Le cose non sempre migliorano, di Aurelien

Le cose non migliorano sempre.

E, già che ci siamo, anche “Contro il recentismo”.

2 ottobre
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Quando ero giovane, c’era la convinzione generale che il mondo stesse migliorando da un po’ e che avrebbe continuato a farlo.

Questa non era un’ideologia, ma piuttosto un luogo comune, un presupposto quotidiano. Non fu imposto a una popolazione scettica dal potere politico, come i resoconti di progressi infiniti furono imposti alla popolazione dell’Unione Sovietica. Aveva poco a che fare con le visioni di utopie futuristiche sostenute da scienziati e intellettuali. In effetti, era qualcosa che sembrava così banalmente ovvio da non valere la pena di essere menzionato. Quando il leader del partito conservatore Harold Macmillan affermò in un discorso del 1957 che “non siamo mai stati così bene”, stava esprimendo una convinzione ampiamente, quasi universalmente condivisa. Gli oppositori potrebbero lamentarsi del declino degli standard sociali tradizionali e del problema crescente della gioventù ribelle, ma questo era tutto. Lo stesso Macmillan si era fatto una reputazione politica come ministro dell’edilizia abitativa (quanto sembra bizzarra l’idea stessa ora) mantenendo la promessa di costruire centomila nuove case all’anno, per sostituire i danni della guerra e le baraccopoli delle principali città. E questo era ciò che la gente vedeva e sperimentava.

È quasi impossibile ora comprendere il significato della trasformazione della vita quotidiana che ha investito gran parte del mondo occidentale tra la metà del diciannovesimo e la metà del ventesimo secolo. Di nuovo, si trattava per lo più di cose banali e quotidiane. Se uno dei miei lontani antenati, forse un bracciante agricolo o un piccolo commerciante, fosse stato informato negli anni ’50 o ’60 dell’Ottocento che quel secolo dopo i loro discendenti avrebbero vissuto in nuove case con bagni interni, luce elettrica e acqua corrente, che sarebbero state disponibili macchine per lavare i vestiti e mantenere il cibo fresco, che l’istruzione e l’assistenza sanitaria sarebbero state gratuite, che la mortalità infantile si sarebbe ridotta radicalmente man mano che le vaccinazioni e un ambiente più sano avrebbero sconfitto i terrori del vaiolo, della pertosse e della poliomielite, le cui ombre turbavano ancora la mia infanzia, che la disoccupazione sarebbe stata una cosa del passato, che la povertà era stata ampiamente sconfitta… beh, avrebbero riso e borbottato di utopie, se davvero avessero conosciuto la parola.

La sicurezza in molte forme era ampiamente data per scontata allora, dagli spazi pubblici ben illuminati alla sicurezza del lavoro: c’erano spesso carenze di manodopera e i sindacati erano forti. La vita era più semplice sotto tutti gli aspetti: i servizi pubblici erano gestiti dal governo ed esistevano per servire il pubblico e se avevi un problema irrisolto con le fognature potevi scrivere al tuo parlamentare che avrebbe scritto a un ministro per cercare di fare qualcosa al riguardo.

Ora, niente di tutto questo, per quanto straordinario possa sembrare oggi, è davvero utopico, né era visto come tale all’epoca. I governi venivano eletti per fare le cose, per guidare l’economia in modo da ridurre al minimo la disoccupazione, per fornire i servizi e per sviluppare il paese. Quello era semplicemente il loro lavoro. Quando Harold Wilson , il leader del partito laburista, fece una campagna contro i conservatori alle elezioni del 1964, la sua principale lamentela fu che il governo aveva fatto troppo poco in questo senso, troppo lentamente. (E questa mentalità non era limitata alla Gran Bretagna, tra l’altro, i francesi parlano ancora dei “trent’anni gloriosi” dopo la seconda guerra mondiale, quando i governi successivi fecero più o meno la stessa cosa.)

Quindi ho sempre pensato che sia legittimo guardare al passato e identificare i casi in cui le cose erano migliori allora di quanto non siano ora e avrebbero potuto svilupparsi in modo molto diverso. La visione alternativa, ovvero che tutto è infinitamente meglio in ogni modo di quanto non fosse in passato, è così assurda che poche persone la difendono in questi termini. Piuttosto, la casta dei professionisti e dei manager (PMC), le cui origini ultime risiedono in questi anni di abbondanza, liquida la loro memoria con accuse di eccessiva nostalgia, di trascurare gli orrori asseriti dell’epoca o addirittura di politica reazionaria assoluta (“Immagino che pensi che le donne dovrebbero stare a casa e fare i lavori domestici!). La maggior parte di queste persone, secondo la mia esperienza, non era nemmeno viva negli anni ’60 e ’70 e poche di loro sanno spiegare in cosa consiste la superiorità del momento presente, se non attraverso le invettive di IdiotPol. È forse emblematico che, a differenza di Harold Wilson sessant’anni fa, quando Keir Starmer assunse la carica di Primo Ministro dopo quattordici anni di governo conservatore, tutto ciò che riuscì a offrire fu tristezza, sventura e altro ancora. (Mi chiedo sempre più quale sia in realtà il punto di Starmer.)

Negli ultimi cinquant’anni è accaduto qualcosa di molto interessante e in gran parte inosservato. Fino al diciannovesimo secolo, le popolazioni occidentali avevano una mentalità in gran parte conservatrice. (E ancora una volta, sto parlando di persone comuni.) Il mondo intorno a loro cambiava lentamente, la crescita economica era appena percettibile e, in generale, le persone comuni erano preoccupate di aggrapparsi a ciò che avevano. La maggior parte dei disordini sociali, persino le rivolte violente, erano essenzialmente conservative: il ripristino dei privilegi tradizionali, l’abolizione delle odiate nuove tasse, il licenziamento di servitori corrotti o incompetenti del monarca. Il sentimento popolare era in gran parte contrario al cambiamento sociale ed economico (comprensibilmente, nel caso del sistema delle fabbriche e della bonifica delle campagne) e a favore di un ritorno a un passato migliore. I pochi movimenti genuinamente rivoluzionari o millenaristi dell’epoca sono sufficientemente insoliti da spingere gli storici a scrivere libri su di essi.

L’urbanizzazione, l’istruzione minima e la distruzione dei vecchi sistemi sociali cambiarono in una certa misura la situazione: dopotutto, fu la gente comune di Parigi, non gli intellettuali, a scatenare la Rivoluzione. Allo stesso modo, la gente comune delle campagne reagì con orrore alla Rivoluzione e alcuni si ribellarono. Ma lentamente, si diffuse l’idea che ci fosse effettivamente la possibilità di un progresso. I lavoratori di una fabbrica che si univano potevano formare un sindacato per chiedere salari e condizioni migliori. Si poteva fare pressione sui governi per ampliare il diritto di voto o migliorare le condizioni di lavoro generalmente terribili della gente comune. E i governi in Europa risposero effettivamente: il diciannovesimo secolo fu l’era delle riforme, poiché furono aperte le scuole, furono introdotti i servizi igienici, le città furono ripulite, a una parte maggiore della popolazione fu concesso il voto e gli individui comuni acquisirono più diritti sul lavoro, tra le altre cose.

