno scaduti. In altre parole, per ora, salvate le apparenze, ma contate sul prossimo vigliacco in capo americano che restituirà i territori “appena riqualificati” a Israele, de jure.

E per quanto riguarda quei muscolosi congressisti americani? Beh, potete anche scordarvi della Cisgiordania: la nuova “guida” dall’alto è la parola d’ordine dell’uccello, e l’uccello è stato messo nella lista nera. Niente più “Cisgiordania”, vi presento le province israeliane di Giudea e Samaria:

Venerdì, i legislatori repubblicani alla Camera e al Senato hanno presentato proposte di legge che vieterebbero l’uso del termine “Cisgiordania” nei documenti e nei materiali del governo degli Stati Uniti, sostituendo la frase con “Giudea e Samaria”, i nomi biblici per la regione ampiamente utilizzati in Israele e il nome amministrativo utilizzato dallo stato per descrivere l’area.

Ti piacciono le mele avvelenate?

Nel frattempo, Trump si starebbe preparando a ritirarsi definitivamente dalla Siria, se ci potete credere:

Il rapporto di cui sopra sostiene un imminente piano di ritiro entro i prossimi “30, 60 o 90 giorni” – questa volta giuriamo sul mignolo, promesso! Ricordiamo l’ultima volta che lo staff generale traditore ha letteralmente mentito a Trump e “ha giocato a giochi di prestigio” riguardo agli schieramenti di truppe statunitensi in Siria per impedirgli di ritirare le truppe. Sarà più o meno lo stesso escamotage questa volta?

È l’ultimo esempio della politica estera erraticamente schizofrenica di Trump. Dopo aver promesso di non fare più guerre o di non coinvolgere più militari stranieri, Trump è pronto a ritirare le truppe statunitensi dalla Siria, mentre ne invia un nuovo gruppo nella “Riviera Rossa” sull’ex Striscia di Gaza: parliamo di giochi di prestigio!

Infine, se non siete ancora sazi della vittoria di “America First” per oggi, godetevi il vostro ultimo boccone emetico:

Ricordate il video precedente del discorso di Trump, che ha suscitato molte risposte riguardo al fatto che Trump abbia semplicemente “letto” una dichiarazione datagli dal suo “responsabile AIPAC”? Sapete, questo:

Ebbene, pare che non sia molto lontano dalla verità, come riportato dal Times of Israel qui sopra:

Kushner è stato coinvolto nella stesura delle dichiarazioni preparate da Trump, rilasciate insieme al Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, riporta Puck News, citando una fonte anonima a conoscenza della questione.

A proposito, avete colto il terzo atto di ambiguità farinosa di Trump nel frammento qui sopra? Ascoltate di nuovo:

“[Creeremo] uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e alloggi per… la gente della zona. ”

Ah, di nuovo quelle persone enigmatiche .

Per chi riesce a sopportarlo, vi lascio con quest’ultimo video di Mike Waltz, il portavoce di Trump, che decanta lo splendore della rivoluzionaria donazione di Trump a Gaza:

Pesante è la corona dell’Egemone. Il cielo non voglia che la Russia erediti mai un destino così gravoso da condannare Putin al poco invidiabile compito di radere al suolo una nuova Riviera sul lungomare di Odessa tra gli applausi scroscianti, o le approvazioni silenziose, della galleria di arachidi della “rettitudine morale” occidentale. Facciamo penitenza per aver minimizzato la pesante croce di Trump: Signore, perdonaci, amen!


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Sergey Lavrov per la Russia sulla rivista Global Affairs, “La Carta delle Nazioni Unite come fondamento giuridico di un mondo multipolare”

Articolo del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov per la Russia sulla rivista Global Affairs, “La Carta delle Nazioni Unite come fondamento giuridico di un mondo multipolare”, 4 febbraio 2025

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Ottant’anni fa, il 4 febbraio 1945, i leader dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale – Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna – aprirono la Conferenza di Yalta per determinare i contorni del mondo postbellico. Nonostante le differenze ideologiche, concordarono di sradicare il nazismo tedesco e il militarismo giapponese. Gli accordi raggiunti in Crimea furono riaffermati ed elaborati nella Conferenza di Potsdam del luglio-agosto 1945.

Uno dei risultati dei negoziati fu la creazione delle Nazioni Unite e l’approvazione della Carta delle Nazioni Unite, che a tutt’oggi rimane la principale fonte di diritto internazionale. La Carta stabilisce obiettivi e principi per il comportamento dei Paesi, volti a garantirne la coesistenza pacifica e lo sviluppo sostenibile. Il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati ha gettato le basi del sistema di Yalta-Potsdam: nessuno può rivendicare una posizione dominante, poiché tutti sono formalmente uguali, indipendentemente dal territorio, dalla popolazione, dalle capacità militari o da altri parametri.

Per tutti i suoi punti di forza e di debolezza, sui quali gli studiosi ancora discutono, l’ordine di Yalta-Potsdam ha fornito il quadro normativo-giuridico del sistema internazionale per otto decenni. L’ordine mondiale basato sull’ONU assolve il suo compito principale: salvaguardare tutti da una nuova guerra mondiale. In verità, “l’ONU non ci ha portato in paradiso ma ci ha salvato dall’inferno”[1]. Il potere di veto sancito dalla Carta – che non è un “privilegio”, ma un onere di speciale responsabilità per la salvaguardia della pace – funge da solida barriera contro le decisioni avventate e offre spazio per trovare un compromesso basato su un equilibrio di interessi. Nucleo politico del sistema di Yalta-Potsdam, l’ONU è stata una piattaforma universale unica per sviluppare risposte collettive alle sfide comuni, mantenere la pace e la sicurezza internazionali e promuovere lo sviluppo socio-economico.

È stato all’ONU che, con un ruolo chiave svolto dall’URSS, sono state gettate le basi per il mondo multipolare che sta nascendo sotto i nostri occhi. In particolare, il processo di decolonizzazione è stato attuato legalmente attraverso la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali, adottata nel 1960 su iniziativa dell’Unione Sovietica. In quell’epoca, decine di popoli, precedentemente oppressi dalle potenze coloniali, ottennero per la prima volta l’indipendenza e la possibilità di costituire un proprio Stato. Oggi, alcune di queste ex colonie possono vantare di essere centri di potere nel mondo multipolare, mentre altre appartengono a unioni sovranazionali di portata civile regionale o continentale.

Come notano giustamente gli studiosi russi, ogni istituzione internazionale è soprattutto “un modo per limitare l’egoismo naturale degli Stati”[2]. L’ONU, con la sua Carta concordata e adottata per consenso, non fa eccezione. L’ordine incentrato sull’ONU si basa quindi sul diritto internazionale – veramente universale – da cui consegue che ogni Stato dovrebbe attenersi a tale diritto.

La Russia, come la maggior parte della comunità mondiale, non ha mai avuto difficoltà a farlo. Ma l’Occidente non è mai guarito dalla sua sindrome di eccezionalismo e conserva le sue abitudini neocoloniali, cioè di vivere a spese degli altri. Le relazioni interstatali basate sul rispetto del diritto internazionale non sono state, fin dall’inizio, di gradimento dell’Occidente.

L’ex sottosegretario di Stato americano Victoria Nuland una volta ha ammesso francamente, in un’intervista, che “Yalta non è stato un buon accordo per noi, non era un accordo che avremmo dovuto concludere”. Questo tipo di atteggiamento spiega molto bene il comportamento internazionale dell’America; nel 1945, Washington fu praticamente costretta ad accettare a malincuore l’ordine mondiale postbellico, già percepito come un ostacolo dall’élite americana, che ben presto cercò di rivederlo. La revisione iniziò con il famigerato discorso della Cortina di ferro di Winston Churchill a Fulton nel 1946, che dichiarò essenzialmente una guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Percependo gli accordi di Yalta-Potsdam come una concessione tattica, gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno mai seguito il principio fondamentale della Carta delle Nazioni Unite sull’uguaglianza sovrana degli Stati.

L’Occidente ha avuto la fatidica occasione di raddrizzare la rotta, di dimostrare prudenza e lungimiranza, quando l’Unione Sovietica è crollata insieme al campo socialista mondiale. Tuttavia, gli istinti egoistici hanno prevalso. Rivolgendosi al Congresso l’11 settembre 1990, inebriato dalla “vittoria nella Guerra Fredda”, il Presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush proclamò l’avvento di un nuovo ordine mondiale[3], un ordine che gli strateghi americani intendevano come un completo dominio degli Stati Uniti nell’arena internazionale, come una finestra di opportunità per agire unilateralmente senza alcun riguardo per le restrizioni legali incorporate nella Carta delle Nazioni Unite.

Una manifestazione dell'”ordine basato sulle regole” è stata la politica di Washington di assorbimento geopolitico dell’Europa orientale. La Russia è stata costretta a eliminarne le conseguenze esplosive con l’operazione militare speciale.

