Verso il multipolarismo tra complessità e semplificazioni Con Tiberio Graziani e Federico Bordonaro

Se la tendenza delle dinamiche geopolitiche volge sempre più verso una fase multipolare o policentrica non è detto che le ambizioni e le volontà dei centri decisori siano in grado di adattarsi ed intendano accettare questa nuova condizione. Il divario tra la complessità crescente del confronto e del conflitto politico e il desiderio di semplificazione delle trame in corso costituisce il fattore più destabilizzante che può portare ad una esacerbazione incontrollata dello scontro. Ne parliamo con Federico Bordonaro e Tiberio Graziani sulla falsariga di due interessanti monografie edite e curate dai due autori. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Teoria della manovra e guerra fredda, di BIG  SERGE

Teoria della manovra e guerra fredda

La storia del combattimento: Manovra, parte 22

La supremazia militare americana è un articolo di fede per la maggior parte degli americani, che garantisce alle forze armate una forte resistenza all’ampio declino della fiducia che i cittadini hanno nelle loro istituzioni pubbliche. Il Congresso, il Presidente, i tribunali, le banche e le aziende tecnologiche sono tutti pessimi e corrotti agli occhi della maggior parte degli americani, male forze armate, in modo quasi unico, mantengono la fiducia e il sostegno della maggioranza. L’opinione prevalente rimane quella che le forze armate americane siano le più addestrate, tecnologicamente avanzate, guidate con competenza e liberamente equipaggiate del mondo. Il colossale bilancio della difesa americana è praticamente un punto di orgoglio.

L’America è sicuramente una delle grandi nazioni marziali della storia mondiale. In genere ha vinto i conflitti convenzionali, e li ha vinti alla grande. Conserva capacità leader a livello mondiale in molti settori, un’enorme proiezione di potenza e produce uomini eccezionali che combattono. Dove gli americani sbagliano, però, è nel considerare questa eccellenza come una legge di natura. Un esercito non è una tigre, dettata dalla biologia per essere il predatore più grande, più veloce e più potente del mondo. È piuttosto un’istituzione che si evolve e impara nel corso del tempo, sviluppando particolari schemi di guerra che possono o meno essere ben calibrati per particolari ambienti operativi.

Nella seconda metà del XX secolo, durante quella peculiare condizione di sicurezza che chiamiamo Guerra Fredda, l’Esercito degli Stati Uniti è stato sottoposto a un’altalena di cambiamenti istituzionali – smobilitando rapidamente dopo la sconfitta della Germania, scoprendo la propria impreparazione in Corea e cannibalizzandosi in Vietnam. Nel 1970, l’Esercito americano si trovava in uno stato di evidente crisi, con i suoi stessi vertici sempre più preoccupati della loro capacità di vincere una guerra terrestre ad alta intensità. Da questa crisi, tuttavia, le forze terrestri americane iniziarono una risalita verso l’apice, con una dottrina operativa radicalmente rinnovata, nuovi programmi di armamento e un impegno rinvigorito a combattere una guerra di manovra di marca americana.

La minaccia: Stalin in Manciuria

La Seconda Guerra Mondiale ha avuto una strana simmetria, in quanto si è conclusa più o meno come era iniziata: con un esercito ben addestrato, tecnicamente avanzato e ambizioso dal punto di vista operativo che faceva a pezzi un nemico troppo forte. L’inizio della guerra, ovviamente, fu il rapido annientamento della Polonia da parte della Germania, che riscrisse il libro delle operazioni meccanizzate. La fine della guerra – o almeno, l’ultima grande campagna terrestre della guerra – fu la conquista altrettanto totalizzante e rapida della Manciuria da parte dell’Unione Sovietica nell’agosto 1945.

La Manciuria era uno dei tanti fronti dimenticati della guerra, nonostante fosse tra i più antichi. I giapponesi si aggiravano in Manciuria dal 1931, consolidando una pseudo-colonia e uno Stato fantoccio apparentemente chiamato Manchukuo, che servì da trampolino di lancio per più di un decennio di incursioni e operazioni giapponesi in Cina. Per un breve periodo, il fronte terrestre asiatico era stato un importante perno degli affari mondiali, con i giapponesi e l’Armata Rossa che combattevano una serie di scaramucce lungo il confine siberiano-malese e l’invasione della Cina del 1937, estremamente violenta, che aveva fatto presagire una guerra globale. Ma gli eventi avevano attirato l’attenzione e le risorse in altre direzioni, in particolare gli eventi del 1941, con lo scoppio della cataclismatica guerra nazi-sovietica e della Grande Guerra del Pacifico. Dopo essere stata per alcuni anni un importante perno geopolitico, la Manciuria fu relegata in secondo piano e divenne un fronte solitario e dimenticato dell’Impero giapponese.

Fino al 1945, cioè. Tra i molti argomenti discussi alla Conferenza di Yalta nel febbraio di quell’anno c’era l’ingresso a lungo ritardato dell’Unione Sovietica nella guerra contro il Giappone, aprendo un fronte terrestre contro le colonie continentali giapponesi. Sebbene sembri relativamente ovvio che la sconfitta giapponese fosse inevitabile, data l’inarrestabile avanzata americana nel Pacifico e l’inizio di bombardamenti strategici regolari sulle isole nipponiche, c’erano ragioni concrete per cui l’ingresso in guerra dei sovietici era necessario per accelerare la resa del Giappone.

Più specificamente, i giapponesi continuarono a nutrire la speranza che l’Unione Sovietica scegliesse di agire come mediatore tra il Giappone e gli Stati Uniti, negoziando una fine condizionale della guerra che non fosse la resa totale del Giappone. L’entrata in guerra dei sovietici contro il Giappone avrebbe fatto naufragare queste speranze e l’invasione delle colonie giapponesi in Asia avrebbe sottolineato a Tokyo che non avevano più nulla per cui combattere. In questo contesto, l’Unione Sovietica passò l’estate del 1945 a prepararsi per un’ultima operazione, quella di distruggere i giapponesi in Manciuria.

Cannoni semoventi sovietici in movimento in Asia

Lo schema di manovra sovietico era strettamente coreografico e ben concepito, rappresentando per molti versi una sorta di bis, una dimostrazione perfezionata dell’arte operativa che era stata sviluppata e praticata a così alto costo in Europa. Sfruttando il fatto che la Manciuria rappresentava già una sorta di saliente – proteso verso i confini dell’Unione Sovietica – il piano d’attacco prevedeva una serie di rapide spinte motorizzate verso una serie di nodi ferroviari e di trasporto nelle retrovie giapponesi (da nord a sud, questi erano Qiqihar, Harbin, Changchun e Mukden).

Aggirando rapidamente le principali armate campali giapponesi e convergendo verso gli snodi di transito nelle retrovie, l’Armata Rossa avrebbe di fatto isolato tutte le armate giapponesi sia tra loro che dalle loro linee di comunicazione verso le retrovie, tagliando di fatto la Manciuria in una serie di sacche separate.

Naturalmente c’erano una serie di ragioni per cui i giapponesi non avevano alcuna speranza di resistere a questo assalto. In termini materiali, l’overmatch era risibile. Le forze sovietiche erano riccamente equipaggiate e piene di uomini ed equipaggiamenti: tre fronti per un totale di oltre 1,5 milioni di uomini, 5.000 veicoli blindati e decine di migliaia di pezzi d’artiglieria e lanciarazzi.

I giapponesi (comprese le forze per procura della Manciuria) avevano una forza di circa 900.000 uomini, ma la stragrande maggioranza di questa forza era inadatta al combattimento. Praticamente tutte le unità e gli equipaggiamenti veterani dell’esercito giapponese erano stati costantemente trasferiti nel Pacifico in uno stillicidio cannibalizzante, nel vano tentativo di rallentare l’assalto americano. Di conseguenza, nel 1945 l’Esercito del Kwantung giapponese era stato ridotto a una forza di leva poco armata e scarsamente addestrata, adatta solo ad azioni di polizia e di controinsurrezione contro i partigiani cinesi.

L’Armata Rossa entra in Manciuria

In realtà, per i giapponesi non c’era nulla da fare. L’Esercito del Kwantung aveva molte meno possibilità di combattere nel 1945 di quante ne avesse la Wehrmacht nella primavera di quell’anno, e tutti sanno come è andata a finire. Non sorprende quindi che i sovietici abbiano sfondato ovunque a piacimento quando hanno iniziato l’assalto il 9 agosto. Le forze corazzate sovietiche trovarono banalmente facile superare le posizioni giapponesi (armate principalmente con armi anticarro arcaiche e di basso calibro che non potevano penetrare la corazza sovietica nemmeno a bruciapelo), e alla fine del primo giorno le tenaglie sovietiche si stavano spingendo fino alle retrovie.

Tempesta d’agosto: L’invasione sovietica della Manciuria (9-20 agosto 1945)

È facile, col senno di poi, considerare la campagna di Manciuria come una specie di farsa: un’Armata Rossa con grande esperienza e riccamente equipaggiata, che ha sopraffatto e abusato di una forza giapponese superaccessoriata e debole. Per molti versi, questa è una valutazione accurata. Tuttavia, ciò che l’offensiva dimostrò fu l’estrema abilità dell’Armata Rossa nell’organizzare enormi operazioni e nel muoversi ad alta velocità. Il 20 agosto (dopo soli 11 giorni), l’Armata Rossa aveva raggiunto il confine con la Corea e aveva catturato tutti gli obiettivi nelle retrovie giapponesi, di fatto sbaragliando completamente un teatro più grande della Francia. Molte delle punte di lancia sovietiche avevano percorso più di trecento miglia in poco più di una settimana.

A dire il vero, gli aspetti bellici dell’operazione erano inverosimili, dato il livello totalizzante di superiorità dei sovietici. Le perdite dell’Armata Rossa furono di circa 10.000 uomini, un numero insignificante per un’operazione di questa portata. Ciò che era veramente impressionante – e terrificante per gli osservatori attenti – era la chiara dimostrazione della capacità dell’Armata Rossa di organizzare operazioni di dimensioni colossali, sia per le dimensioni delle forze che per le distanze coperte.

Più precisamente, i giapponesi non avevano alcuna prospettiva di fermare questa colossale onda d’acciaio, ma chi l’aveva? Tutti i grandi eserciti del mondo erano stati mandati in bancarotta e frantumati dal grande filtro delle guerre mondiali – i francesi, i tedeschi, gli inglesi, i giapponesi, tutti morti, tutti moribondi. Solo l’esercito americano aveva qualche prospettiva di resistere a questa grande onda rossa, e questa forza era sull’orlo di una rapida smobilitazione dopo la resa del Giappone. Le enormi dimensioni e le propensioni operative dell’Armata Rossa presentavano quindi al mondo un tipo di minaccia geostrategica completamente nuovo.

Le forze sovietiche inizieranno a ritirarsi formalmente dalla Manciuria e dalla Corea nel 1946, ma al loro ritiro lasceranno in eredità macchine politiche comuniste consolidate e ben sostenute, tra cui il Partito dei Lavoratori di Corea sotto il presidente Kim Il Sung e il Partito Comunista Cinese sotto il presidente Mao Zedong. A questo proposito, il comunismo si dimostrò un’ideologia molto più agile e adattabile dal punto di vista geopolitico rispetto al nazismo o all’imperialismo giapponese, in quanto predicava un’ideologia millenaria, transnazionale e apparentemente scientifica, in grado di motivare i partiti politici autoctoni, e il governo sovietico aveva già sviluppato meccanismi istituzionali collaudati per mobilitare risorse e mantenere il monopolio politico. In altre parole, mentre il nazismo era sempre stato chiaramente per i tedeschi e solo per i tedeschi, il comunismo poteva reclutare e galvanizzare i credenti locali in tutto il mondo, e il modello sovietico poteva fornire loro gli strumenti per prendere e mantenere il potere.

A differenza del nazismo, il comunismo ha avuto la capacità di mobilitare e organizzare quadri ideologicamente motivati in tutto il mondo.

L’Unione Sovietica rappresentava quindi una triplice minaccia geopolitica unica nel suo genere. Aveva una capacità statale sorprendente, in quanto in grado di mettere in campo eserciti enormi e di farli rotolare su spazi di dimensioni continentali; aveva una penetrazione ideologica e un’attrattiva derivante dalle pretese universalizzanti del comunismo e da un messaggio attraente di giustizia sociale e di abbondanza scientificamente ordinata; e aveva un modello collaudato di istituzioni politiche efficaci che potevano consentire ai partiti comunisti locali di stabilire potenti monopoli politici. Se si aggiunge tutto questo, si ottiene la grande minaccia della Guerra Fredda: un’Armata Rossa vasta e potente, in grado di sconfiggere i suoi nemici con facilità, di reclutare quadri entusiasti di comunisti locali e di creare strutture statali durature.

Tutti questi poteri erano stati messi in mostra in Asia, con l’avanzata fulminea, il rapido consolidamento e l’incanalamento di risorse verso i partiti comunisti locali e i duraturi partiti-stato nordcoreani e cinesi che si erano lasciati alle spalle dopo il ritiro dell’Armata Rossa. Come se non bastasse, questo potente apparato di espansione sovietico era ora precariamente schierato in avanti nel cuore dell’Europa, con la frontiera sovietica che si spingeva fino alla Germania centrale.

Il timore che l’Unione Sovietica potesse replicare le sue imprese in Manciuria in Europa divenne l’ansia fondamentale della Guerra Fredda, precedendo sia le armi atomiche sovietiche sia, per estensione, la paura della guerra nucleare. Già nel 1947, Francia e Regno Unito iniziarono a firmare patti di difesa congiunti, che si estesero al Belgio e ai Paesi Bassi con il Trattato di Bruxelles del 1948, dando vita all’effimera “Organizzazione di Difesa dell’Unione Occidentale” (WUDO). Era chiaro, tuttavia, che una struttura di alleanza così limitata sarebbe stata del tutto inadeguata in caso di guerra con l’Unione Sovietica. La Francia e la Gran Bretagna erano potenze degradate e logore, non in grado di combattere un’altra grande guerra. Un telegramma inviato dallo staff del feldmaresciallo Bernard Montgomery al quartier generale della WUDO a un referente del Dipartimento di Stato americano diceva semplicemente:

Le istruzioni attuali sono di tenere la linea del Reno. Le forze attualmente disponibili potrebbero permettermi di tenere la punta della penisola di Bretagna per tre giorni. Vi prego di consigliarmi.

Montgomery stesso, però, lo disse meglio. Alla domanda su cosa sarebbe servito all’Armata Rossa per sfondare sull’Atlantico, rispose semplicemente:

Scarpe.

Pensare all’impensabile

La transizione dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all’inizio di quel particolare dilemma della sicurezza globale che chiamiamo Guerra Fredda è spesso poco compresa o addirittura trascurata – ovviamente, l’intera storia della fine degli anni ’40 esula dal nostro interesse per la storia della dottrina e delle operazioni di manovra, ma un ricordo scheletrico può comunque essere utile.

L’inizio della guerra fredda, in quanto tale, può probabilmente essere meglio identificato come una sequenza di eventi nel 1948 e nel 1949, che insieme rappresentarono la rottura della cooperazione sovietico-americana del dopoguerra in Europa e il consolidamento dei blocchi di potere che avrebbero caratterizzato la guerra fredda. Negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica intrapresero una serie di azioni volte a consolidare le loro posizioni in Europa secondo l’assetto postbellico.

Queste azioni hanno assunto la forma sia di influenza diretta sia di tentativi di escludere la controparte dalla sfera di competenza. Gli Stati Uniti, ad esempio, risanarono e integrarono le economie dell’Europa occidentale con il piano Marshall, mentre l’URSS proibì ai Paesi del blocco orientale di partecipare, temendo la penetrazione economica e politica americana nei suoi satelliti. Mentre l’URSS ricostituiva i governi dell’Europa orientale in monopoli politici comunisti di stampo sovietico, i comunisti venivano espulsi dai governi di Francia e Italia. C’era quindi un certo grado di simmetria nel momento in cui sia l’URSS che gli Stati Uniti consolidavano le due sfere dell’Europa, creando una netta spaccatura lungo la spina dorsale del continente.

La situazione continuò a degenerare, con l’intervento degli Stati Uniti in Grecia nel 1947 per impedire un golpe comunista, un colpo di Stato del 1948 sostenuto dai comunisti in Cecoslovacchia e il successivo abbandono da parte sovietica del Consiglio di controllo alleato (che di fatto pose fine al principale organo congiunto del dopoguerra per l’amministrazione della Germania occupata). Il punto culminante di tutto ciò fu un tentativo di putsch comunista a Berlino, seguito dal famigerato blocco sovietico della capitale tedesca e dal ponte aereo di Berlino nell’inverno del 1948. Non è una coincidenza che la formazione della NATO, il 4 aprile, coincida con le ultime settimane del blocco di Berlino e con il crollo del Consiglio di controllo alleato. La formazione di un blocco militare americano formale in Europa occidentale fu il naturale coronamento di una situazione di sicurezza che si era deteriorata con allarmante rapidità. L’Unione Sovietica seguì prevedibilmente con il Patto di Varsavia pochi anni dopo. La guerra fredda era iniziata.

Il ponte aereo di Berlino e l’inizio della guerra fredda

Ciò che più conta ai nostri fini, naturalmente, non è questa vorticosa sequenza di eventi e nemmeno la biforcazione a rotta di collo dell’Europa del dopoguerra in sfera sovietica e americana. Ciò che ci interessa è il fatto che l’inizio della Guerra Fredda ha posto agli Stati Uniti un problema nuovo, ovvero come pianificare e pensare a una futura guerra sul continente europeo contro le forze del Patto di Varsavia guidate dai sovietici. Si trattava, infatti, di una posizione molto nuova per gli Stati Uniti, che per la maggior parte della loro esistenza avevano mantenuto un corpo di ufficiali relativamente scheletrico, che non pensava in modo approfondito alle operazioni o alle dottrine militari.

L’Esercito americano era sempre stato molto diverso dalle sue controparti europee, avendo trascorso la maggior parte della sua vita come una polizia di frontiera nel West americano in espansione. Non era certo come, ad esempio, il corpo degli ufficiali tedeschi di Prusso, abituato da decenni a teorizzare, discutere, pianificare e simulare ad nauseum. Mentre tutti i principali eserciti continentali trascorsero gli anni ’30 a riflettere a fondo sulla guerra corazzata e sui concetti dottrinali, l’Esercito degli Stati Uniti non disponeva di alcuna forza corazzata e i semplici regolamenti di campo emanati per gli ufficiali non dicevano nulla al riguardo. Solo nel 1941 (dopo le campagne tedesche in Polonia, Francia e l’invasione dell’Unione Sovietica) l’esercito statunitense condusse le prime manovre meccanizzate sul campo.

La differenza tra le disposizioni americane in materia di sicurezza prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale non poteva essere più netta. Mentre l’esercito prebellico pensava molto poco alla guerra continentale in modo sistemico o dottrinale, l’esercito statunitense durante la Guerra Fredda era spesso preoccupato di teorizzare una futura guerra europea contro il blocco sovietico. Mentre l’America prebellica era sicura della sua potenza industriale latente e della profondità strategica fornita dagli oceani Atlantico e Pacifico, l’America postbellica rimase schierata in entrambi gli emisferi. Le terre dell’Europa centrale, che un tempo erano state terreno di conquista per gli eserciti prussiani e francesi, divennero ora una fissazione per la sicurezza americana.

Le cose erano ulteriormente complicate dall’additivo cinetico, del tutto nuovo, delle armi atomiche, che offriva nuove spaventose capacità e un caso d’uso incerto. Per tutta la durata della guerra fredda, sia l’URSS che gli USA avrebbero costantemente valutato e rivalutato la propria e l’altrui disponibilità all’uso di armi nucleari, alimentando a loro volta le ipotesi su come si sarebbe combattuta una guerra di terra in Europa.

Il monopolio atomico americano non è durato molto a lungo in termini assoluti, ma ha comunque plasmato la base del pensiero militare della Guerra Fredda. Negli anni che precedettero il primo test atomico di successo dell’Unione Sovietica nel 1949, furono fatte molte ipotesi sulla sicurezza che l’Occidente avrebbe potuto trarre dal monopolio nucleare americano (compreso, in modo fantastico, l’appello di Bertrand Russell per un attacco nucleare preventivo contro l’Unione Sovietica). Tutti questi presupposti furono infranti dalla velocità con cui l’URSS fu in grado di dimostrare la propria potenza atomica.

Paradossalmente, però, il test atomico del 1949 dell’Unione Sovietica non migliorò le insicurezze sovietiche nel breve periodo. Infatti, sebbene il test fosse un’importante pietra miliare e una dimostrazione di forza, l’URSS non fu in grado di convertirlo immediatamente in armi atomiche pronte all’uso. Infatti, l’aviazione sovietica non ricevette bombe atomiche operative fino al 1954. Ciò significava quasi un intero decennio di grave vulnerabilità atomica che ha fortemente plasmato la sensibilità strategica sovietica.

Il risultato di tutto ciò fu che il monopolio atomico americano durò molto meno di quanto gli Stati Uniti avessero inizialmente sperato e previsto, ma troppo a lungo per la comodità di Mosca. La sicurezza del primo monopolio atomico permise agli Stati Uniti di smobilitare rapidamente i propri eserciti; contemporaneamente, l’Unione Sovietica sperava di poter contare su forze convenzionali enormemente superiori per contrastare l’arsenale nucleare americano, e quelle stesse gigantesche forze convenzionali aggravarono il senso di paralizzante insicurezza dell’Europa occidentale.

Disposizione delle forze in Europa negli anni ’50

Come già accennato, alla fine degli anni ’40 era già chiaro che la limitata alleanza WUDO (composta essenzialmente da Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi) era semplicemente troppo debole per rappresentare un avversario credibile per l’Unione Sovietica e l’emergente blocco orientale. Questo senso di insicurezza europea si intensificò solo tra il 1949 e il 1951, con il successo del test atomico sovietico, la vittoria dei comunisti in Cina e la guerra in Corea. Qualsiasi tentativo serio di contrastare l’Armata Rossa avrebbe inevitabilmente richiesto il coinvolgimento degli Stati Uniti.

Anche con il coinvolgimento americano nella sicurezza europea attraverso la NATO (costituita nel 1949), c’era una serie di questioni difficili e divisive da risolvere. Contrariamente alla percezione russa della NATO come strumento della politica estera americana, la storia iniziale dell’alleanza è stata costellata di disaccordi su come garantire la sicurezza europea. In primo luogo, la questione del ruolo della Germania in Europa.

Era chiaro a molti, soprattutto in America, che qualsiasi alleanza europea credibile avrebbe richiesto la riabilitazione e l’integrazione della Germania Ovest (formalmente Repubblica Federale Tedesca), nata nel 1949 dalla fusione delle zone di occupazione britannica e americana. Anche dopo il trauma della Seconda guerra mondiale e la divisione del Paese, la Germania occidentale era di gran lunga il Paese più popoloso e potenzialmente potente dell’Europa occidentale. Inoltre, era piuttosto ovvio che sarebbe stato il campo di battaglia cruciale in qualsiasi futura guerra con l’Unione Sovietica. Pertanto, gli anglo-americani decisero subito che la riabilitazione e il riarmo della Germania occidentale erano fondamentali per la sicurezza europea. Questo piano si scontrò con la veemente opposizione dei francesi, che rimasero profondamente risentiti nei confronti della Germania e sospettosi nei confronti di qualsiasi tentativo di riarmarli – una proposta francese particolarmente audace prevedeva addirittura l’inserimento della fanteria tedesca nei comandi europei (di fatto, impedendo ai tedeschi occidentali di avere unità organiche superiori a un battaglione e subordinandole alle divisioni francesi).

Alla fine, era chiaro che la manodopera e le risorse tedesche avrebbero dovuto essere sfruttate appieno, soprattutto alla luce degli obiettivi preliminari della NATO di schierare un esercito di 50 divisioni in Europa occidentale. Pertanto, come contentino ai francesi, l’unificazione e il riarmo della Germania furono controbilanciati da ulteriori dispiegamenti americani in Europa, come gesto di impegno dell’America per la difesa dell’Europa e come garanzia che la Francia non si sarebbe presto trovata nuovamente dominata dai tedeschi. Il comando militare integrato della NATO e la preponderanza dell’influenza americana assicuravano la mobilitazione delle risorse tedesche senza concedere alla Germania occidentale una vera autonomia strategica. In questo modo, l’assetto strategico di base della sicurezza europea fu stabilito all’inizio degli anni Cinquanta, con il primo Segretario Generale della NATO, Lord Hastings Ismay, che notoriamente osservò che la NATO era stata strutturata per “tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi giù”. In particolare, però, l’affermazione “tenere gli americani dentro” non era vista come un tentativo americano di mantenere l’influenza in Europa, ma il contrario: Gli europei temevano di essere abbandonati dagli americani e volevano assicurarsi un impegno americano per la sicurezza europea.

Anche con tutti questi scambi diplomatici e geostrategici, tuttavia, la matematica della generazione di forze non era semplicemente a favore della NATO. Anche con i piani per aumentare le 12 divisioni tedesche, era chiaro che la decisione della NATO del 1952 di schierare una forza di 50 divisioni era semplicemente irrealistica, soprattutto perché la leadership occidentale era riluttante a rischiare la fragile ripresa economica dell’Europa occidentale adottando un programma di riarmo d’urto. Questo era evidente a Dwight Eisenhower, con la sua profonda conoscenza del teatro europeo, e quando divenne presidente nel 1953 la sua squadra di sicurezza nazionale iniziò immediatamente a implementare una nuova postura di difesa che mirava a utilizzare le armi atomiche come sostituto delle forze di terra convenzionali in Europa.

A metà degli anni Cinquanta, quindi, la pianificazione bellica della NATO (in realtà, dell’America) si basava su una forza di terra di 30 divisioni che avrebbe avuto il compito di ritardare e incanalare le forze sovietiche in masse concentrate che avrebbero offerto bersagli allettanti per le armi atomiche tattiche (sul campo di battaglia), abbinate a una politica di cosiddetta “rappresaglia massiccia”, che prometteva bombardamenti atomici catastrofici delle aree posteriori e delle città sovietiche. Il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles, disse in un discorso pubblico del 1954:

Abbiamo bisogno di alleati e di sicurezza collettiva. Il nostro scopo è rendere queste relazioni più efficaci e meno costose. Ciò può essere fatto facendo maggiore affidamento sul potere di deterrenza e minore dipendenza dal potere difensivo locale… La difesa locale sarà sempre importante. Ma non esiste una difesa locale che da sola possa contenere la potente potenza terrestre del mondo comunista. Le difese locali devono essere rafforzate dall’ulteriore deterrente di una massiccia potenza di ritorsione.

Forse a questo punto è giustificato un commento editoriale. In questa (lunghissima) serie di articoli ci siamo concentrati sulla storia della manovra in guerra. Sembrerebbe giustificato chiedersi se abbiamo perso il filo del discorso, con una lunghissima digressione sulla storia iniziale della NATO e sulla dottrina americana dell’uso del nucleare. È giusto così. Ciò che vogliamo stabilire, tuttavia, è che durante i primi decenni della Guerra Fredda la sensibilità operativa americana era pesantemente predeterminata dall’inevitabilità dell’uso dell’atomo, dall’applicazione dell’arma atomica come deterrente e dall’uso sul campo di battaglia delle armi atomiche.

L’atomo ha reso obsolete le forze convenzionali?

Non si pensò quasi mai a vincere una guerra convenzionale contro l’URSS. Louis A. Johnson, Segretario alla Difesa dal 1949 al 1950, era francamente convinto che l’America non avesse praticamente bisogno di forze non nucleari e pensava apertamente che la Marina e il Corpo dei Marines dovessero essere aboliti del tutto. In un simile ambiente, si pensava poco alle operazioni convenzionali. Alla fine degli anni ’40, il generale Omar Bradley era del parere che l’esercito americano “non avrebbe potuto combattere per uscire da un sacco di carta”.

Questo pensiero fu presto rispecchiato dagli stessi sovietici, in particolare con il discorso di Nikita Kruschchev al Soviet Supremo del 1960, in cui proclamò una nuova strategia di guerra missilistica nucleare globale. In questo quadro, non c’era praticamente alcuna distinzione tra attacco e difesa: qualsiasi conflitto convenzionale con l’Occidente sarebbe stato implicitamente presunto nucleare, quindi l’unico modo per combattere una guerra di questo tipo era lanciare immediatamente un’offensiva terrestre a tutto campo abbinata a un attacco nucleare annientatore. Come recitava un manuale sovietico del 1960:

La dottrina militare sovietica considera le operazioni offensive concertate come l’unica forma accettabile di azioni strategiche nella guerra nucleare, e sottolinea che la difesa strategica contraddice la nostra visione del carattere di una futura guerra nucleare e dello stato attuale delle forze armate sovietiche… Nelle condizioni moderne, la passività all’inizio di una guerra è fuori questione, perché sarebbe sinonimo di annientamento.