Tutti questi cambiamenti furono accolti con favore, e alcuni furono ispirati dalla Sinistra. Nel 1970, ricordo che il Trades Union Congress celebrò il suo centenario pubblicando un libro illustrato delle sue lotte e conquiste. Molte di queste sono state da allora disfatte, e il TUC non è più una forza politica. Ma a quel tempo, e per alcuni anni dopo, si dava per scontato che i partiti di sinistra avessero la storia dalla loro parte, e si dava per scontato che col passare del tempo, l’agenda della Sinistra sarebbe stata implementata sempre di più. La tendenza prevalente della Sinistra a quel tempo era quella socialdemocratica; una sorta di gradualismo che pensava che i paesi potessero essere mossi lentamente e per persuasione nella direzione di un sistema sempre più socialista, e che le strutture di potere esistenti alla fine si sarebbero convertite all’idea. Questo fu senza dubbio il motivo per cui il romanziere Evelyn Waugh si lamentò del fatto che il Partito conservatore britannico durante la sua vita non avesse riportato indietro l’orologio nemmeno di cinque minuti. Per gran parte del ventesimo secolo, questa deriva verso sinistra sembrò essere almeno un’ipotesi discutibile.

Quindi, guardare al passato era visto come un’attività essenzialmente di destra e reazionaria. È vero, c’erano socialisti anticonformisti, da William Morris a George Orwell, che credevano che alcune tradizioni fossero importanti, ma la maggior parte aveva gli occhi puntati sul futuro, come i loro oppositori li avevano puntati sul passato. Inevitabilmente, lo stesso ottimismo qualificato trovò la sua strada nella cultura popolare, con le sue storie di esplorazione spaziale, auto volanti e viaggi nel tempo. Ma gli scrittori e i lettori (di cui ero uno) non le leggevano come profezie: dubito che più di una manciata di persone credesse davvero che sarebbero vissute abbastanza per andare in vacanza sulla luna, ma ovviamente non era questo il punto. Le storie di esplorazione spaziale erano la mitologia e le leggende dell’era tecnologica, che esprimevano i suoi sogni e le sue paure in forma simbolica, e i romanzi di esplorazione spaziale non erano più profezie del futuro di quanto l’ Odissea sia una guida affidabile per visitare le isole dell’Egeo.

A un certo punto, negli anni ’80, le cose iniziarono a cambiare. Ironicamente, però, le nuove forze politiche che lentamente arrivarono a dominare la scena in diversi paesi non offrirono un ritorno a un passato immaginario, ma piuttosto la via verso un futuro migliore, attraverso una strada diversa. Nessun partito di destra prometteva effettivamente disoccupazione di massa e povertà, la distruzione dei sistemi sociali, la delocalizzazione dell’industria e il declino dei servizi pubblici. Piuttosto, promettevano che le persone avrebbero potuto tenere tutto ciò che avevano e che la “maggiore efficienza” del “mercato” avrebbe dato loro più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi governo di sinistra.

E questa argomentazione ebbe successo fino a un certo punto. La vittoria dei conservatori nel 1979 fu dovuta in gran parte alla defezione di una parte della classe operaia più giovane, sedotta dall’idea di diventare proprietari immobiliari e quindi acquisire, pensavano, la propria macchina per fare soldi. A quel punto, gli inevitabili problemi, come le case che stavano rapidamente diventando inaccessibili per i giovani, furono avvertiti, ma non presi sul serio, nell’eccitazione generale per nuovi e meravigliosi modi di gestire l’economia. I risultati di questa nuova politica furono così catastrofici (la disoccupazione raddoppiò in un anno, per esempio) che i conservatori sarebbero stati cacciati dall’ufficio se il partito laburista non avesse salvato la situazione con attenzione prima disintegrandosi in una guerra interna e poi dividendosi in due fazioni concorrenti. Il risultato fu una serie ininterrotta di governi conservatori per diciotto anni. Eppure era chiaro che non c’era un piano generale all’opera: la privatizzazione, per esempio, che andò a conquistare il mondo, era originariamente solo una soluzione rapida per raccogliere un po’ di soldi; solo in seguito fu eretta una giustificazione teorica attorno a essa. Ciò illustra piuttosto bene un punto che ricorrerà in questo saggio: il quadro concettuale degli ultimi duecento anni è di cambiamento e progresso, e il presupposto è che le nuove idee siano sempre migliori e più efficaci di quelle vecchie.

Qui, ovviamente, lo stivale si è spostato sull’altro piede e ha iniziato a generare un proprio slancio. I nuovi governi al potere si sono guardati intorno e hanno visto che altri paesi stavano rimpicciolendo lo stato, vendendo beni pubblici ecc. e si sono mossi con la corrente. (La politica è molto più un riflesso della moda di quanto la maggior parte delle persone realizzi.) Al contrario, resistere al cambiamento (quanti di voi hanno sentito qualche stupido consulente aziendale intonare “c’è sempre resistenza al cambiamento”?) è sempre codificato negativamente e alle persone non piace essere definite “vecchio stile” o addirittura “reazionarie”. Poiché nessun sistema è mai perfetto, coloro che promuovono un cambiamento di qualsiasi tipo hanno sempre un vantaggio retorico, poiché, dopo tutto, ciò che stanno suggerendo potrebbe migliorare le cose. Almeno, non ci sono prove definitive che non lo farà. Al contrario, difendere lo status quo, per non parlare dello status quo ante, è molto più difficile retoricamente.

Eppure mi sembra che questo sia logicamente assurdo. Fino forse agli anni ’80, i cambiamenti che la Sinistra proponeva, ad esempio l’ampliamento del diritto di voto o l’aumento del libero accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, scaturivano da un chiaro progetto egualitario e progressista. Non tutti sostenevano queste idee, ovviamente, ma gli argomenti erano almeno relativamente chiari. Come ci si aspetterebbe dall’ideologia liberale, esigente, ossessionata dal processo e dai dettagli, tuttavia, la maggior parte dei cambiamenti degli ultimi trenta o quarant’anni sono state idee brillanti, non testabili o almeno non testate in anticipo, e che hanno generalmente causato scompiglio.