Nel 2025, con il ritorno al potere dell’amministrazione repubblicana di Donald Trump, l’interpretazione di Washington dei processi internazionali a partire dalla Seconda Guerra Mondiale ha assunto una nuova dimensione, come descritto vividamente in Senato dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio il 15 gennaio: non solo l’ordine mondiale del dopoguerra è superato, ma è stato trasformato in un’arma contro gli interessi statunitensi[4]. In altre parole, non solo l’ordine di Yalta-Potsdam è indesiderabile; lo è anche l'”ordine basato sulle regole” che sembrava incarnare l’egoismo e l’arroganza dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti dopo la Guerra Fredda. “L’America prima di tutto” assomiglia in modo allarmante allo slogan hitleriano “La Germania prima di tutto” e la scommessa sulla “pace attraverso la forza” potrebbe essere il colpo finale alla diplomazia. Per non parlare del fatto che tali dichiarazioni e costruzioni ideologiche non mostrano nemmeno un minimo di rispetto per gli obblighi legali internazionali di Washington ai sensi della Carta delle Nazioni Unite.

Tuttavia, oggi non siamo nel 1991 e nemmeno nel 2017, quando il Presidente degli Stati Uniti in carica ha preso il timone per la prima volta. Gli analisti russi notano giustamente che “non ci sarà un ritorno allo stato precedente delle cose, ancora ricercato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, perché le condizioni demografiche, economiche, sociali e geopolitiche sono cambiate in modo irreversibile”[5]. Probabilmente è vera anche la previsione secondo cui alla fine “gli Stati Uniti capiranno che non devono estendere eccessivamente la loro area di responsabilità negli affari internazionali e vivranno abbastanza armoniosamente come uno degli Stati leader, ma non più come egemone”[6].

Il multipolarismo sta guadagnando slancio e, invece di opporvisi, gli Stati Uniti potrebbero diventare nel prossimo futuro un centro di potere responsabile insieme a Russia, Cina e altri Stati del Sud, dell’Est, del Nord e dell’Ovest del mondo. Per il momento, sembra che la nuova amministrazione statunitense lancerà incursioni da cowboy per testare i limiti e la durata dell’attuale sistema ONU-centrico rispetto agli interessi americani. Ma sono certo che anche questa amministrazione comprenderà presto che la realtà internazionale è molto più complessa delle caricature che è libera di distribuire davanti al pubblico interno americano o agli obbedienti alleati geopolitici.

Nell’attesa che gli americani smaltiscano la sbornia e se ne rendano conto, continueremo a lavorare coscienziosamente con i nostri partner che la pensano allo stesso modo per adattare i meccanismi delle relazioni interstatali al multipolarismo e al consenso giuridico internazionale di Yalta-Potsdam, incarnato nella Carta delle Nazioni Unite. Vale la pena ricordare la Dichiarazione di Kazan dei BRICS del 23 ottobre 2024, che riafferma chiaramente l’impegno unitario della Maggioranza Mondiale “per il multilateralismo e per la difesa del diritto internazionale, compresi gli scopi e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite come sua indispensabile pietra angolare e il ruolo centrale dell’ONU nel sistema internazionale”[7]. Questo approccio è stato formulato dai principali Stati che danno forma al mondo moderno e rappresentano la maggioranza della sua popolazione. Sì, i nostri partner del Sud e dell’Est hanno desideri abbastanza legittimi per quanto riguarda la loro partecipazione alla governance globale. A differenza dell’Occidente, loro e noi siamo pronti a discussioni oneste e aperte su tutte le questioni.

La nostra posizione sulla riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è ben nota[8]. La Russia cerca di rendere questo organo più democratico ampliando la rappresentanza della Maggioranza Mondiale: Asia, Africa e America Latina. Sosteniamo le candidature del Brasile e dell’India per ottenere seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza, e allo stesso tempo lavoriamo per correggere – con mezzi concordati dagli stessi africani – l’ingiustizia storica nei confronti del continente africano. L’assegnazione di ulteriori seggi ai Paesi dell’Occidente collettivo, già sovrarappresentati nel Consiglio di Sicurezza, è controproducente. Germania e Giappone, avendo delegato gran parte della loro sovranità ai loro patroni d’oltremare e avendo iniziato a far rivivere i fantasmi del nazismo e del militarismo in patria, non possono apportare nulla di nuovo al lavoro del Consiglio di Sicurezza.

Siamo fortemente impegnati nell’inviolabilità delle prerogative dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Data la politica imprevedibile della minoranza occidentale, solo il potere di veto può garantire che le decisioni del Consiglio tengano conto degli interessi di tutte le parti.

La politica del personale del Segretariato delle Nazioni Unite rimane un insulto alla Maggioranza Mondiale, poiché gli occidentali continuano a predominare in tutte le posizioni chiave. L’allineamento della burocrazia delle Nazioni Unite alla mappa geopolitica del mondo non può essere rimandato, come affermato in modo inequivocabile nella già citata Dichiarazione di Kazan dei BRICS. Vedremo quanto la leadership delle Nazioni Unite, abituata a servire gli interessi di un ristretto gruppo di Paesi occidentali, sarà ricettiva a questo appello.

Per quanto riguarda il quadro normativo della Carta delle Nazioni Unite, sono convinto che esso risponda in modo ottimale alle esigenze dell’era multipolare, un’era in cui tutti devono osservare – non solo a parole, ma anche nei fatti – i principi dell’uguaglianza sovrana degli Stati, della non ingerenza nei loro affari interni e altri principi fondamentali. Tali principi includono il diritto dei popoli all’autodeterminazione, la cui interpretazione consensuale è sancita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui principi del diritto internazionale del 1970: l’integrità territoriale di uno Stato deve essere rispettata se il suo governo rappresenta l’intera popolazione. Va da sé che, dopo il colpo di Stato del febbraio 2014, il regime di Kiev non rappresenta il popolo della Crimea, del Donbass o della Novorossiya più di quanto le potenze occidentali rappresentassero i popoli dei territori coloniali che sfruttavano.

I tentativi sfacciati di riordinare il mondo nel proprio interesse, violando i principi delle Nazioni Unite, possono portare instabilità, scontri e persino catastrofi. Considerato l’attuale livello di tensioni internazionali, un rifiuto sconsiderato del sistema di Yalta-Potsdam, con al centro l’ONU e la sua Carta, porterà inevitabilmente al caos.

Si sente spesso dire che è prematuro parlare dell’ordine mondiale desiderato in un momento in cui stiamo ancora combattendo per sopprimere le forze sostenute dall’Occidente del regime razzista di Kiev. A nostro avviso, si tratta di un approccio sbagliato. I contorni dell’ordine mondiale postbellico e i punti chiave della Carta delle Nazioni Unite sono stati discussi dagli alleati al culmine della Seconda guerra mondiale, tra cui la Conferenza dei ministri degli Esteri di Mosca e la Conferenza dei capi di Stato e di governo di Teheran nel 1943, e durante altri contatti tra le future potenze vincitrici, fino alle Conferenze di Yalta e Potsdam nel 1945. Sebbene i nostri alleati avessero già un’agenda segreta, ciò non ha sminuito l’importanza duratura dei principi supremi dell’uguaglianza, della non ingerenza negli affari interni, della soluzione pacifica delle controversie e del “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”.

L’Occidente ha evidentemente sottoscritto questi principi con secondi fini, per poi violarli gravemente in Jugoslavia, Iraq, Libia e Ucraina, ma questo non significa che dovremmo sollevare gli Stati Uniti e i loro satelliti dalle responsabilità morali e legali, o che dovremmo abbandonare l’eredità unica dei fondatori dell’ONU, incarnata nella Carta delle Nazioni Unite[9]. Se, Dio non voglia, qualcuno tenta di riscriverla (con il pretesto di sbarazzarsi del sistema “obsoleto” di Yalta-Potsdam), il mondo non avrà più valori guida comuni.

La Russia è pronta a un lavoro comune e onesto per bilanciare gli interessi delle parti e rafforzare i principi legali delle relazioni internazionali. L’iniziativa del Presidente Vladimir Putin del 2020 per un incontro dei leader dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che hanno “una responsabilità speciale per la conservazione della civiltà”[10], cercava un dialogo equo su tutte queste questioni. Per le note ragioni che sfuggono al controllo della Russia, questa iniziativa non è andata oltre. Ma noi continuiamo a sperare, anche se i partecipanti e il formato di questi incontri potrebbero ora essere diversi. La cosa più importante, secondo Putin, è “ritrovare la comprensione di ciò per cui le Nazioni Unite sono state create e seguire i principi enunciati nei loro documenti fondanti”[11]. Questa dovrebbe essere la principale linea guida per regolare le relazioni internazionali nell’era multipolare che si è aperta.

 


[1] RGP, 2020. Можно ли представить мир без ООН? [Possiamo immaginare un mondo senza l’ONU?]. Tavola rotonda della CFDP e della Fondazione Gorchakov Rossiya v globalnoi politike, 26 novembre. Disponibile a: https://globalaffairs.ru/articles/mozhno-li-predstavit-mir-bez-oon/ [Consultato il 31 gennaio 2025].

[2] Ibid.

[3] Bush, George H.W., 1990. Discorso davanti a una sessione congiunta del Congresso sulla crisi del Golfo Persico e sul deficit del bilancio federale. Progetto della Presidenza americana. Disponibile a: https://www.presidency.ucsb.edu/documents/address-before-joint-session-the-congress-the-persian-gulf-crisis-and-the-federal-budget [Consultato il 31 gennaio 2025].

[4] Rubio, M., 2025. Osservazioni di apertura del Segretario di Stato designato Marco Rubio davanti alla Commissione per le relazioni estere del Senato, 15 gennaio 2025. I siti ufficiali utilizzano .gov.  Disponibile all’indirizzo: https://www.state.gov/opening-remarks-by-secretary-of-state-designate-marco-rubio-before-the-senate-foreign-relations-committee/ [Consultato il 31 gennaio 2025].