Per tutti gli anni ’60, quindi, l’Unione Sovietica condusse un enorme programma di armamenti che ampliò non solo le proprie forze convenzionali e nucleari, ma anche quelle dei satelliti del Patto di Varsavia, che ricevettero oltre 1.200 nuovi aerei, 6.000 carri armati e 17.000 mezzi corazzati nella prima metà del decennio. Particolare enfasi fu posta sulla base di fuoco, con le divisioni sovietiche che passarono da 8.000 a 12.000 uomini per aumentare le dimensioni dell’artiglieria divisionale organica e una serie di nuove brigate missilistiche per gli eserciti del Patto di Varsavia.

Il culmine del “programma anni ’60” sovietico, se così possiamo chiamarlo, fu loZapad-69 del 1969 L’Armata Rossa simulò un “attacco” nominale da parte della NATO e rispose con un’offensiva a tutto campo da parte di cinque diversi gruppi di armate, che si spinsero nella Germania occidentale, sparando oltre il Reno, a sud verso il confine svizzero e a nord verso la Danimarca. Data l’enorme preponderanza della generazione di forze del blocco orientale, i pianificatori sovietici conclusero (probabilmente in modo realistico) che entro il quarto giorno di guerra le loro punte di lancia sarebbero state ben radicate sul Reno e la NATO avrebbe fatto ricorso alle armi atomiche per evitare la sconfitta totale. A quel punto, la fase convenzionale della guerra sarebbe terminata e sarebbe iniziato uno scambio nucleare completo.

Ci si aspettava che la massa degli eserciti del Patto di Varsavia travolgesse il sottile schermo della NATO.

Tutto questo per dire che, sebbene sia l’URSS che gli Stati Uniti seguissero i propri percorsi di sviluppo strategico, negli anni Sessanta si era giunti al presupposto che la guerra convenzionale avrebbe portato necessariamente alla guerra nucleare. Una serie di nomi dottrinali diversi, come “massive retaliation” di Eisenhower e “comprehensive nuclear missile warfare” di Kruscev, si riferivano tutti essenzialmente al primato della guerra nucleare e alla crescente centralità della gestione dell’escalation e della teoria dei giochi.

In un simile ambiente operativo, il pensiero dinamico su come combattere una guerra convenzionale in Europa era poco diffuso, soprattutto per l’esercito statunitense. Eisenhower considerava esplicitamente le forze di terra statunitensi come poco più di una fune d’inciampo e di uno schermo ritardante che avrebbe preparato il terreno per l’azione decisiva della domanda aerea strategica degli Stati Uniti.

Le forze di terra divennero così subordinate che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti, il generale Maxwell Taylor, escogitò una struttura completamente nuova per le Divisioni dell’Esercito degli Stati Uniti che avrebbe permesso loro di avere sistemi organici di armi nucleari (una batteria di obici da 8 pollici equipaggiati con proiettili atomici e il sistema di razzi atomici MGR-1 Honest John). Il suo razionale era essenzialmente la sopravvivenza istituzionale dell’esercito: la guerra nucleare era diventata così fondamentale negli scenari di guerra europei che Taylor riteneva che l’esercito avrebbe dovuto ritagliarsi un ruolo atomico se voleva mantenere il suo accesso al bilancio e al personale.

Una guerra convenzionale di operazioni mobili, sullo stile della Seconda guerra mondiale, sembrava sempre più un anacronismo. I conflitti americani della metà del secolo, come la Corea e il Vietnam, offrivano pochi spiragli su come sarebbe stata una guerra alla pari in Europa. La Corea, dopo episodici periodi di mobilità, si è in gran parte trasformata in una battaglia ad alta intensità di fuoco nel terreno montagnoso e ostile della penisola. Il Vietnam, naturalmente, si è trasformato in un famigerato grattacapo militare americano, ma che sembrava avere pochi paralleli con una futura guerra in Europa. Tra l’attenzione per l’armamento atomico e le sconcertanti disavventure asiatiche, l’esercito americano, che aveva battuto il mondo, sembrava alla deriva. Poi le Forze di Difesa israeliane ricevettero una brutta sorpresa nel giorno sacro ebraico dello Yom Kippur.

Rinascita (in teoria)

La guerra del Vietnam come principale fattore di stress socio-politico per l’America di metà secolo è una storia ben nota e ben compresa. Meno noto, tuttavia, è il modo in cui la guerra portò l’establishment militare americano a uno stato che rasentava la crisi. A partire dalla decisione di Lyndon Johnson di combattere il Vietnam senza mobilitare le riserve o la guardia nazionale (scegliendo invece di appoggiarsi alle forze attive e alla leva), la guerra cannibalizzò e prosciugò le forze attive. Nel frattempo, il salasso finanziario della guerra intaccò il bilancio della difesa, tanto che l’esercito non mise in campo nessun nuovo sistema importante negli anni Sessanta. Infine, la sconfitta fu messa da parte come manifestazione dei fallimenti politici americani e della natura peculiare della lotta contro l’insurrezione tropicale – la conclusione generale sembra essere stata che l’esercito non aveva fallito in Vietnam, quanto piuttosto che i parametri della guerra non erano riusciti ad adattarsi all’esercito.

Di conseguenza, l’esercito statunitense entrò negli anni ’70 con sistemi d’arma invecchiati, scarsa fiducia istituzionale e nessuna reale lezione appresa. Non è esagerato dire che le forze armate statunitensi (e l’esercito in particolare) si trovavano a questo punto a una sorta di nadir istituzionale. Questo coincise, tuttavia, con un rinnovato interesse a pensare di vincere una guerra convenzionale in Europa, cioè senza ricorrere immediatamente all’armamento atomico, in gran parte a causa della crescita delle capacità di secondo attacco sovietiche. In altre parole, l’Esercito americano ha avuto un improvviso risveglio di interesse nel combattere una guerra di terra convenzionale proprio nel momento in cui aveva la minore capacità di farlo.

Tuttavia, nel 1973 si verificarono due eventi importanti che produssero un cambiamento radicale nella traiettoria dell’Esercito degli Stati Uniti: in primo luogo, venneil Comando per la formazione e la dottrina dell’Esercito degli Stati Uniti costituito (TRADOC) sotto il comando del generale William DePuy; in secondo luogo, Israele combatté la Guerra dello Yom-Kippur contro gli Stati confinanti di Egitto e Siria .

La sincronia di questi due sviluppi era molto importante. Il TRADOC era stato creato per guidare una revisione dell’addestramento e della dottrina operativa dell’esercito statunitense, con l’obiettivo di ripensare completamente il modo in cui l’esercito americano avrebbe combattuto le future guerre terrestri. Il fatto che il TRADOC sia stato inaugurato nello stesso anno in cui in Medio Oriente si combatteva una guerra terrestre ad alta intensità ha suscitato un forte interesse, tanto che molti membri dello staff di DePuy si sono recati più volte in Israele per studiare il conflitto.

La guerra dello Yom Kippur ha dato l’opportunità di studiare il combattimento convenzionale ad alta intensità.

La Guerra dello Yom Kippur, altrimenti detta Guerra israelo-araba del 1973, è stata una guerra di continuazione archetipica, iniziata sotto gli auspici di Egitto e Siria nel tentativo di riprendere i territori che erano stati invasi e annessi da Israele nella schiacciante vittoria di quest’ultimo nella Guerra dei Sei Giornidel 1967 . Il 6 ottobre 1973, gli eserciti di Siria ed Egitto riuscirono a cogliere di sorpresa la strategia con attacchi improvvisi attraverso le linee di cessate il fuoco stabilite nella guerra precedente. Per la Siria si trattò di un attacco di più divisioni sulle alture del Golan, mentre sul fronte meridionale l’Egitto riuscì a sfondare la linea del Canale di Suez e a stabilire una linea difensiva sulla riva orientale del Canale.

A differenza del conflitto del 1967, che aveva visto le Forze di Difesa Israeliane frantumarsi e superare rapidamente le forze arabe avversarie, la Guerra dello Yom Kippur presentò a Israele una vera e propria crisi militare. La sorpresa strategica delle forze arabe costrinse Israele a far affluire rapidamente i rinforzi su due fronti ampiamente separati. Le forze arabe godevano di una significativa superiorità numerica su entrambi i fronti, erano armate con una varietà di sistemi d’arma relativamente moderni (principalmente di origine sovietica) e godevano anche di chiari campi di vantaggio tecnologico – ad esempio, nella visione notturna. Le forze arabe sono state in grado di sfruttare questi vantaggi per ottenere i primi risultati, con le forze siriane che hanno sopraffatto la 118a Brigata corazzata dell’IDF e hanno minacciato uno sfondamento nel Golan, e l’Egitto che ha raggiunto i suoi obiettivi iniziali stabilendo il pieno controllo della linea di Suez.

Guerra dello Yom Kippur Fronte di Suez, fase 1: attacco egiziano e rinforzo israeliano (6-14 ottobre)

La forma generale della situazione di Israele aveva quindi ovvi paralleli con la preoccupazione per la sicurezza in Europa: con una forza IDF in inferiorità numerica che veniva attaccata a sorpresa da forze corazzate massicce che utilizzavano carri armati di modello sovietico, l’analogia difficilmente avrebbe potuto essere più ovvia. L’entità dei vantaggi delle forze arabe – circa 10 a 1 nel Golan e 11 a 1 nel Sinai – ha generato un netto senso di superiorità. Le prospettive erano particolarmente scarse nel Sinai: con l’Esercito egiziano ben radicato e scavato nelle sue nuove posizioni sulla sponda orientale del Canale, una serie di contrattacchi israeliani andò incontro a un disastro, con molte formazioni corazzate dell’IDF che persero oltre il 50% dei loro veicoli.

La parte iniziale dell’operazione araba era andata in gran parte a loro favore. Tuttavia, l’IDF è stato in grado di riprendere il controllo quando la battaglia è diventata più fluida. L’11 ottobre, le riserve dell’IDF che si sono riversate nel Golan sono state in grado di lanciare un enorme contrattacco che ha distrutto la posizione siriana e ha fatto sì che l’IDF fissasse la strada per Damasco.

Il deterioramento della situazione nel Golan ha poi costretto gli egiziani a commettere un errore catastrofico. L’obiettivo egiziano era quello di conquistare la linea del Canale di Suez nell’operazione di apertura e poi semplicemente mantenere le nuove posizioni, con l’intenzione di usare il Canale come merce di scambio per negoziare un accordo. Tuttavia, le scarse prospettive per i siriani hanno convinto la leadership egiziana della necessità di rinnovare l’attacco nel Sinai per allontanare le forze dell’IDF dal Golan. Si trattava di un piano piuttosto modesto, che equivaleva a poco più di una finta per alleggerire la pressione sui siriani, ma l’esercito egiziano non era semplicemente all’altezza di una fase più fluida e improvvisata della guerra. Si erano comportati adeguatamente durante la fase preparatoria “afferra e tieni” della guerra, ma tutto si è rotto quando hanno iniziato a tornare all’attacco.

Centinaia di carri armati sono stati distrutti durante la guerra dello Yom Kippur.

L’attacco egiziano si trasformò in un disastro totale, con i carri armati egiziani che lanciarono attacchi frontali senza supporto di fanteria o di fuochi, mentre i carri armati israeliani furono in grado di trattare con percentuali di perdita esorbitanti. Ancora peggio per gli egiziani, l’attacco improvvisato aveva aperto un varco tra la loro 2a e 3a Armata, che la ricognizione israeliana individuò rapidamente.

L’IDF si mosse rapidamente e con decisione per sfruttare questi nuovi sviluppi. Tre divisioni corazzate sono state rapidamente trasportate nella corsia e incanalate in sequenza verso la falla nella posizione egiziana, perforando e attraversando il Canale di Suez il 15 ottobre. Sparpagliandosi sulla sponda occidentale del Canale, riuscirono a separare con successo le due armate campali egiziane e a isolare la 3ª Armata in una sacca vicino alla città di Suez. E con questo la guerra era più o meno finita. Il fallimento dell’attacco siriano sul Golan, insieme all’improvvisa ripresa israeliana nel Sinai, tolse aria alla guerra, ponendo le basi per un cessate il fuoco e infine per gli accordi di Camp David.

Fase 2 della guerra dello Yom Kippur: contrattacco israeliano (14-22 ottobre)

Tutto questo è molto interessante, naturalmente, e come sappiamo una storia completa del Levante moderno potrebbe riempire molti volumi. Ciò che è interessante per i nostri scopi – e per gli scopi del nuovo TRADOC americano – è stato il modo in cui l’IDF ha affrontato la sorpresa e la superiorità numerica delle forze arabe. E per essere sicuri, il generale DePuy e il suo staff al TRADOC lo trovarono affascinante: è difficile trovare una pubblicazione dell’esercito americano degli anni ’70 che non faccia riferimento alla guerra dello Yom Kippur in un modo o nell’altro. Nel plasmare la sensibilità operativa americana della fine del XX secolo, fu questa guerra arabo-israeliana (durata solo 19 giorni) ad avere di gran lunga la maggiore importanza, e non la pluridecennale guerra americana in Vietnam.

Il dato più sorprendente e immediato era che la letalità delle armi moderne era cresciuta in modo esponenziale. Sia i carri armati israeliani che i modelli sovietici utilizzati dalle forze arabe si erano dimostrati assolutamente letali l’uno per l’altro, e gli ATGM (missili guidati anticarro) avevano dimostrato di poter uccidere i carri armati. Come ha detto il generale DePuy in un documento intitolato “Implicazioni della guerra in Medio Oriente su tattiche, dottrina e sistemi dell’esercito statunitense”:

Se il tasso di perdite che si è verificato nella guerra arabo-israeliana durante il breve periodo di 18-20 giorni fosse estrapolato ai campi di battaglia dell’Europa per un periodo di 60-90 giorni, le perdite risultanti raggiungerebbero livelli per i quali l’esercito degli Stati Uniti non è in alcun modo preparato.

Questo è stato ulteriormente riassunto con la nuova massima: “Ciò che può essere visto può essere colpito. Ciò che può essere colpito può essere ucciso”. Anche le esperienze di combattimento molto diverse sui due fronti dell’IDF hanno fatto una forte impressione. Sulle alture del Golan, i carri armati israeliani si sono comportati bene contro le forze siriane – un fatto attribuito al superiore addestramento israeliano e all’uso delle cosiddette “rampe” – opere di terra preparate che permettevano ai carri armati dell’IDF di nascondersi. Nel Sinai, invece, i primi contrattacchi dell’IDF si sono rivelati un disastro quando i carri armati sono stati inviati con un supporto inadeguato. Centinaia di carri armati israeliani sono stati distrutti dagli ATGM egiziani.

Grafico delle armi combinate dalla presentazione DePuy del 1976

Pertanto, l’impressione generale tratta da DePuy e dal team TRADOC era che i carri armati sarebbero rimasti elementi potenti della battaglia moderna, ma che i blindati non supportati non erano chiaramente più praticabili. Di conseguenza, sarebbe stato necessario uno strettissimo coordinamento delle armi – fanteria meccanizzata, artiglieria, corazzati, difesa aerea e supporto aereo ravvicinato – e sarebbe stata fondamentale la capacità delle forze americane di muoversi in modo efficiente nello spazio di battaglia. Ciò richiederebbe una forza di armi combinate completa e altamente mobile, in grado di muoversi sul campo di battaglia e di proteggere i propri movimenti sopprimendo il fuoco nemico. Come ha detto il generale DePuy:

Ora abbiamo fatto ciò che avevamo detto essere importante nel nostro concetto di operazioni. Per vincere bisogna muoversi. Ci muoveremo. Ma se vi muovete di fronte a questa letalità, perderete se non sopprimete.

Ma soprattutto, DePuy sottolineò che la tradizionale teoria americana della guerra non era più applicabile. L’America, osservava, era sempre stata in grado di contare sui suoi vasti poteri di mobilitazione nazionale, travolgendo lentamente il nemico con la sua superiore potenza industriale. Nel caso di una guerra con l’Unione Sovietica, tuttavia, questo non sarebbe più valso, perché l’Armata Rossa disponeva di equipaggiamenti di qualità pari (o addirittura superiore) a quelli americani, e di numeri di gran lunga superiori. In occasione di una conferenza dei dirigenti del TRADOC nel 1974 a Fort Benning, in Georgia, DePuy disse:

Ai tempi della prima e della seconda guerra mondiale, il metodo americano consisteva nel fornire più cose di quante ne avesse l’altro. Se una divisione non era sufficiente ne usavamo due, se due non erano sufficienti ne usavamo quattro. I nostri carri armati non erano all’altezza di quelli tedeschi, ma ne avevamo il triplo. Ora è un po’ antiamericano, non è vero, scoprire che gli altri hanno più equipaggiamento di noi… e il loro equipaggiamento è altrettanto buono.

In contrasto con la visione contemporanea della supremazia tecnica americana, i vertici dell’esercito della Guerra Fredda avevano capito di avere una parità qualitativa con le armi sovietiche.

Alla luce di questo calcolo generale e della grande potenza distruttiva e mobilità degli eserciti sovietici, DePuy sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto combattere efficacemente e vincere con le forze già dislocate in Europa. Una mobilitazione pluriennale, come quella avvenuta nella Seconda guerra mondiale, non sarebbe servita a nulla, poiché i sovietici avrebbero già da tempo invaso l’intera Europa continentale. Pertanto, l’esercito statunitense deve essere pronto a “vincere la prima battaglia della prossima guerra combattendo in inferiorità numerica”.

Ma come fare? Come si può pianificare di vincere una battaglia sapendo in anticipo che il nemico ha un vantaggio quantitativo e una parità qualitativa? La risposta, secondo il TRADOC, doveva essere un comando e un controllo superiori, la mobilità e il coordinamento delle armi – in altre parole, una moderna dottrina di manovra:

Per vincere quando si combatte in inferiorità numerica, è necessario concentrare le forze nel punto critico e nel momento critico del campo di battaglia; in altre parole, per spostarsi nel posto giusto, bisogna vedere il campo di battaglia meglio di come lo vede il nemico, in modo da sapere dove andare e quando andare. Per spostarvi rapidamente verso quel punto critico, dovete avere il controllo totale dei vostri elementi di combattimento, in modo che quando ordinate a un battaglione di muoversi, questo si muova immediatamente.

Il risultato di tutte queste riflessioni fu una dottrina di breve durata denominata Active Defense (Difesa attiva), che mirava a sfruttare il super comando e il controllo per condurre un’avanzata proattiva contro le forze del Patto di Varsavia. L’occultamento e la mobilità erano fondamentali: le forze statunitensi dovevano sfruttare il terreno, muoversi rapidamente verso i punti decisivi (aree di concentrazione delle forze sovietiche) e fare uso di un’integrazione di armi rigorosamente esercitata per superare la superiorità numerica sovietica.

Generale William DePuy – primo capo del TRADOC

La Difesa attiva, così come è stata definita nella versione del 1976 del famoso Field Manual 100-5 (FM 100-5) del TRADOC sulle operazioni, era un buon inizio per lo sviluppo di una dottrina operativa statunitense coerente, ma presentava diversi problemi potenzialmente catastrofici. Il principale di questi era l’incapacità di far fronte al sistema sovietico di echeloning, che avrebbe rafforzato gli attacchi con forze di seconda ondata preparate. Dato che la Difesa Attiva era essenzialmente un sistema di prima linea per far fronte al primo scaglione sovietico, si prevedeva che sarebbe stata necessaria una dottrina più completa, in grado di far fronte all’Armata Rossa scaglionata in profondità.

La necessaria maturazione della dottrina fu facilitata dal pensionamento nel 1977 del generale DePuy e dalla sua sostituzione al TRADOC con il generale Donn Starry. Starry capì la minaccia dell’echeloning sovietico e fu un sostenitore di quella che originariamente chiamò la “Battaglia estesa”, che mirava a interrompere la sostenibilità del sistema di battaglia sovietico attaccando i reparti secondari nelle loro aree di sosta, distruggendo i depositi di munizioni e di carburante e colpendo i posti di comando e altre infrastrutture delle retrovie con armi di profondità.

Più o meno nello stesso periodo in cui Starry e il TRADOC pensavano a questa “battaglia estesa”, un colonnello dell’Aeronautica di nome John Boyd tenne una famigerata presentazione alla Scuola di Guerra Anfibia del Corpo dei Marines. Intitolata “Patterns of Conflict” (Modelli di conflitto), la presentazione era una panoramica esaustiva della storia della battaglia, con argomenti che andavano da Alessandro Magno ai Mongoli, fino a Napoleone e alle forze panzer tedesche. L’intento di Boyd era quello di creare qualcosa che si avvicinasse a una teoria unificante della battaglia, in particolare in relazione a un concetto che ha definito “OODA Loop”.

Colonnello John Boyd

L’OODA Loop (Observe, Orient, Decide, Act) di Boyd era una descrizione del processo decisionale umano, una sorta di processo ricorrente attraverso il quale gli individui (e le organizzazioni, come i militari) recepiscono le informazioni, le incorporano nei loro modelli mentali e reagiscono di conseguenza. La teoria di Boyd era che certe metodologie di combattimento, in particolare la manovra e la guerriglia, traevano gran parte della loro efficacia dalla propensione a interrompere il Loop OODA del nemico, creando una paralisi decisionale. Sia i guerriglieri che i panzer tedeschi, ad esempio, creavano un’immensa ambiguità e un apparente caos operativo che rendeva i nemici incapaci di farvi fronte: i primi grazie all’impossibilità di essere individuati o seguiti, i secondi grazie a movimenti rapidi e decisivi.

Il diagramma del ciclo OODA di John Boyd

“Patterns of Conflict” di Boyd è per molti versi un’opera profondamente sbagliata. Boyd sembra essere stato profondamente determinato a forzare una serie di battaglie storiche per farle rientrare nel suo quadro teorico emergente, il che lo ha portato a travisare piuttosto malamente gran parte del materiale storico. Come opera storica, non è particolarmente valida, ma ha avuto un impatto notevole sull’emergente consenso dottrinale americano, fornendo un nuovo termine – l’importantissimo “OODA Loop” – per spiegare come il comando e il controllo, l’agilità e la mobilità americani potessero disorientare le forze del blocco orientale.

Particolarmente importante era il suggerimento di Boyd che le forze di manovra attiva potessero creare un senso di ambiguità sul campo di battaglia (ciò che egli definì “Counter Blitz”) che avrebbe reso sterili dal punto di vista operativo le avanzate sovietiche, lasciandole incapaci di determinare verso dove avrebbero dovuto manovrare. Si trattava di un’eco del modo in cui gli stessi sovietici avevano confuso i generali tedeschi alla fine della guerra. I tedeschi erano meticolosamente addestrati a cercare la principale concentrazione di forze del nemico, o Schwerpunkt – disperdendo le proprie forze d’attacco, l’Armata Rossa privava i tedeschi di un evidente Schwerpunkt da contrastare, lasciandoli incapaci di determinare dove avrebbero dovuto dare priorità alla loro risposta. Secondo la terminologia di John Boyd, la dispersione sovietica creava un’ambiguità operativa che interrompeva il ciclo OODA tedesco.

Il generale Donn Starry – successore di DePuy al TRADOC

Il lavoro svolto dallo staff del generale Starry presso il TRADOC si è intrecciato perfettamente con la teoria di Boyd dell’OODA Loop e dell’ambiguità della manovra, e questa sintesi dottrinale emergente ha portato alla versione storica del 1982 del manuale operativo FM 100-5, che ha formalmente introdotto il concetto di AirLand Battle – il culmine dei molti anni trascorsi dall’esercito statunitense nel deserto dottrinale .

L’AirLand Battle, come dottrina operativa, presenta tutti i chiari segni dello sviluppo intellettuale dell’esercito nell’era post-Vietnam. Il manuale del 1982 enfatizzava frasi come “velocità e violenza”, “iniziativa” e “attacco in profondità”. Più specificamente, articolava quattro principi chiave dell’AirLand Battle:

  • Iniziativa, ovvero la capacità di dettare il ritmo e i termini della battaglia con l’azione. Ciò richiedeva una comunicazione approfondita degli obiettivi e delle condizioni del campo di battaglia, e ufficiali di grado inferiore addestrati e autorizzati ad agire in modo indipendente. Il TRADOC considerava l’iniziativa il più grande vantaggio in guerra.

  • Profondità, ovvero la capacità di colpire le retrovie nemiche con mezzi lanciati sia dall’aria che da terra, al fine di interrompere lo schieramento, i tempi e il sostentamento del nemico. La battaglia aerea ha incoraggiato gli ufficiali a considerare le retrovie nemiche come un elemento dello spazio di battaglia continuo, da sorvegliare e attaccare costantemente. Ciò avrebbe richiesto uno stretto coordinamento con l’aviazione e lo sviluppo di sistemi d’attacco terrestri con una portata e una precisione sempre maggiori.

  • Agilità, ovvero la capacità di muoversi e agire più velocemente del nemico. Ciò richiede mezzi terrestri altamente manovrabili, comando e controllo superiori e un rapido processo decisionale a tutti i livelli della gerarchia di comando.

  • Sincronizzazione, o unità di sforzo. A livello tattico, ciò implica uno stretto coordinamento delle armi combinate, che integrano i blindati, la fanteria meccanizzata e la base di fuoco. A livello operativo, ciò richiede uno stretto coordinamento con le forze aeree per facilitare gli attacchi in profondità.

L’impressione generale, quindi, è quella di una forza altamente mobile e manovrabile che enfatizza l’addestramento, il comando e il controllo e l’iniziativa per pensare, muoversi e agire più velocemente degli avversari sovietici, mitigando al contempo il potente sistema di echeloning sovietico attraverso attacchi in profondità alle retrovie sovietiche, che interromperebbero la capacità dell’Armata Rossa di rinforzare e sostenere l’attacco.

Ora, questo può sembrare elementare o addirittura banalmente ovvio: l’aggressione sul campo di battaglia e i colpi alle retrovie del nemico non sono forse abbastanza ovvi? In un certo senso, questo è giusto. Ciò che è stato unico e importante dell’AirLand Battle è stata la determinazione a creare un’attività unificata e sinergica – l’Aeronautica Militare, in altre parole, non dovrebbe martellare a caso su obiettivi profondi, ma piuttosto sinergizzare il suo targeting con le operazioni di terra. La manovra è buona e l’attacco in profondità è buono, ma il coordinamento delle due cose è più della somma delle sue parti. Come ha detto il generale Starry:

L’attacco in profondità, soprattutto in un contesto di scarsità di mezzi di acquisizione e di attacco, deve essere strettamente coordinato nel tempo con la battaglia ravvicinata decisiva. Senza questo coordinamento, molte risorse costose e scarse possono essere sprecate per obiettivi apparentemente attraenti, la cui distruzione ha in realtà uno scarso ritorno nella battaglia ravvicinata. L’altra faccia della medaglia è che la pianificazione e l’esecuzione della manovra e della logistica devono anticipare di molte ore le vulnerabilità che l’attacco in profondità contribuisce a creare. Si tratta di un’unica battaglia.

Questo parlava della determinazione a creare una forza agile e intelligente, con un sistema di comando e controllo agile, ufficiali ben addestrati in grado di sintetizzare rapidamente le informazioni e di prendere l’iniziativa sul campo di battaglia, e un nesso crescente di ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance). Nella terminologia di Boyd, i sovietici avrebbero avuto un numero maggiore di effettivi e la stessa qualità degli equipaggiamenti, ma l’esercito americano avrebbe cercato di portare un OODA Loop più veloce e unificato.

Impressione semplificata di AirLand Battle

In effetti, la base materiale in via di sviluppo dell’esercito statunitense era chiaramente costruita per lo spazio di battaglia esteso di Starry e per il nesso tra manovra e attacco. L’Esercito degli Stati Uniti fu rinvigorito con l’introduzione di mezzi di manovra chiave come il carro armato principale M1 Abrams (introdotto nel 1980), il veicolo da combattimento Bradley (1981), l’UH-60 Black Hawk (1979) e l’elicottero d’attacco Apache (1986), e di sistemi d’attacco cruciali come l’M270 Multiple Launch Rocket System (1983). La revisione della base di materiali coincise con un regime di addestramento notevolmente migliorato e rivalutato, implementato a valle della sintesi dottrinale emergente del TRADOC, per creare un Esercito degli Stati Uniti virtualmente irriconoscibile dal guscio svuotato che si era ritirato dal Vietnam.

Conclusione: Ponderazione in tempo di pace

Per la maggior parte degli americani, la storia dell’esercito è fatta di guerre – o meglio, di impressioni generali su quelle guerre – con scarso interesse per le attività interbelliche dell’istituzione. Il XX secolo, in particolare, offre un paio di vittorie spettacolari come punti di arrivo, con la sconfitta del Giappone e della Germania negli anni ’40 e la disinvolta distruzione dell’esercito iracheno nella Guerra del Golfo, che funge da fermaglio per la guerra fredda. Iniziando e finendo con vittorie schiaccianti, è facile pensare che la strada in mezzo sia stata liscia e caratterizzata da un continuo dominio americano. Gli americani sanno bene, naturalmente, che il Vietnam è un’aberrazione rispetto a questo schema, ma in quel caso la colpa è da attribuire a obiettivi politici mal concepiti e alla natura irregolare del nemico: non è stato l’esercito a fallire nella guerra del Vietnam, quanto la guerra a fallire l’esercito.