In queste circostanze, è del tutto ragionevole che la Sinistra sia reazionaria, nel senso che reagisce negativamente a proposte o misure che renderanno la vita peggiore per la gente comune. È anche ragionevole che la Sinistra sia conservatrice, nel senso che desidera conservare i guadagni che la gente comune ha ottenuto nella maggior parte dei paesi tra gli anni ’40 e gli anni ’80. Per questo motivo, è del tutto ragionevole che la Sinistra guardi indietro con affetto a un periodo in cui la vita per la gente comune era più facile, e si dava per scontato che sarebbe continuato. Naturalmente è giusto sostenere che questo curioso stato di cose è sorto solo perché la Sinistra ha abbandonato gli interessi della gente comune, ma questo è un altro argomento.

se mi è concesso un esempio personale, sono stato abbastanza fortunato da beneficiare di dieci anni di istruzione gratuita a tempo pieno in più rispetto ai miei genitori. Per un certo periodo sono stato persino pagato per studiare. Pensavo, e penso ancora, che un tale sistema avrebbe dovuto essere conservato. (Oggi, probabilmente avrei terminato la mia istruzione a diciotto anni.) Non è difficile reagire negativamente contro il grottesco caos in cui si è trasformata l’istruzione universitaria, e guardare indietro con, sì, un certo grado di nostalgia, a un sistema che funzionava molto meglio. Eppure il partito neoliberista che domina la politica nella maggior parte dei paesi occidentali, ha preso il sopravvento e adottato il discorso del cambiamento continuo, e lo usa per disarmare e neutralizzare i suoi critici. Non posso fare a meno di ricordare, per colpire ancora una volta una nota frequente, che il partito nel 1984 aveva abolito la storia, a parte una serie di idee ricevute altamente distorte come fumetti che hanno permesso alla situazione attuale, e a qualsiasi sua variante, di essere sempre presentata come superiore al passato. In effetti, Winston Smith a volte si chiede se i suoi ricordi dei momenti migliori della sua giovinezza non siano in realtà immaginari. (Tornerò su questo punto più avanti.)

La politica del Partito assume diverse forme, tutte basate sulla curiosa affermazione che qualsiasi tipo di resistenza al Cambiamento è nella migliore delle ipotesi reazionaria e di destra, nella peggiore una prova di fascismo effettivo o incipiente. (Strano se si considera che il fascismo richiedeva un cambiamento radicale, e in effetti lo praticava quando era al potere.) In vero stile liberale stiamo avanzando verso un futuro sempre migliore, anche se questo progresso potrebbe non essere evidente a tutti, e soprattutto stiamo avanzando dall’oscurità e dall’intolleranza del passato. Ora, è molto raro che il Partito tenti di supportare questa argomentazione con fatti o statistiche. Mentre i governi in passato si vantavano di costruire case, autostrade, linee ferroviarie o centrali nucleari, e mentre il livello di disoccupazione, il tasso di inflazione o la forza della propria moneta nazionale venivano discussi all’infinito nei media, i governi di oggi dicono poco di tutte queste cose. I dati sulla disoccupazione e l’inflazione sono stati così pesantemente manipolati e così tanto rivisti al ribasso per decenni ormai che non credo che nemmeno la maggior parte dei governi occidentali li prenda più sul serio. Nella misura in cui c’è un dibattito, riguarda quali programmi che hanno un impatto sulla gente comune sarà necessario tagliare per soddisfare coloro che credono, contro ogni evidenza, che l’economia di un paese e l’economia di una famiglia siano identiche tra loro.

Quindi, guardare indietro a qualsiasi prova di un passato migliore è codificato come proveniente dalla “destra” o addirittura dall'”estrema destra”, delegittimando così qualsiasi lamentela sulla situazione odierna. Ciò è bizzarro, ma è forse una conseguenza necessaria della politica del Partito e del PMC di drenare ogni sostanza dalla politica e trasformarla in una lotta tecnica per il potere. Non abbiamo più vere lotte politiche tra le forze tradizionali di sinistra e destra, abbiamo lotte per il potere e tentativi occasionali di sfidare l’ortodossia. Queste sfide vengono liquidate dal Partito come provenienti dall'”estrema destra” o dalla “destra dura” o dall'”ultra destra” o da qualche altra formula noiosa, non perché lo facciano, o perché quei termini abbiano più significato, ma perché è politicamente efficace usare tali insulti, come un tempo era politicamente efficace liquidare idee che non ti piacevano come “comunismo”.

Ciò ha portato i giornalisti e gli esperti adiacenti al PMC a una confusione senza speranza. Se certe idee, o anche certi argomenti, vengono etichettati come “estrema destra” ecc. perché non piacciono al Partito, piuttosto che perché fanno parte di un dogma coerente, allora è evidente che è impossibile scrivere qualcosa di sensato sulla politica e sui politici, anche se questa fosse l’intenzione. Quindi il nuovo governo in Francia apparentemente rappresenta una “sbandata verso l’estrema destra”, perché Barnier ha detto che il controllo dell’immigrazione deve essere migliorato. Ho visto giornalisti che cercavano seriamente di decidere se Sahra Wagenknecht e il suo partito siano di sinistra (o addirittura “estrema sinistra”) o in realtà di “estrema destra”, a causa delle priorità che ha stabilito. Queste persone sono incapaci di capire che qualsiasi partito che affronti le preoccupazioni popolari inevitabilmente farà scattare alcune delle trappole artificiali predisposte dal Partito per intrappolare le idee di “estrema destra”.

Alla fine, naturalmente, questa politica è controproducente, perché trasforma le legittime preoccupazioni della gente comune in crimini ideologici. Nel caso dell’immigrazione, che purtroppo è diventata la pietra di paragone per cercare l'”estrema destra”, il Partito cerca di impedire persino di menzionare il problema, se non nel senso più blando e allegro. Voler parlare dei problemi dell’immigrazione significa identificarsi come “estrema destra”, e persino suggerire che forse merita di essere discusso significa “legittimare” le posizioni dell'”estrema destra”.

Questo non può continuare, perché implica il rifiuto dell’esperienza vissuta dalla gente comune come se non esistesse e non avesse importanza. Così, una studentessa è stata violentata e uccisa fuori dalla prestigiosa Université Dauphine a Parigi una settimana fa: il presunto assassino, un immigrato marocchino con precedenti penali per stupro, aveva ricevuto un ordine ufficiale di lasciare il paese, ma nel frattempo era stato liberato dalla custodia da un giudice. I media, che hanno brevemente trattato la questione, erano principalmente preoccupati che le (comprensibili) proteste delle studentesse all’università potessero essere “strumentalizzate dall’estrema destra”. Ed ecco che arriva la strega malvagia del Partito Verde, Sabine Rousseau, a rassicurarci in un tweet che va tutto bene, perché se l’individuo fosse stato rimandato in Marocco, avrebbe assassinato una persona veramente innocente, come una donna marocchina.

Come ho detto, non può continuare. Come questione di politica pratica, non puoi etichettare forse tre quarti della popolazione, estranea alle politiche e alle pratiche dei governi successivi, come “estrema destra” o al massimo “che gioca al gioco dell’estrema destra” e sperare seriamente di rimanere al potere. Eppure è quello che hanno fatto un’intera serie di politici francesi, per esempio. Macron si è scagliato per anni contro i “recalcitranti Galli” del paese che rappresenta per non aver accettato i suoi piani neoliberisti, mentre Mélenchon ha pubblicamente liquidato tutti i francesi, tranne gli immigrati e i giovani progressisti, come, udite udite, “estrema destra” e non cerca i loro voti. È una ricetta per il suicidio politico e ora ne vediamo i risultati in vari paesi, più di recente in Austria. In effetti, più opposizione viene provocata dal partito, più la temuta “estrema destra” in realtà cresce di dimensioni, poiché è un’autocreazione del partito stesso.

Ma cosa spinge i politici ad agire in questo modo, e perché gli esperti e i media li applaudono? Cosa c’è di sbagliato in un po’ di continuità? Cosa c’è di sbagliato nelle politiche che avvantaggiano la gente comune? In effetti, cosa c’è di sbagliato nell’ascoltare le loro preoccupazioni?