[5] Lukyanov, F.A., 2025. Verso il basso. Russia in Global Affairs, 23(1). Disponibile a: https://eng.globalaffairs.ru/articles/downward-lukyanov/ [Consultato il 31 gennaio 2025].

[6] Sushentsov, A.A., 2023. Lo sgretolamento dell’ordine mondiale e una visione del multipolarismo: La posizione della Russia e dell’Occidente. Valdai Discussion Club, 20 novembre 2023. Disponibile a: https://valdaiclub.com/a/highlights/the-crumbling-of-the-world-order-and-a-vision/ [Consultato il 31 gennaio 2025].

[7] 16° Vertice BRICS, 2024. Dichiarazione di Kazan. Rafforzare il multilateralismo per uno sviluppo e una sicurezza globali giusti. Kazan, Federazione Russa, 23 ottobre 2024. Disponibile a: https://cdn.brics-russia2024.ru/upload/docs/Kazan_Declaration_FINAL.pdf?1729693488349783 [Consultato il 31 gennaio 2025].

[8] Si veda: Lavrov, S.V., 2023. Multilateralismo e diplomazia autentici contro l'”ordine basato sulle regole”. Russia in Global Affairs, 21(3). Disponibile all’indirizzo: https://eng.globalaffairs.ru/articles/genuine-multilateralism/ https://eng.globalaffairs.ru/articles/genuine-multilateralism/[Consultato il 31 gennaio 2025].

[9] Cfr: Lavrov, S.V., 2023. Соблюдение принципов Устава ООНо всей их совокупности и взаимосвязи – залог международного мира и стабильности [L’osservanza dei principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro totalità e congiunzione è una garanzia di pace e stabilità internazionale]. Rossiya v globalnoi politike, 21(6). Disponibile a: https://globalaffairs.ru/articles/soblyudenie-princzipov-ustava-oon/ [Consultato il 31 gennaio 2025].

[10] Putin, V., 2020. Ricordare l’Olocausto: Forum sulla lotta all’antisemitismo. 23 gennaio 2020 Presidente della Russia. Disponibile su: http://en.kremlin.ru/events/president/news/62646 [Consultato il 31 gennaio 2025].

[11] Putin, V., 2025. Conferenza stampa dopo i colloqui russo-iraniani. 17 gennaio 2025. Presidente della Russia. Disponibile a: http://en.kremlin.ru/events/president/transcripts/76126 [Consultato il 31 gennaio 2025].

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Pietra, forbici, carta_di Aurelien

Pietra, forbici, carta.

Ovvero, l’Europa dopo l’Ucraina.

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Ho scritto diverse volte su come potrebbe finire la guerra in Ucraina e su cosa potrebbe seguirla. Ho parlato dell’incapacità dell’Occidente di capire cosa stia realmente accadendo nella guerra, e perché, e cosa questo significhi, così come della sua ossessione per gli ultimi gadget e aggeggi. Ho sottolineato che risposte facili come “spendere più soldi” e “riportare il servizio di leva” non sono possibili, e che se fossero possibili non sarebbero comunque efficaci.

Ma le cose stanno andando avanti e l’Occidente sta cominciando a riconoscere che non può ottenere tutto ciò che vuole, che non potrà dettare i termini della pace o i termini di un futuro rapporto con la Russia e che dovrà avere un qualche tipo di strategia per affrontare l’Europa e il mondo che sono ora in fase di costruzione.

Ma le cose sono andate più o meno così: una breve pausa nel dominio occidentale, un “accordo”, mediato dagli Stati Uniti come parte neutrale, alcune concessioni a malincuore mentre l’Ucraina viene riarmata, e poi via di nuovo. Non credo ci siano parole per descrivere adeguatamente quanto queste idee siano lontane dalla realtà, ma al momento questa realtà è troppo strana e spaventosa per essere contemplata, e la finestra di Overton dei possibili pensieri sul futuro non si è mossa abbastanza da permettere anche al più coraggioso politico o opinionista occidentale di parlarne. Arriverà; non facilmente e non rapidamente, ma arriverà.

Quindi dovremo fare il lavoro per loro, o almeno stabilire in cosa potrebbe consistere una parte del lavoro. Il problema è che farlo significa disimparare quel poco che le élite politiche occidentali e la Casta Professionale e Manageriale (PMC) pensano di sapere sulla strategia e sulla politica di sicurezza, e iniziare un processo di educazione correttiva dalle fondamenta. Non sono la persona adatta a farlo – non sono sicuro di chi lo sia – ma posso forse offrire alcune idee, con la solita avvertenza che non sono un esperto militare di alcun tipo.

Permettetemi di spiegare innanzitutto perché questo è necessario. Le élite politiche contemporanee e i loro parassiti sono essenzialmente ignoranti (se i maiali mi perdonano) in materia di politica di sicurezza, strategia e questioni militari. A dire il vero, sono ignoranti anche su molte altre cose, ma l’ignoranza in questo settore è forse più preoccupante che in molti altri. Ha origini complicate e disordinate, che probabilmente non sono identiche in nessuno dei due casi. Storicamente, la guerra e la strategia sono state questioni importanti per gli Stati. Tendevano a interessare in modo sproporzionato la destra tradizionale (anche se c’erano delle eccezioni, come in Francia), ma i politici di tutte le convinzioni durante la Guerra Fredda erano obbligati a pensarci, e alle loro conseguenze pratiche, in una certa misura.

Ma al giorno d’oggi la classe politica occidentale funziona in base a una strana miscela di neoliberismo economico di destra e di polvere normativa liberale, nessuna delle quali è particolarmente simpatica dal punto di vista intellettuale alla strategia e agli affari militari, e può persino essere apertamente sprezzante nei loro confronti. In assenza di una grande guerra in Europa, o anche solo della reale prospettiva di una guerra, le operazioni militari erano diventate una bizzarra miscela di “mantenimento della pace” o “costruzione della nazione”, e di violente punizioni inflitte ai Paesi che non facevano quello che volevamo. L’effettivo interesse politico per le lezioni militari e strategiche dell’Afghanistan durante il periodo di massima presenza occidentale, ad esempio, è stato pietosamente ridotto. Non è stato necessario che la classe politica e la PMC imparassero nulla sugli affari strategici e militari e, quindi, all’improvviso, si sono trovati completamente smarriti.

Ora, naturalmente, è altrettanto sbagliato lamentarsi del fatto che la classe politica non sia specializzata in questioni militari. Nessuno si aspetta che un Ministro della Difesa sia un esperto militare, così come non si aspetta che un Ministro dei Trasporti sia un ex macchinista. Il loro compito è la direzione politica e la gestione delle forze armate, e questo richiede una serie di competenze diverse. Allo stesso modo, i militari occidentali di alto livello hanno trascorso la loro carriera operativa in guerre su piccola scala o nel mantenimento della pace, e in ogni caso hanno bisogno di tutta una serie di altre competenze per svolgere il loro lavoro oltre al semplice comando in guerra. Ma – ed è un grosso ma – gli istituti di difesa occidentali possono essere ragionevolmente criticati per non essersi tenuti aggiornati sugli sviluppi in Russia e in Cina e sulla possibilità di una guerra convenzionale su larga scala, e sui preparativi che sarebbero necessari per essa. Come ho già detto in diverse occasioni, un conto è fare i dispetti ai russi quando ci si è preparati per un potenziale conflitto, un altro è fare i dispetti ai russi senza nemmeno pensare, per quanto ne so, alla produzione, alle scorte e alla mobilitazione, è una colpevole incompetenza. (A proposito, non mi sembra ovvio cosa abbiano fatto i ministri della Difesa delle nazioni occidentalinell’ultima generazione o giù di lì).

In questo contesto non sorprende che circolino essenzialmente due concetti vaghi sulla futura sicurezza occidentale, soprattutto nel contesto della Russia. Uno è la corsa all’ultima tecnologia intelligente che in qualche modo ci “proteggerà” e ripristinerà il “vantaggio tecnologico” dell’Occidente, l’altro è una sorta di nuova strategia, che forse coinvolge un rilancio della NATO, che qualcuno elaborerà, che farà qualcosa o altro per migliorare le cose. Affronterò entrambe le questioni, ma non in modo isolato l’una dall’altra perché, come dovrebbe essere ovvio, gli aggeggi tecnologici, per quanto intelligenti, sono inutili se non si sa cosa si vuole fare con essi e come si inseriscono nei propri piani generali. Pertanto, l’intelligenza artificiale non vincerà la guerra in Ucraina, ma può aiutare in modi specifici: i russi stanno già utilizzando l’intelligenza artificiale per consentire ai droni di selezionare i propri obiettivi. Ho già detto abbastanza sull’ignoranza dell’Occidente in materia di strategia e sulla sua conseguente incapacità di comprendere ciò che sta accadendo in Ucraina: qui voglio spostare l’accento su come potremmo pensare al futuro. Ciò richiede un chiaro concetto di interesse collettivo, che alla fine potrebbe essere impossibile da trovare, ma richiede anche, come minimo, un’idea coerente di quali tecnologie potrebbero essere rilevanti e utili in un’ampia gamma di scenari. Ciò richiede a sua volta una comprensione adeguata delle dinamiche di sviluppo delle tecnologie militari, argomento che quasi nessuno nei governi occidentali sembra conoscere.