In realtà, come abbiamo visto, l’esercito americano ha vissuto un percorso tumultuoso durante la Guerra Fredda. La rapida smobilitazione dopo la Seconda Guerra Mondiale lasciò le forze americane in uno stato di stallo, con l’esistenza stessa dell’esercito improvvisamente messa in dubbio dal nuovo ricorso all’armamento atomico. In Corea, ad appena cinque anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le forze americane si trovarono tristemente sottoequipaggiate e impreparate da un establishment militare che si era rapidamente svuotato dopo il 1945.

Il Vietnam, ovviamente, è stato molto più di un semplice fallimento politico delle amministrazioni americane che si sono succedute. Fu infatti una catastrofe istituzionale per l’esercito americano, che fu costretto a rinviare lo sviluppo di nuovi sistemi e a intaccare le sue forze attive per un decennio, uscendo dalla giungla non solo sconfitto ma in un ampio stato di crisi istituzionale. La successiva carneficina della guerra dello Yom Kippur, e in particolare il consumo di massa di carri armati, ha fatto capire ai vertici dell’esercito che non erano preparati né materialmente né concettualmente per una guerra di terra in Europa.

La vivace passeggiata dell’America nell’Operazione Desert Storm, in cui ha disinvoltamente distrutto un enorme esercito iracheno, non è stata quindi una semplice manifestazione della continua e ininterrotta supremazia americana, ma piuttosto il risultato di uno sforzo concertato e costoso da parte dell’esercito degli Stati Uniti per rifare se stesso sulla scia del Vietnam, istituendo un approccio sistematico e decisivo alle operazioni grazie agli sforzi dello staff del TRADOC, revisionando la sua base materiale con nuovi sistemi d’arma progettati per facilitare il sistema cinetico e agile dell’AirLand Battle ed elettrificando il suo sistema nervoso con addestramento, comando e controllo e ISR di livello mondiale. Tutti i tratti distintivi dell’AirLand Battle sono stati messi in mostra nel deserto iracheno, con gruppi tattici meccanizzati americani ben addestrati che correvano verso le retrovie irachene, travolgendo i detriti di un esercito che era stato sistematicamente fatto a pezzi dalle capacità americane di attacco in profondità.

La Prussia-Germania fu benedetta da un numero spropositato di abili generali, da Moltke, a Ludendorff, a Manstein. Forse il più dotato di tutti, tuttavia, fu colui che non combatté mai una battaglia: il conte Alfred von Schlieffen, che guidò lo stato maggiore tedesco dal 1891 al 1906. Beato per aver diretto il negozio in un periodo di pace prolungata, era comunque ampiamente considerato dai suoi subordinati, colleghi e successori come un genio e un pensatore prolifico, e il suo lavoro influenzò molto la successiva strategia tedesca.

Il motivo per cui la Germania ha prodotto così tanti generali di talento e ha combattuto con una straordinaria efficacia non era, infatti, dovuto a una preternaturale attitudine tedesca alla guerra. Era piuttosto il risultato di dinamiche istituzionali: uno stato maggiore e un sistema di accademie militari che riflettevano costantemente e profondamente sulle operazioni e nutrivano un modo particolare di vedere la guerra. Questa istituzione – il particolare corpo degli ufficiali tedeschi – aveva un proprio lessico e un proprio sistema di elaborazione delle informazioni, ricco di Schwerpunkt, attacco concentrico, manovra operativa e così via. Era condizionato ad agire e combattere in un certo modo, con una sicurezza e un senso istintivo di aggressività che gli conferivano grande agilità e iniziativa: gli conferivano, come direbbe John Boyd, un OODA Loop molto rapido.

Le istituzioni contano, e per l’Esercito degli Stati Uniti gli anni ’70 e ’80 sono stati una sorta di rinascita istituzionale – una resurrezione dal malessere del secondo dopoguerra e dalla caotica e infruttuosa guerra in Vietnam. L’impegno del TRADOC nel rivedere lo schema operativo americano e nel pensare alle future guerre terrestri in modo franco e senza fronzoli, ha permesso all’Esercito degli Stati Uniti di migliorare notevolmente il proprio potere di combattimento, dandogli una propria terminologia e identità di lotta. Per molti versi, uomini come DePuy, Starry e Boyd possono essere considerati degli Schlieffen americani, che hanno svolto un lavoro organizzativo e concettuale in tempo di pace che ha plasmato le guerre combattute dopo di loro. E questa, in ultima analisi, è una storia molto più avvincente e gratificante: la storia dell’Esercito degli Stati Uniti, non come un monolite incrollabile in cima al mondo, ma come un’istituzione vivente, pensante, in continua evoluzione, che si prepara per le guerre a venire. Un esercito che non è più in evoluzione non fa altro che implorare di perdere la prossima guerra. Come disse il generale DePuy, “per vincere bisogna muoversi”.

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La superpotenza in frantumi, di Jenna Bednar e Mariano-Florentino Cuéllar

Nicolás Ortega

Tra le continue rivelazioni su ciò che ha portato all’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, un aspetto della crisi ha ricevuto relativamente poca attenzione: il modo in cui lo sforzo di negare il risultato delle elezioni presidenziali è stato costruito sull’uso maligno del sistema di governo federale degli Stati Uniti. Poiché le liste di elettori che certificano collettivamente le elezioni presidenziali sono scelte a livello statale, i cospiratori del 6 gennaio hanno cercato di nominare liste alternative di elettori in diversi Stati per rovesciare i risultati. Alla fine, i funzionari statali repubblicani in Arizona, Georgia e altri Stati si sono rifiutati di minare la democrazia per conto dei loro partigiani. Ma la cospirazione ha sottolineato l’importanza di vasta portata degli Stati in alcune delle decisioni più fondamentali del governo degli Stati Uniti, nonché l’importanza di chi controlla questi governi e quali interessi servono.

Sebbene sia stato un caso estremo, la crisi del 6 gennaio non è stata l’unica situazione degli ultimi anni in cui gli Stati hanno svolto un ruolo cruciale nel definire la direzione del Paese nel suo complesso. In ambiti diversi come l’accesso alle armi da fuoco, l’assistenza sanitaria d’emergenza, l’applicazione delle norme sull’immigrazione, la regolamentazione delle criptovalute e la crisi climatica, gli Stati hanno fatto valere il loro potere di influenzare, e in alcuni casi di sfidare, la politica degli Stati Uniti. I leader degli Stati hanno intrapreso azioni legali per bloccare la politica federale e sono attivi nel rispondere agli sviluppi federali che contrastano con le preferenze delle maggioranze elettorali statali. Alcuni degli Stati più grandi – California, Florida, New York e Texas rappresentano complessivamente circa il 37% del PIL degli Stati Uniti – sono sempre più coinvolti negli affari esteri, non solo per quanto riguarda le questioni economiche e sociali, ma anche attraverso la soft diplomacy dei valori e della cultura. Nell’estate del 2022, mentre l’amministrazione Biden si stava riprendendo dal successo della causa intentata dalla West Virginia davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti per limitare le norme federali sulle emissioni di gas serra, il presidente ha chiesto al governatore della California Gavin Newsom di partecipare a un incontro ministeriale sul clima con il ministro cinese dell’Ecologia e dell’Ambiente Huang Runqiu.

A molti osservatori, questi esempi possono sembrare anomali perché – secondo la concezione più comune del sistema federale – il governo degli Stati Uniti è la fonte preminente di direzione politica del Paese e ha la responsabilità esclusiva degli affari esteri. Insieme ai legislatori del Congresso, il presidente e gli alti funzionari dell’esecutivo sono considerati i principali responsabili della definizione dell’agenda della leadership statunitense e del modo in cui essa viene esercitata in un mondo tumultuoso. Poiché l’ascesa degli Stati Uniti come potenza globale è strettamente associata alla crescente centralizzazione e capacità del governo federale nel corso del XX secolo, l’autorità degli Stati Uniti sulla scena mondiale è stata spesso associata a un sistema federale in cui Washington è dominante.

Ma questa concezione convenzionale è sbagliata e obsoleta. È vero che il governo federale impone una serie di vincoli agli Stati e controlla le principali leve della politica estera. Tuttavia, quando si tratta di capacità di elaborazione delle politiche e di attuazione sul campo, gli Stati hanno sempre più un vantaggio decisivo, soprattutto in un’epoca di stallo partitico a Washington. In un mondo in cui l’influenza economica, tecnologica e culturale è spesso diffusa in regioni subnazionali, gli Stati Uniti più grandi sono in grado di elaborare politiche con un impatto globale diretto.

L’evoluzione del patto federale in direzione del potere statale avrà conseguenze di vasta portata sul profilo globale degli Stati Uniti e sulla conduzione della loro politica estera. Se sfruttati nel modo giusto, gli Stati possono accrescere il potere degli Stati Uniti, fornendo modi nuovi e più dinamici per portare avanti un’agenda internazionale in un momento di stallo federale, e rafforzando al contempo la democrazia americana in patria. Ma come dimostra la crisi del 6 gennaio, gli Stati possono anche essere usati per minare le alleanze di lunga data del Paese o addirittura per sovvertire il processo democratico. Il modo in cui i leader di Washington, i tribunali, i circoli diplomatici di diverse regioni e i governi locali e statali affronteranno questo cambiamento determinerà se l’azione a livello statale diventerà una fonte di resilienza o una forza destabilizzante per gli americani e per il mondo.

L’EVOLUZIONE DELL’ACCORDO FEDERALE

In apparenza, l’espansione dei poteri federali nel XX secolo ha dato a Washington un vantaggio nell’equilibrio tra Stato e Confederazione. La guerra civile, dopo tutto, ha stabilito il controllo del governo federale sulle forze armate e l’illegalità della secessione unilaterale da parte di qualsiasi Stato. E il movimento per i diritti civili ha consolidato un’ampia concezione del potere federale di imporre la desegregazione, il diritto di voto e l’integrazione scolastica. Inoltre, gli Stati sono limitati dai requisiti per il pareggio di bilancio e dalla loro dipendenza dai fondi federali per un quarto o un terzo del loro bilancio, il che dà al governo federale una notevole influenza nel convincerli a fare i suoi ordini. Il Congresso ha fatto un uso liberale dei suoi poteri di spesa, ad esempio, per indirizzare la politica statale sull’istruzione K-12, sulla condotta dei funzionari pubblici attraverso l’Hatch Act e sull’espansione di Medicaid attraverso l’Affordable Care Act. Sostenuto da disposizioni costituzionali, come il potere di regolamentare il commercio interstatale e di finanziare le forze armate, il governo federale può a volte impedire l’azione degli Stati.

Ma questo resoconto non tiene conto di gran parte della storia. Innanzitutto, è vero che la spesa complessiva del governo federale è leggermente superiore alla spesa totale combinata di Stati e governi locali (rispettivamente 4,4 trilioni di dollari e 3,3 trilioni di dollari nel 2019). Ma gli Stati superano il governo federale in termini di impatto sul bilancio degli elettori: se si escludono i finanziamenti militari, il servizio sul debito nazionale e i diritti, nella maggior parte degli anni gli Stati e i governi locali che ne dipendono sono responsabili della maggior parte delle spese governative. Insieme, inoltre, impiegano una forza lavoro di gran lunga superiore. Nel 2020, le amministrazioni statali e locali impiegavano quasi 20 milioni di persone, mentre il governo federale contava solo circa 2,2 milioni di dipendenti civili e 1,3 milioni di militari in servizio attivo. Le amministrazioni statali e locali, e non il governo federale, stabiliscono la maggior parte delle politiche che influenzano la vita quotidiana dei loro residenti, comprese quelle relative a polizia, istruzione, uso del territorio, giustizia penale, risposta alle emergenze e salute pubblica. Gli Stati hanno un controllo molto maggiore sulle politiche educative, in quanto forniscono oltre il 90% dei finanziamenti alle scuole in quasi tutti gli Stati. Inoltre, il governo federale dipende dagli Stati per l’attuazione di quasi tutte le principali politiche federali, comprese le più costose: l’assicurazione sanitaria e il welfare. Quando gli Stati attuano la politica federale, esercitano una certa discrezionalità, adattandola ai margini per soddisfare i propri interessi. E grazie alle loro grandi economie, gli Stati più grandi possono prendere decisioni che hanno un impatto al di là dei loro confini. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema federale sia molto più adattabile e gli Stati molto più potenti di quanto generalmente riconosciuto.

Molte delle più importanti innovazioni politiche statunitensi sono state sperimentate per la prima volta a livello statale.

Colpisce in particolare la misura in cui gli Stati possono essere centri di innovazione politica. Hanno economie distinte e, pur variando molto in termini di dimensioni, anche gli Stati più grandi e diversi hanno popolazioni i cui interessi e atteggiamenti sono più coesi di quelli del Paese nel suo complesso. Gli Stati tendono anche ad essere più bravi a mettere insieme grandi coalizioni per sostenere le grandi azioni politiche e non hanno i tipi di ostacoli procedurali – l’ostruzionismo e l’assenza del veto di linea – che spesso ostacolano il sistema federale. Di conseguenza, gli Stati sono stati a lungo i motori del progresso e del cambiamento. Già nel XIX secolo, ad esempio, l’Iowa, il Massachusetts e la Pennsylvania hanno abolito i divieti sul matrimonio interrazziale, anche se altri Stati li hanno imposti. Nel corso del tempo, tuttavia, gli Stati in cui vigevano i divieti li hanno abrogati con l’aumento del sostegno pubblico al matrimonio interrazziale; la storica decisione della Corte Suprema Loving v. Virginia del 1967 ha esteso l’abrogazione a livello federale. In effetti, molti dei più importanti cambiamenti politici a livello federale – tra cui la fine della schiavitù, l’espansione dei diritti di matrimonio, di voto e dei diritti civili, la modifica dell’accesso all’assistenza sanitaria, dei diritti riproduttivi e della copertura sociale, la riforma dell’istruzione pubblica e la protezione dell’ambiente – sono stati sperimentati per la prima volta a livello statale, rendendo gli Stati quelli che il giudice statunitense Louis Brandeis ha definito “laboratori di democrazia”.

Ma gli Stati non si limitano a sperimentare nuove politiche, ma colmano anche le lacune esistenti quando il governo federale si blocca. Si pensi alla questione dell’immigrazione. Nonostante un’economia che si basa molto sulla forza lavoro degli immigrati, gli Stati Uniti spesso lasciano coloro che cercano uno status permanente in un limbo legale per anni. Di conseguenza, gli Stati hanno colmato il vuoto politico, con Stati blu come la California e New York che offrono l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione per le persone prive di documenti, e Stati rossi come l’Arizona e il Texas che utilizzano le proprie risorse per aumentare l’applicazione delle norme di confine e le pattuglie interne. Allo stesso modo, quando il governo federale non è riuscito a imporre uno standard nazionale rigoroso sulle emissioni delle auto, la California ne ha creato uno proprio e, grazie alle dimensioni del suo mercato, è stata in grado di costringere le case automobilistiche a produrre auto a livello nazionale che rispettassero gli standard californiani. In assenza di una politica federale che affronti il problema del divieto di accesso ai social media da parte delle aziende a causa dei loro punti di vista politici, nel 2021 i legislatori del Texas hanno emanato una legge che limita la moderazione dei contenuti. (La legge è stata temporaneamente bloccata, in attesa di un’azione legale che si sta facendo strada nei tribunali).

Negli ultimi due decenni, gli Stati hanno anche acquisito la possibilità di sperimentare in aree come la legalizzazione della marijuana, nonostante il conflitto con le leggi federali. Gli Stati stanno approfittando di un governo federale che ha ridotto l’applicazione della legge sulla marijuana non legata alla criminalità organizzata, ma non ha abrogato le sanzioni penali federali sul possesso e la vendita di marijuana. E con l’azione federale sul cambiamento climatico sempre più ostacolata – anche, paradossalmente, da sfide guidate dagli Stati, come la causa West Virginia contro EPA – gli Statihanno nuove opportunità per colmare la lacuna. Molti Stati stanno già decarbonizzando le loro fonti energetiche e 21 Stati hanno fissato obiettivi di energia pulita al 100%. Alcuni stanno emanando norme urbanistiche che vietano l’allacciamento al gas nei nuovi edifici e vietano la costruzione di nuove industrie sulla base delle emissioni di gas serra; lo Stato di New York ha negato il permesso di costruzione a un’operazione di estrazione di criptovalute in quanto in contrasto con gli obiettivi di sostenibilità dello Stato. In questa danza di adattamento e risposta tra Washington e gli Stati, il sistema federale prevede una flessibilità sufficiente per consentire ai politici statunitensi di innovare e affrontare i principali problemi del Paese, anche quando il governo federale è ostacolato dalla polarizzazione, dallo stallo legislativo e dai limiti imposti dai tribunali.

RETI, NON NAZIONI

Nonostante il loro ruolo crescente nella politica interna, gli Stati possono sembrare poco influenti negli affari esteri, dove la diplomazia da nazione a nazione e il potere duro regnano sovrani. Ma in molte regioni del mondo e su una serie di questioni come l’aviazione, la gestione degli oceani, il cambiamento climatico e il reinsediamento dei rifugiati, questi strumenti tradizionali competono ora con altre forme di influenza. Come ha sostenuto la studiosa Anne-Marie Slaughter, le reti di istituzioni e individui – studiosi e scienziati, funzionari governativi, dirigenti d’azienda e leader di movimenti sociali – da tempo condividono idee e coordinano strategie attraverso i confini. Nei settori della politica tecnologica, queste reti hanno permesso ai Paesi più piccoli di avere un’influenza globale che supera di gran lunga le loro dimensioni relative e il loro hard power: l’Estonia, ad esempio, ha svolto un ruolo di primo piano nella strategia di contro-disinformazione e la Corea del Sud è stata una forza pionieristica nei partenariati pubblico-privati per l’autenticazione online.

Negli Stati Uniti, le reti internazionali sono diventate un modo cruciale per affermare la leadership del Paese su molte questioni. Se sostenuti dal potere dei governi statali di sviluppare esperimenti politici e stabilire standard internazionali, questi scambi transfrontalieri possono guidare innovazioni politiche – anche in settori come l’intelligenza artificiale (AI), la biomedicina, la catena di blocchi e l’energia rinnovabile – che stanno diventando più difficili da raggiungere a livello federale. È stato in parte per sostenere tali reti di fronte alla crescente competizione geopolitica che il governo statunitense è stato spinto, nel maggio 2022, a creare l’Indo-Pacific Economic Framework, un accordo non vincolante per promuovere la definizione di standard, la crescita sostenibile e connessioni economiche più ampie tra gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione.

Gli Stati che hanno grandi partecipazioni nei settori dell’energia, del commercio e della tecnologia hanno particolari incentivi a impegnarsi in politica estera. Nei settori economici sottofinanziati o non affrontati da Washington, gli Stati più grandi cercano partnership o accordi internazionali per compensare. Nel 2014, la California ha avviato un accordo di cap-and-trade con il Quebec, consentendo alle due regioni di creare congiuntamente il più grande mercato del carbonio del Nord America; nel 2022, il Consiglio per le biotecnologie del Massachusetts ha avviato una partnership con un ente commerciale dell’Unione Europea per l’industria della salute, al fine di promuovere la ricerca biotecnologica transfrontaliera. Sebbene la Costituzione degli Stati Uniti impedisca agli Stati di stipulare accordi formali, il Dipartimento di Stato ha interpretato questi vincoli come applicabili solo agli accordi “legalmente vincolanti”, lasciando ampio spazio agli Stati per concludere accordi internazionali con altri mezzi.

Anche nei conflitti di potere, come l’invasione russa dell’Ucraina, le reti subnazionali possono svolgere un ruolo importante. In particolare, dall’inizio della guerra, le aziende occidentali, in risposta alle pressioni degli azionisti e dell’opinione pubblica, hanno abbandonato in massa il mercato russo. Le istituzioni della società civile stanno collaborando con i funzionari ucraini e le aziende tecnologiche per contrastare gli sforzi di disinformazione russi. E le comunità locali stanno segnalando la loro apertura ad accogliere i rifugiati. Naturalmente, i diversi Stati Uniti hanno interessi geopolitici diversi: una politica commerciale più aperta tende a favorire la Louisiana e il Texas, paesi produttori di petrolio, molto più di quanto non faccia il Michigan o la Carolina del Nord, le cui popolazioni potrebbero temere di perdere più posti di lavoro all’estero con una simile politica. Piuttosto che portare a una maggiore centralizzazione del potere, quindi, l’attuale epoca di crescenti conflitti geopolitici e di accelerazione dei cambiamenti tecnologici sembra spingere un maggior numero di Stati a essere coinvolti negli affari nazionali e internazionali.

UN ARSENALE NASCOSTO

Nei prossimi anni, quando gli Stati affermeranno ancora più attivamente i propri interessi, avranno a disposizione una serie di strumenti tra cui scegliere. Innanzitutto, possono contare su un ampio sostegno pubblico. Si consideri l’impatto che ha avuto nell’ultimo anno il discorso pubblico su controversie nazionali come le sparatorie nelle scuole, le decisioni dei tribunali, la regolamentazione delle imprese e dell’ambiente e i disastri naturali. I dati dei sondaggi suggeriscono che l’incapacità del governo federale di affrontare queste e altre questioni ha alienato parti significative dell’elettorato. Gallup riporta che il 39% degli americani ha fiducia nel governo federale per la gestione dei problemi interni, in calo rispetto alla media storica del 53%. Allo stesso tempo, più della metà degli americani continua ad avere fiducia nei propri governi statali e due terzi esprimono fiducia nei propri governi locali. La società civile e i leader statali potrebbero quindi essere incoraggiati a respingere o rifiutare di rispettare le leggi federali impopolari.

Durante l’attuazione dell’U.S.A. Patriot Act in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, ad esempio, i cittadini hanno iniziato a mettere in discussione la definizione poco rigorosa di “terrorismo interno” e le disposizioni relative alla condivisione delle informazioni, esprimendo il timore che le proteste e la disobbedienza civile venissero classificate come atti terroristici, riducendo i diritti del Primo Emendamento dei cittadini. Cinque Stati – Alaska, Colorado, Hawaii, Montana e Vermont – hanno approvato risoluzioni che mettono in dubbio la costituzionalità della legge e ne limitano l’applicazione. Nell’ultimo decennio, per quanto riguarda la politica sull’immigrazione, 11 Stati e centinaia di città e contee si sono dichiarati “santuari” per le persone prive di documenti, il che significa che non rispetteranno le richieste di proroga della detenzione da parte dell’Ufficio immigrazione e dogane degli Stati Uniti e che separeranno le loro forze dell’ordine dalle attività federali di deportazione. In risposta all’annullamento della sentenza Roe v. Wade da parte della Corte Suprema nel giugno 2022 – avvenuta nonostante i recenti sondaggi Gallup abbiano dimostrato che una netta maggioranza di americani (55%) si identifica come favorevole alla scelta – quasi 100 procuratori eletti, tra cui diversi procuratori generali statali, hanno promesso che non applicheranno i divieti di aborto.

In effetti, West Virginia contro EPA è solo uno dei casi più recenti in cui uno Stato ha contestato con successo un’importante politica federale. Nel 2007, il Massachusetts ha intentato con successo una causa per costringere l’EPA a pianificare misure normative per affrontare il cambiamento climatico. Durante l’amministrazione Obama, il Texas ha impugnato un’azione esecutiva che proteggeva alcuni immigrati privi di documenti dalla deportazione. La California ha contestato la mossa dell’amministrazione Trump di ridurre la flessibilità dello Stato nel fissare gli standard di emissione dei veicoli. In circostanze estreme, i leader della società civile, i candidati a cariche locali e statali e i titolari di cariche statali potrebbero sostenere modifiche alle leggi statali per limitare la cooperazione tra le autorità fiscali statali e federali o addirittura incoraggiare le aziende e i singoli a non rispettare i mandati fiscali o normativi federali. Potrebbero inoltre avvalersi delle dottrine anti-commandeering sancite dalla giurisprudenza della Corte Suprema, che stabiliscono che il governo federale non può costringere gli Stati o i funzionari statali ad adottare o applicare le leggi federali. Con una tale gamma di strumenti, gli Stati sono ben posizionati per trarre vantaggio dall’incapacità del governo federale di agire. Poiché le maggioranze ristrette e la crescente polarizzazione hanno reso il governo federale meno funzionale, molti Stati sono diventati politicamente più omogenei, con un unico partito che ora controlla sia la legislatura che l’ufficio del governatore in 37 Stati, facilitando l’azione legislativa. Allo stesso tempo, le grandi città hanno trovato nuovi modi per far valere i propri muscoli economici all’estero, indipendentemente dalla politica federale. In altre parole, i tempi sono maturi perché gli Stati e le città si affermino, e lo stanno facendo.

DA SACRAMENTO A SEOUL

Il crescente potere degli Stati sta già ridisegnando la politica estera degli Stati Uniti. Quando gli Stati sperimentano politiche che il resto del Paese non è pronto a sostenere, possono esercitare un impatto immediato all’estero: La politica californiana dei veicoli a emissioni zero, ad esempio, è stata un modello per un sistema simile in Cina. Dati gli speciali legami regionali e internazionali di alcune aree metropolitane – si pensi al profilo di Miami in America Latina – gli Stati e le città che li compongono possono anche sfruttare il loro soft power e la loro capacità di convocazione per facilitare il coordinamento delle politiche e formare coalizioni con governi stranieri che la pensano allo stesso modo. Gli Stati possono anche utilizzare la flessibilità della legislazione statunitense esistente per collaborare ad accordi internazionali che affrontino problemi di rilevanza globale trascurati da Washington.

Il potenziale per un’azione guidata dagli Stati è ampio. Gli Stati si sono già impegnati ad aderire alle disposizioni dei trattati internazionali sul cambiamento climatico e stanno stringendo accordi con governi stranieri per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità. Altre aree in cui gli Stati sembrano destinati a prendere l’iniziativa sono la resilienza della catena di approvvigionamento e il coordinamento della politica industriale, gli accordi commerciali regionali, le partnership di ricerca e sviluppo a lungo termine, la definizione di standard internazionali, ad esempio per le normative ambientali, e le nuove forme di diplomazia internazionale. Altrettanto importanti, tuttavia, sono i rischi che una posizione più decentrata degli Stati Uniti nel mondo potrebbe comportare. La diplomazia subnazionale che coinvolge Stati e istituti di ricerca potrebbe complicare le strategie nazionali per la salvaguardia delle informazioni sensibili provenienti da altri Paesi. E poiché gli Stati ricorrono sempre più spesso a controversie legali per contestare l’azione federale, i governi stranieri potrebbero essere in grado di sfruttare le tensioni tra gli Stati e il governo federale, ad esempio attraverso operazioni di disinformazione. Se il federalismo funzionale è una risorsa strategica, un federalismo disfunzionale potrebbe essere la ricetta per indebolire il potere degli Stati Uniti.

GLI STATI TORNANO A COLPIRE

Come ha rivelato la crisi del 6 gennaio 2021, il federalismo ha un doppio senso nel processo elettorale degli Stati Uniti. Oltre a progettare ed eseguire nuove politiche in ambiti diversi come le criptovalute, il trasferimento tecnologico e l’integrazione degli immigrati, i funzionari statali sono responsabili di procedure specifiche per gestire le elezioni, contare i voti e riportare i risultati. Per decenni, gli americani hanno creduto che le varie tutele democratiche radicate nel sistema giudiziario, nei media e nelle norme civiche permettessero al Paese di gestire con sagacia le tensioni tra Stato e Confederazione. Ma soprattutto dopo l’assalto al Campidoglio, è plausibile avere una visione molto più cupa. Con le norme che si sgretolano, un’opinione pubblica polarizzata e i leader di partito che li incoraggiano, molti funzionari statali potrebbero cercare aggressivamente un vantaggio di parte, anche se ciò significa ostacolare il voto dei cittadini. La Corte Suprema potrebbe abbracciare la cosiddetta dottrina del legislatore statale indipendente, che potenzialmente consentirebbe agli sforzi legislativi statali di ignorare il voto popolare nei loro Stati e di nominare le liste desiderate di elettori sostitutivi. Se gli attuali sforzi per riformare la sgangherata legge sul conteggio elettorale non avranno successo, i legislatori federali di parte potrebbero sostenere che la legge consente alle maggioranze legislative federali di ignorare le liste elettorali debitamente nominate.

Ma in questo scenario, gli Stati potrebbero reagire. In The Federalist Papers, no. 45 e no. 46, James Madison sosteneva che gli Stati svolgono un ruolo cruciale come argine alla prevaricazione federale e li invitava a dare l’allarme in risposta alle azioni antidemocratiche del governo federale. Un esempio particolarmente vivido riguarda un futuro tentativo di manipolare il risultato delle elezioni presidenziali. Se in una competizione presidenziale in cui il loro candidato perde, i repubblicani cercano di suscitare sufficienti sospetti sul risultato, ad esempio in Georgia o in Arizona, per certificare liste elettorali rivali e conquistare la presidenza, altri Stati come la California o New York potrebbero adottare una serie di misure estreme per resistere. Tra le altre cose, potrebbero sospendere la cooperazione con il governo federale, rinunciare o eludere gli accordi tra Stato e Confederazione, interrompere i collegamenti tra le forze dell’ordine statali e federali e sequestrare simbolicamente le proprietà federali. Se queste azioni dovessero generare un maggior rischio di violenza politica all’interno degli Stati e tra di essi – in particolare se perseguite simultaneamente da più Stati – garantirebbero virtualmente che una strategia globale americana unificata verrebbe gravemente compromessa.