Dobbiamo tenere a mente che il liberalismo è una credenza teleologica, con una forte componente escatologica. Vale a dire che si muove sempre in avanti verso un obiettivo futuro, quando i giusti saranno salvati e i malfattori puniti. Il liberalismo è, ovviamente, un’eresia cristiana, dove il mercato ha preso il posto della grazia di Dio che supera ogni comprensione. Quindi, apparenti contraddizioni e apparenti effetti negativi saranno tutti sistemati dalla mano magica del mercato, se gli verrà dato abbastanza tempo. Questo, più di ogni altra cosa, spiega la violenza e il fervore morale con cui vengono denunciate le ideologie in competizione, e persino il dialogo o il dibattito stesso. Il problema, inevitabilmente, è che il liberalismo non si basa su alcun insieme coerente di principi o credenze, quindi, al suo posto, abbiamo una serie di gruppuscoli in competizione e spesso reciprocamente detestabili che cercano tutti maggiore libertà e potere per sé stessi e cercano di assicurarsi la loro quota di finanziamenti e attenzione mediatica.

Ogni partito che mira al cambiamento produrrà inevitabilmente gruppi scissionisti e frange radicali che cercano un cambiamento più rapido qui, o più enfasi lì. Ciò è accaduto negli anni ’60 e ’70 con i gruppi marxisti: potresti ricordare la battuta sul partito marxista che affermava “non c’è nessuno alla nostra sinistra”, solo per un gruppo scissionista che il giorno dopo affermava “ora c’è!” Ma in realtà si applica a qualsiasi gruppo che cerchi il cambiamento, compresi i gruppi dell’estrema destra (effettiva). Con un processo quasi meccanico di escalation, i gruppi si formano per richiedere una posizione più radicale, solo per essere eclissati da altri che richiedono una posizione ancora più radicale. Qualunque cambiamento venga apportato provoca semplicemente la richiesta di altro. Dopotutto, ci sono sovvenzioni, posti di lavoro e copertura mediatica per garantire. Il liberalismo è come una bicicletta: se smetti di pedalare nella direzione di una società più perfetta, cadi.

Ed è per questo che la sinistra tradizionale (dove mi annovero) ha così tanti problemi con l’estrema raccolta neoliberista di gruppi di pressione in cui i partiti tradizionali della sinistra si sono in qualche modo contorcendo. Per definizione, il socialismo, l’ideologia della sinistra, riguarda il collettivo. Riguarda la comunità, il posto di lavoro, persino la famiglia e la famiglia allargata, non gli interessi dell’individuo contro altri individui. Non riguarda “opportunità” se non nel senso di rimuovere barriere artificiali, ma di fare effettivamente le cose e fornire alle comunità ciò che vogliono e di cui hanno bisogno. Eppure il meglio che i partiti che un tempo erano di “sinistra” sono stati in grado di fare è di commercializzarsi come leggermente meno cattivi dell’opposizione: una forma più gentile e dolce di sfruttamento neoliberista. La sinistra ha sempre capito che in una società buona e giusta gli individui prosperano, ma che nessuna quantità di prosperità individuale renderà una società buona e giusta.

È quindi istruttivo tornare agli anni ’60 e ’70 per vedere come i governi (inclusi alcuni nemmeno di sinistra) gestirono difficili questioni sociali, passando dai principi generali al caso particolare, piuttosto che il contrario. Così, la maggior parte dei governi occidentali introdusse una legislazione per mettere al bando la discriminazione razziale palese e per rendere illegale che le donne fossero pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro. Non fu opera di gruppi di pressione, ma il risultato di un consenso sul fatto che una società moderna non poteva più permettere che queste cose accadessero. Allo stesso modo, l’aborto fu depenalizzato in diversi paesi nello stesso periodo, e ancora una volta questo fu un giudizio sociale collettivo, non il risultato di una lobby. In Gran Bretagna la decisione fu in gran parte non controversa (anche se alcuni gruppi di donne continuarono a combatterla fino agli anni ’70) perché era accettato che, con la contraccezione moderna e con la moderna tecnologia medica, gli aborti sarebbero stati inevitabilmente pochi e sicuri. Lo stesso ragionamento si applicava essenzialmente alla depenalizzazione dell’omosessualità, dove si riteneva che una società moderna avrebbe dovuto essere più tollerante nei confronti delle preferenze sessuali delle minoranze.

Ciò che questi e altri cambiamenti simili avevano in comune era un approccio basato sul consenso e la volontà di guardare ai fatti e alle prove. Naturalmente, nessun cambiamento di questo tipo era privo di controversie o di uso di controversie per un vantaggio politico, ma in nessun caso la controversia è durata a lungo. Al contrario, poiché gran parte dell’agenda liberale procede da assunzioni a priori che spesso si contraddicono tra loro ma sono comunque considerate evidenti, e poiché il liberalismo non conosce bene più grande della perfetta libertà economica e sociale dell’individuo, allora dibattito, riflessione e valutazione sono esclusi: in effetti, sono pericolosi e potrebbero essere usati dall’estrema destra. Vedo che alcune università americane sono ora apertamente contrarie al dibattito, il che è comprensibile dato che poche delle priorità di IdiotPol dei nostri giorni sopravvivrebbero a un esame razionale.

Quindi l’agenda del Partito, nella misura in cui ne ha una, è essenzialmente casuale e irrazionale, il prodotto della forza e del finanziamento di vari gruppi di pressione concorrenti. Non sorprende che gli elettori di vari paesi si ribellino contro governi che trascurano i loro interessi, ma cercano di imporre un’agenda incoerente e spesso contraddittoria di continuo cambiamento normativo, senza alcun argomento se non il potere e la capacità di demonizzare qualsiasi opposizione. In effetti, la tattica dell'”estrema destra” ha ormai raggiunto lo stadio dell’autoparodia e, credo, sta persino iniziando a sgretolarsi. Se non si è autorizzati a menzionare i problemi che la gente comune ritiene importanti nelle proprie vite perché la sola menzione di essi “legittima l’estrema destra” o qualche assurdità del genere, se pronunciare le parole “società” o “immigrazione” evoca forze diaboliche, come a teatro nessuno pronuncia il nome della “Scottish Play” di Shakespeare, allora di fatto il sistema politico ha perso definitivamente il contatto con le stesse persone che pretende di rappresentare. Le persone sono sempre più stanche di questa tattica, poiché scoprono che una parte sempre maggiore della loro vita è soggetta a un’omertà. Ora è chiaro che abbiamo incontrato il Loro Nemico, e il Loro Nemico si rivela essere Noi. Questo è un pensiero.