Consideriamo ad esempio i “droni”. I veicoli aerei senza equipaggio (UAV) esistono in varie forme dalla Seconda Guerra Mondiale e, come ogni tecnologia militare, devono essere usati correttamente per essere utili. Nella vostra infanzia potreste aver giocato a Sasso, Forbici, Carta o a un gioco simile. In sostanza, nessuna scelta è sempre dominante: le forbici tagliano la carta, la carta avvolge la pietra e la pietra smussa le forbici. Tutto dipende dalla scelta che fa l’avversario. Così con i droni o con qualsiasi altra tecnologia: i droni danno visibilità a lungo raggio e la possibilità di attaccare con precisione piccoli bersagli. D’altra parte, la loro efficacia è limitata dalle condizioni atmosferiche, d’altra parte cominciano a comparire i raggi infrarossi e altre versioni più esotiche, d’altra parte sono più costose e difficili da utilizzare. Allo stesso modo, i droni possono essere molto precisi e letali, ma d’altra parte le contromisure EW sono ormai ampiamente diffuse, d’altra parte i russi stanno ora distribuendo droni controllati da cavi a fibre ottiche che non possono essere disturbati, d’altra parte sembrano esistere droni killer in grado di abbattere i droni nemici.

Quindi la risposta a qualsiasi domanda sul valore della tecnologia militare è: dipende. In particolare, i tecno-entusiasti hanno l’abitudine di consegnare le vecchie tecnologie alla spazzatura perché le contromisure esistono e spesso sono molto più economiche della piattaforma. Bene, ma questo vale per tutte le tecnologie, ovunque e in ogni momento. Una spada costosa e sofisticata poteva essere smussata da uno scudo molto più economico. Inoltre, le lance erano generalmente più economiche delle spade e richiedevano un minore addestramento. Buttate via le spade. L’essere umano Mk 1, con anni di addestramento e masse di attrezzature costose, può essere sconfitto da un singolo proiettile a basso costo. Sbarazziamoci della fanteria.

Il punto, naturalmente, è che tutto dipende dal contesto, dal mix di armi sul campo di battaglia, agli obiettivi tattici e operativi della missione, fino allo scopo strategico del conflitto. Poiché sembra che i governi occidentali non stiano riflettendo su nessuno di questi tre livelli, vediamo se possiamo farlo noi per loro. Ma prima vediamo alcuni esempi di capacità militari del tipo che i governi dovranno prendere in considerazione e perché tutto dipende dal contesto.

La prima cosa da tenere a mente è di stare molto attenti all’argomento che “X” è “superato sul campo di battaglia”. Prendiamo l’esempio più apparentemente lampante: il cavallo. Gli eserciti del 1914 sono stati derisi da allora per aver schierato la cavalleria, ma all’epoca era il mezzo migliore per condurre ricognizioni e schermare le proprie forze. Nelle prime fasi della guerra, prima che i fronti si solidificassero, la cavalleria fu molto utilizzata nella sua funzione tradizionale. E questo è solo l’Occidente: sul fronte orientale ci furono enormi battaglie di cavalleria, fino alla guerra russo-polacca del 1921. (I cavalli furono ovviamente utilizzati in modo massiccio dai tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale e, come amava sottolineare un ufficiale di cavalleria che conoscevo, un’unità di cavalleria tedesca fu l’unica a penetrare nei sobborghi di Mosca nel 1941. Peraltro, l’esercito francese usava i cavalli in Algeria: potevano attraversare praticamente tutti i terreni, non richiedevano manutenzione o pezzi di ricambio e si rompevano raramente.

Piuttosto, le tecnologie militari – e questo sarà altrettanto vero in futuro – sono generalmente progettate per un contesto specifico, possono essere successivamente adattate ad altri e possono essere vulnerabili, o avere poco valore, in altri ancora. Farò tre esempi. Cominciamo con il carro armato principale.

Una volta che le linee del fronte si erano assestate alla fine del 1914, le tradizionali manovre di aggiramento divennero impossibili e la densità delle forze rese gli attacchi frontali difficili e costosi. Sebbene l’artiglieria potesse causare morte e distruzione nelle linee tedesche, i suoi effetti potevano essere solo intuiti, data la distanza a cui veniva sparata, e le truppe dovevano essere inviate alla cieca. I tedeschi impararono presto a lasciare relativamente poche truppe in prima linea e a ripararsi durante i bombardamenti. Mentre le truppe britanniche (in particolare) si facevano strada attraverso il campo di battaglia devastato, i tedeschi sopravvissuti uscivano dai loro rifugi con le loro mitragliatrici e le truppe dietro la linea del fronte si schieravano per fermare ulteriori avanzamenti. Poiché era impossibile sapere dove fossero state distrutte le difese, e poiché era anche impossibile per le truppe d’assalto comunicare con i loro quartieri generali, gli attacchi erano costosi e spesso inutili.

Gli inglesi pensarono quindi a un “distruttore di mitragliatrici corazzate”, in grado di attraversare il terreno aperto, sfondare le difese di filo spinato e consentire alle truppe di avanzare. Dopo la guerra, visionari come Tukhachevsky e De Gaulle svilupparono l’idea fantastica di interi eserciti di carri armati che sciamavano senza opposizione sul campo di battaglia. Sebbene sia vero che le contromisure disponibili all’epoca fossero molto scarse, l’affidabilità e la mobilità dei carri armati non erano lontanamente compatibili con tali fantasie già nel 1940. Mentre i tedeschi fecero un uso efficace dei carri armati, combinati con gli aerei e le comunicazioni radio, per disturbare l’esercito francese nel 1940, la potenza aerea rese presto difficile la vita dei carri armati e verso la fine della guerra furono sviluppate armi anticarro trasportabili dall’uomo. (I carri armati che combattono contro i carri armati, tra l’altro, erano uno sviluppo che gli ideatori non avevano previsto).

La morte del carro armato è stata proclamata a gran voce dopo la guerra del Medio Oriente del 1973, quando gli israeliani tentarono cariche di cavalleria su larga scala contro la fanteria armata di armi anticarro, ottenendo risultati peggiori. Ma si trattò di un classico esempio di eccessiva fiducia in un’arma, senza pensare al contesto più ampio. Gli inglesi avevano già iniziato a sviluppare corazze composte per resistere alle armi anticarro, e negli ultimi cinquant’anni si è assistito a un’incredibile profusione di misure difensive attive e passive contro le armi anticarro. A loro volta, come si è visto in Ucraina, i missili sono stati ottimizzati per attaccare la superficie superiore dei carri armati, solitamente meno protetta. E naturalmente sono iniziati a comparire dei contatori sotto forma di gabbie anti-drone.

Sarà evidente, quindi, che “il carro armato è obsoleto?” è la domanda sbagliata da porre. Dipende dal contesto, dipende dall’obiettivo, dipende dal nemico, dipende da quali altre armi vengono utilizzate. Soprattutto, dipende da cosa si vuole fare. La vera domanda per i governi occidentali può essere riassunta come segue:

“Dopo la guerra in Ucraina, e per almeno la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità di una potenza di fuoco blindata, altamente mobile e protetta, meglio armata e protetta dei veicoli da combattimento di fanteria, e in aggiunta ad altre armi impiegate in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”

Naturalmente anche questa è solo una parte della questione. C’è una domanda preliminare che riguarda la possibilità che l’Occidente preveda un conflitto con un avversario di pari livello sulla terraferma. C’è poi la questione secondaria se il carro armato (e in tal caso quale tipo di carro armato) sia il mezzo migliore per soddisfare una parte di questa esigenza. Per quanto ne sappiamo, i russi in Ucraina non hanno fatto un uso estensivo dei carri armati moderni e ci sono stati pochi dei previsti duelli carro armato contro carro armato. Sembra che li usino nel loro ruolo tradizionale di potenza di fuoco mobile e protetta a distanza. Dai video disponibili, sembra che i russi conducano la maggior parte dei loro attacchi con veicoli della serie BMP, piuttosto che con carri armati, e con il supporto di droni e artiglieria. Queste tattiche sembrano funzionare abbastanza bene in Ucraina, ma ovviamente quel contesto è molto specifico.

Non ho visto alcun tentativo tra gli opinionisti occidentali di affrontare tali questioni in modo approfondito. In effetti, la saggezza diffusa sembra essere ancora quella di ritenere che gli equipaggiamenti e la dottrina occidentali siano intrinsecamente superiori, per cui non c’è bisogno di alcun ripensamento. Lo stesso, a quanto vedo, vale per la potenza aerea, dove la domanda “l’aereo con equipaggio è obsoleto?” è raramente posta e, anche se lo fosse, è comunque una domanda sbagliata.

In questo caso, la speranza era quella di “scavalcare” le difese nemiche e attaccare le aree posteriori vulnerabili. Alcuni appassionati vedevano nell’aeroplano un modo per sferrare un rapido “colpo di grazia” al Paese nemico e porre fine alla guerra in pochi giorni. Altri speravano che avrebbe dominato il campo di battaglia e distrutto concentrazioni di truppe e fortificazioni. All’epoca si riteneva generalmente che, secondo le parole di Stanley Baldwin nel 1932, l’aereo d’attacco sarebbe “sempre riuscito a passare”.