Ma il punto più importante è che una simile linea d’azione, per quanto dannosa, permetterebbe agli Stati di svolgere un ruolo cruciale nel sostenere il processo democratico in caso di crisi nazionale. Quando un’elezione rischia di essere annullata con mezzi extracostituzionali e le garanzie politiche o giudiziarie a livello federale non riescono a difendere la democrazia, gli Stati possono servire come ultima risorsa, facendo leva sull’integrità dei funzionari e delle istituzioni locali e sulle capacità latenti degli Stati di vanificare le attività federali di routine in circostanze straordinarie. La resistenza degli Stati può rivelarsi un’azione che preserva la democrazia.

RESILIENZA DAL BASSO

In qualità di innovatori politici, di responsabili della politica estera e persino di difensori della democrazia statunitense, gli Stati hanno un’influenza molto maggiore di quella comunemente riconosciuta e sono pronti a rafforzarla negli anni a venire. Per gestire questo ruolo crescente, il governo degli Stati Uniti, i leader statali e gli stessi elettori devono affrontare il sistema federale in modo strategico e mitigare i rischi intrinseci del decentramento.

In primo luogo, i governi statali dovrebbero sviluppare ulteriormente il loro potenziale per agire come “laboratori di democrazia” nel sistema federale degli Stati Uniti, collaborando tra loro quando sviluppano nuove politiche e standard, per plasmare gli sviluppi globali in modo da promuovere gli interessi degli Stati Uniti. Gli Stati possono forzare l’azione sugli accordi internazionali sul clima, rinvigorire le strategie di immigrazione e creare partenariati di ricerca internazionali cruciali. Ciò contribuirà a definire l’agenda globale, ma anche a preservare la vitalità e la forza degli Stati Uniti nell’ordine mondiale.

In secondo luogo, i governi stranieri possono rafforzare le loro relazioni a lungo termine con gli Stati Uniti, indipendentemente da chi è al potere a Washington, creando legami con i singoli Stati e le loro città dipendenti. Le aree di collaborazione includono la definizione di standard tecnologici per l’intelligenza artificiale e il calcolo dell’impronta di carbonio, gli investimenti nella ricerca scientifica e nella tecnologia e il sostegno a ideali come l’assistenza umanitaria o la libertà di religione attraverso, ad esempio, l’assistenza per il reinsediamento dei rifugiati. In tutte queste aree, gli Stati possono essere fonti di progresso e offrire continuità nelle relazioni estere.

In terzo luogo, i politici di Washington dovrebbero riconoscere il valore di consentire agli Stati di sperimentare su questioni fondamentali e persino di impegnarsi con loro a livello globale. Il Congresso dovrebbe ripristinare il Comitato consultivo per le relazioni intergovernative – un gruppo di esperti federali, soppresso nel 1996, che comprendeva politici statali, locali e federali che valutavano periodicamente l’attuale stato di salute del sistema federale – per fornire un ulteriore strumento di negoziazione informale e di condivisione delle migliori pratiche. Quando l’azione del Congresso su una questione non è possibile, le agenzie federali dovrebbero collaborare con i loro equivalenti statali per perseguire gli obiettivi politici. Anche i tribunali federali farebbero bene a tenere presente, nella misura in cui le controversie pertinenti lo consentono, che gli Stati hanno bisogno di spazio di manovra all’interno del sistema federale.

In un’altra crisi del 6 gennaio, gli Stati potrebbero agire per salvaguardare la democrazia statunitense.

Detto questo, i leader dei principali Stati dovrebbero anche pianificare la possibilità di disfunzioni federali gravi o prolungate, soprattutto per quanto riguarda le future interruzioni del processo elettorale. Per cominciare, i responsabili politici degli Stati possono aiutare l’opinione pubblica a conoscere meglio il sistema federale e a capire come potrebbe essere manipolato per scopi maligni. Sebbene l’equilibrio tra Stato e Confederazione sia una fonte di forza sottovalutata e potenzialmente in grado di favorire il progresso su una serie di questioni globali, esso solleva anche questioni difficili e talvolta dolorose per gli Stati Uniti e per il mondo. Negli Stati Uniti, il federalismo riflette anche una storia razzista, in cui gli Stati sono stati in grado di impedire ai neri di votare, di ricevere un’istruzione di qualità e di partecipare pienamente all’economia, oltre a limitare i luoghi in cui potevano vivere e socializzare. Con l’aumento dell’assertività dei grandi Stati, le loro azioni comporteranno nuovi rischi ma anche nuove possibilità. Se questo sistema federale più complesso migliorerà la politica, rafforzerà la democrazia e potenzierà il ruolo dell’America nel mondo, dipenderà da chi userà gli strumenti del federalismo e per quali scopi. Quando i cittadini non prestano attenzione, gli Stati sono vulnerabili all’abuso strategico di coloro che vorrebbero armare il federalismo per interessi di partito o privati, contro il pubblico e contro la democrazia.

Al meglio, la costante interazione tra gli Stati e il governo federale può fornire un potente vantaggio strategico agli Stati Uniti. Gli Stati possono contribuire a mantenere la leadership americana nelle sfide di politica internazionale più vitali del nostro tempo, oltre a garantire la resilienza del sistema statunitense, aiutando a preservare e difendere le istituzioni e le pratiche democratiche. In uno scenario più pessimistico, invece, l’accordo federale potrebbe diventare una fonte di conflitti e tensioni. E mentre altri Paesi sfruttano le crescenti spaccature, gli Stati chiave potrebbero guardare agli altri e al mondo piuttosto che al governo federale per la leadership.

Ciò che nessuno dovrebbe ignorare è che gli Stati Uniti hanno il potere e la motivazione per sfidare Washington e plasmare l’agenda politica globale. I responsabili politici degli Stati e i leader dei Paesi grandi e piccoli devono considerare gli Stati Uniti come una vasta entità con presunti interessi nazionali, ma anche come un arcipelago di giurisdizioni potenti e in competizione tra loro, con alcuni legami comuni, ma anche con una serie di interessi e valori divergenti. Sempre più spesso, la storia della democrazia e della leadership degli Stati Uniti all’estero non dipenderà solo dagli sviluppi sulla riva del Potomac, ma da come gli americani e il mondo intero comprenderanno questo arcipelago e da come i suoi singoli centri di potere impareranno a sfruttare il proprio potenziale per plasmare e adattarsi a un mondo in rapida evoluzione.

  • JENNA BEDNAR è professore di scienze politiche e politiche pubbliche presso l’Università del Michigan e membro della facoltà esterna del Santa Fe Institute.
  • MARIANO-FLORENTINO CUÉLLAR è presidente del Carnegie Endowment for International Peace e in precedenza è stato giudice della Corte Suprema della California. È autore di Governing Security: The Hidden Origins of American Security Agencies.

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Jacques Baud e lo stile di guerra russo, di SIMPLICIUS THE THINKER

Volevo fare un post relativamente breve dedicato principalmente a questo nuovo straordinario discorso di Jacques Baud con i Duran, Mercouris e Christoforou:

Se non l’avete ancora visto, guardate almeno la prima mezz’ora, o poco più, che è la parte più profondamente significativa. Per inciso, secondo la sua wiki, oggi è proprio il compleanno del signor Baud, quindi tanti auguri a lui.

Jacques Baud ha lavorato nell’intelligence militare, studiando il modo di combattere sovietico durante la Guerra Fredda, e racconta le sue osservazioni più toccanti sulle differenze tra il modo in cui la Russia e l’Occidente conducono la guerra. Il motivo per cui l’ho trovato particolarmente divertente è perché si accorda così bene con le mie teorie, in particolare in articoli come questo:

Nello spirito della “guerra totale” russa

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22 FEBBRAIO 2023
Nello spirito della “guerra totale” russa
Un’importante distinzione era attesa da tempo per essere fatta, per quanto riguarda un argomento di molta confusione e interpretazione errata per moltissime persone. C’è un malinteso intrinseco sulle differenze concettuali tra i sistemi militari sovietici/russi (leggi: armi) e quelli equivalenti NATO/occidentali. È stato fatto un dibattito infinito non solo su w…

E quindi mi sembra una sorta di rivendicazione, in quanto a volte ho sentito la canna solitaria piegarsi al vento, ed è spesso scoraggiante o almeno estenuante rendersi conto che la stragrande maggioranza dei commentatori semplicemente non comprende le filosofie contrastanti, che inevitabilmente mina le loro analisi.

Baud conferma in modo eloquente l’approccio olistico russo alla guerra, sottolineando che esso non è cambiato molto dai tempi dell’Unione Sovietica. Secondo lui si tratta di un approccio molto metodico e analitico, ma anche, quasi contraddittorio, trattato e studiato come una forma d’arte, da qui il soprannome di “Arte Operativa”.

Le sue valutazioni più rivoluzionarie ruotano attorno al modo in cui la Russia affronta la pianificazione delle guerre attorno a un quadro strategico e operativo, mentre l’Occidente annaspa senza timone “nel momento”, e ha mostrato una scarsa concezione delle operazioni militari oltre l’aspetto tattico. I punti chiarificatori includono la spiegazione di Baud delle azioni dell’Occidente in vari teatri africani e del Medio Oriente come semplici ragazzi che vanno in giro a sparare con le armi, con poca profondità strategica o focalizzazione su obiettivi finali oltre a questo.

Naturalmente, può o meno non notare il fatto che questo è in una certa misura previsto, nello spirito delle famose battute sulle guerre americane in Medio Oriente che non vengono combattute per essere vinte, ma piuttosto per fare soldi per gli appaltatori della difesa. Ma qualunque sia la vera ragione originaria , non si esclude il fatto che il senso strategico e operativo dell’Occidente per il campo di battaglia si sia probabilmente atrofizzato di conseguenza. Che tu stia facendo qualcosa “intenzionalmente” o meno, se lo fai abbastanza a lungo, degraderai la tua capacità istituzionale di operare diversamente.

L’unica cosa contraria che dirò, nello sforzo di stemperare eventuali esagerazioni da una parte o dall’altra, è che le cose non sono così chiare e uniformi come semplicemente: “La Russia è la migliore, l’Occidente è totalmente all’oscuro.”

Sappiamo che ci sono gradazioni di ciascuno su entrambi i lati. Ci sono alcuni generali russi che fanno sembrare Napoleone anche i moderni generali occidentali, e la guerra ha rivelato una corrosione incredibilmente profonda all’interno di segmenti delle forze armate russe. Abbiamo assistito a infiniti errori e calcoli errati da parte delle forze russe a ogni livello di comando, e ci sono molte lacune e punti ciechi nell’approccio russo alla guerra. Nessuno dispone di un sistema perfetto adatto a tutti: se lo facessero, quel paese probabilmente governerebbe il mondo incontrastato.

Ma è nel senso cumulativo delle forze armate nel loro complesso, organismo vivente e che respira, possiamo dire senza troppa esagerazione che, nell’attuale quadro storico, la Russia sembra cogliere molto meglio i precetti più fondamentali e importanti per vincere le guerre reali rispetto ad ovest. Lo vediamo categoricamente dimostrato, ad esempio, nella visione russa della guerra che vince costantemente e si dimostra superiore all’approccio dell’Occidente nell’SMO.

Ad esempio, la filosofia occidentale di concentrarsi sul prestigio e sui sistemi di precisione per le vittorie “chirurgiche” è stata ora senza dubbio superata dalla rinascita russa della convenzionale “guerra della produzione di massa”.

Nello scontro tra filosofie in armatura, anche l’approccio della Russia ai suoi carri armati ha apparentemente dimostrato la sua superiorità, poiché i carri armati occidentali sono ora ampiamente ritenuti inadeguati per il moderno combattimento tra pari. Lo stesso vale per molti altri sistemi d’arma avanzati e costosi.

Nello scontro delle filosofie organizzative ciò potrebbe essere meno chiaro, ma l’approccio occidentale, a lungo celebrato, alla “leadership di piccole unità” composta da sottufficiali non ha chiaramente mostrato alcun vantaggio rispetto alla struttura di forza presumibilmente più “centralizzata” della Russia.

La più chiara di tutte, ovviamente, è stata la questione dell’approccio strategico e operativo. Ho già scritto in passato di come le forze ucraine guidate dall’Occidente non siano riuscite nemmeno una volta ad avvolgere i russi in un unico calderone. Nel frattempo, i generali russi in qualche modo riescono continuamente a intrappolare la forza per procura della NATO nei calderoni praticamente in ogni grande battaglia, portando a perdite incalcolabilmente sproporzionate.

Questo è tutto per dire che, anche se le differenze non sono così nette come potrebbe suggerire l’appassionato appello di Baud, si può dire con certezza che il taglio generale dei suoi confronti è nel complesso abbastanza accurato. E a dire il vero, probabilmente diventerà sempre più accurato col passare del tempo. Questo perché le forze russe stanno imparando e solo migliorando la loro conoscenza storica e la cultura strategica, mentre in Occidente i pilastri di questa conoscenza vengono abbattuti quotidianamente, sostituiti con l’indottrinamento dei DEI e altri espedienti moderni distrattamente degradanti.

Per esempio:

E guardiamo ulteriormente al cast di clown e mostri che l’Occidente continua a nominare alle più alte posizioni di leadership. Anche a dispetto di tutte le sue debolezze e corruzioni intransigente, non è possibile che la Russia abbia la peggio quando si tratta del precipitoso degrado della cultura militare da parte dell’Occidente.

La veridicità facilmente dimostrabile di ciò è testimoniata quotidianamente. Ogni nuovo giorno porta con sé nuove notizie scioccanti: ieri un’altra nave della Marina americana ha preso fuoco , oggi è stato il quarto incidente di un elicottero Apache negli ultimi 2 mesi. solo; per non parlare dello stato generale delle cose: il ponte di Baltimora, qualcuno?

E così, per concludere questo piccolo riassunto, voglio presentare questo nuovo eccezionale articolo che sta facendo il giro, che si integra perfettamente con l’obiettivo generale della tesi di Jacques Baud:

L’autore, David P. Goldman, racconta la sua partecipazione lo scorso fine settimana a una sorta di incontro in stile Bilderberg sull’Ucraina – con un riferimento indiretto alle regole di Chatham House – tra vari ex membri del governo, alti funzionari militari, accademici, ecc.

Il conclave lo lasciò inquieto:

Posso dire che non ero così spaventato dall’autunno del 1983, quando ero un giovane ricercatore a contratto che svolgevo lavori saltuari per l’allora Assistente Speciale del Presidente Norman A Bailey presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Quello fu il culmine della Guerra Fredda e l’esercitazione troppo realistica Able Archer 83 quasi scatenò una guerra nucleare.

Prosegue riferendo la coltre di delirio isterico che avvolge l’incontro:

“I russi subiscono enormi perdite, tra 25.000 e 30.000 al mese”, ha aggiunto l’ex funzionario. “Non riescono a sostenere la volontà di combattere sul campo di battaglia. I russi sono vicini a un punto di rottura. Riusciranno a sostenere la loro volontà nazionale? Non se le elezioni truccate [di Vladimir Putin questo mese] fossero indicative. La loro economia presenta una reale vulnerabilità. Dobbiamo raddoppiare le sanzioni e l’interdizione finanziaria sulle forniture che arrivano alla Russia. I russi hanno una rappresentazione della forza alla Potemkin”.

L’autore smentisce gli stridenti proclami di cui sopra:

Tutto quanto sopra è palesemente falso e noto come falso al relatore in questione. L’idea che la Russia subisca dalle 25.000 alle 30.000 vittime al mese è ridicola. L’artiglieria rappresenta circa il 70% delle vittime di entrambe le parti e, secondo ogni stima, la Russia sta sparando cinque o dieci volte più proiettili dell’Ucraina. La Russia ha accuratamente evitato attacchi frontali per preservare la manodopera.

Conclude con questo ultimo punto emblematico, che chiude il cerchio e rafforza l’intera tesi di Jacques Baud:

Nessuno ha contestato i dati che ho presentato. E nessuno credeva che la Russia subisse 25.000 vittime al mese. Il problema non erano i fatti: i dignitari riuniti, un campione rappresentativo della leadership intellettuale ed esecutiva dell’establishment della politica estera, semplicemente non riuscivano a immaginare un mondo in cui l’America non desse più gli ordini. 

Sono abituati a gestire le cose e scommetteranno il mondo per mantenere la loro posizione.

In breve, non esiste alcun piano B, né un vero piano strategico per sconfiggere la Russia. Si tratta semplicemente di una corsa frenetica per assicurarsi che l’Occidente rimanga al potere attraverso qualsiasi assortimento di mezzi casuali e, a volte, reciprocamente antitetici.

Proprio come Jacques Baud descriveva la portata della pianificazione strategica dell’Occidente in Africa e nel Medio Oriente semplicemente come individui che mirano e sparano con le loro armi, anche qui sembra che l’Occidente sia a corto di idee e stia cercando disperatamente di ripescare una vittoria dal cesso con un piano progettato “dal comitato” – l’unico problema è che il comitato è composto da apparatchik polli senza testa senza alcun senso di reale coesione o addirittura di lealtà uniforme; sono semplicemente uniti dalla paura vagamente risonante di perdere il loro primato in un mondo in cui l’Oriente nascente li mette sempre più in ombra. Contro una Russia che riemerge unita da una minaccia esistenziale alla madrepatria, questo semplicemente non è sufficiente.

Un paio di elementi di aggiornamento casuali.

Coloro che hanno letto il mio ultimo rapporto sul paywall, sapranno che ho raccontato la storia del primo assalto robotizzato di terra meccanizzato. Ora, come promesso, la storia è stata aggiornata:

Il primo attacco d’assalto con droni della storia!

A Berdychi, ora occupata dalle truppe russe, hanno avuto luogo i test sul campo di una nuova promettente piattaforma robotica russa.

Nell’ambito della missione di combattimento, un gruppo di droni d’assalto ha preso parte al supporto delle operazioni d’assalto, assicurando la soppressione delle posizioni ucraine nel villaggio utilizzando i moduli lanciagranate AGS-17 installati, sparando diverse centinaia di granate. Durante l’uso in combattimento, i droni hanno mostrato buoni risultati. I droni sono stati in grado di continuare a operare anche in condizioni in cui sarebbero state inevitabili perdite di personale e costose attrezzature a causa del fuoco nemico.

L’esperienza acquisita nell’uso in combattimento verrà presa in considerazione per l’ulteriore produzione e sviluppo delle piattaforme robotiche d’assalto. L’uso in combattimento di tali droni a Berdychi è in realtà simile al primo attacco di carri armati durante la prima guerra mondiale.

Una base cingolata di successo ha un grande potenziale per lo sviluppo di una piattaforma robotica per l’assalto con l’installazione di vari moduli di combattimento e operazioni di supporto come il trasporto e l’installazione di mine, l’evacuazione dei feriti, il trasporto di merci e attrezzature.

In futuro, tali piattaforme prenderanno il loro posto sul campo di battaglia. Nonostante ci siano sviluppi simili negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Cina, è stata la Russia la prima a utilizzare un gruppo di droni d’assalto in una vera guerra.

Il futuro è già arrivato.

Si scopre che il progetto russo ne sta producendo molti più di quanto pensassi:

Possiamo ufficialmente affermare che l’era del combattimento robotico terrestre è ormai iniziata, con la Russia che l’ha inaugurata con questa storica prima incursione. Sfortunatamente, è chiaro il tipo di follia che riserverà il prossimo futuro, dato che gli FPV ucraini sono stati in grado di tendere un agguato agli UGV robotici con la stessa facilità con cui fanno i pigri fanti:

Sebbene i risultati rimangano inconcludenti, è chiaro che il combattimento terrestre dovrà costantemente passare agli assalti potenziati UGV in ogni caso. La grande preoccupazione, come sempre, è che le cose si trasformino in un’altra serie di situazioni di stallo posizionali simili alla Prima Guerra Mondiale, proprio questa volta con i robot.

E infine, rafforzando sempre più le sue capacità, come ho scritto nell’ultimo articolo, oggi la Russia ha lanciato con successo un altro nuovo satellite da ricognizione per il rilevamento della Terra, il Resurs-P, dal cosmodromo di Baikonur in Kazakistan:


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La Francia salva l’Europa, di AURELIEN

La Francia salva l’Europa.

Ancora. In un certo senso.

27 MARZO

Mi fa piacere dire che, secondo Substack, siamo vicini ai 6000 “follower”, ovvero sia quelli che sono formalmente iscritti sia quelli che mi seguono tramite l’app Substack. Ho ricevuto email anche da persone che leggono regolarmente ma non si iscrivono, e ci sono anche abbonati alle versioni tradotte. È tutto molto incoraggiante e ringrazio moltissimo chi di voi mi consiglia: gran parte dei miei nuovi abbonati arriva così. E anche il numero dei lettori mostra un buon aumento: circa 10.000 per saggio, e un paio di settimane fa abbiamo raggiunto quasi 15.000 solo in inglese. Rimango estremamente grato e un po’ incredulo che così tante persone siano disposte a investire tempo in saggi lunghi e complessi su argomenti difficili, per poi produrre commenti lunghi e ponderati. Ma grazie comunque a tutti.

Ti ricordiamo che questi saggi saranno sempre gratuiti, ma puoi sostenere il mio lavoro mettendo mi piace e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri e i link ad altri siti che frequenti. Ho anche creato una pagina Comprami un caffè, che puoi trovare qui .☕️

E grazie ancora a chi continua a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui , e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni in italiano e ha creato un sito web dedicato qui.

Bene allora.

Ci troviamo ora nella fase degenerata della crisi ucraina, e soprattutto nella triste e patetica storia dei tentativi collettivi dell’Occidente di gestirla. I leader politici occidentali sono in modalità zombie, barcollando in vari stati di rovina, andando avanti goffamente perché non hanno la minima idea di cosa fare, completamente sopraffatti da eventi che non avevano previsto e che ora non riescono a comprendere. Le dichiarazioni dei leader nazionali e dei politici diventano sempre più bizzarre e surreali, e la maggior parte di esse non vale la pena analizzarle, perché sono quasi prive di contenuto reale. Sono davvero grida di rabbia e disperazione dal profondo della miseria. Solo il presidente Macron e alcune altre figure del governo francese hanno detto qualcosa di lontanamente coerente, anche se quasi nessuno nei media sembra avere la padronanza del background e del linguaggio per comprendere correttamente ciò che hanno detto.

L’argomento di questo saggio è uno con cui ho convissuto, e su cui in alcuni casi ho lavorato, dalla fine della Guerra Fredda. Quindi ho pensato che potesse essere utile offrire un punto di vista (si spera) ragionevolmente informato su tre punti. Spiegherò a che punto siamo politicamente e militarmente, e come i leader occidentali stiano effettivamente cercando una strategia di uscita. Inoltre, con un breve accenno alla storia, spiegherò da dove penso che provengano i francesi, e poi esporrò molto brevemente alcune riflessioni su dove tutto ciò potrebbe portare.

L’idea che questa crisi abbia le sue origini nell’ignoranza colpevole e nella stupidità delle leadership occidentali è ormai ampiamente accettata. Ma ciò che non ha avuto abbastanza pubblicità, credo, è che questa ignoranza era in realtà voluta e deliberata. Vale a dire, si presumeva semplicemente che alcune cose fossero vere, e in realtà non veniva fatto alcun tentativo per verificarne l’accuratezza, perché non si riteneva necessario. La convinzione di una Russia debole che poteva essere maltrattata, l’idea che anche se ai russi non piaceva ciò che stava accadendo in Ucraina non c’era molto che potessero fare al riguardo, e la convinzione che qualsiasi tentativo di intervento russo sarebbe crollato nel nulla. Il caos che dopo pochi giorni portò al cambio di governo a Mosca, non erano giudizi arrivati ​​dopo un’analisi adeguata, erano articoli di fede ideologica, per i quali non era necessario né cercato alcun supporto probatorio.

E nemmeno questa è la prima volta. L’orribile elenco dei disastri politici occidentali degli ultimi vent’anni, dall’Iraq alla crisi finanziaria del 2008 alla Libia, alla Siria, alla Brexit, al Covid, all’ascesa del cosiddetto “populismo”, si distingue meno che per malevolenza o stupidità (sebbene entrambi fossero presenti) che da un’arrogante convinzione nella giustezza delle opinioni della Casta Professionale e Manageriale (PMC) e dalle loro visioni ignoranti ma fortemente sostenute sul mondo, alle quali il mondo stesso aveva la responsabilità di aderire. Perché preoccuparsi di scoprire i fatti quando sei sicuro di conoscerli già?

Una cosa è che i governi accettino di essersi sbagliati su qualche questione di fatto, anche se non è facile: un’altra è accettare di essere stati illusi e che i loro cervelli fossero fuori a mangiare. Quando la vostra stima pubblica della Russia e i vostri commenti all’inizio della guerra non si basano su alcuna conoscenza effettiva o su stime professionali, ma solo su presupposti ideologici, allora perdete la capacità di rispondere e adattarvi quando le circostanze dimostrano la falsità delle idee. le tue supposizioni. È questa incapacità che sta causando un incipiente esaurimento nervoso tra i leader occidentali, che assomigliano sempre più ai pazienti di una casa di cura per malati di mente, con il loro comportamento antisociale e sociopatico. Ecco allora Gabriel Attal, il giovane primo ministro francese, che coglie l’occasione di un pranzo per la comunità armena a Parigi alla presenza di vari ambasciatori per lanciare un attacco verbale ingiustificato contro uno dei suoi ospiti: l’ambasciatore russo se n’è andato, ed io Sono solo sorpreso che non abbia schiaffeggiato Attal dicendogli di crescere. Questo è il tipo di comportamento che si associa ai bambini disturbati o agli adulti senili, non ai presunti leader nazionali.

È anche un comportamento che associ a persone che sono così legate a certe visioni del mondo, che non possono cambiare quelle opinioni senza sentirsi minacciate psichicamente. Suppongo che potrei essere accusato di parzialità, ma ho trascorso la mia esistenza professionale in due ambiti – governo e mondo accademico – dove in linea di principio, se non sapevi di cosa stai parlando, la gente non ti ascoltava. Ma ovviamente la capacità di affrontare i problemi è necessariamente sempre limitata, e la qualità sia del governo che del mondo accademico è diminuita drasticamente negli ultimi anni, quindi forse non sorprende che i governi occidentali si siano ritrovati completamente all’oscuro di ciò che stava accadendo all’inizio della crisi. , perché semplicemente non pensavano che valesse la pena dedicare risorse all’informazione. Bastava “sapere” che la Russia era una nazione debole e in declino, che Putin era un dittatore spietato, che l’esercito russo era incompetente, e così via. (Difficilmente si potrebbe chiedere un esempio migliore, tra l’altro, di come la “conoscenza” viene costruita dal potere: Foucault deve stare ridendo da qualche parte.)

In effetti non è stato molto difficile. Potresti leggere un libro, ok, un articolo, sulla strategia militare russa. Potresti leggere un articolo, anche un breve articolo, sulla politica russa dal 1990. Potresti leggere Clausewitz, ok, un articolo su Clausewitz, o per l’amor di Dio anche Wikipedia, e dopo questo saresti meglio informato della stragrande maggioranza dei politici ed esperti sul perché e sul come di ciò che sta accadendo. L’assoluta riluttanza di coloro che sono coinvolti in questa controversia – da tutte le parti – a informarsi semplicemente sui fondamenti della strategia, dell’organizzazione e degli schieramenti militari, su come funzionano realmente la NATO e le organizzazioni internazionali e su come vengono combattute le guerre, continua a stupirmi. Non è che sia difficile apprendere alcune nozioni di base, ma le persone sembrano preferire rimanere coccolate nei loro bozzoli ideologici, piuttosto che imparare qualcosa.

Quindi possiamo dare per scontato che la classe politica occidentale e i suoi esperti parassiti non ammetteranno mai di aver fondamentalmente frainteso quello che stava succedendo perché non potevano prendersi la briga di scoprirlo. È come se qualcosa di così basilare e umile come scoprire cosa sta succedendo fosse troppo difficile, e comunque al di sotto di loro. C’è tutta una controversia feroce e inutile che viene combattuta in uno spazio virtuale da persone completamente separate dalla realtà. In passato, questo non aveva molta importanza perché le conseguenze della nostra ignoranza non sono mai tornate a perseguitarci. Questa volta lo faranno.