L’effetto escalation che ho menzionato sopra non ha un interruttore “off”, quindi i vari gruppi di interesse all’interno del partito sono obbligati a presentare proposte sempre più radicali per ottenere attenzione e ottenere finanziamenti, e quindi aumentare il loro potere e la loro influenza rispetto ad altri gruppi. (Per definizione, gli interessi della gente comune non possono essere presi in considerazione.) Nel lungo termine, naturalmente, questo sistema è irrimediabilmente negativo e distruttivo, motivo per cui crollerà. Immagina, se vuoi, un funzionario del Partito Esterno sudato, un blogger, un giornalista minore o un parlamentare con una maggioranza fragile, che si sveglia una mattina e scopre che una figura più nota ha appena twittato che le scuole dovrebbero essere legalmente obbligate ad avere almeno un insegnante transessuale. Come rispondere? Quanto potere ha questa persona? Chi si è dichiarato a favore? Come vengono caratterizzati gli oppositori? Posso cavarmela senza fare un commento? Inutile dire che i meriti dell’idea non sono il punto: il punto è proteggersi dalle critiche, o persino dal perdere il lavoro.

In effetti, un intero discorso e sistema di pensiero è stato dirottato qui. Per molto tempo, la sinistra si è vista realizzare progressivi risultati per migliorare la vita delle persone comuni, quindi era legittimo suggerire che più moderno fosse meglio. Questa non era una verità trascendentale, ma un giudizio pragmatico. Ma nell’ultima generazione o giù di lì, il concetto di “moderno” si è trasformato, o è stato distorto, in “recente”. Quindi il modernismo è diventato solo il recentismo, la deferenza riflessiva a qualsiasi cosa sia appena emersa. Al contrario, il rifiuto di sottomettersi a idee e comportamenti che sono recenti è ora liquidato come un segno di, hai indovinato, “estrema destra”.

Pensateci un attimo. Le idee politiche o filosofiche di oggi sono “moderne” in qualche senso, o sono solo recenti? In effetti, dove sono i pensatori politici e i filosofi significativi? Nella misura in cui ce ne sono, non lavorano per il Partito. E che dire della Cultura? La Sagra della Primavera di Stravinsky, considerata un’opera modernista chiave, è stata presentata per la prima volta più di un secolo fa. Olivier Messiaen è morto più di trent’anni fa e la maggior parte delle sue famose composizioni appartengono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. In che modo la musica orchestrale e da camera recente è più “moderna” di entrambe? Si è sviluppata in qualche modo? Probabilmente no, e in effetti le nuove registrazioni davvero interessanti di oggi sono di opere poco note del passato o del recupero di altra musica dal Medioevo fino all’era barocca, nessuna delle quali è recente, ma alcune delle quali sono decisamente moderne. A questo proposito, la musica popolare occidentale si sta ancora nutrendo degli sviluppi modernisti degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. E nella letteratura, beh, Ulisse e La terra desolata sono stati pubblicati un secolo fa, Céline e Virginia Woolf hanno scritto negli anni tra le due guerre, il Nouveau Roman e Oulipo appartengono essenzialmente agli anni Sessanta. E non c’è niente di più transitorio e poco memorabile di una rielaborazione “contemporanea” di Shakespeare. Ogni anno esce un torrente di nuova arte, e gran parte di essa vince premi, ma è da molto tempo che non sembra più “moderna” di qualsiasi cosa emersa l’anno precedente, o persino il decennio precedente. È un peccato, perché innovazione e modernismo genuini sarebbero benvenuti, ma eccoci qui.

In queste circostanze, una reazione contro il Recentismo infinito sembra del tutto ragionevole. Una volta che ci rendiamo conto che il neoliberismo ha dirottato il discorso storico di sinistra del progresso incrementale per aiutare a delegittimare i suoi critici, allora le cose diventano più chiare. È del tutto ragionevole anche guardare indietro e concludere che in passato le cose venivano fatte meglio. A meno che non troviate attraenti la disoccupazione di massa e la povertà di massa, a meno che l’istruzione gratuita e l’assistenza sanitaria gratuita non vi attraggano, a meno che non troviate allettanti l’alienazione e il crollo sociale, a meno che non crediate che fosse sensato esportare l’industria manifatturiera e costruire un’economia basata sui servizi finanziari e sulla consegna della pizza, allora siete destinati ad accettare, seppur a malincuore, che le cose erano meglio organizzate cinquant’anni fa di quanto non lo siano ora. In effetti, il mondo allora era probabilmente più “moderno” del nostro, per qualsiasi valore di “moderno” che abbia senso. E naturalmente un mondo ulteriormente sviluppato lungo gli stessi principi sarebbe molto diverso da quello che abbiamo.

I critici del PMC hanno provato varie tattiche. All’inizio era la Terra Promessa del Mercato. Questa è stata abbandonata in favore del Cambiamento Inevitabile e Irresistibile, che è stato falsificato dando un’occhiata ad altri paesi che andavano nella direzione opposta. Ora, il meglio che possono fare è codificare il senso di mancanza di cose positive del passato come l’influenza di (sigh) “estrema destra”. Il problema è che il Partito non ha nulla di tangibile da offrire all’opposizione. Per un po’ si è parlato solo di una società “più tollerante”, ma non ha funzionato, e di recente è stato deciso che la tolleranza in realtà non è affatto una virtù. Quindi, a parte agitare le mani e borbottare su norme e valori, tutto ciò che il Partito può fare è demonizzare il passato. Ascoltando alcune persone che non erano in vita allora, si potrebbe immaginare che negli anni Sessanta e Settanta gli immigrati venissero periodicamente linciati per strada, gli omosessuali rinchiusi in campi speciali e le donne incatenate al lavandino della cucina anziché essere autorizzate a realizzare se stesse lavorando a turni alla cassa di un supermercato. Ma non è difficile concludere che una società in cui un ritorno alla disoccupazione di massa e alla povertà degli anni Trenta era considerato inaccettabile era in realtà una società migliore di quella che abbiamo oggi.

Ironicamente, ci sono diverse forze politiche che in realtà vengono rafforzate da tutte queste assurdità. Una, probabilmente, è l’ estrema destra. Il partito vuole disperatamente evocare questa tendenza, ma non gli piaceranno le conseguenze. Prova a “combattere” la vera estrema destra e ti farai male. L’altra è la tradizionale destra moderata, che in molti paesi è stata dichiarata morta, ma sta mostrando segni di ripresa. In Francia, ad esempio, c’è una netta maggioranza di centro-destra nel paese e in Parlamento, e ne stiamo vedendo gli effetti nella nomina del governo Barnier e nella scelta del tradizionalista Bruno Retailleau come ministro degli Interni. Anche la Chiesa cattolica e la parte della destra che si identifica con essa hanno guadagnato sostegno negli ultimi anni. In parte si è trattato della legge sul matrimonio omosessuale, che ha dinamizzato la destra cattolica in un modo che non si vedeva da generazioni, e in parte della crescente tolleranza dell’interferenza religiosa musulmana nello Stato laico, che ha portato alcuni cattolici altamente conservatori a riflettere sul fatto che a questo gioco si può giocare in due.

Da un po’ di tempo penso che la vera Sinistra si trovi di fronte a una porta vuota. Tutto ciò che deve fare è calciare la palla dentro. Una Sinistra che dimostrasse di essere ricettiva alle preoccupazioni della gente comune sarebbe pronta a prendere il potere, ma ciò richiederebbe una riconsiderazione di trent’anni o più di rabbrividimenti anticipatori. I partiti della Sinistra erano così confusi dalle idee politiche del Recentismo che pensavano che le loro vittorie occasionali fossero dovute al fatto che avevano adottato queste idee, non che l’elettorato avesse respinto le politiche neoliberiste che ne erano derivate. La situazione di Starmer nel Regno Unito è assolutamente emblematica: eletto in seguito al diffuso disgusto per i Tories, il suo stesso partito non ha idea di cosa fare se non imitarli mentre cerca di apparire un po’ meno cattivo.