All’epoca, in effetti, c’erano tutte le ragioni per pensare che fosse così. Non c’era modo di rilevare e identificare in modo affidabile gli aerei fino a quando non erano molto vicini, né di trasmettere e amalgamare tali informazioni e ordinare una risposta. Nel momento in cui si potevano far decollare i caccia, gli aerei che attaccavano avevano già rilasciato le loro armi, ed era impossibile comunicare con i caccia (la cui resistenza era comunque piuttosto limitata) una volta in volo. Questo permetteva a un attacco di sorpresa di distruggere gran parte delle forze aeree del nemico, come accadde alla Polonia nel 1939, alla Francia nel 1940 e persino all’Unione Sovietica nel 1941. Ma non alla Gran Bretagna nel 1940. Perché?

La risposta breve è il radar, che permetteva agli inglesi di vedere gli aerei tedeschi in attacco e di organizzare una risposta. Ma in realtà il radar era solo una parte, anche se molto importante, di una capacità che fu sviluppata a partire dalla metà degli anni Trenta. La piena capacità si basava su una valutazione della situazione strategica e sulla convinzione che i bombardamenti diurni con equipaggio fossero una minaccia. Il risultato fu lo sviluppo di veloci caccia monoplani, la costruzione di nuovi aerodromi, la creazione di un efficace sistema di comando e controllo e l’integrazione del radar con altre forme di allarme e segnalazione. Naturalmente, il radar non era la fine della storia. Le contromisure ai radar furono sviluppate anche durante la guerra, furono sviluppati nuovi tipi di radar, le contromisure elettroniche e le contromisure proliferarono in seguito, e furono sviluppati missili appositamente per colpire i sistemi radar.

Gli aerei con equipaggio sono cambiati radicalmente nelle dimensioni e nella velocità, sono passati dal volare al di sopra del raggio di intercettazione a volare a livello molto basso per evitare il rilevamento radar e i missili, fino a diventare una piattaforma multiuso che spesso agisce in piccoli numeri contro obiettivi che non possono rispondere al fuoco. In Ucraina, i russi hanno cercato il controllo dell’aria attraverso l’uso di missili e, quando hanno usato direttamente gli aerei, spesso lo hanno fatto a lungo raggio, lanciando armi a distanza. I droni a lungo raggio sono stati utilizzati da entrambe le parti, ma sono soggetti a inceppamenti e, se pilotati automaticamente, non possono cambiare bersaglio o far fronte agli imprevisti.

Dove ci porta questo? Beh, come minimo ci lascia con la seguente domanda:

“Dopo la guerra in Ucraina, e almeno per la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità che gli aerei con equipaggio svolgano una o più funzioni di combattimento definite, in quale rapporto con altre armi come i missili impiegati in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”.

Non sto trattenendo il fiato in attesa di una risposta, o addirittura che la domanda venga posta. Ma se non si sa quale capacità si vuole e perché la si vuole, gli entusiasmi transitori per questo o quel pezzo di equipaggiamento militare sono inutili.

Ci sono molti altri esempi possibili, ma mi limiterò a toccarne rapidamente uno completamente diverso. La portaerei è stata dichiarata morta più volte di quanto riesca a ricordare, ma oggi sono in servizio più Paesi che in qualsiasi altro momento della storia. Ancora una volta, però, il problema non è un pezzo di equipaggiamento, ma una capacità.

Una portaerei è il cuore di una capacità di proiezione della forza. In altre parole, consente a un Paese di proiettare forze terrestri, marittime e aeree più lontano di quanto potrebbe fare operando dal proprio territorio nazionale. A sua volta, ciò offre tutta una serie di potenziali vantaggi politici e strategici. Una portaerei moderna può trasportare aerei da combattimento, velivoli da allarme rapido, elicotteri di vario tipo e un contingente di truppe, spesso fino a un battaglione equivalente. Avrà anche un ospedale completamente attrezzato e strutture per la riparazione e la manutenzione dell’equipaggiamento. Avrà capacità di raccolta di informazioni, comunicazioni sicure verso l’interno e capacità di comando e controllo delle operazioni. Tuttavia, ha bisogno di scorte per la protezione antiaerea e antisommergibile e di solito è accompagnata da una nave da rifornimento.

Le navi così grandi sono sempre state vulnerabili: per quanto ne so, la prima portaerei ad essere affondata in azione è stata la HMS Glorious al largo della Norvegia nel 1940. Come per tutte le capacità, il trucco consiste nello sfruttare i punti di forza delle armi evitando il più possibile le debolezze. Dire che una portaerei può essere affondata da un missile a basso costo non ha senso: è sempre stato così. L’idea è di tenere la portaerei al riparo dai pericoli e di proteggerla dagli imprevisti. Ci sono alcune aree, in particolare gli stretti marittimi o le zone vicine alla costa, in cui le portaerei non dovrebbero comunque essere schierate.

Una delle ragioni principali dello schieramento delle portaerei è il controllo del mare: la capacità di controllare quali navi passano in quali aree. Spesso lo scopo principale di questa attività è politico e di deterrenza, e il sottomarino, che può certamente affondare navi ostili, è un’arma essenzialmente discreta e nascosta che non può essere usata a scopo di deterrenza o di applicazione della legge: al giorno d’oggi i sottomarini non hanno cannoni di coperta e passano il loro tempo sommersi. Se si vogliono effettuare pattugliamenti in elicottero, inseguire i pirati con piccole imbarcazioni, abbordare navi o interrogare avvistamenti su vasta scala e organizzati, è necessario disporre di una base terrestre/marittima sicura (e costosa) da cui operare, oppure avere una portaerei da qualche parte. Lo stesso vale per l’evacuazione di cittadini in caso di emergenza, il salvataggio di ostaggi e così via, dove il mare è il mezzo di passaggio preferito. Quindi, ancora una volta, la questione non riguarda l’equipaggiamento, ma il mantenimento o meno di una capacità. Si potrebbe eseguire:

“Dopo la guerra in Ucraina, e almeno per la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità di una capacità di proiezione di potenza marittima a qualsiasi livello di forza, benevola o conflittuale, in quale rapporto con altre armi come i sottomarini impiegati in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”.

Ancora una volta, mi stupirei se una riflessione di questo tipo fosse effettivamente in corso.

Spero che quanto sopra sia sufficiente a sfatare l’idea che la salvezza dell’Occidente dopo l’Ucraina derivi dal perseguimento di questo o quell’aggeggio, o di questa o quella nuova tecnologia. Il fatto è che, dalla fine della Guerra Fredda, l’Occidente è stato strategicamente alla deriva, con le sue filosofie di approvvigionamento e le sue strutture di forza spinte da pressioni politiche e finanziarie, e ostacolato dall’oscillazione tra il generale disinteresse della classe politica ignorante e i suoi improvvisi e violenti entusiasmi. Inoltre, dal momento che le leadership politiche avevano ben poca idea di cosa fare con i loro militari, questi ultimi, come il resto del settore pubblico occidentale, sono stati trattati come tele su cui inscrivere i disegni sociali ed economici della PMC. Solo ora, all’ombra dell’Ucraina, si comincia a chiedersi se un po’ più di attenzione alla strategia, alle strutture e alla dottrina non avrebbe fatto male. In realtà, oggi c’è una confusione totale tra ciò che le forze armate occidentali dovrebbero fare e ciò che in pratica viene chiesto loro di fare. (David Hume sospira e dice: “Perché la gente confonde ancora Is e Ought?”) Gli Stati occidentali non hanno politiche di sicurezza in quanto tali; tutto ciò che hanno è un elenco di cose che fanno. Alcune di queste cose sono una questione di abitudine, altre sono vincoli del passato, poche sono scelte liberamente e razionalmente tra una serie di alternative.

Senza dubbio ci saranno revisioni della sicurezza dopo l’Ucraina: alcune potrebbero essere utili. Ma la maggior parte, purtroppo, seguirà probabilmente lo schema degli ultimi trent’anni, limitandosi a dire (1) il mondo è un posto complesso con ogni sorta di questioni difficili e quindi (2) dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo, ma anche comprare le attrezzature X, Y e Z. Sarebbe sbagliato criticare troppo: le persone che scrivono questi documenti (io sono stato coinvolto in piccola parte) sono generalmente molto limitate politicamente in quello che possono dire e nelle conclusioni a cui possono arrivare, oltre che dall’enorme peso del passato e del presente.

Ma forse possiamo fare meglio di così. Se potessimo partire da un foglio di carta pulito, come potremmo progettare una politica di sicurezza per l’Europa dopo l’Ucraina che non sia solo un insieme di espedienti e di politiche attuali riconfezionate? Penso che si possa partire da due giudizi di base.

Il primo è che la politica di contenimento della Russia dopo il 2014 si è ritorta contro di noi in modo disastroso. L’Ucraina, lungi dall’essere un argine all’attacco russo, una postazione avanzata dell’Occidente ben armata e dotata di massicce fortificazioni difensive, ha provocato proprio l’attacco che intendeva prevenire. Invece di essere un deterrente, è stata vista come una provocazione: un risultato che non avrebbe dovuto sorprendere nessuno con la minima conoscenza della storia russa. E anche i trogloditi che avrebbero accolto con favore un attacco russo, leccandosi i baffi al pensiero di una sconfitta e di un cambio di regime a Mosca, dovranno accettare che le loro speranze sono andate disastrosamente in fumo. Da ogni punto di vista – militare, politico, strategico, economico – l’Occidente è più debole oggi di quanto non fosse prima della guerra, e non c’è un modo evidente per rimediare a queste debolezze.