Non sorprende, quindi, che gli esperti, e per quanto si può raccogliere anche molti politici, siano incapaci di vedere la fine della crisi se non in uno dei due modi improbabili. Il primo è effettivamente Business as Usual, vale a dire che l’Occidente “fa pressione” su Zelenskyj affinché “negozi” e “accetta” di “parlare” con i russi, presentando richieste occidentali che equivalgono a qualcosa di simile a una versione più piccola dell’Ucraina del 2022. Dopo tutto, “non dobbiamo lasciare che la Russia tragga profitto dall’aggressione” o “determiniamo il futuro dell’Ucraina”, non è vero? È difficile vedere quanto si possa diventare più distaccati dalla realtà, ma questa è la fantasia collettiva in cui vivono le persone, a causa dell’ignoranza volontaria di cui ho parlato. Dopotutto siamo “più forti” no? Presto l’Ucraina avrà un nuovo esercito, forte di mezzo milione di persone, e un Occidente che ha un PIL e una popolazione molto più grandi della Russia, sarà in grado di armarlo ed equipaggiarlo, quindi i negoziati si svolgeranno da una posizione di forza. Non è vero? Non credo che sia possibile discutere con persone che pensano queste cose, perché cambiare idea richiede l’acquisizione di una conoscenza, che è intrinsecamente esclusa. Così com’è, ora c’è una confusione totale tra ciò che vogliamo che sia vero e ciò che è effettivamente vero, nella mente delle élite occidentali. L’idea che la Russia possa effettivamente dettare l’esito di eventuali “negoziati” sull’Ucraina è così lontana dal loro quadro di riferimento che deve essere sbagliata, e scoprire i fatti basilari che spiegano perché ciò accade è troppo difficile, e comunque sotto di loro. Le società liberali, dopo tutto, funzionano secondo un ragionamento induttivo basato su postulati arbitrari.

La visione alternativa è che ora stiamo andando impotenti verso la Terza Guerra Mondiale, che inizierà con “l’escalation della NATO”, e passerà attraverso una guerra convenzionale a tutto campo, generalmente nella direzione di un olocausto nucleare. Al momento i paragoni con il 1914 sembrano essere ovunque.

Ciò trascura le realtà sottostanti. Per poter intensificare l’escalation, è necessario avere qualcosa con cui intensificare l’escalation e un posto dove farlo: la NATO non ha né l’uno né l’altro. L’idea che la NATO abbia enormi forze disponibili in attesa di essere impegnate è una fantasia, basata su vaghi ricordi della Guerra Fredda e sul fatto indubbio, ma irrilevante, che la popolazione della sola Europa occidentale è il doppio di quella della Russia. È come dire che domani la Cina batterà inevitabilmente l’Olanda nel calcio, perché la sua popolazione è molto più numerosa. Il fatto è che gli enormi eserciti di leva che sarebbero stati mobilitati durante la Guerra Fredda semplicemente non esistono più. Gli eserciti europei sono pallide ombre di ciò che erano in passato: con personale insufficiente, attrezzature insufficienti, fondi insufficienti e strutturati per il tipo di guerra di spedizione che è stata persa in Afghanistan, ma che si presumeva fosse la norma per il futuro. E non sono solo io a sottolineare quest’ultimo punto, è il generale Schill, il capo dell’esercito francese, e torneremo su di lui tra un minuto.

Le unità operative delle forze armate occidentali, deboli e indebolite come sono, non sono progettate per il tipo di guerra che si sta combattendo in Ucraina, e verrebbero rapidamente annientate, anche se per qualche miracolo logistico potessero essere organizzate e trasportate in Ucraina. il fronte di battaglia. Ma che dire degli Stati Uniti, chiedi? Non hanno ancora centomila soldati in Europa? Ebbene sì, ma la stragrande maggioranza di essi opera nelle unità aeree (che non svolgeranno un ruolo importante), nell’addestramento, nella logistica, nelle bande militari e in altre attività nelle retrovie. Ci sono “piani” per inviare unità dagli Stati Uniti in Polonia ad un certo punto, ma per il momento, tutto ciò che gli Stati Uniti potrebbero davvero contribuire sarebbero forze meccanizzate leggere, truppe aeromobili ed elicotteri: non così utile quando il tuo avversario ha divisioni corazzate. (La situazione è complicata da schieramenti temporanei, esercitazioni, rotazione di unità e “piani” annunciati, ma anche in circostanze ideali le forze che gli Stati Uniti potrebbero portare in battaglia non sono molto più che un fastidio per quanto riguarda i russi.)

Quindi l’“escalation” da parte dell’Occidente in questo senso non ha senso. Esiste un fenomeno chiamato “dominanza dell’escalation”, che è abbastanza semplice da spiegare, e funziona così. Tu hai un coltello, io ho un coltello più grande. Tu hai un grosso coltello, io ho una pistola. Tu hai una pistola, io ho un’arma automatica. Tu hai un’arma automatica, io ho un carro armato. In altre parole, una volta che un nemico riesce a eguagliare qualsiasi mossa che fai e ne fa una più forte, potresti anche arrenderti. I russi hanno un crescente dominio sull’Occidente, e chiunque si prenda la briga di ricercare il relativo potenziale militare delle due parti lo capirà immediatamente. Inoltre, l’Occidente non può nemmeno inviare unità in contatto con i russi senza enormi difficoltà e pesanti perdite, mentre i russi possono colpire la NATO più o meno come vogliono.

È per questo motivo, forse, che solo poche teste calde hanno seriamente immaginato un combattimento tra le forze NATO e la Russia. Le fantasie ora sembrano concentrarsi sul posizionamento di alcune forze NATO in alcune parti dell’Ucraina per fermare l’avanzata russa. Ma siamo di nuovo al dominio dell’escalation. L’idea sembra essere che se un plotone di soldati della NATO bloccasse la strada per Odessa, i russi si fermerebbero in quel punto perché avrebbero paura delle reazioni della NATO se li passassero sopra. E queste reazioni sarebbero… quali, esattamente? È abbastanza chiaro che i russi stanno cercando di evitare uno stato di guerra formale con l’Occidente, perché complicherebbe molto le cose. Ma è anche molto chiaro che prenderebbero di mira direttamente le truppe della NATO se lo sentissero necessario, e che non ci sarebbe molto che la NATO potrebbe fare al riguardo, se lo facessero. Sembra esserci la convinzione pericolosa – ancora una volta ignoranza volontaria – che i russi siano in linea di principio spaventati da una “escalation” della NATO, e questo potrebbe influenzare il loro comportamento. Ma non c’è motivo di pensare che sia effettivamente vero.

Quindi non ci sarà la Terza Guerra Mondiale, perché una parte ha poco o nulla con cui combattere. Né qui ci troviamo in una sorta di situazione del 1914 bis . L’immagine popolare della Prima Guerra Mondiale iniziata per caso dopo un oscuro assassinio in realtà non sopravvive alla lettura di un breve libro sull’argomento: ancora una volta ignoranza volontaria. Nel 1914 l’Europa era un enorme campo armato in cui tutte le maggiori potenze avevano ragioni per anticipare la guerra, obiettivi già formulati e piani già fatti. La Germania stava contemplando un attacco preventivo per paura di una rapida crescita della potenza militare francese e russa. La Francia era pronta ad entrare in guerra per recuperare i territori dell’Alsazia e della Lorena. L’Austria-Ungheria era determinata a dare alla Serbia una lezione militare. La Russia non era disposta a permettere che ciò accadesse. Le tendenze centrifughe minacciavano di fare a pezzi l’impero asburgico. Gli stati balcanici che avevano ottenuto l’indipendenza dagli ottomani ora si combattevano tra loro. Perfino la Gran Bretagna, pur sperando di restarne fuori, era pronta a farsi coinvolgere per impedire ai tedeschi di prendere il controllo dei porti sulla Manica. Inutile dire che oggi la situazione è completamente diversa: non c’è nulla di serio per cui l’Occidente e la Russia possano combattere adesso , e non c’è molto con cui combattere l’Occidente , in ogni caso.

In alcuni ambienti c’è una convinzione persistente che le guerre “accadono” o “scoppiano” indipendentemente dalla volontà umana. Questo non è vero. Sì, la Prima Guerra Mondiale “scoppiò” in un sonnolento agosto, quando i leader nazionali erano in vacanza, e in una certa misura, una volta avviati i massicci programmi di mobilitazione che coinvolgevano milioni di uomini, era difficile fermarli. Ma anche se si fosse potuto fermare la corsa alla guerra, i problemi di fondo non sarebbero scomparsi. La Germania si sentiva circondata da Francia e Russia. La prima stava aumentando le dimensioni del suo esercito, la seconda si stava rapidamente industrializzando. Ogni anno la situazione strategica tedesca peggiorava e i tedeschi non potevano combattere guerre totali contro entrambi gli avversari contemporaneamente. La Francia si sarebbe mobilitata più rapidamente e avrebbe dovuto essere affrontata per prima. Se si fosse potuta risolvere la crisi politica dell’estate 1914, questi problemi sarebbero rimasti gli stessi e, dal punto di vista tedesco, sarebbero peggiorati. Se non ora quando?

Chiaramente la situazione attuale è totalmente diversa. E non penso che stiamo per scivolare giù per un pendio verso la Terza Guerra Mondiale. Non posso provarlo, ovviamente, più di quanto non posso provarlo se esco dalla porta di casa nei prossimi minuti. Non mi farò investire da un idiota ubriaco su uno scooter elettrico che scandisce slogan calcistici. Ma alcune cose sono talmente improbabili da poter essere ignorate ai fini pratici, e questa è una di queste. E no, le armi nucleari tattiche non sono rilevanti qui. Ce ne sono solo una manciata in Europa, tutte bombe a gravità che richiedono che un aereo voli fisicamente sopra o molto vicino al bersaglio. I preparativi dell’Ucraina o della NATO per spostare e caricare armi nucleari sarebbero evidenti dalle immagini satellitari ed è dubbio che i russi aspetterebbero più del necessario. Gli aerei dovrebbero essere basati vicino alla linea del fronte e qualsiasi aereo sopravvissuto al decollo verrebbe rapidamente distrutto. Generali pazzi, forze nucleari in allerta immediata ed esplosioni nucleari accidentali sono tutti un bel divertimento hollywoodiano, ma in pratica i governi esercitano un controllo politico fanatico su tutto ciò che ha a che fare con le armi nucleari.

Quindi, se né il Business as Usual né la Terza Guerra Mondiale sono probabili esiti, quale sarà la fine di questa crisi? Ebbene, qui è istruttivo osservare una debacle simile del secolo scorso: i tedeschi riuscirono a invadere efficacemente tutta l’Europa occidentale in pochi mesi. Ciò fu avvertito in modo particolarmente crudele in Francia, e il sangue sui morti non si era ancora asciugato prima che iniziasse la guerra delle memorie. Uno dei principali partecipanti fu Paul Reynaud, una figura conosciuta oggi solo dagli specialisti, e forse intravista vagamente nelle biografie di De Gaulle, di cui era mecenate e sostenitore. Reynaud, in realtà un individuo piuttosto comprensivo e patriottico, fu Primo Ministro durante il periodo catastrofico in cui l’esercito francese sembrava pronto a cadere a pezzi e i suoi generali chiesero un armistizio per paura di una rivolta comunista. Reynaud (che dovette anche fare i conti con la sua amante Hélène de Portes, una fanatica germanofila che si autoinvitava alle riunioni del gabinetto e che si presume avesse più potere di lui sulle decisioni del governo) si dimise piuttosto che chiedere un armistizio, e fu in parte incarcerato della Guerra. Ma dopo la Liberazione, e come ogni buon politico, ottenne per primo la sua ritorsione sotto forma di memorie, con il titolo, beh, provocatorio, La Francia ha salvato l’Europa . Non vi disturberò con l’argomento, che è complicato e altamente sospetto, ma il libro è un eccellente esempio di un modo di affrontare una catastrofica sconfitta politica: non è stata colpa mia. Infatti, nelle prime pagine del libro, dopo aver stilato un elenco degli errori e degli errori che hanno portato alla sconfitta, Reynaud pone la domanda preferita del politico: chi è il responsabile?

Ora, anche se è giusto dire che Reynaud ha meno responsabilità di molti altri per la sconfitta (anche se il suo sostegno alle proposte di De Gaulle per un esercito molto più piccolo e professionale in un momento in cui erano necessari eserciti di coscritti di massa è almeno curioso). i “colpevoli” da lui identificati (era fedele a Mme de Portes fino alla fine), facevano tutti parte del gioco competitivo di gettare fango che caratterizza le conseguenze di ogni sconfitta. Altri hanno prodotto a loro volta le proprie memorie di auto-discussione, dopo le quali gli storici si sono uniti con entusiasmo alla gettata di fango, e lo fanno ancora. Quindi la prima fase del post-Ucraina sarà così: non è stata colpa mia. Avevo le risposte giuste. Se solo mi avessero ascoltato.

La differenza, però, è che il 1939-40 fu una serie di disastri che non potevano essere nascosti. I tedeschi avevano invaso l’Europa ed era impossibile far finta che non fosse così, o che il risultato fosse qualcosa di meno di un disastro. Ma esiste un altro tipo di crisi e di disastro, più equivoco, in cui è possibile sostenere, con faccia seria, che avrebbe potuto andare peggio. Questo è, ovviamente, un riflesso professionale di tutti i politici, spesso combinato con la denigrazione degli altri (“OK, ci sono stati problemi, ma altri governi hanno fatto molto peggio con l’inflazione/Covid/criminalità o altro.”). Un buon esempio è la crisi di Suez del 1956. Anthony Eden, l’allora Primo Ministro, sostenne fino alla fine della sua vita che l’operazione era stata un successo parziale: aveva impedito a Nasser, e all’Unione Sovietica alle sue spalle, di invadere l’intero Nord Africa in nome del suo potere. ideologia rivoluzionaria. Molti colleghi e contemporanei di Eden erano d’accordo con lui.

Naturalmente l’operazione di Suez non è stata lanciata solo con questo scopo in mente, ma è stata lanciata principalmente per riprendere possesso del Canale di Suez e, nel caso francese, per fermare il sostegno dato dal governo egiziano al FLN in Algeria. Ciononostante, l’argomento è un buon esempio di come salvare qualcosa dalle macerie, e penso che sarà ciò che vedremo anche per l’Ucraina.

Il successo e il fallimento, in guerra così come in politica, vanno principalmente a coloro che controllano la comprensione di cosa siano il successo e il fallimento. Fin dall’inizio della crisi ucraina, era chiaro che l’unico risultato accettabile per l’Occidente era la vittoria, il che significava che la vittoria doveva essere definita e ridefinita man mano che le circostanze cambiavano. Per la maggior parte, l’enfasi è stata posta meno sulla vittoria occidentale, che sulla sconfitta russa, quindi se si guarda indietro ai media, si vede una serie infinita di sconfitte russe, che portano alla situazione attuale in cui i russi sono sull’orlo della sconfitta. distruggendo completamente l’esercito ucraino. Il punto, ovviamente, è che, proprio come poteva andare peggio è una vittoria per noi, così poteva andare meglio è una sconfitta per loro. Quindi ci è stato detto che i russi volevano catturare Kiev – un’idea comunque ridicola – e non l’hanno fatto, quindi è stata una sconfitta. Poi ci è stato detto che si aspettavano di invadere l’Ucraina nel giro di poche settimane – cosa che evidentemente non avevano mai avuto intenzione – e il loro fallimento è stata una sconfitta. Poi ci è stato detto che il loro fallimento nel conquistare gran parte dell’Ucraina – ancora una volta, non avevano mai avuto intenzione di farlo – è stata un’altra sconfitta. E così via. E in ogni caso, la “sconfitta” russa è stata anche la “vittoria” occidentale, perché stavamo fornendo ai coraggiosi ucraini gli strumenti di cui avevano bisogno.

Il risultato è che possiamo, credo, ora vedere il profilo della difesa da parte della classe politica occidentale del suo comportamento e della sua cattiva gestione della guerra. Se dovessi scrivere un discorso per un leader occidentale da tenere nel 2025, probabilmente consisterebbe in quanto segue.

  • Dopo la fine della Guerra Fredda l’Occidente auspicava rapporti pacifici e costruttivi con la nuova Russia, e per qualche tempo ciò sembrava possibile.
  • Tuttavia, con l’arrivo di Putin al potere è diventato chiaro che il recupero dei vecchi territori sovietici e un’ulteriore espansione erano di nuovo all’ordine del giorno.
  • Ciononostante, l’Occidente ha continuato a cercare di mantenere una coesistenza pacifica, nonostante le dichiarazioni aggressive e minacciose di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007, e il suo tentativo di minare la convenzione tradizionale secondo cui gli stati possono aderire e abbandonare le organizzazioni internazionali come desiderano.
  • Nel 2014 era diventato chiaro che la nostra fiducia e il nostro ottimismo erano stati malriposti. La presa della Crimea, seguita dal tentativo di conquistare parti del Donbass, ha cambiato completamente la situazione. Era ormai evidente che il piano per dominare e prendere il controllo di gran parte dell’Europa occidentale era in corso.
  • I leader di Francia e Germania riuscirono a stabilizzare brevemente la situazione attraverso gli accordi di Minsk che costrinsero temporaneamente l’espansione russa. Ma era evidente che si trattava solo di una tregua temporanea e che gli ucraini non avrebbero potuto resistere ad un’altra seria offensiva russa.
  • La NATO ha quindi avviato un programma accelerato per rafforzare le forze ucraine per scoraggiare o, se necessario, sconfiggere un’ulteriore aggressione russa.
  • Gli ultimata presentati ai governi occidentali alla fine del 2021 hanno chiarito che Mosca aveva deciso per una guerra totale. Nessun governo democratico avrebbe potuto accettare tali termini e nessun parlamento li avrebbe ratificati.
  • La guerra che l’Occidente ha cercato così duramente di evitare è iniziata nel febbraio 2022 e si è trasformata in un disastro militare per i russi, a causa dell’eroica resistenza delle forze ucraine e del sostegno generoso e instancabile fornito dalle democrazie di tutto il mondo. La Russia è riuscita a conquistare solo un quarto del paese a un prezzo terribile.
  • Tuttavia la Russia rimane un avversario pericoloso e imprevedibile e l’Occidente deve ora adottare misure per rafforzare le proprie difese per scoraggiare o proteggere da ulteriori aggressioni russe.

Ora, qualunque cosa tu o io possiamo pensare, stimerei che tra la metà e i due terzi dei decisori occidentali accetterebbero una simile interpretazione senza fare domande. Quasi tutti gli altri ne accetterebbero la maggioranza senza serie riserve. Ma il vero divertimento inizierà dopo la fine della crisi, con lo slogan If Only. Se solo avessimo fatto questo, o non avessimo fatto quello. Se solo avessimo fornito all’UA armi e addestramento migliori. Se solo avessimo dispiegato tempestivamente truppe della NATO in piccole quantità, se solo avessimo fornito questa o quell’arma, o dispiegato questi o quei sensori. Potrebbero anche esserci alcune anime coraggiose che sottolineano che se avessimo agito diversamente la crisi avrebbe potuto essere evitata, anche se senza dubbio verranno attaccate per la “pacificazione”. E i singoli leader politici e i paesi che rappresentano competeranno per aver avuto le migliori idee trascurate, per aver sostenuto con più forza le soluzioni che erano “efficaci” e per prendere le distanze il più possibile dal fallimento.

Questo è il contesto in cui comprendere le recenti osservazioni del presidente Macron. Ora Macron è in gran parte disinteressato, e di conseguenza largamente ignorante, negli affari militari. È il primo presidente francese della generazione che non ha prestato servizio militare. Ma ha alcuni consigli militari realistici, e se si legge tra le righe delle sue dichiarazioni, spesso confuse, è abbastanza chiaro che non sta sostenendo l’invio di truppe francesi in Ucraina in un ruolo di combattimento, e certamente non senza il sostegno di molti altri paesi. . Allo stesso modo il riferimento alla possibilità di riunire 20.000 uomini in una forza internazionale nell’articolo firmato dal generale Schill la settimana scorsa si collocava in un contesto in cui non venivano menzionate le parole “Ucraina” e “Russia”, e non si trattava certo di un supervisione. (Per quello che vale, la cifra di 20.000 ha fatto alzare le sopracciglia, e in ogni caso una forza del genere poteva essere mantenuta sul campo solo per pochi mesi.)

Ciò a cui stiamo assistendo sono i primi colpi sparati nella battaglia per prendere il controllo delle questioni di difesa e sicurezza europee dopo la fine dell’attuale crisi. Da un lato i francesi vogliono uscirne come difensori dell’Europa, con le idee giuste al momento giusto, esortando sempre le nazioni a fare la cosa giusta, facendo sacrifici ecc. ecc. Che si tratti di un plotone o di una compagnia di truppe sia schierato o meno a Odessa, in pratica ha poca importanza. Se lo saranno, allora avranno fermato l’avanzata russa grazie alla leadership francese. Se non stanno bene, questa è stata una buona idea della Francia che nessun altro paese ha avuto il coraggio di seguire. In entrambi i casi vincono. Poiché non vi è alcuna possibilità di schieramenti di combattimento, tutto ciò può essere fatto con un rischio politico minimo.

Ma perché i francesi fanno questo, e perché guida un presidente notoriamente ignorante in materia di affari militari? Ebbene, innanzitutto dobbiamo disimparare un po’ di voluta ignoranza. L’atteggiamento anglosassone nei confronti della Francia è sempre stato un miscuglio inquietante di invidia disperata e disprezzo arrogante, e poche persone possono effettivamente prendersi la briga di prendersi la briga di guardare il contesto storico e culturale. Quindi facciamo un salto veloce.

La Francia entrò nel dopoguerra con un solido consenso politico sulla necessità di ristabilire la “gloria” e il “rango” della Francia nel mondo. La guerra fu uno sfortunato incidente, che doveva essere risolto. Ciò doveva essere ottenuto in due modi: il primo mantenendo l’Impero, sostenuto da tutti i principali partiti politici, compresi i comunisti. L’altro era ricostruire militarmente la Francia, cosa che presto arrivò a includere lo sviluppo di armi nucleari, iniziato in segreto all’inizio degli anni ’50 e dato con maggiore urgenza da Suez. I francesi, spinti come sempre da freddi calcoli di interesse nazionale, hanno accolto con favore lo spiegamento di truppe americane in Europa, sia come barriera eliminabile (“perché far uccidere ragazzi francesi quando puoi far morire degli americani per te”, come hanno affermato più di un francese mi ha detto un ufficiale) e come garanzia che questa volta gli Stati Uniti sarebbero effettivamente venuti immediatamente in aiuto dell’Europa in caso di guerra, e anche per non provocare alla leggera una crisi con l’Unione Sovietica. Questo concetto della presenza statunitense – metà agnelli sacrificali e metà ostaggi – era particolarmente potente in Francia, ma in realtà la maggior parte dei paesi europei la pensava allo stesso modo. Tuttavia, per ragioni di “rango”, anche i francesi perseguirono per oltre un decennio l’idea di un “triumvirato” interno alla NATO, composto da loro stessi, dai britannici e dagli Stati Uniti, ma senza successo. La progressiva disillusione di De Gaulle nei confronti della struttura militare integrata della NATO fu in gran parte una continuazione dell’atteggiamento dei suoi predecessori, ma, libero dalla guerra d’Algeria e ora dotato di armi nucleari, fu in grado di ritagliarsi un ruolo nazionale molto più indipendente. Ma l’interesse nazionale ha dettato anche la cooperazione con gli Stati Uniti, che è sempre stata stretta anche se poco pubblicizzata, spesso burrascosa e astiosa, ma alla fine utile per entrambe le parti.

Ci sono decenni di cose interessanti da saltare, ma menzioniamo solo tre cose. Dal Ruanda nel 1995, e in particolare dopo il caos della Costa d’Avorio, i successivi governi francesi cercarono una via d’uscita onorevole dagli impegni militari unilaterali in Africa, per concentrarsi nuovamente sull’Europa e sulle operazioni della NATO. (Chiunque pensi che le crisi politico-militari tra la Francia e gli Stati dell’Africa occidentale siano in qualche modo nuove o diverse ha vissuto sotto una roccia negli ultimi trent’anni.) C’è stato un serio tentativo in tal senso sotto il presidente Sarkozy (2007-2012), ma è caduto vittima di ogni sorta di lobby, non ultimi gli stessi leader africani. Alla fine, alcune forze furono ritirate, ma non tutte. Il secondo era la progressiva crescita al potere della cosiddetta tendenza “neoconservatrice” nella politica e nel governo francese, che vedeva gli Stati Uniti come l’unica “iperpotenza” e non solo condivideva le opinioni dei neoconservatori di Washington, ma credeva anche La Francia dovrebbe essere un subordinato leale. Il terzo è stata la crescita parallela della lobby “europea” (leggi “UE”) nella politica e nel governo francese, e persino la ridenominazione del nuovo Ministero degli Affari Europei ed Esteri. I francesi avevano sempre favorito le politiche intergovernative (uno dei pochi ambiti in cui erano d’accordo con gli inglesi), ma si trovarono sempre più dominati dalla Commissione e da organi sovranazionali come la CEDU.

I francesi erano sempre stati favorevoli alla costruzione di una capacità di azione militare indipendente da parte dell’Europa, nella quale avrebbero svolto un ruolo importante. Questo era un argomento politico più che altro: un continente con un’Unione politica che non poteva controllare e schierare le proprie forze non era veramente sovrano. Ma i tentativi francesi di costruire tali forze – “separabili ma non separate”, come diceva la frase – furono effettivamente sabotati dagli inglesi per diversi decenni.

La mia impressione è che le cose potrebbero cambiare ancora una volta. Più della maggior parte delle nazioni europee, i francesi sembrano rinunciare agli Stati Uniti come partner. La capacità militare degli Stati Uniti si è rivelata debole laddove conta, ma al contrario il sistema politico di Washington – qualora sopravvivesse fino al 2025 – sembra pericolosamente instabile e capace di provocare crisi ingestibili. È chiaro che gli Stati Uniti non saranno mai più un attore importante nelle questioni militari europee. Con grandi spese e difficoltà, potrebbe essere possibile riesumare e riparare carri armati e veicoli blindati immagazzinati, trovare comandanti e sottufficiali e lentamente costruire e schierare forse un’unica divisione corazzata in Europa, nel corso dei prossimi cinque anni circa, se c’erano la volontà politica e il denaro e se i problemi pratici potevano essere risolti. Ma ciò non influirà molto sugli equilibri di potere. E può darsi che l’industria della difesa statunitense sia andata in declino al punto che non sarà mai più in grado di produrre armi efficaci. In tal caso, il ruolo della Francia come leader de facto nelle questioni di difesa e sicurezza europee sarà assicurato, anche come unica potenza nucleare nell’UE. L’esercito tedesco è uno scherzo e gli inglesi si stanno dirigendo da quella parte. I polacchi hanno ambizioni ma non sarebbero accettabili in un ruolo di leadership. E l’UE sta rapidamente diventando tossica come attore nel settore della sicurezza, dove comunque non ha alcun diritto di presenza.

Ciò, lo ripeto, ha poco a che fare con la guerra in Ucraina, ma molto di più con la forma dell’Europa successiva. Potrebbe darsi che, in un modo che nessuno avrebbe potuto immaginare trentacinque anni fa, ci stiamo finalmente muovendo nella direzione per cui i francesi hanno spinto per tutto quel tempo. E dobbiamo ringraziare i russi per questo. Quanto è divertente?

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Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi. Intervista a Massimo Morigi, a cura del prof Umberto Marsilio

UN CONVEGNO SU ANTONIO DE MARTINI PER LA  NASCITA DI UNA NUOVA GEOPOLITICA MAZZINIANA 

Alcune domande dello storico Umberto Marsilio al prof. Massimo  Morigi, filosofo politico e cultore della storia risorgimentale e del  repubblicanesimo. Le domande sono state poste a seguito della  visione di Marsilio della conferenza Lo Stato delle Cose della  Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, conferenza tenuta  da Morigi presso la Società degli Uomini della Casa Matha di  Ravenna e disponibile su YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM&t=4693s . Più  l’annuncio di un prossimo convegno di studi per onorare la memoria  del geopolitico mazziniano Antonio De Martini 

 In seguito alla visione su YouTube della mia conferenza Lo Stato  delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, lo  storico Umberto Marsilio ha ritenuto opportuno pormi alcune  domande alle quali ben volentieri rispondo, premettendo che per  alcune, che riguardano più prettamente l’ histoire événementielle, sarò  necessariamente laconico (ciò dovuto allo stato della ricerca  storiografica che non consente maggiore precisione), per altre, che  investono direttamente la storia delle idee sarò forse ridondante, e  questo dipende indubbiamente dalla mia specifica competenza nello  studio ed insegnamento della filosofia politica.  

qui il testo in formato pdf

MAZZINI DE MARTINI MORIGI MARSILIO INTERVISTA

 Rispondo quindi alla domanda che mi pone Marsilio in merito  alle somiglianze e differenze caratteriali e politiche fra Mazzini e  Garibaldi. È sempre difficile, se non impossibile, indagare la  psicologia intima delle persone, siano queste nostre dirette conoscenze o personaggi storici. I personaggi storici, tuttavia, hanno sulle persone  che non hanno svolto vita pubblica, una via privilegiata per  scandagliare la loro psicologia perché essi dovettero per ragioni  “professionali” rapportarsi con vasti aggregati umani al fine di  indirizzarne non solo il presente o il futuro da qui ad una generazione,  come possono o si illudono di fare le persone non pubbliche ma con  più ristrette cerchie familiari e/o amicali, ma di determinare il futuro  di numerose successive generazioni e per svolgere questa missione essi  dovettero costruirsi non solo una maschera personale e/o familiare ma anche una maschera pubblica.  