Demonizzare le preoccupazioni della gente comune come “estrema destra” non può funzionare a lungo termine e non farà altro che aumentare il sentimento populista al punto da renderlo ingestibile. Ho già detto, e lo ripeto, che coloro che rendono impossibile il populismo della sinistra renderanno inevitabile il populismo della destra. Dubito che uno su mille di coloro che attualmente trovano l'”estrema destra” sotto ogni pietra abbia idea di cosa ciò significherebbe.

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LA SOCIETÁ DEI DIRITTI E IL DILAGARE DEI DIVIETI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PREFAZIONE

Sottopongo ai lettori di Italia e il Mondo un mio intervento svolto ad un congresso del PLI nel 2005, perché la tematica ivi trattata appare ancora – anzi forse di più – di attualità. Sostenevo lì che: a) la visione dello Stato come “oppressivo” e “conculcatore” di diritti era non errata ma parziale b) questo perché lo Stato sociale come sviluppatosi nel ‘900 era connotato anche dall’aver assunto, quale proprio compito, l’erogazione di prestazioni assai superiori a quelle dello Stato ottocentesco c) e così aveva esteso il proprio obbligo di protezione non solo all’esistenza collettiva ed individuale (al “vivere” crociano) ma anche al “ben vivere”: la c.d. “libertà dal bisogno”.

Diritti relativamente ai quali la Repubblica italiana dimostrava un’incapacità gestionale non meno inferiore a quella dimostrata nel compito di protezione “tradizionale”.

Ne indicavo alcune delle cause, in particolare il malvezzo di fare leggi – manifesto, presentate con lessico accattivante, e soprattutto gratificante per i legislatori e l’uso a tal fine di sanzioni afflittive, ripristinatrici di legalità (e perfino di moralità) offesa.

Sanzioni afflittive poste (quasi) sempre a carico dei cittadini. Con l’inconveniente – data la scarsa capacità dell’amministrazione di gestirne l’esecuzione – di essere poco efficaci al fine, esternato e “legittimo” di promuovere la legalità. Meglio sarebbe stato accompagnarle con sanzioni premiali (come ad esempio i condoni): i quali però non sono “remunerativi” per la probità (o la santità) di chi li impone. Pochissime poi le sanzioni a chi la legge non la fa rispettare. È cambiato molto?

“LA SOCIETÁ DEI DIRITTI E IL DILAGARE DEI DIVIETI”

di Teodoro Klitsche de la Grange

Il tema di oggi, evidentemente riferito alla società italiana odierna, è riduttivo, nel senso che dà per scontato che carenze e difficoltà attuali siano riferibili ad un eccesso di divieti e ad una compressione continua e crescente delle libertà pazientemente costruite in Europa negli ultimi secoli, in particolare quelle riferite alla sfera economica.

Non è così: contribuisce infatti a questa formulazione (che non è in se errata, ma parziale) sia una generale e progressiva svalutazione dello Stato contemporaneo, cui contribuiscono solidaristi cattolici, leghisti, liberals, da cui lo Stato è visto come conculcatore sia di diritti individuali, che delle comunità intermedie e in cui si nota come abbiano preso del termine Stato solo uno dei significati correnti, anche se il più frequente. In effetti con tale termine si può intendere (come fanno i critici) l’apparato amministrativo (in senso lato) per cui lo Stato è il carabiniere, il Procuratore della repubblica o l’esattore delle imposte; ovvero l’entità che da forma e “personalità” alla comunità; o anche l’istituzione che protegge l’esistenza di quella. E si può parlare di un’idea e anche di un’ideologia dello Stato, come forma politica basantesi su propri presupposti ed esigenze, in particolare quelli fatti propri dal razionalismo moderno, e prodotto (secolarizzato) del cristianesimo occidentale.

Per cui che lo Stato sia sinonimo di oppressione appare affermazione azzardata perché parziale, anche se non (del tutto) infondata: in fondo è quella forma di organizzazione del potere con cui si è cercato da un lato di dare effettività e certezza alla tutela dei diritti e alla protezione dell’esistenza (individuale e) collettiva (cosa che le monarchie feudali non facevano o facevano in modo approssimativo, parziale e imprevedibile). Per cui appare vero che “Lo Stato è la realtà della libertà concreta” (v. G.G.F. Hegel prgr. 260, Grundlinien der Philosophie des rechts trad. di V. Cicero) e come scrive Hegel subito dopo “la libertà concreta consiste nel fatto che la singolarità personale ed i suoi interessi particolari, per un verso, hanno il loro sviluppo completo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile); per altro verso, invece, essi in parte passano da se stessi nell’interesse dell’universale, e in parte, con il loro sapere e volere, riconoscono l’universale stesso: precisamente, lo riconoscono come loro proprio Spirito sostanziale, e sono attivi in vista di esso come in vista del loro fine ultimo. Per cui “Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità: esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e, a un tempo, lo riconduce nell’unità sostanziale, conservando così quest’ultima in quel principio stesso”.

In altre parole allo Stato è connesso un compito (ed un valore) di libertà (oltre che di razionalità) nella protezione e nello sviluppo dei diritti particolari e non solo collettivi.
Ripeto questo anche perché tra i “Sacri testi” del liberalismo ve n’è uno, Il “Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” di B. Constant, più volte ripreso dal pensiero politico moderno che si può interpretare e da molti è stato interpretato (in parte a ragione) – come contrapponente il concetto di libertà degli antichi, consistente nel diritto dei cives a partecipare alla formazione della volontà pubblica (cosiddette libertà di), cioè una concezione partecipativa e politica della libertà, all’altra moderna, che vede la libertà consistere essenzialmente nelle garanzie dei diritti individuali e privati dei cittadini dal potere, cioè soprattutto dalla più potente espressione del potere pubblico: quello statale (libertà da). Anche se le libertà di o da, in particolare le prime, hanno un carattere essenzialmente politico lo Stato (in genere) e quello moderno, in particolare, ha sviluppato tutta una serie di diritti (non politici), a carattere pretensivo nei confronti dell’apparato pubblico: per cui accanto a dei doveri, consistenti nel non conculcare libertà (personali, economiche, religiose) coesistono degli obblighi a carico dell’apparato a soddisfare delle pretese riconosciute ai cittadini. E questi obblighi sono non meno importanti, anzi forse di più, di quei doveri.

 

  1. Ho fatto tale premessa perché il tema di questa giornata che contrappone diritti e divieti sembra più adatto a caratterizzare una discussione sulla difesa dal potere pubblico che quella sulla attuazione-realizzazione degli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini. Come se quella fosse più importante di questi.