Pertanto, tentare di ripetere la stessa politica sarebbe inutile e potenzialmente disastroso, anche se i russi lo permettessero in qualche modo. L’Occidente (compresi gli Stati Uniti) non ha, e non può acquisire, una capacità convenzionale tale da “bilanciare” o anche solo avvicinare quella della Russia: anche un numero molto elevato di navi di superficie, sottomarini e jet da combattimento non è rilevante in questo caso. (Quindi, cercare di ricostruire grandi forze convenzionali di terra e di aria per un ipotetico conflitto convenzionale con la Russia non vale la pena, anche se fosse possibile. Questo non significa abbandonare del tutto le forze di terra, come vedremo, ma significa usarle per cose sensate.

In ogni caso, dove si svolgerebbe questo ipotetico conflitto e di cosa si tratterebbe? Guardiamo una mappa. In primo luogo, sembra improbabile che la Russia, il più grande Paese del mondo, abbia bisogno di altro territorio, e ancor meno che sia disposta a combattere per ottenerlo. Ci sono quindi solo due possibilità. La prima è una disputa territoriale o di confine con un vicino. Supponendo che l’Ucraina sia governata da un governo neutrale e ragionevole, quali altre possibilità ci sono? Tanto per cominciare, è molto difficile immaginare che l’Estonia o la Romania entrino deliberatamente in conflitto con la Russia per i confini (o viceversa, se è per questo): che senso avrebbe e cosa potrebbero sperare di guadagnare? Allo stesso modo, mentre la NATO, assorbendo la Finlandia, si è premurosamente dotata di un confine molto lungo e indifendibile, è difficile capire perché una delle due parti dovrebbe voler combattere per questo.

Il secondo, anche se altrettanto improbabile, sarebbe una grande crisi tra la Russia e “l’Occidente” o “l’Europa”, che portasse a un conflitto su larga scala. Come in precedenza, però, le aree in cui ciò potrebbe avvenire sono molto poche. In questo caso, siamo ancora una volta vittime concettuali della Guerra Fredda, in cui eserciti massicci si sono effettivamente affrontati direttamente (come del resto hanno fatto spesso nel corso della storia). Anche in questo caso, è sufficiente guardare la mappa. Ma se, per qualche ragione ultraterrena, la Russia decidesse di attaccare attraverso la Romania, l’Occidente non potrebbe opporsi in modo utile. Questo non perché i russi siano superuomini, né perché la loro tecnologia sia necessariamente enormemente superiore, ma piuttosto a causa della geografia, che si può cambiare solo prosciugando l’Atlantico. Inoltre, anche in un conflitto con uno Stato (relativamente) ben armato come la Polonia, è probabile che i russi usino principalmente missili a lungo raggio per distruggere campi d’aviazione, concentrazioni di truppe, depositi logistici, centri di comando e controllo e snodi di trasporto, dopodiché si tratterebbe in gran parte di raccogliere i pezzi.

La seconda è che la sconfitta in Ucraina cambierà sostanzialmente il panorama strategico occidentale, in modi che non possiamo davvero prevedere. Quello che possiamo dire è che rischia un altro congelamento delle differenze politiche che sono state soppresse durante la Guerra Fredda, per poi emergere molto brevemente alle sue conclusioni. Chiunque abbia seguito la crisi ucraina saprà che ha portato a ogni sorta di idee selvagge su chi debba possedere quale territorio, chi lo possedeva prima, chi vuole un po’ dell’Ucraina post-1991 e così via. Ciò non sorprende, poiché i massicci spostamenti di confini e popolazioni dopo il 1945, decisi essenzialmente da Stalin per motivi di sicurezza, hanno lasciato eredità che non si sono mai realmente concretizzate e che comunque non hanno una soluzione “giusta” o “equa”. Questo problema è emerso brevemente dopo la Guerra Fredda, ma è stato in generale contenuto, con la significativa eccezione della Jugoslavia. Una ragione ampiamente misconosciuta per l’espansione della NATO è stata quella di cercare di portare il maggior numero possibile di Stati all’interno di una struttura che limitasse le loro aspirazioni territoriali più selvagge e i loro rancori storici.

Ma semmai la sconfitta in Ucraina rischia di liberare ancora una volta queste tensioni. La stessa NATO sarà nel migliore dei casi poco convincente, nel peggiore ridondante come organizzazione. Probabilmente continuerà in qualche forma perché nessuno vorrà assumersi la responsabilità di ucciderla, ma non è attrezzata per gestire dispute territoriali e politiche di questo tipo. Nemmeno l’UE lo è: gestire le grandi tensioni politiche non è come gestire le quote latte.

Da generazioni ormai gli europei si servono degli Stati Uniti come contrappeso alle dimensioni e alla potenza sovietica e poi russa. Come ho sottolineato più volte, gli Stati Uniti non hanno mai “difeso” l’Europa, ma potrebbero essere portati in gioco come forza politica equilibratrice in caso di una grave crisi in Europa. Dopo il primo test dal vivo di questa ipotesi, si scopre che era sbagliata, e probabilmente lo è sempre stata. Gli Stati Uniti non sono ora in grado di offrire all’Europa nulla di importante e, dato lo stato della loro economia e delle loro forze armate, questo probabilmente non è un male per loro. Per molto tempo, gli europei hanno temuto che le voci isolazioniste di Washington prendessero il sopravvento. Ora probabilmente lo faranno, ma si è tentati di dire che alla fine probabilmente non farà molta differenza. D’altra parte, alcuni Paesi europei potrebbero decidere che, in realtà, sarebbe meglio migliorare leggermente le loro relazioni con la Russia.

Un’Europa frammentata e abbandonata dovrà quindi riflettere a fondo. Dobbiamo sperare che, per la prima volta da molto, molto tempo, l’Europa prenda finalmente sul serio la Russia e le sue preoccupazioni, superando la paura della guerra fredda e l’altrettanto irragionevole senso di superiorità che l’ha seguita. Si tratterà di uno sviluppo massiccio, che richiederà un cambiamento politico altrettanto massiccio: forse equivalente a quello successivo al 1945, quando molti raggruppamenti politici esistenti furono semplicemente spazzati via. L’epico broncio di cui ho spesso parlato può durare solo fino a un certo punto, quando la capacità di azione è così limitata, e la storia suggerisce che in tali situazioni nuove forze politiche finiranno per sorgere e trovare popolarità.

L’Europa si troverà quindi in una situazione familiare: una serie di Stati deboli nelle vicinanze di uno grande e potente, che in questa occasione si sono deliberatamente alienati. La Russia non invaderà l’Europa, ma non è questo il problema. Il semplice fatto esistenziale delle sue dimensioni e della sua potenza, insieme alla debolezza dei suoi vicini, condizionerà le relazioni politiche tra la grande potenza e gli altri. Per alcuni occidentali questo è difficile da capire (gli americani, secondo la mia esperienza, lo trovano impossibile), ma è un dato di fatto e viene compreso nella maggior parte del mondo.

La risposta migliore, a mio avviso, sarebbe duplice. La prima sarebbe il riconoscimento di interessi comuni da parte degli Stati europei, compresa la percezione che alcuni interessi potrebbero non essere in realtà comuni, o condivisi in modo molto disomogeneo. Questo sconsiglia la creazione di ulteriori burocrazie e trattati di sicurezza, ma piuttosto una cooperazione ad hoc (che potrebbe includere gli Stati Uniti e altre potenze esterne) su questioni di interesse comune. Tale cooperazione porterà naturalmente a strutture di forza e ad approvvigionamenti per sostenerle. Il più grande interesse comune sarà l’affermazione dell’indipendenza e dell’identità collettiva: non in modo aggressivo, perché sarebbe inutile, e non cercando faticosamente di individuare interessi comuni dove non esistono, ma in modo da agire, per quanto possibile, positivamente nell’equilibrio di potere tra Russia ed Europa.

Classicamente, ciò avviene attraverso l’affermazione di confini e interessi. Avrebbe quindi senso disporre di aerei da combattimento per il pattugliamento dei confini dello spazio aereo e dei mari del Nord e del Baltico, spesso organizzato a livello multilaterale. Allo stesso modo, aerei ottimizzati per il pattugliamento antisommergibile sarebbero un buon investimento, mentre quelli per la penetrazione e l’attacco al suolo sarebbero uno spreco di denaro, oltre che potenzialmente destabilizzanti. I sottomarini e le fregate e i cacciatorpediniere antisommergibile potrebbero essere adatti alle circostanze. Allo stesso modo, il mantenimento di almeno alcune forze di terra è un modo tradizionale di esprimere la sovranità nazionale e la volontà di difenderla. Tutto ciò farebbe parte di una strategia coerente, essenzialmente politica, per aumentare l’indipendenza e la libertà d’azione dell’Europa di fronte al suo gigantesco vicino: carta per avvolgere la pietra, pietra per smussare le forbici. Senza dubbio le forze paranoiche di Mosca potrebbero considerare tali azioni potenzialmente aggressive, ma questo è un rumore del sistema internazionale con cui bisogna convivere.

Al di là di questo, è necessario prendere decisioni strategiche sulla proiezione di forze, tenendo presente che non ci sono vuoti in politica, e si può presumere che altri, da altre parti del mondo, faranno i loro piani di intervento quando sarà chiaro che gli europei non possono farlo. Ma queste decisioni saranno difficili e comunque lontane nel tempo.