 Ora dal punto della maschera pubblica, non si potrebbero  concepire due personaggi più diversi di Mazzini e Garibaldi. Molto  appropriatamente lo storico del movimento repubblicano e del  Risorgimento Roberto Balzani ha affermato che Garibaldi costruì il  suo carisma sulla presenza e sul riconoscimento ictu oculi della sua persona e sul contatto diretto col suo stesso corpo (i Mille potevano  vedere e, se volevano o le circostanze glielo consentivano, addirittura toccare l’oggetto del loro mito, e, in generale, tutto il mito di Garibaldi  fu costruito su stereotipi che rimandavano ad un paradigma di  sacralità – e quindi di carisma politico – di stampo cattolico cristologico dove la visione dell’immagine è fondamentale  nell’adorazione della divinità), mentre Giuseppe Mazzini, sostiene  sempre Balzani ed io concordo in pieno, fu l’eroe dell’assenza, voglio  dire dell’assenza della sua immagine e del suo contatto diretto presso i  suoi seguaci, fra i quali pochissimi ebbero modo di vederlo e  riscuotendo, nonostante questo, fortissimi sentimenti di ammirazione e  folte schiere di seguaci (una intensità di sentimenti e foltezza di  seguaci che però dopo ogni sommossa mazziniana regolarmente fallita  andarono mano a mano scemando e dopo ogni rovescio dei moti da  lui suscitati molti dei suoi seguaci lo abbandonavano per abbracciare  percorsi più realistici e moderati per il loro patriottismo). Plastico in questo senso di leadership per assenza, il caso dei fratelli Bandiera che  si immolarono per gli ideali mazziniani senza mai avere visto una sola  volta il Maestro di Genova.  

 Per quanto riguarda gli ideali che accomunavano Mazzini e  Garibaldi, facile rispondere. Entrambi volevano l’unificazione del  nostro paese, solo che Mazzini voleva che l’Italia fosse unificata e al  tempo stesso fosse retta da una forma di governo repubblicana mentre  per Garibaldi l’unica cosa importante era l’unificazione e la forma di  governo, in fin dei conti, non era così importante perché egli si  acconciò ben volentieri al fatto che a dirigere l’unificazione del paese  fosse il Piemonte retto dalla monarchia sabauda.  

 È assolutamente indispensabile a questo punto fare però una  precisazione. E non tanto su Garibaldi e sul suo pragmatismo  nell’azione ma su Mazzini e sul suo ideale repubblicano e questo mi  consente fra l’altro di rispondere ad un’altra domanda che Marsilio  mi ponte e che è la seguente «per quali motivi oggi Mazzini è ritenuto  un Pater Patriae sebbene la sua visione e la sua azione politiche non  sono state determinanti nel processo di unificazione?». Ora ad un  livello superficiale di risposta si potrebbe dire perché infine la  monarchia che Mazzini tanto detestava ha cessato di esistere e al suo posto abbiamo oggi una “bella” repubblica, nata, si dice sempre, dalla  resistenza che su di sé seppe accogliere i migliori empiti anche del  risorgimento, dei quali Mazzini seppe dare espressione non solo per la  sua lotta per l’unificazione del paese e per la forma di governo  repubblicana ma anche per la sua visione sociale, di cui la Repubblica  fondata sul lavoro avrebbe saputo cogliere le sue idealità ed i  propositi. 

 

 Ma, purtroppo, qui siamo in piena costruzione non tanto di un  mito mazziniano (se studiato a fondo, uno dei rischi che corre anche lo  storico più smaliziato ed arcigno è di mitizzare Mazzini, vedi  Salvemini con i suoi giudizi sempre altalenanti fra l’ipercritico e  l’ammirato su Giuseppe Mazzini) ma in pieno mito regressivo sui  quarti di nobiltà che dovrebbe vantare la nostra repubblica, o meglio, siamo in pieno mito regressivo e di rimozione sulla realtà effettuale 

della genesi e natura reale della sua costituzione materiale che anche  oggi, ancor dopo più di settant’anni dalla sua nascita, anche a livello  non meramente pubblicistico e/o giornalistico ma anche in sede  scientifica o pseudotale, continua ad essere rappresentata come una  repubblica nata dalla resistenza contro il totalitarismo fascista e  quindi in virtù di questo mitologico inizio incontestabilmente  democratica (in realtà nacque dalla sconfitta ed occupazione militare  anche se, dobbiamo pure dirlo, non c’è storia di fondazione di nessuna  nazione che non sia intrisa di mitologia e/o di false e ridicole  rappresentazioni della stessa, da questo punto di vista paese che vai  mito di fondazione che trovi), mentre nella realtà effettuale della sua  costituzione materiale la nostra repubblica solo con molta fantasia può  essere definita, qualsiasi cosa si intenda col termine, come una  democrazia, manifestandosi essa come una cristallina e tetragona oligarchia elettiva seppur a suffragio universale e sul significato di  questa definizione non penso sia necessario dilungarsi se non  addentrandoci su un “piccolo” dettaglio in merito al pensiero di  Giuseppe Mazzini.  

 Ora se si va a leggere a fondo e per esteso Mazzini, ci accorgiamo  che egli impiega assai di rado il termine ‘democrazia’ e gli preferisce il  termine ‘repubblica’, intendendo con repubblica non solo il dato  puramente istituzionale (e qui siamo in piena banalizzazione del  pensiero di Mazzini così come oggi lo intendono i suoi attuali stanchi  emuli), ma proprio una forma di Stato che fosse finalizzata all’insegna della tutela e sempre maggiore valorizzazione della Res Publica,  intendendo quindi Mazzini la Repubblica come quell’insieme di  valori materiali e spirituali verso i quali era dovere di tutti i cittadini  agire in vicendevole collaborazione al fine di ottenerne un sempre  maggior accrescimento e potenziamento di generazione in  generazione.  

 A ciò si potrebbe obiettare che anche la nostra repubblica e in  Costituzione ed anche nelle sue politiche concrete si pone questi  obiettivi mazziniani ma qui io non voglio sindacare sull’efficacia nel  raggiungimento di questi buoni propositi (penso non sia necessario un  mio giudizio al riguardo…) ma su un fatto che riguardo a Mazzini non  viene mai messo in rilievo e si tratta del seguente punto: Mazzini  aveva una visione olistica della società che era radicalmente nemica  della visione atomistica della società così come la vede e disegna il  liberalismo e così come è strutturata nella reale filosofia di impianto e  nell’azione delle forze politiche che agiscono nella repubblica italiana.  

 Questo atomismo di fondo nella visione della società è  solidalmente condiviso sia dalla attuale “destra” politica che dalla  attuale “sinistra” politica, da questo punto di vista non ci sono  differenze ma, ancor peggio (o ancor meglio, lo studioso  weberianamente deve segnalare i valori in gioco ma dopo, per quali  prender parte, è la coscienza di ognuno di noi che deve assumersi  l’onere decisione finale), bisogna dire che il male (o il bene, lo ripeto,  dipenda dal carattere di ognuno di noi decidere per quali valori  propendere) proviene dalle origini di questa repubblica, che non  nacque su un patto costruttivo e condiviso di valori basato sulla  tradizione storico-morale della nazione ma su una finzione valoriale nata dal compromesso politico fra i valori delle forze comuniste e  quelli delle forze cattoliche e che celava una terribile sconfitta militare e la conseguente umiliante sottomissione “democratica” verso i  vincitori (Art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come  strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di  risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di  parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un  ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;  promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale  scopo.», non ha altro significato effettuale che stabilire che l’Italia  rinuncia alla guerra perché impossibile da muovere solo con le sue  deboli forze ma vi partecipa se quelle potenze anticomuniste che  hanno vinto la seconda guerra mondiale ritengono necessario che lo  faccia. Ogni riferimento alle odierne vicende è puramente casuale… ). 

 E quindi rispondo alla domanda: se Mazzini viene preso sul serio  non può essere considerato un padre nobile di questa patria perché il  suo pensiero, e riprendo qui una definizione di Costanzo Preve impiegata dal filosofo pensando ad una rifondazione in senso  umanistico del marxismo, imporrebbe tutto un ‘riorientamento  gestaltico’ della nostra vita politico-sociale, riorientamento gestaltico  all’insegna di una visione olistica della società e assolutamente nemico  della impostazione liberale anomica ed atomistica della stessa, in  questa impostazione anomica ed atomistica, fra l’altro, la democrazia  rappresentativa italiana (ma parlando in sede di analisi politologica,  lo ripeto, si dovrebbe dire al posto di ‘democrazia rappresentativa’ ‘oligarchia elettiva a suffragio universale’) in assoluta buona  compagnia con tutte le forme di democrazia rappresentativa (cioè di  oligarchia elettiva) di tutti quei paesi che oggigiorno, definizione nata  in seguito alla guerra russo-ucraina, vengono definiti presi nel loro  insieme come “occidente collettivo” (definizione coniata da Putin per  designare le potenze occidentali che gli si contrappongono nella guerra  russo-ucraina ma ormai fatta propria, per una sorta di eterogenesi dei  fini, anche dallo stesso occidente che muove guerra, seppur non dichiarata e per procura, alla Russia. Prima della caduta del muro di  Berlino, aveva corso legale il termine ‘mondo libero’, libero, cioè, dal  comunismo e per questo comprendente anche le liberissime dittature  militari latino-americane; oggi che il comunismo è sepolto e quindi  non si può più lottare per difendersi da un morto, per combattere la  Russia e la Cina in un mondo sempre più multipolare ed  imprevedibile, è meglio richiamarsi all’idea di un mitico occidente che  si contrapporrebbe alle autocrazie asiatiche russe e cinesi. In  conclusione, quello di ‘occidente’ termine dal nobilissimo orizzonte valoriale e dalle profondissime radici storico-filosofiche ma in questa  fase storica prostituito dagli italici ed esteri pennivendoli agli interessi  della Nato…).  

 È noto come Gramsci non amasse Mazzini e su questo fatto è  stato in passato sottolineato che se sullo specifico Gramsci imputava a  Mazzini di non aver affrontato, e con lui tutto il risorgimento, la  questione contadina, su un piano più generale ciò sarebbe dovuto  perché l’uno, Gramsci, era portatore di un pensiero totalitario mentre  Mazzini può essere considerato l’alfiere di un pensiero democratico,  dando all’aggettivo una semantica del tutto sovrapponibile a quella  conferitagli dalla versione liberal-atomistico-anomica anzi descritta.  

 E qui siamo in presenza di un vero e proprio travisamento del  pensiero mazziniano: Mazzini nei suoi scritti con molta parsimonia  impiega il lemma ‘democrazia’ preferendogli il termine ‘repubblica’ e  questa non è una casualità lessicale perché, come ho cercato di  illustrare, la repubblica mazziniana intende agire nell’ambito e  forgiando una società olistico-organica nella quale certo, le libertà  politiche ed individuali non sono assolutamente conculcate ma nella  quale il termine ultimo di riferimento e legittimità non è mai il singolo  individuo anonimicamente ed atomisticamente inteso ma il popolo olisticamente inteso (dalla maggior parte dei suoi attuali sfiancati  emuli, lo scritto più rappresentativo del pensiero di Giuseppe Mazzini,  i Doveri dell’Uomo, con la sua idea della primazia dei doveri sui diritti,  altro non significherebbe altro, sic et simpliciter, che prima di  reclamare un diritto bisogna aver ottemperato al complementare  dovere senza porsi, questi tristi emuli, troppe domande del perché di  questa gerarchia, se non affermando la fuorviante banalità che per  Mazzini la morale veniva prima della politica – o, tradotto in maniera  ancora più banale, che il mio diritto finisce dove comincia quello del  mio vicino –, mentre quello che voleva far emergere Mazzini con la  sua teoria della prevalenza dei doveri sui diritti è che la società è un  tutto organico e che l’individuo è sì importante ma è solo concepibile  all’interno di questa società verso la quale, proprio in virtù della sua  totalità organica, si ha il dovere di concepirla sovraordinata rispetto  all’individuo che pur giustamente reclama i diritti). 

 Possiamo quindi dire che fra Gramsci e Mazzini sussistono, certo, profonde differenze, l’uno guardava alla classe operaia e  contadina come base di manovra per la sua azione politica mentre  Mazzini guardava al popolo italiano ma se la classe operaia e la classe  contadina costitituiscono per Gramsci la totalità politica sulla quale  doveva agire il nuovo principe partito comunista per portare queste  due classi all’autocoscienza della propria totalità organica, per  Mazzini, non classista ma in un certo senso ugualmente “totalitario” 

(totalitario ma non autoritario-dittariale e penso sia meglio per questa  comunicazione risparmiarci la ricostruzione dell’origine del termine e  del suo impiego da parte di Mussolini, del fascismo e poi anche, se non  soprattutto, da parte della pubblicistica di stampo liberal democratico: ad altra puntata…), la totalità sulla quale svolgere  l’azione politica era il popolo italiano nella sua interezza e l’agente che  doveva portare il popolo italiano alla consapevolezza della sua totalità  organica doveva essere sempre un partito politico, ma repubblicano, da lui guidato che, tramite sommosse e financo azioni che noi oggi  definiremmo terroristiche, avrebbe cercato di far sorgere questa  autocoscienza di totalità organica nel popolo italiano.  

 Quindi sia Mazzini che Gramsci nella storia del pensiero politico  italiano possiamo dire che fossero entrambi portatori di una linea di  azione che possiamo dire ‘olistico-culturalista’ perché in assenza del  suscitamento politico e pedagogico da parte dell’avanguardia politica  dell’autoscoscienza della propria natura olistica sulle rispettive masse di riferimento (classe operaia e contadina in Gramsci, popolo italiano  in Mazzini) nessuna azione politica sarebbe stata né possibile né di  alcun valore (i moti mazziniani che Mazzini sapeva votati ad un  probabilissimo fallimento nell’immediato sono da Mazzini stesso  indicati come fenomenale strumento pedagogico e i Quaderni del  Carcere di Gramsci, oltre che testimoniare una incrollabile fede di  stampo veramente mazziniano nel trionfo finale della causa  rivoluzionaria, sono intesi dal rivoluzionario sardo come strumento  per portare le sue due classi di riferimento alla propria autocoscienza  organica, premessa indispensabile questa autocoscienza per il trionfo  della rivoluzione comunista). L’antipatia di Gramsci verso Mazzini  può quindi anche essere considerata come la percezione da parte del  rivoluzionario sardo di avere avuto una sorta di precursore nella metodologia ed impostazione valoriale da parte di un personaggio il  quale, però, non guardava esclusivamente al proletariato e alla massa  contadina come base di azione politica, mentre di tutt’altro segno,  giusto per fare un esempio che ci aiuti a rendere più chiaro il concetto,  era l’avversione di Gobetti verso Mazzini: in questo caso il campione  della rivoluzione liberale, quindi una rivoluzione sì ma una rivoluzione  che avrebbe ancor più accentuato i tratti atomistici e anomici del già allora esistente regime liberale, non poteva che considerare un vuoto  filosofema tutta l’impostazione olistico-organica mazziniana. 

 

 Vengo ora velocemente a rispondere alle altre domande tenendomi per ultima la domanda di Marsilio relativa allo “stato delle  cose” sui vizi e le virtù della odierna geopolitica italiana. Per quanto  riguarda la domanda se l’epilogo della Repubblica Romana sia il  segno delle divergenze politiche e di azione che già si potevano  intravvedere fra Mazzini e Garibaldi, rispondo che rispetto a quanto  fin qui affermato sulle loro differenze, nella Repubblica Romana  rifulse il genio politico di Mazzini mentre Garibaldi, anche se efficace  sul piano militare, non riuscì nella maniera più assoluta a concepire 

un percorso politico per cercare di salvare la Repubblica Romana  (Mazzini cercò sempre una trattativa col corpo di spedizione francese venuto per sopprimere la Repubblica Romana giocando sulle  ambiguità politiche e sulla tradizione rivoluzionaria della Repubblica  francese mentre Garibaldi voleva semplicemente rigettarla manu  militari a mare, un progetto assolutamente impossibile da realizzare).  Quindi anche se alla fine il progetto mazziniano di trascinare a fianco 

– o in posizione di neutralità – della Repubblica Romana la repubblica  francese fu un fallimento, esso dimostra che in questo caso il vero  pragmatico della politica era Mazzini mentre Garibaldi, in fondo,  altro non si comportò e connotò che come un validissimo militare ma  sprovvisto di alcuna visione politica, e questo contrariamente a quanto  si dice tuttoggi anche a livello storiografico che Garibaldi fosse un  concreto uomo d’azione mentre Mazzini sarebbe stato una sorta di  generoso acchiappanuvole. Se vogliamo usare queste usurate categorie, è semmai vero il contrario. Mazzini il concreto uomo  politico, Garibaldi il generoso, efficace uomo d’azione, ma in fin dei  conti, politicamente ingenuo acchiappanuvole.  

 E sulla base di questo ribaltamento degli stereotipi pubblico caratteriali dei due personaggi mi avvicino alla domanda di Marsilio  sul perché la guerra di Crimea vide la contrarietà di Mazzini alla  partecipazione piemontese e rispondo affermando che Mazzini aveva capito benissimo che il monarchico regno di Sardegna tramite questa  partecipazione avrebbe avuto ascolto fra le grandi potenze europee e  questo, oltre a dare una svolta moderata e monarchica a tutto il  movimento rivoluzionario italiano, celava anche un altro rischio che la  storiografia non ha mai a sufficienza sottolineato: mentre Mazzini e  Garibaldi intendevano per unificazione italiana tutta la penisola più le  isole principali, intendevano cioè un’Italia con un territorio più o  meno sovrapponibile a quello odierno, il regno di Sardegna e  segnatamente Cavour non pensavano assolutamente a questo tipo di  assetto territoriale, volendo Cavour ingrandire il Piemonte a spese  del dominio diretto dell’Austria nell’Italia del nord e forse  aggiungendo, se proprio si vuole esagerare, qualche propaggine  dell’Italia centrale. Cavour definiva l’idea di una unificazione di tutta  la penisola una autentica corbelleria e mi preme sottolineare che se la  spedizione dei Mille fu segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele  II e dalla Gran Bretagna dovette affrontare la contrarietà di Cavour.  Comunque, per farla breve: il sognatore Mazzini era ben al corrente  di tutti questi rischi qualora l’iniziativa della rivoluzione italiana fosse  passata al Regno di Sardegna, Garibaldi bellamente li ignorava o  fingeva di ignorarli.  

 In merito alla domanda quanto Mazzini stimasse Garibaldi e se  la stima di Garibaldi verso Mazzini fosse superiore a quella che  Mazzini aveva per Garibaldi, rispondo molto semplicemente che allo  stato degli atti si può affermare che ad un’iniziale vicendevole e  profonda stima, a partire dalla Repubblica Romana in poi mai  nessuno dei due mise in dubbio la buona fede dell’altro ma le accuse  che entrambi vicendevolmente si scagliarono riguardarono l’altrui  l’ingenuità politica e la conseguente facilità di manipolazione: nel caso delle accuse di Mazzini contro Garibaldi, ad opera della monarchia  sabauda e nel caso delle accuse rivolte a Mazzini, secondo Garibaldi in  una sorta di automanipolazione mazziniana dovuta alle proprie elucubrazioni ideologiche e dalla sua intransigenza repubblicana che  non avrebbero lasciato alcuno spazio di manovra politica con chi  repubblicano non era ma intendeva comunque lottare per  l’unificazione del paese. Sull’intensità intima di questi vicendevoli  sentimenti di apprezzamento e di ridimensionamento delle rispettive figure, confesso che non so pronunciarmi, in quanto i due personaggi  furono due figure pubbliche e quando si scrive e si agisce per la storia  c’è sempre, in positivo come in negativo, un non detto, sul quale è  sempre molto difficile esprimerci.  

 In merito alla domanda di Marsilio sulle potenze che i due eroi  del Risorgimento stimavano di più, per Garibaldi è facile rispondere:  Garibaldi stimava moltissimo la Gran Bretagna (vedi la mia  conferenza e anche i lavori Eugenio Di Rienzo) e da questa fu anche 

decisamente aiutato nella sua Spedizione dei Mille mentre Mazzini  pur avendoci vissuto molti anni non espresse mai sentimenti di così  forte amicizia pur non arrivando mai direttamene ad accusare  l’Inghilterra di una politica imperialista (veramente, come ho detto  nella mia conferenza, Mazzini era ben consapevole che l’Inghilterra  faceva i suoi comodi a danno di coloro che si mostravano più deboli e  meno resistenti all’avanzata dell’uomo bianco, solo che questa aperta sincerità Mazzini la riteneva dannosa, alla luce del suo realismo  politico, per tessere alleanze per una futura unificazione dell’Italia e  dall’altro lato, Mazzini non era del tutto contrario al colonialismo  europeo, perché, non molto originalmente rispetto alla sua epoca, da  lui ritenuto propedeutico alla diffusione della civiltà). Ma per essere  veramente sintetici, Mazzini amava profondamente solamente una  nazione e questa era l’Italia che nei disegni mazziniani doveva costituire il fulcro del futuro concerto europeo costituto dalle nazioni  liberate dal giogo delle potenze continentali di allora, l’Austria e la  Russia, ed affratellate in seguito all’abbattimento della Santa  Alleanza, all’insegna di una egemonia italiana meritata sul campo della distruzione di queste potenze prevaricatrici dei diritti dei popoli  europei.  

 Alla domanda cosa pensavano Cavour e Vittorio Emanuele di  Mazzini, rispondo molto semplicemente che se fosse loro capitato fra  le mani e avessero potuto decidere unicamente alla luce delle loro  convinzioni personali, lo avrebbero impiccato. Non so quindi cosa gli  avrebbero fatto se fosse effettivamente capitato fra le loro mani, i due  personaggi in questione erano sempre uomini politici e in politica non  sempre, anzi quasi mai, si fa quello che si vorrebbe, ma sicuramente  dare seguito alla condanna a morte che il Regno di Sardegna aveva  posto sul suo capo, certamente rispondeva alla loro più sentita convinzione.  

 Infine rispondo alle forse più importante domanda di Marsilio  in merito alle virtù e manchevolezze della geopolitica italiana. Senza  voler fare l’elenco delle più o meno commendevoli iniziative di  pubblicistica geopolitica che in seguito alla guerra russo-ucraina  hanno preso vigore e che sono sorte principalmente sul Web (e in  questo generale movimento di rinnovamento di queste varie iniziative  di pubblicistica geopolitica anch’io ho dato, soprattutto sul piano della  riflessione teorica attraverso l’elaborazione del paradigma del  Repubblicanesimo Geopolitico, il mio modesto contributo; ma di esso  non parlerò oltre perché altro è l’argomento dell’intervista. Una cosa  è però assolutamente necessaria dirla: i primi vagiti del  Repubblicanesimo Geopolitico furono ospitati dalle colonne on line del  blog di geopolitica “Il Corriere della Collera”, ora cessato nelle sue  pubblicazioni – ma ancora in Rete – per la morte del suo fondatore, lo  studioso di politica internazionale, il mazziniano, pacciardiano e  quindi fautore ante litteram della repubblica presidenziale Antonio De Martini, al cui impareggiabile magistero politico, scientifico e morale dovrà necessariamente ispirarsi la geopolitica italiana per la sua  auspicabile rifondazione ab imis ma, in conclusione, del succitato  movimento di rinnovamento della geopolitica italiana non mi dilungo  oltre in quanto, proprio per la sua carica innovativa, eccentrico  rispetto al mainstream della geopolitica italiana e quindi lodevolmente  con scarso valore di rappresentatività della stessa e, comunque, chi si  ritenga incuriosito da questa mia affermazione può benissimo andarsi  ad ascoltare la mia conferenza, nella quale viene elencata, oltre alle  lodevoli nuove iniziative di riflessione geopolitica, anche una nutrita  schiera di “esperti” geopolitici, molto esperti nel realismo politico ma  solo pro domo loro…), parlerò solo di “Limes” e del suo valente  direttore e deus ex machina Lucio Caracciolo.  

 Ora uno dei suoi ultimi editoriali su YouTube si intitola Stiamo  perdendo la guerra. Medio Oriente e Ucraina in fiamme. L’Italia paga il  conto ma non conta, ed io ho già definito questo titolo e il contenuto del  video «disperazione ed ingenue illusioni di un geopolitico à la  recherche du temps perdu.». In estrema sintesi l’illusione: la Nato  nella guerra russo-ucraina si è dimostrata inefficace, l’Italia non può  però lasciare andare questo quadro di riferimento e deve quindi  rafforzare i legami con gli Stati Uniti tramite un trattato bilaterale che  rimedi alle problematiche messe in luce dalla crisi della Nato. Come si  dice: auguri e figli maschi. Necessità quindi di un riorientamento  gestaltico della politica e delle geopolitica italiane in senso mazziniano  come, appunto, avrebbe voluto De Martini. À suivre 

Massimo Morigi, nell’anno 2024 e nel mese della nascita della  Repubblica Romana del 1849 

P.S. dell’intervistatore. Il professor Massimo Morigi mi aveva concesso l’intervista pochi giorni dopo il IX febbraio, ricorrenza  mazziniana della nascita della Repubblica Romana del 1849. Più che  una coincidenza. E, inoltre. L’intervista era stata pubblicata originariamente in data 11 marzo 2024, il giorno dopo l’anniversario  della morte di Giuseppe Mazzini (altra coincidenza…) sulla rivista on  line “Nazione Futura” (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20240313160712/https://www.nazi 

onefuturarivista.it/2024/03/11/mazzini-e-garibaldi-nelle diatribe-geopolitiche-risorgimentali/ ) ma si è ora ritenuto  opportuno ripubblicarla sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” (forse l’iniziativa on line che Morigi sente talmente vicina e propria  che egli, per una sorta di pudore, non aveva nominato nell’intervista) perché egli mi ha comunicato che è intervenuto un fatto nuovo e  questo fatto nuovo consiste nel fatto che Morigi e “L’Italia e il  Mondo” hanno deciso di organizzare a Ravenna un convegno per  onorare la memoria del geopolitico mazziniano Antonio De Martini. Il  seguito all’insegna, ci auguriamo tutti, del motto mazziniano ‘Pensiero  e Azione’, che fu anche la stella polare dell’operato politico, scientifico  e morale di Antonio De Martini. Ora e sempre. 

Umberto Marsilio, Pasqua di Risurrezione 2024

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Luigi Mazzella, Critica della follia pura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Luigi Mazzella, Critica della follia pura (a cura di Ylva Mazzella), Genesi Editrice, pp. 421, € 18,00.

A cura della moglie Ylva sono raccolti nel volume tanti scritti di Luigi Mazzella che, quasi quotidianamente afferra l’occasione per esercitare una intensa e serrata critica agli idola contemporanei; usiamo il termine di Bacone perché quello moderno, cioè fake news è stato affibbiato dai padroni della parola alle esternazioni dei loro oppositori. Il filo conduttore dei quali è la critica a convinzioni e idee che sotto l’apparenza di una razionalità (ma anche di bontà, di compassione, di umanità, ecc. ecc.) compiono le più profonde rotture col pensiero razionale e ragionevole. Scrive l’autore «la “follia” di cui io intendo parlare è quella racchiusa nelle fandonie utopiche e nei sogni irrealizzabili in questo o in altri mondi, diffusa dai “fratelli” cristiani di Erasmo e, dall’Ottocento, dai “camerati” e dai “compagni” figli del post-platonico Hegel. Più che una follia è una caligine (mediorientale e teutonica) che annebbia la ragione e induce gli Occidentali a fare scelte sbagliate». E l’autore non pensa che attualmente le ideologie se la passino tanto male, ad onta del fatto che nel secolo scorso hanno esaurito, con due colossali sconfitte rapidamente il proprio “ciclo”. Questo perché i fideismi hanno soltanto cambiato le derivazioni (scriverebbe Pareto).

Al posto della società senza classi (Marx) e del Reich millenario (Hitler) hanno innalzato idoli (e idola) nuovi: dall’ambiente (e il clima) ai diritti umani, a quelli degli animali. E questi nuovi idola vengono usati essenzialmente per indicare il nemico da combattere, caricandolo di negatività ed anche di crimini, spesso di cui non è neppure responsabile. E dietro i quali si intravede una delle regolarità del politico: quella, tucididea della lotta per il potere e il dominio dell’uomo sull’uomo.

Oltretutto con ragionamenti spesso ingenuamente (ma occultamente) irrazionali, quelli che Freund  chiamava “razioidì”. Ad esempio il cambiamento climatico che tanto preoccupa (anche) l’UE, attribuito al consumo di combustibili fossili. Ma i dati dicono che il più inquinante dei quali, cioè il carbone, è utilizzato, per circa un terzo della produzione mondiale, dalla Cina, e per un altro 15% dall’India, mentre l’UE ne brucia neanche il 7%.