Non è così: la categoria delle inadempienze della Repubblica italiana è (purtroppo) assai più vasta di quanto potrebbe desumersi dall’abbondanza dei divieti, e dai prelievi imposti da questo apparato pubblico più famelico che efficiente, il quale può definirsi parafrasando il verso di Leopardi sulla natura “non rende poi quel che preleva allor”. E questo assetto concreto non è l’attuazione del concetto (dell’idea) di Stato, ma la di esso perversione, perché contraddice ai connotati dell’idea: per citare Hegel invece che di compito di “sviluppo” dei diritti si può parlare tranquillamente di “freno” e “compressione”; quanto all’ “unità sostanziale” e alla “protezione” (Hobbes, Hauriou) la Repubblica ha fatto il possibile per ridurre l’una e conferire la seconda, in gran parte, ad altri (in particolare gli USA).

Stiamo parlando di diritti e di divieti. I “divieti” possono operare in due modi: esplicito o implicito. Il secondo più diffuso e pericoloso del primo perché sabota in concreto ciò che riconosce in astratto. Vediamo come, partendo da un settore particolarmente importante come la giustizia penale.

Se la giustizia civile arriva, per lo più, con grande ritardo, quella penale ha un difetto anche peggiore: quello di non riuscire (quasi sempre) a partire. Il fatto che oltre l’80% dei procedimenti penali siano archiviati in istruttoria significa che, tranne, in alcuni casi, modeste investigazioni della polizia giudiziaria, le “notitiae criminis” non sono istruite e passano direttamente dalla scrivania degli istruttori (cioè i P.M.) agli archivi delle Procure. Se in Italia la giustizia civile (e anche quella amministrativa) richiamano alla mente l’immagine di un treno accelerato, quella penale, invece, le automobili nei cortometraggi degli anni ’20, che facevano disperare gli autisti per mettersi in moto a forza di giri (inutili) di manovella.
Infatti i dati più recenti (sostanzialmente poco peggiorativi di quelli degli anni ’90) indicano che dell’87% delle notitiae criminis pervenute al P.M. viene chiesta l’archiviazione in istruttoria (cioè non si arriva né all’individuazione di un responsabile né di un reato perseguibile); che le notitiae criminis denunciate sono il 36% dei reati commessi (cioè il più basso indice tra gli Stati sviluppati, dal Giappone all’Europa occidentale agli USA, dove oscilla tra il 65 e l’80%) onde in definitiva la percentuale della condanne definitive rispetto ai reati commessi è (con buona approssimazione) intorno all’1% dei reati. Percentuale da prefisso teleselettivo. Con l’aggravante che incide su un compito “classico” e non “privatizzabile” dello Stato, cioè la protezione, e la garanzia dei diritti, tra cui quello alla vita.
Per cui tale compito dello Stato, uno dei più importanti per legittimare, come scriveva Hobbes, la pretesa all’obbedienza, diventa attuato e concreto in circa l’1% dei casi. È solo il carattere mansueto del popolo italiano che fa sopportare una situazione del genere.
Se dalla giustizia passiamo ad altri settori, in particolare a quelli incidenti sui rapporti economici, lo scenario è – spesso – simile. Anni fa fu pubblicata una statistica per cui il tempo medio di rilascio di una concessione edilizia (nel Comune di Roma) era di trenta mesi; oltre al fatto che, prima di alcune semplificazioni del procedimento di rilascio, apportate negli anni ’80, praticamente ogni attività edilizia era soggetta a concessione. Diceva uno spirito laico e libero come il defunto amico Caianiello, illustre magistrato e giurista, che sarebbe stato necessario il consenso del Comune anche per appendere in salotto un quadro di Fantuzzi al posto di quello di Omiccioli.

Per entrare nell’“euro” i governi di centro-sinistra italiani hanno, con una serie di norme, reso più lenta e complicata l’esecuzione per somme pecuniarie nei confronti delle P.P.A.A.: una moratoria surrettizia. E si potrebbe continuare per ore a citare casi del genere. Ma dov’è il comune denominatore di tutte queste (volute) vessazioni dei diritti del cittadino? E l’assenza o l’inefficienza dei controlli sui funzionari e in genere sulle amministrazioni; per cui il potere pubblico è benigno con amministratori e funzionari quanto arcigno con i cittadini. Facciamo un esempio tra tanti: l’art. 14 del D.D.L. 31/12/1996. Tale norma s’intitola “esecuzione forzata nei confronti delle pubbliche amministrazioni”, ed è inserita in un provvedimento legislativo di “accompagnamento” della finanziaria ’96, quella che, più di ogni altra, doveva produrre il risanamento dei conti pubblici e consentire l’ingresso nel sistema monetario europeo. Tale disposizione di legge prescriveva l’obbligo per le P.P.A.A. di pagare i creditori muniti di titolo esecutivo giudiziale entro 60 giorni (successivamente portati a 120). Poco male, se nella stessa norma non fosse anche disposto “Prima di tale termine il creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette amministrazioni ed enti, né possono essere posti in essere atti esecutivi”: con ciò l’obbligo prescritto alla P.A., di pagare entro sessanta giorni, diventava il dovere, per il creditore, di attendere, senza poter concretamente eseguire quanto, si noti, comandato a suo favore da sentenze e atti dell’autorità giudiziaria. Dilazione che era, come detto, sei volte superiore a quella prescritta al creditore di un privato. Ma quel che soprattutto rende tale norma una “zeppa” concepita per dilazionare i pagamenti senza alcuna considerazione per i diritti sacrificati, è l’assenza di una sanzione (specifica) per l’inadempimento. All’istituzione di una (nuova) dilazione di 60 giorni, non corrisponde la prescrizione di alcuna conseguenza pregiudizievole per l’amministrazione (e il funzionario) inadempiente: né civile, né amministrativa, né contabile, né penale. In altri termini, una “grida” in perfetto stile manzoniano, il cui fine, in tutta evidenza, è solo quello di ritardare l’esecuzione di obblighi giudizialmente statuiti: con l’aggravante che, di solito, chi realizza un proprio credito dopo un processo, sta aspettando da cinque – dieci anni, come risulta dalle statistiche sulla durata dei processi civili; e, se è stato costretto a rivolgersi al Giudice, in genere lo è perché non ha “buone entrature” nella pubblica amministrazione. In questo (e tanti altri casi) il tutto poteva e può migliorarsi istituendo sanzioni personali, miti ma di sicura applicazione a carico del funzionario responsabile dell’omissione, al posto o accanto a quelle che presupponevano l’esistenza di uno Stato funzionante (come quelle penali o quelle civili e contabili in vigore, ormai largamente desuete e/o inefficaci): ma è chiaro che un’amministrazione e una burocrazia che risponde solo all’autorità superiore è da un lato portata a temere solo quella; dall’altro a condividere i profitti del sistema, diventandone complice.