Certo, non avremmo mai dovuto partire da qui. Posso solo pensare che se trent’anni fa fossero state prese decisioni migliori, ora non ci troveremmo in questa situazione. All’epoca alcuni di noi pensavano che fosse urgente trovare un modo di convivere con Mosca, ma nessuno di noi aveva lo status o l’influenza per influenzare le politiche che furono scelte. Ora c’è un’altra opportunità di prendere decisioni sensate, in una situazione in cui l’Europa è enormemente più debole e gli Stati Uniti sono di fatto fuori dai giochi. La migliore speranza, ironia della sorte, è che tali decisioni siano spesso imposte agli Stati da fattori che essi non possono controllare, e che siano loro gradite o meno.

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Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto_recensione di Luca di Felice

Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto, Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00.

Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.

Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.

Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria). La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.

Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.

Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.

Luca di Felice

La lotta contro il diritto – copertina

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Il ritiro militare della Francia e il riallineamento dell’Africa, di Paulo Aguiar, M.A.

La tragedia e l’autolesionismo delle nazioni europee: dopo aver tagliato volontariamente i ponti con la Russia, sono tagliati fuori dall’Africa, grazie alla loro subordinazione atlantista e al retaggio coloniale. Su quali basi vorranno preservare la loro parvenza di autonomia, le loro forniture energetiche e la loro capacità industriale sarà un mistero_Giuseppe Germinario

Il ritiro militare della Francia e il riallineamento dell’Africa

Con l’ingresso nel vuoto di Russia, Cina e altri attori emergenti, l’equilibrio di potere in Africa sta subendo una trasformazione fondamentale.


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Panoramica

 

La lunga influenza della Francia nell’Africa francofona si sta dissolvendo ad un ritmo accelerato. Nell’ultimo anno, un’ondata di riallineamenti politici e militari ha portato all’espulsione delle truppe francesi e alla risoluzione degli accordi di difesa in diverse nazioni. Il Ciad è stato l’ultimo Paese a rompere i legami, prendendo ufficialmente il controllodell’ultima base militare francese a N’Djamena il 31 gennaio 2025. Questo segue mosse simili in Mali, Burkina Faso e Niger. Con l’arretramento della Francia, nuovi attori di potere – tra cui Russia, Cina e Turchia – stanno intervenendo per rimodellare le dinamiche economiche e di sicurezza della regione. Questi sviluppi hanno implicazioni di vasta portata per la stabilità regionale, le relazioni economiche e l’impegno dell’Occidente in Africa.


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Sviluppi chiave

 

Il ritiro militare della Francia e la fine degli accordi di difesa

 

  • La rottura strategica del Ciad:La Francia ha concluso la sua presenza militare in Ciad, trasferendo formalmente la sua ultima base al governo locale. Questo segna la fine di un patto di difesa che esisteva da decenni, risalente agli accordi post-indipendenza che posizionavano la Francia come fornitore di sicurezza chiave. Le forze francesi hanno svolto un ruolo cruciale nelle operazioni antiterrorismo e negli sforzi di stabilizzazione regionale, ma la crescente insoddisfazione locale per il coinvolgimento e l’influenza militare della Francia ha portato alla decisione di separarsi.

  • Uno schema di espulsioni: Mali, Burkina Faso e Niger hanno tutti estromesso le forze militari francesi e le hanno sostituite con accordi di sicurezza alternativi. Questi governi, spesso guidati da giunte militari, hanno cercato di affermare la propria sovranità e di allontanarsi dall’influenza storica della Francia, rivolgendosi invece a partner non occidentali per il sostegno alla difesa e alla sicurezza. In particolare, i consiglieri militari sostenuti dalla Russia sono intervenuti per colmare il vuoto di sicurezza, promettendo misure di controinsurrezione più incisive.

  • Futuro incerto per i restanti avamposti francesi: Con solo Gibuti e Gabon che ospitano basi militari francesi, la longevità dell’impronta di sicurezza della Francia in Africa è in discussione. Gibuti rimane un avamposto critico grazie alla sua posizione strategica lungo lo stretto di Bab el Mandeb, che ospita diverse basi militari straniere, tra cui quelle di Stati Uniti, Cina e Giappone. Il Gabon, tuttavia, si trova ad affrontare l’instabilità politica dovuta alle recenti transizioni di governo, il che solleva la possibilità che la sua leadership possa riconsiderare i legami militari con la Francia. Se il Gabon seguirà la tendenza regionale, la Francia potrebbe perdere un’altra base chiave, erodendo ulteriormente la sua influenza sul continente.

L’ascesa di nuove alleanze e nuovi attori di potere

 

  • La crescente impronta della Russia: Mali, Burkina Faso e Niger si sono orientati verso il sostegno militare russo, in particolare attraverso l’Africa Corps, affiliato a Wagner, in cambio di garanzie di sicurezza e accordi economici. Le forze russe stanno capitalizzando il sentimento antifrancese per espandere la loro influenza nella regione, offrendo assistenza militare con minori condizioni politiche rispetto ai governi occidentali.

  • L’espansione della leva economica cinese: Mentre la Francia si ritira, le imprese cinesi stanno perseguendo in modo aggressivo progetti infrastrutturali e minerari, assicurandosi un accesso critico alle risorse naturali dell’Africa. La Belt and Road Initiative (BRI) della Cina ha guadagnato terreno, con le nazioni africane che guardano sempre più a Pechino per finanziamenti e partnership di sviluppo, in particolare in settori come i trasporti, l’energia e le telecomunicazioni.

  • La Turchia e gli Emirati Arabi Uniti entrano in scena: Il Ciad e altre nazioni guardano sempre più alla Turchia e agli Emirati Arabi Uniti per l’addestramento militare, l’approvvigionamento di armi e la cooperazione strategica. La crescente presenza militare della Turchia in Africa è sostenuta dalla sua industria della difesa, che fornisce droni e veicoli blindati, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno approfondito i legami attraverso patti di sicurezza e investimenti economici, in particolare nella regione del Sahel.

Problemi di sicurezza e sfide dell’antiterrorismo

 

  • Minacce terroristiche in crescita: Il vuoto lasciato dalle forze francesi ha incoraggiato gruppi militanti come Boko Haram e ISWAP, permettendo loro di riorganizzarsi, espandere gli sforzi di reclutamento e lanciare attacchi transfrontalieri più frequenti. La rinascita di questi gruppi è particolarmente preoccupante nella Nigeria settentrionale, nel bacino del Lago Ciad e nella regione tri-frontaliera tra Mali, Burkina Faso e Niger. Con le forze di sicurezza ridotte al lumicino, queste fazioni estremiste stanno sfruttando la debolezza delle strutture di governance e la porosità dei confini per riaffermare la loro influenza.

Regione africana del Sahel. (Encyclopædia Britannica).
  • Stabilità di confine a rischio:Il movimento di armi e militanti nella regione ha acuito le tensioni, mentre le fazioni militanti tuareg e le forze governative competono per il dominio territoriale. Il crescente ricorso a gruppi paramilitari russi, soprattutto in Mali e Burkina Faso, ha portato a scontri con le fazioni locali e ha sollevato crescenti preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani e le azioni extragiudiziali.

  • Perdita di risorse chiave di intelligence: L’abbandono della Francia significa che le nazioni africane perdono l’accesso a sofisticati meccanismi di condivisione dell’intelligence, tra cui la sorveglianza con i droni e il coordinamento dell’antiterrorismo. In precedenza, le basi militari francesi fornivano dati critici in tempo reale sui movimenti degli estremisti, aiutando a prevenire gli attacchi. Senza queste risorse, le forze locali si trovano ad affrontare una significativa lacuna nel monitorare e rispondere alle minacce emergenti. Il passaggio a partner alternativi, come la Russia e la Turchia, potrebbe non compensare immediatamente questo deficit di intelligence, aumentando la probabilità di avanzamenti militanti inaspettati e di destabilizzazione.

Ricadute economiche e conseguenze politiche

 

  • Un clima commerciale ostile per le aziende occidentali: i governi del Mali e del Niger stanno dando priorità al controllo nazionale sulle risorse, attuando misure restrittive nei confronti delle aziende occidentali e favorendo invece le aziende russe e cinesi.

  • La migrazione come leva strategica: Con l’affermazione del dominio della sicurezza da parte della Russia, cresce la preoccupazione che le rotte migratorie dall’Africa all’Europa possano essere manipolate per ottenere una leva geopolitica. L’aumento dell’instabilità e delle difficoltà economiche nel Sahel potrebbe spingere ondate migratorie verso l’Europa, intensificando la pressione sui governi europei affinché negozino con i nuovi mediatori di potere regionali.

  • Nazionalismo antifrancese in aumento: I leader politici in tutta l’Africa occidentale stanno facendo leva sul sentimento antifrancese per consolidare il sostegno interno, rafforzando le richieste di sovranità economica e politica. Le manifestazioni pubbliche contro la Francia sono aumentate, con richieste di risarcimenti e cambiamenti di politica che limitino ulteriormente il coinvolgimento occidentale negli affari nazionali.



Implicazioni strategiche e prospettive future

 

Per la Francia:

 

  • L’erosione dell’influenza militare indebolisce la sua capacità di proiettare potere in Africa e di mantenere un punto d’appoggio strategico.

  • Le imprese francesi devono affrontare crescenti ostacoli economici e normativi, poiché i governi africani favoriscono partner alternativi.