C’è da chiedersi perché Greta (e gretini al seguito) non vadano a manifestare da Xi o da Modi, invece che a Bruxelles. Forse se convincessero i leaders cinesi ed indiani il pianeta ne avrebbe un beneficio superiore.

La scarsa congruità allo scopo dichiarato della transizine climatica limitata all’Europa fa pensare che gli interessi sottostanti siano tutt’altri.

A questo punto tre considerazioni, per non gravare il lettore di una recensione che seppur meritata dal libro, sarebbe troppo lunga.

La prima: è vero che le religioni monoteistiche sono connotate da una intolleranza strutturale, perché se Dio è unico, vuol dire che gli dei degli altri non sono tali o meglio sono creature infernali, per cui il politeismo greco-romano, apprezzato da Mazzella, è per sua natura tollerante (vedi il Pantheon). Solo che anche per il politeisti – e per qualsiasi altra comunità umana, c’è un  nemico. Quello che nega la tolleranza del politeismo. Così ai tempi nostri, i nemici dei liberali, anche di quelli classici, erano coloro che negavano la libertà: cioè i vari totalitarismi. I regimi liberali, nazisti e comunisti erano largamente secolarizzati, onde la regolarità amico-nemico funziona in assenza di Dio. Perché in ogni sintesi politica c’è sempre qualcosa di assoluto: nel caso più “laico”, quello dell’esistenza della comunità.

La seconda è che le derivazioni (anche) dei totalitarismo erano costituite da mete superiori, mai raggiunte dall’umanità: che richiedevano uno sforzo prometeico. Le odierne paiono alla portata di qualsiasi frequentatore di internet e delle di esso limitate (e private) aspirazioni. Quelle erano ideali di società in  ascesa, queste di decadenti.

Non a caso (e siamo a tre) Mazzella ci ricorda le ciminiere europee che scompaiono e il capitalismo che qui è diventato essenzialmente finanziario.

Le conseguenze, ci ha ricordato qualche anno fa un generale, uno dei più influenti teorici militari cinesi è che il potere militare (e quindi politico) è quello di coloro che producano più beni reali, cioè, già da oggi, della Cina. E chi ha più potere, finisce sempre col comandare a chi ne ha di meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Gli Hawks spingono per un tour di reunion dell’asse del male, di DANIEL LARISON

Hawks pushing for 'axis of evil' reunion tour
ANALISI | POLITICA DI WASHINGTON

Il capo del Comando indo-pacifico, l’ammiraglio John Aquilino, ha recentemente messo in guardia i membri della Commissione per i servizi armati della Camera sulla crescente cooperazione tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, affermando: “Siamo quasi tornati all’asse del male”.

Negli ultimi anni si è assistito a una sorta di reviviscenza di questa screditata idea dell’era Bush, ed è diventato sempre più comune per i membri del Congresso e ora per gli alti ufficiali militari descrivere le relazioni tra i vari Stati autoritari utilizzando una qualche versione della ridicola frase di George W. Bush.

Se è vero che c’è stata una maggiore cooperazione tra questi quattro governi, è pericoloso e fuorviante suggerire che essi formino qualcosa di simile a una stretta alleanza o coalizione. Se gli Stati Uniti dovessero “agire di conseguenza”, come raccomanda l’ammiraglio Aquilino, rischierebbero di avvicinare molto di più questi Stati e di creare proprio l’asse che i funzionari statunitensi temono.

Le parole di Aquilino sono rivelatrici. Quando ha detto che “siamo quasi tornati all’asse del male”, sembra suggerire che egli pensi che ce ne sia stato uno reale che funge da modello per il gruppo attuale. Il primo “asse del male” denunciato da George W. Bush nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2002 era composto da tre Stati – Iran, Iraq e Corea del Nord – uniti solo dall’ostilità di Washington nei loro confronti. L’Iran e l’Iraq erano nemici da tempo e lo erano ancora all’epoca, e la Corea del Nord fu aggiunta al mix per non essere completamente concentrata sui Paesi a maggioranza musulmana. Questi Stati non lavoravano insieme e due di essi si opponevano l’uno all’altro.

Non c’era un asse allora e non c’è ancora adesso.

Lo scopo di legare insieme avversari non correlati è sempre stato quello di esagerare le dimensioni della minaccia per gli Stati Uniti per spaventare i politici e l’opinione pubblica e indurli a sostenere più spese militari e più conflitti all’estero. Se gonfiare la minaccia di un singolo avversario non è sufficiente a instillare sufficiente paura, l’invenzione di un asse che includa alcuni o tutti gli avversari del mondo può essere molto utile ai falchi. Poiché richiama automaticamente alla mente la Seconda Guerra Mondiale e la lotta contro le Potenze dell’Asse, li aiuta anche a demonizzare gli altri Stati e a soffocare il dissenso interno. I sostenitori delle politiche dei falchi in ogni regione saranno quindi incentivati ad abbracciare la retorica dell’Asse e a rafforzare queste opinioni tra i loro alleati politici.

Negli ultimi mesi diversi funzionari eletti, attuali e passati, hanno fatto riferimento a un nuovo “asse del male”. Il leader della minoranza del Senato Mitch McConnell (R-Ky.) ha usato questa espressione lo scorso ottobre, dimostrando il suo potenziale di gonfiare le minacce: “È un’emergenza che dobbiamo affrontare questo asse del male – Cina, Russia, Iran – perché è una minaccia immediata per gli Stati Uniti. Per molti versi, il mondo è più in pericolo oggi di quanto non lo sia stato nella mia vita”.

L’ex governatore della Carolina del Sud, Nikki Haley, l’ha usato per rafforzare le sue credenziali da falco quando si è candidata alla presidenza. I senatori Tim Scott (R.C.) e Marsha Blackburn (R.T.) Anche Tim Scott (R-S.C.) e Marsha Blackburn (R-Tenn.) si sono lasciati andare alla paura.

I quattro Stati che i falchi vogliono raggruppare come parte di un asse oggi hanno alcuni rapporti tra loro, ma le loro relazioni di sicurezza sono piuttosto deboli. Nessuno di loro è formalmente alleato della Russia, e Russia e Cina non hanno alcun obbligo di venire in aiuto dell’Iran. Tutti e quattro i governi sono guidati da leader intensamente nazionalisti e nutrono rancori per umiliazioni e conflitti passati che rendono difficile stabilire legami più stretti.

La Russia si è rivolta all’Iran e alla Corea del Nord per ottenere forniture di armi per la guerra in Ucraina, ma questo è stato il limite dei loro legami di sicurezza più stretti. Dei quattro Paesi, solo la Cina e la Corea del Nord hanno un trattato formale di difesa, ma nonostante ciò, la Cina e la Corea del Nord hanno un rapporto difficile. In particolare, la Cina si è astenuta dall’offrire alla Russia aiuti letali nella sua guerra in Ucraina. La partnership “senza limiti” che i due Paesi hanno annunciato poco prima dell’invasione russa del febbraio 2022 si è distinta per il limitato sostegno cinese alla Russia. Non si tratta certo di un’alleanza globale in fieri.

Il pericolo di basare la politica estera degli Stati Uniti su cose immaginarie dovrebbe essere ovvio. Se i politici statunitensi credono che la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord formino un asse quando non è così, questo distorcerà le politiche statunitensi verso tutti e quattro gli Stati in modo distruttivo. Invece di individuare i modi migliori per affrontare le controversie degli Stati Uniti con ciascun Paese, compreso l’uso dell’impegno diplomatico e l’alleggerimento delle sanzioni ove appropriato, ci sarà una forte tentazione di vedere ogni problema con ciascuno Stato come parte di una rivalità globale in cui non ci sarà spazio per il compromesso e la riduzione delle tensioni.

Quanto più i funzionari di Washington vedranno questi Stati come una coalizione ostile, tanto meno saranno propensi a negoziare con qualcuno di loro per paura di dare un segnale di “debolezza” agli altri.

Un’altra insidia della convinzione che questi Stati formino un asse è che ciò compromette la capacità di Washington di stabilire le priorità e di elaborare una strategia realistica per garantire gli interessi degli Stati Uniti. Una volta che i responsabili politici si convinceranno che tutti e quattro gli Stati sono collegati tra loro come parte di un asse, si rifiuteranno di distinguere tra interessi vitali e periferici e insisteranno sul fatto che gli Stati Uniti devono “contrastare” l’asse immaginario in ogni angolo del mondo. Ciò esacerberà le cattive abitudini di Washington di impegnarsi troppo e di investire troppo nelle regioni meno importanti.

Collegare Russia, Cina e Iran come parte di un asse è diventata una delle mosse retoriche preferite da alcuni falchi dell’Iran a Washington. Mike Doran dell’Hudson Institute, ad esempio, ha cercato di usarla per promuovere una politica più aggressiva contro l’Iran proprio di recente:

“L’Iran è l’anello debole dell’asse Russia-Iran-Cina. Gli Stati Uniti dovrebbero insistere su questa debolezza piuttosto che cercare di mantenere lo status quo. Mosca e Pechino ne prenderebbero certamente atto. Il modo più rapido per portare Putin al tavolo dei negoziati è indebolire il suo alleato, l’Iran. Perché le nostre élite di politica estera non sono in grado di riconoscere un’opzione strategica così ovvia?”.

Questo piano presenta alcuni difetti: l’asse in questione non esiste; la Russia e la Cina non avrebbero problemi se gli Stati Uniti volessero sprecare le loro risorse in un altro costoso conflitto mediorientale; la Russia e l’Iran non sono realmente alleati e indebolire l’Iran non sarebbe importante per il governo russo. Se gli Stati Uniti pensano erroneamente di poter infliggere danni a uno Stato autoritario minando gli altri, sprecheranno risorse e opportunità di impegno in cambio di nulla.

Nella misura in cui questi quattro Stati lavorano a più stretto contatto rispetto al passato, le politiche aggressive degli Stati Uniti hanno incoraggiato questa collaborazione. La ricerca del dominio degli Stati Uniti in ogni regione crea incentivi per le potenze regionali ad aiutarsi a vicenda, e il frequente uso di sanzioni da parte di Washington per punire tutti questi Stati dà loro un motivo in più per aiutarsi a vicenda a eludere le sanzioni.

L’approccio corretto degli Stati Uniti per aumentare la cooperazione tra questi Stati è quello di sfruttare le divisioni esistenti e di raggiungere un modus vivendi con il maggior numero possibile di Stati per spingere i cunei tra di loro.

Freund e Todd tra decadenza e disfatta di civiltà Con Roberto Buffagni Teodoro Klitsche de la Grange

Il tema della decadenza di una civiltà non è nuovo tra politologi e filosofi. Julien Freund ne è un acuto osservatore. La tesi assume contorni più nitidi e chiari a partire da metà ‘800. Al giorno d’oggi appare drammaticamente attuale anche se paradossalmente la percezione risulta più acuta tra le classi popolari e nel ménage quotidiano piuttosto che tra le élites e le classi dirigenti europee e statunitensi, non ostante tale processo stia assumendo le caratteristiche e le dimensioni di una vera e propria catastrofe. Emmanuel Todd lo ha sottolineato con certosina accuratezza. Due autori e due loro testi caduti sotto la lente di osservazione di Roberto Buffagni e Teodoro Klitsche de la Grange. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Uscire dalla trappola americana della contrapposizione NATO-Russia, del Generale (2S) Grégoire Diamantidis

Uscire dalla trappola americana della contrapposizione NATO-Russia: un prerequisito essenziale per l’emergere di un’Europa politica.
Introduzione
In un momento in cui il mondo è in profonda crisi economica e sta attraversando grandi cambiamenti politici, climatici, demografici e migratori, e in cui stanno emergendo nuovi confronti tra le due principali potenze mondiali, Cina e Stati Uniti, nonché tra le potenze regionali emergenti, l’Europa fatica a far sentire la propria voce. Consapevoli di queste debolezze e desiderosi di raggiungere questo status, alcuni Paesi europei stanno cercando da alcuni anni di dotarsi di risorse e strutture, sia militari che politiche, per garantire non solo autonomia decisionale, ma anche un peso politico commisurato al suo peso economico e demografico. Dalla metà degli anni Novanta sono state avviate diverse iniziative all’interno dell’Unione Europea nell’ambito della Politica europea comune di sicurezza e difesa (PESC): – la creazione dell’Agenzia europea per la difesa (AED) – il Fondo europeo per la difesa (FES); Inoltre, da quando è stato redatto il documento iniziale della Strategia europea di sicurezza e di difesa (SSSE), molta acqua è passata sotto i ponti e sono circolate molte idee e studi nel tentativo di estendere le competenze dell’Unione europea in materia di difesa oltre i compiti di Petersberg, che hanno portato in particolare a: – la decisione di creare una Cooperazione Strutturata Permanente (CPS), oppure – l’Iniziativa di Intervento Europea (IEI), con l’obiettivo di conferire una maggiore autonomia decisionale e di conduzione delle operazioni esterne. Allo stesso modo, il Trattato di Aquisgrana recentemente firmato da Francia e Germania e le dichiarazioni congiunte dei nostri due leader in vista di un esercito europeo sono tutti sforzi che vanno nella stessa direzione, quella di un’Europa che si faccia carico della propria difesa, dotandosi delle risorse e delle strutture militari necessarie per questa missione. Tuttavia, anche se queste iniziative rappresentano un passo nella giusta direzione, è chiaro che dopo oltre 70 anni di dipendenza dagli Stati Uniti per la propria sicurezza, l’Europa ha ancora un lungo e difficile cammino davanti a sé per liberarsi dall’assoggettamento, se non addirittura dalla sottomissione, in cui si è volontariamente posta nei confronti del suo grande alleato americano.

Se questa sottomissione poteva essere giustificata di fronte alla minaccia rappresentata dal Patto di Varsavia, la scomparsa di quest’ultimo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta hanno cambiato completamente la situazione, poiché la NATO, avendo perso la sua missione essenziale di difesa dell’Europa, ha perso allo stesso tempo la sua ragion d’essere, il che avrebbe dovuto portare ipso facto al suo scioglimento. Ma questo senza tener conto delle comode abitudini acquisite su entrambe le sponde dell’Atlantico, perché, al contrario, la NATO, su impulso degli Stati Uniti e con il consenso degli entusiasti europei, ha intrapreso una politica di autogiustificazione a oltranza, con conseguenze potenzialmente pericolose per l’Europa, come vedremo in seguito. Infatti, per i Paesi europei membri dell’Alleanza (con la notevole eccezione della Francia, che ha cercato di far rinascere l’UEO a partire dal 1991), tale scioglimento avrebbe significato prendere in mano la propria difesa, con il coraggio politico e finanziario che ciò comportava, e soprattutto per gli Stati Uniti avrebbe significato una grave perdita di influenza politica sul continente europeo occidentale, con ripercussioni economiche non indifferenti, soprattutto in termini di vendita di armi. Ecco perché resta ancora tutto da fare se si vuole che l’Europa raggiunga lo status di vera potenza militare e politica, indipendente dagli Stati Uniti, alleata ma non sottomessa. Non è scopo di questa analisi, in questa fase, proporre una soluzione o un’altra per dare all’Europa lo status di potenza autonoma, data la complessità del problema (sia politicamente che militarmente) e l’ampia gamma di opzioni possibili: una revisione radicale (o addirittura lo scioglimento?) dell’Alleanza Atlantica, la creazione di un’Alleanza Europea, una Confederazione Europea, la creazione di un nucleo europeo permanente, una struttura che permetta coalizioni ad hoc, e così via. Dall’altro, si propone di evidenziare l’urgenza per l’Unione Europea di uscire dalla doppia trappola in cui si è lasciata intrappolare sia dalla geopolitica della NATO che da quella degli Stati Uniti, se vuole acquisire un reale peso politico e militare, qualunque sia la forma e il modello futuro di una possibile Europa come vera potenza politica. Il meccanismo americano-ottomano di creazione artificiale del “nemico russo” attraverso la provocazione-reazione, che già da 20 anni ha pericolosamente riportato il continente europeo verso una “pace fredda”, in attesa di una nuova guerra fredda, deve essere interrotto con urgenza. All’interno dell’Unione Europea, solo la Francia, con l’aiuto della Germania, può e deve prendere iniziative forti, anche dirompenti, per raggiungere la Russia, al fine di convincere i nostri partner “sottomessi alla NATO” a riportarla in un’autentica partnership con l’Europa. Di fronte alle crescenti minacce nei suoi approcci meridionali, l’Europa non ha bisogno di creare una nuova minaccia a est. La vera sicurezza dell’Europa può essere raggiunta solo con la Russia, non contro di essa.

La trappola della NATO.

La riunificazione tedesca fu sancita il 12 settembre 1990 dal Trattato di Mosca, noto come “2+4” (RFT, DDR + Francia, Regno Unito, USA, URSS). Per consentire alla Germania di riacquistare la sua piena sovranità, esso prevedeva il ritiro di tutte le forze sovietiche, in cambio, tra l’altro, della rinuncia della Germania al possesso di tutte le armi di distruzione di massa, con le seguenti due clausole:- Art. 3 “…. [L’art. 5 stabilisce che le forze della NATO possono essere successivamente dislocate nella parte orientale della Germania, ma si impegnano a non dislocare armi nucleari dopo l’evacuazione dell’ex DDR da parte delle truppe sovietiche. Inoltre, per ottenere il consenso di Mikhail Gorbaciov all’ingresso della Germania Est nella NATO, la Germania (Helmut Kohl) e gli Stati Uniti (George H. W. Bush) si impegnarono verbalmente con la Russia a non estendere la NATO più a est, oltre i confini della Germania riunificata. Al contrario, sotto l’impulso degli Stati Uniti, la NATO non ha tardato a dimenticare le assicurazioni date alla Russia, adottando immediatamente una strategia molto più offensiva, che è stata chiaramente percepita come aggressiva dalla Russia.

L’allargamento della NATO: “La conquista dell’Est” …… o come far arretrare la Russia e isolarla coinvolgendo l’Europa nella manovra.1991

È particolarmente interessante notare che certi criteri molto spesso “anticipano” quelli, molto simili, che anche l’UE imporrà ai suoi futuri candidati. La NATO non svolgerà più un ruolo essenzialmente militare e di difesa, ma fungerà d’ora in poi da punto di riferimento morale e definirà cosa intende per “buona condotta” in termini di economia (liberalizzazione dei mercati), sistemi politici (forme di democrazia, sistema multipartitico, minoranze, ecc.), diritti umani, controllo democratico delle forze armate, ecc.

È notevole notare che nella stragrande maggioranza delle adesioni, la cronologia mostra chiaramente che o la NATO precede l’UE, o c’è una sincronizzazione virtuale, rendendo l’UE, nolensvolens e difficilmente caricaturale, l'”allegato economico” della NATO. Di fatto, per i Paesi candidati, l’accettazione da parte della NATO spiana la strada all’ingresso nell’UE, come mostrano i rispettivi calendari di adesione: Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca: NATO nel 1999 seguita dall’UE nel 2004; Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia: NATO e UE sincronizzate nel 2004; Bulgaria e Romania: NATO nel 2004 seguita dall’UE nel 2007; Croazia: NATO nel 2009 seguita dall’UE nel 2013. Certo, “il confronto non è ragione”, ma questo parallelismo, sia in termini di calendario che di condizioni di ammissione, è servito solo a rafforzare una certa osmosi UE/NATO preesistente: era la NATO a entrare nell’UE o l’UE nella NATO? E in effetti, sembra che a partire dagli anni Duemila, nonostante il tentativo di riavvicinamento alla Russia, la NATO, rifiutando la mano tesa da Medvedev, sia stata seguita dall’UE, che ne ha seguito l’esempio, cosicché queste due organizzazioni sono apparse di fatto complementari nelle loro politiche di pressione, intervento, sanzioni ed emarginazione della Russia. Così, come vedremo, dall’inizio di questo secolo l’UE – in quanto tale o attraverso alcuni dei suoi Paesi membri – si è trovata associata, volente o nolente, alle politiche interventiste della NATO e degli Stati Uniti, sia in Europa che al di fuori di essa, portando in ultima analisi al ripristino della “buona vecchia minaccia russa”, essenziale per la sopravvivenza della NATO e per il mantenimento dell’Europa sotto tutela americana.
Intervento e mantenimento della pace: la NATO va oltre i suoi confini. Kosovo: la NATO decide senza un mandato ONU, l’Europa la segue, la Russia è umiliata
Dopo aver permesso lo smantellamento pacifico dell’URSS, la Russia si è trovata fortemente ridimensionata sia economicamente che militarmente e ha dovuto risolvere gli enormi problemi creati in tutto l’ex spazio sovietico dall’improvvisa perdita della sua zona cuscinetto a ovest e dalla presenza di grandi minoranze russe al di fuori dei suoi nuovi confini. La Russia riteneva che la sua “vittoria” sul sistema sovietico, e la pace che così offriva al mondo, giustificasse l’alto prezzo che stava pagando, ma naturalmente pensava di avere il diritto di aspettarsi un aiuto dall’Occidente in cambio della sua ripresa. Purtroppo, l’Occidente, sotto l’influenza degli Stati Uniti, fedeli alla loro ossessione per la Russia, ha interpretato la situazione in modo del tutto diverso, considerandola nient’altro che una vittoria sulla Russia che doveva essere sfruttata il più rapidamente e il più efficacemente possibile.
Questo le consentirà di intervenire in vari modi per destabilizzare o addirittura scatenare una guerra, il più delle volte con l’obiettivo finale di umiliare, isolare o stigmatizzare la Russia e, se possibile, provocarla a commettere errori, che saranno poi prontamente denunciati e trasformati in una minaccia per la pace, giustificando così il rafforzamento della NATO. Lo schema classico per giustificare queste guerre umanitarie sarà sempre di questo tipo: intense campagne mediatiche – il più delle volte fuorvianti – con indignazione selettiva e mobilitazione dell’opinione pubblica occidentale per far leva sui governi alleati della NATO, seguite dalla loro partecipazione a coalizioni a geometria variabile. Se necessario, senza l’accordo dell’ONU, i risultati possono essere disastrosi sia politicamente che in termini di perdite umane, ma la NATO punterà sempre, nel corso dei suoi interventi, ad allontanare la Russia dall’Europa attuando questa spirale di autogiustificazione. A questo proposito, la guerra in Kosovo è un caso da manuale.

La guerra in Kosovo: un monumento alla disinformazione, alla menzogna e alla manipolazione
Il 24 marzo 1999, tredici Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), tra cui Stati Uniti, Francia e Germania, hanno bombardato la Repubblica Federale di Jugoslavia per 78 giorni. La guerra è stata lanciata sulla base di una vasta menzogna mediatica volta a “scaldare” l’opinione pubblica occidentale e a farle adottare la posizione della NATO.
All’inizio la campagna di disinformazione.
I giornali più seri e alcuni canali televisivi non hanno esitato ad accusare i serbi di genocidio: loro [i serbi] commettono un “genocidio”, “giocano a calcio con teste mozzate, scuoiano i cadaveri, strappano i feti alle donne incinte uccise e li grigliano”, secondo il ministro della Difesa tedesco, le cui parole sono state riprese dai media; hanno ucciso “tra le 100.000 e le 500.000 persone” (TF1, 20 aprile 1999), incenerendo le loro vittime in “forni del tipo usato ad Auschwitz” (The Daily Mirror, 7 luglio). Allo stesso modo, un presunto piano serbo “Potkova” (ferro di cavallo) per la pulizia etnica dei kosovari già nel 1998 è stato presentato dai media occidentali (dall’ispettore generale della Bundeswehr) e ha fortemente influenzato l’opinione pubblica, in vista di un coinvolgimento della Germania. La diffusione di questo documento da parte della Germania nell’aprile 1999 è servita da pretesto per intensificare i bombardamenti. In questa vicenda, i principali disinformatori sono stati i governi occidentali, la NATO e i più autorevoli organi di stampa europei. Questo piano si è rivelato nel dopoguerra un falso fornito alla NATO dai servizi bulgari!
Poi il casus-belli: Racak o la fabbricazione del colpevole ideale, la Serbia.
Nel villaggio di Racak, in Kosovo, sono stati scoperti 45 cadaveri all’inizio del 1999. La scoperta fu immediatamente trasformata dai media occidentali in un massacro di civili albanesi attribuito alle forze serbe.
Le forze serbe provocarono l’indignazione mondiale e furono usate come pretesto per giustificare i bombardamenti sulla Jugoslavia. La NATO aveva finalmente il suo casus-belli. All’epoca dei fatti, ero personalmente responsabile delle ispezioni sul disarmo delle varie parti belligeranti dell’ex Jugoslavia (accordi di Dayton-Parigi), compresa la Serbia, sulla responsabilità serba di questo massacro, la cui macabra messa in scena ci sembrava una manipolazione di dubbia origine (secondo certe mutilazioni “codificate”, sembrava piuttosto la firma delle mafie albanesi); ma non avevamo alcuna certezza. L’indagine fu affidata a una donna finlandese di fama mondiale. A capo di un’équipe di investigatori internazionali, la dottoressa Helena Ranta, specialista in medicina legale, fu rapidamente sottoposta, attraverso i suoi superiori, a forti pressioni americane per dare credito alla falsa versione della colpevolezza serba in questo caso. Infatti, William Walker, il capo americano della missione OSCE in Kosovo nell’inverno 1998-1999, furioso per le conclusioni del suo rapporto, che non aveva usato “un linguaggio sufficientemente convincente” sulle atrocità serbe, intervenne presso il Ministero degli Esteri finlandese per esigere da lei “conclusioni più approfondite”. Era assolutamente necessario che dimostrasse che gli spari che avevano ucciso le vittime erano il risultato di un’esecuzione. L’obiettivo degli Stati Uniti era quello di aiutare i guerriglieri separatisti albanesi (l’UCK) e di inscenare un massacro attribuito ai serbi in modo che l’Occidente potesse intervenire militarmente contro la Serbia, alleata e amica della Russia. Helene Ranta fu infine costretta a dichiarare alla stampa che “sì, è stato un crimine contro l’umanità”,
e infine la guerra,
che per la NATO è consistita in 78 giorni di operazioni tra marzo e maggio 1999, con più di 58.000 sortite aeree, la maggior parte delle quali ha preso di mira le infrastrutture serbe. La Serbia è stata infine costretta ad accettare il piano di pace che le è stato imposto in giugno e ha dovuto ritirare le sue truppe dal Kosovo, che è stato posto sotto la supervisione internazionale della KFOR dell’ONU e della NATO.
Le conseguenze per l’Europa e il mondo.
La guerra in Kosovo ha avuto diverse conseguenze: – ha umiliato la Russia mettendola di fronte al fatto compiuto della perdita da parte della Serbia, sua alleata, di una provincia, il Kosovo, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza nel 2008 (immediatamente riconosciuta dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi europei); – ha dimostrato che la NATO può aggirare le Nazioni Unite per dichiarare la legge e scatenare una guerra, e poi usare le Nazioni Unite per gestire la crisi che ne deriva (KFOR/ONU),

Ha legittimato l’attacco al principio della sovranità degli Stati e dell’inviolabilità delle frontiere (la Russia se ne ricorderà quando ha annesso la Crimea (senza bombe e senza sparare un colpo), indebolendo così il multilateralismo dell’ONU, indebolendo il multilateralismo dell’ONU a vantaggio dell’unilateralismo americano, ha avvicinato la Russia alla Cina (la cui ambasciata a Belgrado era stata bombardata), portando alla creazione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel giugno 2001. Più fondamentalmente, la NATO, disinibita com’era, ha potuto approfittare della momentanea debolezza della Russia per estendere il suo allargamento fino ai confini russi a partire dai primi anni 2000 e rafforzarsi militarmente, creando così un vero e proprio cordone sanitario. In effetti, è stato più facile sfruttare la paura – certamente del tutto comprensibile – che la Russia poteva incutere negli Stati baltici, trasformandoli immediatamente in uno “scudo contro l’Orso russo”. Nello stesso spirito, invece di aiutare l’OSCE a gestire, con la Russia e non contro di essa, i vasti problemi lasciati in eredità dalla caduta dell’impero sovietico, l’Occidente ha sostenuto le “rivoluzioni colorate” del 2003 in Georgia e del 2004 in Ucraina, al fine di insediare leader filo-occidentali e portare questi Paesi fuori dall’orbita della Russia. Nel giugno 2008, nel tentativo di rompere questa morsa, la Russia ha proposto un nuovo “Patto di sicurezza europeo” volto a risolvere i conflitti irrisolti in Europa orientale (Transnistria, Abkhazia, Ossezia, ecc.), Abkhazia e Ossezia del Sud), in cambio di un certo grado di neutralità nei confronti della NATO da parte di Georgia, Ucraina e Moldavia, cioè del suo immediato “retroterra”. Inoltre, al fine di preservare l’equilibrio della deterrenza nucleare con gli Stati Uniti al livello più basso possibile in Europa, la Russia mirava anche a risolvere la questione nucleare iraniana, un pretesto usato dagli americani per dispiegare il loro scudo antimissile in Europa, che in realtà mirava ai missili russi. Nel complesso, il progetto prevedeva la creazione di un partenariato strategico con l’UE e la NATO, comprendente vari aspetti: militari (disarmo convenzionale), economici (forniture di energia), diritti umani, ecc. Nell’agosto 2008, la Georgia, incoraggiata dalla NATO, ha pensato di poter risolvere i separatisti osseti e abkhazi con la forza delle armi e, nel giro di poche settimane, ha perso la guerra contro i secessionisti sostenuti dalla Russia. In questo modo, la Russia ha dimostrato che l’Occidente si era spinto troppo oltre e che ora intendeva darsi i mezzi per esercitare la propria influenza nella sua immediata zona di sicurezza.
L’affare ucraino
La destabilizzazione da parte degli occidentali. Il colpo di stato antirusso.
La Russia ha reagito in Crimea, l’orso è diventato finalmente aggressivo e la NATO ancora più indispensabile.
Eravamo tornati all’era del confronto, proprio come voleva la NATO. La strategia di ricerca del confronto con la Russia in Europa era ormai consolidata e sarebbe proseguita fino al suo culmine con la vicenda ucraina di “Euromaidan”, in cui l’UE e la NATO hanno svolto un ruolo importante dietro le quinte. Eletto nel 2005 sulla scia della “rivoluzione arancione” del 2004, il presidente Yushchenko, molto favorevole all’UE e alla NATO, è stato sostituito nel 2010 dal presidente Yanukovych con un programma più favorevole alla Russia. Nel 2013, l’Ucraina, appesantita da un debito di 17 miliardi di dollari (soprattutto di gas) nei confronti della Russia e sull’orlo dell’insolvenza, ha chiesto all’UE un prestito di 20 miliardi di dollari, che è stato rifiutato. A fine novembre 2013, la decisione del governo Yanukovych di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione Europea ha scatenato enormi manifestazioni in piazza Maidan, incoraggiate in particolare dalla Germania e sostenute ufficialmente dagli Stati Uniti. Nonostante l’accordo raggiunto con la Russia sulla risoluzione del debito a metà dicembre, le manifestazioni pro-europee si sono intensificate sotto il duplice effetto di una brutale repressione da un lato e di un sostegno sempre più attivo da parte di varie ONG pro-europee e americane (tra cui l’Open Society Institute di George Soros), culminando nella rimozione forzata del Presidente eletto Yanukovych all’inizio del 2014. Questa destituzione, che non poteva che essere vista dalla Russia come un vero e proprio colpo di Stato volto a sottrarre l’Ucraina – il già citato cuore della “vecchia Russia” – alla sua influenza e a completarne lo strangolamento, ha innescato una grave crisi culminata nella proclamazione dell’indipendenza della Crimea, seguita dal suo ritorno alla Russia, e nella guerra civile tra l’esercito ucraino e i ribelli filorussi nel Donbass. Per la NATO, il cerchio dell’autogiustificazione è ora completo: il ritorno della Crimea alla Russia e la guerra nel Donbass segneranno definitivamente il destino della Russia, che l’Occidente potrà finalmente chiamare ancora una volta “la minaccia”. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare in Europa e gli europei sono stati fermamente “invitati” ad aumentare i loro bilanci militari nella NATO… acquistando equipaggiamenti americani (“Honni soit qui mal y pense”) per far fronte alla minaccia russa. Tutto è tornato in ordine, c’era di nuovo un nemico a Est e la NATO, sempre sotto il comando americano, poteva continuare a rafforzarsi ai confini della Russia, schierandosi lì per mostrare la sua forza. La Russia sta reagendo simmetricamente rafforzando la sua presenza militare in Europa, e la “pace fredda” con la Russia è stata ora stabilita “in attesa di meglio” con la strategia nucleare americana, come vedremo.