  • Gli sforzi di Macron per rivitalizzare le relazioni della Francia con l’Africa sono falliti, segnando di fatto la fine della “Françafrique” come realtà geopolitica.

  • La diminuzione dell’influenza avrà probabilmente un impatto sulla più ampia politica estera della Francia, costringendo Parigi a ripensare i suoi impegni strategici in altre ex colonie e oltre.

  • Per riconquistare una posizione di rilievo nella regione, la Francia potrebbe dover ricorrere a strategie di soft power, come la diplomazia culturale e i partenariati economici.

Per l’Europa:

 

  • Una potenziale ondata migratoria dal Sahel metterà a dura prova le politiche europee di gestione delle frontiere.

  • Gli Stati membri dell’UE devono ricalibrare le loro politiche estere e di sicurezza per rispondere alla diminuzione della presenza francese nella regione.

  • Il crescente dominio della Cina sui mercati africani rappresenta una sfida a lungo termine per l’influenza economica europea.

  • Le aziende europee che operano nell’Africa francofona potrebbero trovarsi ad affrontare una maggiore concorrenza da parte delle imprese russe e cinesi, rendendo necessarie politiche commerciali e di investimento più incisive.

  • L’UE potrebbe dover prendere in considerazione iniziative diplomatiche ed economiche alternative per contrastare la perdita di influenza in Africa.

Per gli Stati Uniti:

 

  • Washington deve rivalutare il suo approccio all’antiterrorismo in Africa senza che la Francia guidi le operazioni di sicurezza, in particolare nelle regioni in cui gruppi jihadisti come Boko Haram e Al-Qaeda nel Maghreb islamico rimangono attivi. Senza una solida presenza di sicurezza occidentale, il rischio che le reti estremiste espandano la loro influenza aumenta in modo significativo.

  • Assicurarsi partner affidabili per la stabilità regionale sarà fondamentale, dato che Russia e Cina stanno guadagnando terreno. Gli Stati Uniti dovranno rafforzare i legami diplomatici con le nazioni africane e migliorare la cooperazione economica e militare per contrastare la crescente influenza degli attori non occidentali.

  • L’ascesa di attori non occidentali potrebbe complicare gli impegni diplomatici e militari degli Stati Uniti in tutto il continente, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza delle risorse strategiche e il mantenimento dell’accesso alle reti di condivisione dell’intelligence. Le mutevoli alleanze delle nazioni africane potrebbero richiedere a Washington di adattare il proprio quadro politico per garantire una continua influenza e stabilità.

  • Il Pentagono potrebbe anche dover riconsiderare l’ubicazione delle sue basi e i suoi dispiegamenti militari per mantenere una presenza operativa in regioni chiave come il Sahel e il Corno d’Africa.

Per la Russia e la Cina:

 

  • La Russia rafforza la sua influenza geopolitica: Mentre la Francia si ritira, la Russia si inserisce nel vuoto della sicurezza, espandendo la sua portata e assicurandosi l’accesso alle risorse strategiche dell’Africa. Gli appaltatori militari e le iniziative diplomatiche russe stanno aumentando di importanza, radicando ulteriormente l’influenza di Mosca nei principali Stati africani.

  • Il dominio economico della Cina cresce: Con il ritiro delle imprese occidentali, gli investimenti cinesi nelle infrastrutture, nella tecnologia e nell’estrazione delle risorse africane stanno accelerando, rafforzando ulteriormente l’influenza di Pechino. I progetti cinesi della Belt and Road Initiative (BRI) continuano ad espandersi, consolidando le relazioni economiche a lungo termine di Pechino con i governi africani e aumentando la dipendenza dal sostegno finanziario cinese per le infrastrutture critiche.


Donazione


Conclusione

 

Il ritiro della Francia dal Ciad e da altre nazioni africane è più di una riconfigurazione militare: rappresenta un profondo cambiamento geopolitico. Le nazioni africane stanno affermando la propria indipendenza e perseguendo partnership globali diversificate, allontanandosi dalla loro storica dipendenza dalle potenze occidentali. Con l’ingresso nel vuoto di Russia, Cina e altri attori emergenti, l’equilibrio di potere in Africa sta subendo una trasformazione fondamentale. Questa transizione segna la fine del dominio decennale della Francia e inaugura una nuova era di impegno multipolare, riallineamento strategico e geopolitica competitiva in Africa.

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Gli Stati Uniti hanno dichiarato la fine dell’ordine mondiale unipolare? _ di Glenn Diesen

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TRUMP 2: IL MONDO STA CAMBIANDO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

TRUMP 2: IL MONDO STA CAMBIANDO

 

 

Esiste una nettissima differenza fra come “quelli che contano” accolsero il “Trump 1” (quello del 2017) e come la settimana scorsa hanno accolto il “Trump 2”. Il primo era considerato un fenomeno passeggero, un tizio che per puro caso era riuscito a battere Hillary Clinton, imbucandosi alla Casa Bianca. Si pensava che sarebbe stato facile liquidarlo, magari organizzando qualche protesta woke per la solita canagliata del solito poliziotto violento, o scagliandogli contro qualche attricetta alla ricerca di pubblicità gratuita e/o qualche baldo magistrato di belle speranze. E – la mia è solamente una teoria complottista – se proprio The Donald si fosse ostinato a non voler sloggiare dalla studio ovale, allora sarebbe forse bastato qualche provvidenziale “aiutino” per limare i risultati negli Stati-chiave e scongiurare il pericolo di una sua rielezione.

Bene, se questo era il clima del 20 gennaio 2017, completamente diverso è stato quello del 20 gennaio 2025. Adesso nessuna facile ironia, nessun sorrisetto di condiscendenza, nessun ottimismo da salotto radical chic, né dagli avversari politici né dai commentatori “indipendenti” di giornali e tv (anche nostrani); ma soltanto una cupa rassegnazione a quello che potrebbe essere lo spartiacque fra il mondo sognato da lor signori e il ritorno ad un mondo “normale”, senza la dittatura del “politicamente corretto”, senza il ridicolo della cancel culture, senza la follìa del gender, senza l’autolesionismo dello ius soli e dell’accoglionimento generale, senza l’obbrobrio dei una incredibile ideologia green che minaccia interi comparti della nostra economia.

Si, il clima diverso non lo si avvertiva soltanto, ma era concreto, palpabile. Chiaro e evidente come certe imbarazzate giustificazioni sul recente passato, come certe improvvise conversioni, come certe divertenti rincorse per balzare sul carro del vincitore.

Non è soltanto effetto della dimensione della vittoria trumpiana del novembre scorso. È la quasi certezza che sia davvero finita un’epoca e che ne stia iniziando un’altra, destinata a durare anche quando l’attempato Trump avrà terminato il suo secondo quadriennio. Dopo di lui verrà probabilmente il suo giovane vice, J.D. Vance, e poi altri che – repubblicani o democratici che siano – si muoveranno comunque al di fuori dell’ubriacatura autolesionista che ha infettato l’America e l’intero Occidente in questi ultimi anni.

Perché dico questo? Perché la vittoria trumpiana non è arrivata da sola, ma è stata invece accompagnata da una serie di terremoti politici sull’altra riva dell’Atlantico. A cominciare dai grandi paesi europei, dalla Francia, dalla Germania, dalla stessa Italia (malgrado il moderatismo della Meloni), per continuare con i più piccoli: l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Romania, e gli altri, man mano che andranno a svolgersi le elezioni.

Finora la cupola fedele all’UE e alla NATO è riuscita a limitare i danni, ricorrendo a trucchetti antidemocratici come quello di promuovere alleanze “antifasciste” di tutti gli altri partiti. Ma fino a quando riusciranno ad imporre un andazzo del genere? In Austria – è notizia di questi giorni – i popolari sembrano essersi rassegnati a governare insieme ai sovranisti filoputiniani. In Francia il presidentuzzo Macron è riuscito ad assemblare tutti i partiti per evitare la vittoria della Le Pen, ma non riesce a mettere insieme un governo con un minimo di respiro. In Romania sono stati costretti ad annullare il primo turno delle presidenziali per scongiurare il pericolo di un trionfo del candidato nazionalista al secondo turno, ma il risultato sarà probabilmente confermato a breve, quando le elezioni dovranno essere ripetute. E in Germania ci si avvicina alle elezioni con AfD a un passo dal diventare il primo partito tedesco.

Ecco perché, questa volta, Trump fa più paura agli “anti”. Perché è l’espressione americana di un fenomeno globale, perché è il prodotto di una reazione dei popoli occidentali contro chi li voleva privare delle loro identità nazionali, etniche, culturali, religiose, finanche della identità sessuale dei singoli individui.

Certo, “loro” non si rassegneranno facilmente. Ma, a meno di voler imporre il “modello Romania” dappertutto (come ventilato nei giorni scorsi dall’ex commissario europeo Breton) la “resistenza” avrà ben poche speranze di successo.

Ben venga, quindi, la “nuova età dell’oro” americana. Ma, occhi aperti: con Trump o con Biden o con chiunque altro, gli interessi americani (e inglesi) sono contrari agli interessi europei.

Il nostro interesse, per esempio, è quello di essere “dipendenti dal gas russo”. L’interesse degli USA, al contrario, è quello di venderci il loro gas. A prezzi da capogiro, naturalmente.

RALLO – Trump 2 (575)

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