L’unilateralismo degli Stati Uniti, un pericolo strategico per l’Europa (e per il mondo):
parallelamente alla strategia della NATO in Europa, a partire dai primi anni 2000 gli Stati Uniti, preoccupati dall’ascesa della Cina, hanno cercato di darsi “mano libera” rispetto ai vincoli internazionali, adottando una strategia di potenza generale volta a liberarsi dai vincoli del multilateralismo (ONU, OSCE) e di alcuni trattati internazionali.
Due aspetti di questa strategia, tra gli altri, hanno fatto sì che l’Europa in particolare si trovasse in una situazione preoccupante per la sua sicurezza. La politica americana in Iraq, sostenuta da molti Stati europei, che finirà per portare alla divisione dell’Europa e alla destabilizzazione del Medio Oriente, con un aumento significativo della minaccia terroristica sul fianco meridionale dell’Europa, la strategia degli Stati Uniti di mettere in discussione i principali trattati nucleari con la Russia e l’uso della NATO per alterare l’equilibrio nucleare con la Russia, rendendo l’Europa vulnerabile a un potenziale riarmo nucleare generale ai suoi confini.
L’Iraq dopo la prima guerra del Golfo: unilateralismo, strumentalizzazione e manipolazione americana
Messo sotto embargo e sanzioni economiche dall’ONU all’inizio del 1991, dopo la prima guerra del Golfo, l’Iraq ha visto distruggere i resti del suo arsenale di armi di distruzione di massa (WMD) dalle numerose missioni di ispezione dell’UNSCOM (Commissione Speciale delle Nazioni Unite), ininterrotte dal 1991 al 1998. Queste ispezioni altamente invasive ed efficaci hanno portato alla distruzione quasi totale, sotto controllo internazionale, di tutte le armi di distruzione di massa che erano sopravvissute alle due precedenti guerre dell’Iraq (1980-88 contro l’Iran e 1991 contro la coalizione occidentale). Ci sono state alcune crisi tra l’Iraq e l’UNSCOM, che è stata percepita dagli iracheni come sempre più arrogante e, soprattutto, sempre più ostile e persino provocatoria. Ad esempio, quando la commissione ha preteso il libero accesso, senza preavviso, ai vari palazzi presidenziali, l’Iraq ha infine dovuto cedere, ma quest’ultima richiesta è stata accolta come un’inutile umiliazione aggiuntiva. Inoltre, sebbene alcune ispezioni abbiano dimostrato che l’Iraq si stava comportando bene e stava compiendo sforzi reali, sono state presentate al Consiglio di Sicurezza in modo parziale, sotto la pressione americana, con un tono sufficientemente negativo da indurre l’ONU a non autorizzare questa o quella quota di esportazioni di petrolio in cambio di forniture di cibo all’Iraq, come previsto dalla risoluzione “oil for food”, ed è diventato sempre più chiaro che gli Stati Uniti stavano cercando di strangolare l’Iraq (attraverso l’embargo alimentare), il che non era l’obiettivo dell’ONU. Ben presto divenne chiaro che l’UNSCOM veniva utilizzato in larga misura dagli anglosassoni (Stati Uniti e Regno Unito in particolare) per perseguire la loro politica di intelligence nazionale e, soprattutto, per smembrare l’Iraq, al punto che il suo capo, l’australiano Richard Butler, giudicato un po’ troppo “cooperativo” con gli americani, dovette essere sostituito durante il suo mandato.
La fine delle ispezioni fu provocata dagli Stati Uniti e dal loro alleato britannico.

Un esempio regolare di questa strumentalizzazione dell’ONU a vantaggio degli obiettivi bellici anglo-americani è stato il fatto che, durante alcune missioni, gli ispettori (statunitensi o britannici) non hanno esitato a indicare le coordinate GPS precise su tale e tale porta di un hangar, elencando così un catalogo di obiettivi o di siti militari fissi (che sono stati poi colpiti in modo molto preciso dalla guida laser…). L’istituzione nel 1992, senza mandato ONU, di 2 no-fly zone (da parte di Regno Unito, Stati Uniti e Francia) a nord del 36° parallelo e a sud del 33°, con l’obiettivo ufficiale di proteggere i curdi a nord e gli sciiti a sud, è stata in realtà utilizzata dagli anglo-americani per bombardare le strutture militari irachene in preparazione dell’offensiva aerea del dicembre 1998. Con il pretesto che l’Iraq non stava cooperando a sufficienza con gli ispettori dell’UNSCOM, gli Stati Uniti e il Regno Unito lanciarono l’Operazione Desert Fox dal 16 al 19 dicembre 1998, iniziando una vasta campagna di bombardamenti massicci su obiettivi militari iracheni, sempre senza alcun mandato delle Nazioni Unite. Tanto che l’UNSCOM fu avvertita la sera prima di lasciare Baghdad prima dell’alba! Le squadre di ispettori e il personale della Commissione lasciarono in fretta e furia la sede del Canal Hotel di Baghdad e riuscirono a raggiungere il confine giordano all’alba, giusto in tempo prima dell’inizio dei bombardamenti. Il Consiglio di Sicurezza fu semplicemente “informato”, nel bel mezzo di una riunione, che i bombardamenti erano in corso da quella stessa mattina! Questa operazione, che causò tra i 1000 e i 2000 morti iracheni, pose fine alle ispezioni dell’ONU e fu seguita dallo scioglimento dell’UNSCOM da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma tutti i media occidentali sostennero che era stato Saddam Hussein a provocare la fine delle ispezioni! Non è irragionevole pensare che, poiché le ispezioni non trovavano più armi di distruzione di massa in Iraq, il “rischio” di una futura revoca delle sanzioni da parte dell’ONU stava crescendo, e che quindi era meglio bloccare il processo che avrebbe potuto dimostrare che l’Iraq era pulito e privo di armi di distruzione di massa, come gli eventi del 2003 avrebbero dimostrato! Alla fine, ancora una volta, come nel caso del Kosovo, gli Stati Uniti, con il loro alleato britannico, si stavano affrancando dall’ONU e in particolare dagli altri 3 membri permanenti del Consiglio: Francia, Russia e Cina. Ancora una volta, gli europei (tra gli altri) che avevano collaborato attivamente e lealmente attraverso l’UNSCOM al disarmo dell’Iraq per consentirne il normale rientro nella comunità internazionale, si sono ritrovati, nella percezione di parte del mondo arabo musulmano sunnita, associati come occidentali all’impresa americana di distruggere l’Iraq; si vedrà presto che lo Stato Islamico se ne ricorderà. Gli altri due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Russia e Cina, ancora una volta messi di fronte al fatto compiuto, hanno protestato, ma rendendosi conto che solo la forza sarebbe stata rispettata in futuro, hanno deciso di intensificare la loro cooperazione (soprattutto militare) all’interno della SCO, in risposta a questo indebolimento del multilateralismo dell’ONU.La seconda guerra del Golfo 2003.

Il trionfo della menzogna e dell’arroganza americano-britannica,

L’UE era divisa e inesistente. L’ONU è stata disprezzata: Russia e Cina, umiliate, si sono avvicinate.
Poiché l’UNSCOM non era più in grado di tornare in Iraq, l’ONU istituì una nuova commissione, l’UNMOVIC (United Nations Monitoring, Verification and Inspection Commission), con il compito, in attesa di un eventuale ritorno in Iraq, di analizzare e presentare al Consiglio di Sicurezza i risultati complessivi degli 8 anni di ispezioni, che l’UNSCOM aveva sfruttato solo in parte, in modo che il Consiglio di Sicurezza potesse avere al più presto un parere oggettivo sull’eventuale esistenza residua di armi di distruzione di massa (WMD). Questa nuova commissione internazionale si mise ad analizzare più di 2 milioni di pagine di rapporti di ispezione, la maggior parte dei quali era rimasta “addormentata” negli armadi, e presentò ogni settimana i progressi del suo lavoro al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Con il passare dei mesi, è emerso gradualmente che in un settore o nell’altro (chimico, biologico o missilistico) il conteggio delle armi utilizzate (sia tra il 1980 e l’88 contro l’Iran, sia distrutte nel 1991 dalla prima coalizione occidentale) non era proprio a zero, sommate alle armi distrutte negli 8 anni di ispezioni/distruzioni, almeno le poche incertezze residue erano infinitesimali rispetto alle scorte iniziali (ad esempio, tra più o meno 100 proiettili chimici introvabili sui 68.000 dello stock iniziale, lo stesso per i razzi, ecc.) . Eravamo ben lontani da una “minaccia globale”, come ci hanno sbandierato i canali televisivi americani nel 2002, e più l’UNMOVIC si addentrava nel suo lavoro nel 2001 e nel 2002, più sembrava che gli 8 anni di ispezioni internazionali dell’ONU avessero eliminato tutto. Si dà il caso che chi scrive queste righe fosse l'”assistente analitico” del capo dell’UNMOVIC, l’ambasciatore svedese Hans Blix, e avesse quindi il compito di fornirgli le sintesi settimanali della divisione degli analisti internazionali, che venivano poi presentate al Consiglio di Sicurezza, sulle armi di distruzione di massa chimiche, biologiche e missilistiche. Per gli angloamericani era assolutamente necessario ricreare “la minaccia Saddam”. Così la CIA si presentava ogni quindici giorni con informazioni satellitari “top secret”, per mostrarci un presunto rifugio/laboratorio biologico scoperto nel deserto, o altre informazioni sensazionali, ma il più delle volte inventate, o “manipolate”, secondo anche gli esperti americani dell’UNMOVIC! Per quanto riguarda il dossier sulle armi di distruzione di massa biologiche, eravamo in contatto regolare con un biologo britannico, David Kelly, ex ispettore in Iraq, che veniva a New York ogni mese per informarci dei progressi del nostro lavoro, per poi riferire a Londra. Serio e intellettualmente onesto, si convinse presto che il dossier “biologico” era vuoto e probabilmente lo aprì incautamente al suo ritorno a Londra. Identificato come la fonte di un giornalista della BBC che aveva sostenuto che il governo aveva abbellito le informazioni di intelligence sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq per giustificare l’entrata in guerra contro il regime di Saddam Hussein, subì una tale pressione da parte delle autorità britanniche che si scoprì che si era “ufficialmente suicidato”. La vicenda scatenò uno scandalo di Stato sotto Tony Blair.
Tutti ricordano la fialetta di antrace brandita da Colin Powell, che non convinse molti nell’ex “Europa occidentale”, ma grazie alla quale, invece, molti Paesi dell’Europa orientale videro la loro partecipazione – anche simbolica – alla guerra anglo-americana come un certificato di buona condotta per il loro possibile futuro ingresso nella NATO: Lettonia, Estonia, Romania, Albania, Bulgaria, Ucraina, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Armenia, Georgia e Azerbaigian. L’UE non solo non esisteva, ma era anche divisa, poiché il “Gruppo di Vilnius” aveva scelto l’America invece dell’Europa. L’Iraq è stato invaso e l’intera struttura militare, politica e amministrativa (prevalentemente sunnita) è stata smantellata a favore di un sistema di rappresentanza più proporzionale, molto più favorevole alla maggioranza sciita della popolazione. Gli anni di guerra civile che seguirono portarono all’ascesa al potere dello Stato Islamico, sostenuto dalle ex élite sunnite irachene di Saddam Hussein (ufficiali, sottufficiali, funzionari pubblici, ingegneri, insegnanti, ecc.) Dopo 8 anni di guerra e terrorismo in Iraq, gli Stati Uniti si sono ritirati alla fine del 2011, lasciando il Paese devastato e distrutto (più di 500.000 morti), e l’islamismo si è rafforzato nel 2012 in Siria, diventando infine lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (EIL) o Daech. L’America ha così lasciato in eredità al mondo una nuova destabilizzazione del Medio Oriente, con numerosi focolai di guerra (Siria, Libia, Yemen, Iraq), e ha permesso all’Europa di “beneficiare” dell’estensione molto significativa della minaccia islamico-jihadista lungo tutta la sua costa mediterranea, che si estenderà in Africa fino al Sahel, approfittando del caos lasciato dalla rivoluzione libica e dall’intervento della coalizione contro Gheddafi (in cui bisogna riconoscere che la Francia ha avuto un ruolo importante).
La strategia nucleare americana, minaccia potenziale per l’Europa
Dal 1987 in poi, Mosca e Washington hanno intrapreso una spirale virtuosa con la firma del trattato INF sullo smantellamento delle armi nucleari a raggio intermedio in Europa (500-5500km, SS-20 e Pershing-II), presto seguito dai negoziati START (armi strategiche intercontinentali) e dal trattato SORT per ridurre di 2/3 il numero di testate nucleari di entrambe le parti. Tutto questo è culminato nel 2010 con la firma del nuovo trattato START, che fissa a 1.550 il numero di testate e 700 lanciatori per ciascuno dei due firmatari, con scadenza rinnovabile al 2021. L’Europa non poteva che accogliere con favore queste misure di riduzione degli armamenti nucleari, in particolare per quanto riguarda il trattato INF, che ha allontanato lo spettro dell’utilizzo dell’Europa come campo di battaglia nucleare. Lo stesso vale per la Russia che, nella sua difficile situazione economica post-sovietica, vedeva un interesse economico vitale in un nuovo equilibrio degli armamenti “dal basso”, dopo il suo disastroso tentativo di seguire “dall’alto” gli Stati Uniti nel bluff delle rovinose “guerre stellari” di Reagan.

Ma allo stesso tempo, preoccupati dalla crescente potenza nucleare della Cina, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel 2001 dal Trattato ABM, che limitava drasticamente i sistemi missilistici anti-balistici, Il presidente George W. Bush ha presentato questo ritiro come un primo passo verso lo sviluppo e il dispiegamento di uno scudo di difesa antimissile destinato, a suo dire, a proteggere gli Stati Uniti e i suoi alleati, compresa la Russia (Sic), da attacchi missilistici da parte di “Stati canaglia”, menzionando in particolare l’Iran, la Corea del Nord e la Somalia (ri-Sic! ). Questo sistema, che prevedeva l’installazione di uno scudo antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca a complemento dei sistemi in California e in Alaska, è stato presto fortemente contestato dalla Russia, che lo vedeva come una sfida al proprio deterrente nucleare alle porte di casa; inoltre, aveva anche il “vantaggio” di dividere un po’ di più il vecchio continente tra la vecchia Europa (Germania e Francia in particolare) e la nuova Europa (Europa dell’Est), il che andava tutto a favore della causa americana. Infine, nel 2009, il presidente Obama ha cancellato questo piano di dispiegamento… in apparenza, perché in realtà è stato sostituito da un altro sistema (theatre missile defence TBMD), allo studio della NATO dal 2001. Di vertice in vertice, questo sistema si è evoluto nel 2010 in una vera e propria architettura globale di difesa missilistica balistica in Europa (BMDE), non più solo di teatro, ma estesa a tutti i territori dei Paesi europei della NATO. Nel tentativo di placare i suoi timori, la Russia è stata coinvolta nel progetto TBMD fin dall’inizio, attraverso il Consiglio NATO-Russia (NRC), ma dal 2010 in poi (quando il vertice NATO di Lisbona ha deciso di espandere la TMD in una vera e propria BMDE) ha denunciato questo cambiamento fondamentale come un ritorno di fatto al progetto originario di G W. Bush, che era stato cancellato da Obama. Inoltre, alla Russia è stato assicurato che i siti di lancio di missili anti-balistici (ABM) dispiegati alle sue porte per “contrastare una minaccia iraniana” non avrebbero mai potuto essere trasformati in siti offensivi contro il suo territorio vicino. Tuttavia, non appena la NATO ha installato i primi lanciatori ABM (MK 41) in Romania nel 2013, la Russia si è resa conto che potevano essere utilizzati con la stessa facilità per lanciare missili Tomahawk contro il suo territorio (con gittate di oltre 2.000 km a seconda della versione), in flagrante contraddizione con il trattato INF che all’epoca era ancora in vigore. Di fronte alla minaccia alla sua capacità di secondo colpo, base del suo deterrente nucleare strategico, aggravata dalla potenziale minaccia rappresentata dalle capacità offensive dei lanciatori standardizzati MK41 (sia a bordo che nei silos a terra), la Russia ha reagito sospendendo ogni cooperazione all’interno dell’NRC alla fine del 2013, cioè ancora prima del caso Crimea nel 2014, che sarebbe stato poi utilizzato dalla NATO per giustificare – a posteriori – la protezione dell’Europa da parte del BMDE di fronte alla nuova “minaccia russa”; uscire dalla minaccia iraniana . .. (che, per inciso, è stata risolta dall’accordo di Vienna nel 2015).
A partire dal 2014, il dispiegamento ha subito un’accelerazione (3 cacciatorpediniere Aegis statunitensi, più un radar BMD su una fregata danese e uno a terra nel Regno Unito), culminata con la messa in funzione del sito Aegis Ashore a Deveselu, in Romania, in attesa dell’imminente messa in funzione del sito polacco. La Russia, non potendo conoscere in tempo reale il tipo di missile (anti-balistico o nucleare offensivo Tomahawk in contrasto con il trattato INF) presente nei lanciatori della base di Deveselu e a bordo dei cacciatorpediniere statunitensi che navigano in prossimità delle sue acque territoriali, si ritiene autorizzata a schierare nell’enclave di Kaliningrad il missile Iskander terra-superficie (500kmaxi per la versione terrestre “INF-compatibile”), per coprire i territori della “nuova Europa” a est. Con un bilancio militare di circa 65 miliardi di dollari, rispetto ai 240 miliardi dei Paesi europei della NATO e ai 750 miliardi degli Stati Uniti, e non potendo prevedere uno scudo ABM equivalente per contrastare il dispiegamento BMDE americano-NATO, la Russia opterà quindi per la soluzione molto più economica della freccia per perforare lo scudo. L’accelerazione dello sviluppo del missile 9M729, con una gittata ufficialmente dichiarata di 480 km, ma denunciata dalla NATO come superiore a 500 km, rientra in questa logica di azione-reazione. Nel 2018 gli Stati Uniti, volendo svincolarsi dal trattato INF per riacquistare la propria libertà d’azione nei confronti della Cina, hanno usato questo argomento per ritirarsi dal trattato, seguiti ipso facto pochi mesi dopo dalla Russia. Nello stesso anno, il Presidente Putin annunciò che la Russia stava sviluppando una panoplia di nuove armi strategiche, tutte virtualmente impossibili da intercettare e in grado di colpire in qualsiasi parte del mondo, dal missile intercontinentale Sarmat da 11.000 km, il siluro a propulsione nucleare “Poseidon”, oltre a vari missili da crociera come il subsonico “Bourevestnik-9M730”, che ha un raggio d’azione superiore alla circonferenza del pianeta, o missili semi-balistici, tra cui l’aliante ipersonico “Avangard” (da 20 a 25 Mach), o il missile ipersonico Kinzhal (10 Mach) trasportato dal MIG 31. È prevista anche la creazione di una versione nucleare terra-terra del missile terra-mare Kalibr (gittata superiore a 2.000 km), che è stato utilizzato con successo in alcuni attacchi convenzionali russi in Siria. Al di là dell’effetto pubblicitario voluto, con la probabile esagerazione circa l’effettiva realtà operativa di tutte queste nuove armi nel breve termine, è certo che la Russia, in reazione a quella che ora percepisce come una doppia minaccia nucleare tattica e strategica occidentale al proprio deterrente, svilupperà ciò che conosce meglio e più economicamente: la freccia a tutto campo contro l’armatura.

Le conseguenze per l’Europa

Il ciclo provocazione-reazione è ormai ben avviato, con un serio rischio di ri-nuclearizzazione dell’Europa e il ritorno a uno pseudo-equilibrio strategico “alto” voluto dagli Stati Uniti e accettato dagli europei, in contrasto con l’equilibrio “basso” fornito da tutte le misure di controllo degli armamenti fino alla fine degli anni Novanta e auspicato all’epoca da Russia ed europei. Come partecipante attivo alla politica di isolamento della Russia e in parte responsabile del riavvicinamento alla sicurezza sino-russa attraverso la SCO, la sottomissione dell’Europa potrebbe vederla scivolare gradualmente dall’attuale “pace fredda” artificiale a una possibile futura vera guerra fredda con la Russia. L’Europa capirà finalmente che, con i suoi 500 milioni di abitanti e il suo bilancio NATO di 240 miliardi di euro (senza contare i 700 miliardi di dollari degli Stati Uniti!), è l’Europa che potrebbe essere percepita come una minaccia per una Russia da 3 a 4 volte meno potente, con 145 milioni di abitanti e un bilancio da 6 a 10 volte inferiore, con 65 miliardi di euro? Abbiamo forse dimenticato che per 800 anni il pericolo mortale per la Russia è sempre venuto dall’Europa, proprio mentre stiamo umiliando la Russia non invitandola in Normandia per il 75° anniversario dello sbarco alleato? Nel rendere un doveroso omaggio ai 10.000 morti alleati nel D-Day, non abbiamo forse dimenticato i 26 milioni di morti dell’Unione Sovietica, tra cui 11 milioni di soldati? Quando la NATO gioca a spaventare con la sua nuova fantasia del “Corridoio di Suwalki” o minaccia la Russia di sorvolare il Baltico, cosa cercano gli europei? Come ostaggio consenziente di una lotta americano-cinese per un’egemonia mondiale che non è la sua, l’Europa è ora sulla strada potenzialmente pericolosa del riarmo nucleare sul proprio suolo e nelle sue immediate vicinanze. Il recente fallimento del Trattato INF e i piani americani e russi per “mini-armi nucleari” nei teatri delle potenze “deboli” significano che l’Europa corre il rischio mortale di diventare un giorno un nuovo campo di battaglia nucleare, una probabilità resa ancora più pericolosa dal fatto che i suoi rispettivi santuari nazionali potrebbero persino essere tenuti a bada.

Conclusione

Divisa tra il “vecchio” a ovest e il “nuovo” a est, l’Europa, attraverso la NATO, si trova più che mai soggetta alla protezione americana “grazie” alla minaccia russa che è finalmente tornata. Questa sottomissione è evidente anche nella sfera economica, dove si sta dimostrando impotente a mantenere le promesse fatte all’Iran di fronte alle sanzioni unilaterali americane, anche se dovrebbe essere una forte potenza economica con una popolazione di oltre 500 milioni di abitanti. Infine, invece di opporsi fermamente alla denuncia unilaterale dell’accordo nucleare di Vienna da parte degli Stati Uniti, la sua diplomazia si sdraia e denuncia l’Iran, che comunque aveva rispettato l’accordo! L’Unione Europea, politicamente inesistente in materia di sicurezza, impantanata com’è dall’otanismo e dalla formattazione della maggior parte dei suoi Stati membri (leader politici, diplomatici e militari) e nonostante le sue poche iniziative valide (EDA, PSC, IEI, FES), può sperare di raggiungere lo status di vera potenza diplomatica e militare solo rompendo il circolo vizioso antirusso della trappola americano-ottomana. Dati i suoi legami speciali con la Russia e la sua relativa indipendenza dagli Stati Uniti, la Francia, con l’aiuto della Germania, è l’unico Stato europeo che può indicare la strada di un autentico riavvicinamento alla Russia. Non solo può farlo, ma deve farlo. Forti dei legami storici che l’hanno legata alla Russia in momenti difficili della sua storia – quando, alla fine dell’agosto 1914, su richiesta urgente di una Francia sopraffatta, la Russia si impegnò frettolosamente nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale e pagò un prezzo altissimo per impedire la caduta di Parigi, o ancora quando, dal novembre 1942 fino alla vittoria del 1945, più di 40 piloti francesi andarono a morire nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale – o ancora quando, su richiesta di una Francia sopraffatta, la Russia si impegnò frettolosamente nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale e pagò un prezzo altissimo per impedire la caduta di Parigi, La Francia deve prendere rapidamente iniziative forti nei confronti della Russia, e persino sconvolgere la NATO, per rompere il paradigma perverso in cui l’Europa è rinchiusa giorno dopo giorno e provocare un essenziale e salutare elettroshock nelle menti delle persone. Non mancano le opzioni diplomatiche, militari ed economiche, che vanno dall’immediata revoca delle sanzioni, al congelamento delle task force terra-aria-mare “30 volte 4” della NATO, alla messa in discussione del ruolo degli Stati Uniti nella NATO, seguita da una completa revisione dell’Alleanza Atlantica con il ritorno di un vero partenariato con la Russia. Sono tutti passi essenziali se speriamo di veder nascere un giorno un’autentica Alleanza europea di difesa, un partner paritario con la Russia e gli Stati Uniti.
Il contesto è favorevole, da un lato con la Brexit che vede l’allontanamento del “sottomarino” americano dall’Europa, dall’altro con la Germania motivata come non mai ad opporsi al boicottaggio americano del gasdotto russo-europeo Nord Stream 2, che è quasi completato. I due Stati, Francia e Germania, devono prendere l’iniziativa, anche se all’inizio sono soli, e poi contare sui loro partner della vecchia Europa per attirare l’Europa dell’Est in questo vasto movimento. Il cammino sarà difficile e duro, perché la NATO non è morta, tutt’altro; ci saranno forse dei colpi da incassare perché il “grande fratello”, checché ne dica pubblicamente, si opporrà con tutte le sue forze, ma la posta in gioco è questa. L’Europa o si farà con la Russia o non si farà.

Generale (2S) Grégoire Diamantidis, membro del Cercle de Réflexions Interarmées.

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