  1. Una delle soluzioni che più piacciono in particolare al centro-sinistra, fornito largamente di una mentalità giustizialista e (sedicente) moralista (ma più che la morale di Kant, vi si notano gli ultimi sprazzi di quella di Viscinsky) è di far leggi che sanzionano istituendo talvolta reati, talaltra pene pecuniarie, (oltre a sequestri, confische, fermi e via sanzionando l’amministrato).
    Chi non crede alla legittimità e opportunità di tale armamentario sanzionatorio è indicato come pubblico peccatore, nonché pervertitore della morale, della legalità e dei buoni costumi.
    In effetti dubitare di tale apparato è non solo legittimo, ma anche generalmente fondato, atteso i dati sull’efficienza non solo della giustizia penale, ma in genere di (quasi) tutte le amministrazioni. Tuttavia quando si ricorre, anche a causa di quella modestissima efficienza, allo strumento del condono, lai ed anatemi sulla legalità tradita s’intensificano.
    Occorre invece ricordare che ogni sistema giuridico – ogni ordinamento – si fonda sul coniugare e far cooperare interessi pubblici e privati (Jhering) con varie tecniche, principale quella di applicare sanzioni; ma queste sono di due tipi: quelle afflittive e quelle premiali (oltre a una terza categoria, ch’è il misto delle precedenti).

È chiaro che i politici del centro-sinistra privilegia la prima: quale miglior occasione per fare “passerella” nel presentarsi (pubblicamente) come il difensore dei “valori”, della morale, della legalità ecc. ecc.; e quale prova migliore che portare a sostegno di tali sermoni autoreferenziali qualche legge criminalizzante? Od opporsi a condonare qualche reato? Anche perché un simile “operare” è, per lo più, innocuo: dato il tasso di efficienza della giustizia penale, queste leggi non sono altro che “grida” di manzoniana memoria. Per cui si fa bella figura con i benpensanti, strizzando l’occhio ai rei: che male vi fo, facendo norme destinate a non applicarsi quasi mai, quindi quasi tutte innocue? Aventi lo stesso carattere di quelle dell’ancien règime: in cui a norme severe si accompagnava una pratica fiacca, secondo il giudizio di Tocqueville.
Norme del genere sono destinate alla disapplicazione, e talvolta all’applicazione selettiva (con buona pace dell’isonomia). Perché come scriveva Max Stirner “Nessun’idea, nessun sistema, nessuna causa santa è tanto grande da non dover mai venire superata e modificata da …. interessi personali. Anche se essi tacciono per un certo tempo e tacciono nei momenti di furore e fanatismo, ritornano tuttavia presto a galla grazie al “buon senso del popolo”. Molto meglio, specie in presenza di un apparato amministrativo disastrato, far leva sulle sanzioni premiali o quelle miste, cioè sulla collaborazione con i cittadini. Come per l’appunto i condoni, dove si fa leva sull’interesse del cittadino alla chiusura di una vertenza (attuale o possibile) col pagamento di una “ammenda” ridotta. E i condoni sono solo uno dei tanti modi con cui si può incentivare l’obbedienza alle leggi: perché l’interesse primario del legislatore non è di applicare sanzioni, ma ottenere un ragionevole tasso d’obbedienza alle leggi da applicare. Cosa che gli ulivisti fanno mostra di non capire (e talvolta forse non capiscono) e che non li qualifica quali vestali della morale e della giustizia: ma come avrebbero fatto i nostri antenati nel Risorgimento, come forcaioli. Termine che adesso è loro risparmiato, perché al contrario degli Stati pre-unitari, di tale strumento di “alte opere di giustizia” la Repubblica non fa uso.

 

  1. Quando in una società si coniuga un diritto severo, cui corrisponde scarsa applicazione ed obbedienza, e diffuso malessere che parte dai governati, state sicuri che quella è in decadenza e probabilmente prossima al crollo. Lo sosteneva non solo Tocqueville, ma anche i Padri della Chiesa, ai tempi della decadenza dell’impero d’Occidente. Ad esempio Salviano di Marsiglia scriveva nel V secolo d.C.: “Passiamo ora a un’altra mostruosità inqualificabile che ha origine da quella empietà appena accennata e che, sconosciuta ai barbari, è di casa per i Romani: costoro con l’esazione delle tasse si confiscano i beni a vicenda. Ma che dico! Non a vicenda, perché sarebbe sicuramente più sopportabile se ognuno patisse di ritorno ciò che ha fatto patire agli altri. Più grave è il fatto che sono poche persone a confiscare i beni di una massa di gente: per quegli esattori le imposte statali sono come bottino personale, visto che fanno delle cartelle esattoriali una fonte di profitto privato. E a farlo non sono soltanto alti papaveri, ma anche i più bassi funzionari; non soltanto i giudici, ma anche i loro tirapiedi! Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanti tiranni? E probabilmente se ne vantano anche, di questo nome, che gli dà l’idea di potenza e onorabilità. Tutti i pirati, del resto, gongolano d’orgoglio quando vengono creduti molto più brutali di quanto lo siano effettivamente. Nessuno, pertanto, è al sicuro; nessuno, fatta eccezione dei pezzi grossi, si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari .Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui.….E intanto i poveri vengono depredati, le vedove gemono, gli orfani vengono oppressi, al punto che un buon numero di tutti costoro, che discendono da famiglie conosciute e che sono stati educati come persone libere, per non morire sotto la martoriante persecuzione pubblica si rifugiano presso popoli nemici. E migrano perciò da ogni parte verso i Goti o i Bacaudi o altri popoli barbari, ovunque siano essi a governare, e non si rammaricano affatto d’aver emigrato, poiché preferiscono vivere liberi sotto una apparente schiavitù che non schiavi in un sedicente paese libero”. Tale descrizione è sicuramente cruda e vivace e si riferisce ad una crisi infinitamente più acuta di quella attuale, ma mostra come le cause che le provocano spesso, almeno in parte, coincidono.
    Diritto non eseguito perché non obbedito né “autorevole”; burocrazia vorace, incapace e priva di senso dello Stato; riduzione fino alla scomparsa dell’idem sentire de republica; durezza verso i concittadini e incapacità progressiva di difendere l’esistenza collettiva ed individuale.
    Gli ingredienti della crisi, anche se in misura, grazie al cielo, assai più limitsta, ci sono tutti.
    Con un’ultima notazione voglio concludere questo punto. Una delle più celebri frasi di Cavour, che cito a memoria (scusatemi l’inesattezza), è: “a governare con lo stato d’assedio è capace qualsiasi c…”. E questo è l’epitaffio che un grande liberale potrebbe dedicare ai pomposi giustizialisti, variante da rotocalco dell’ autoritarismo eterno quanto inutile, che fanno della “legalità” e della “morale” degli strumenti di lotta politica (e di carriera personale).

 

  1. Per cui in sostanza, e tornando all’inizio, la crisi del diritto, il dilagare dei divieti, l’inefficienza progressiva non sono il prodotto dello Stato, bensì della crisi dello Stato. Perché questo prima di essere un’istituzione, o un apparato, è un’idea, come scrivevano Maurice Hauriou e Giovanni Gentile, un’idea d’esistenza collettiva ed individuale, che si realizza col comando e col consenso, attraverso il potere e l’obbedienza. Quando perde questo, perde l’anima e diviene una macchina. E di questa crisi è parte causa (e parte effetto) lo spirito burocratico che lo pervade (oltre s’intende, alla burocrazia stessa). Su questo scriveva pagine interessanti il giovane Marx: “Il “formalismo di Stato”, ch’è la burocrazia, è lo “Stato come formalismo”, e Hegel l’ha descritta come un tale formalismo. In quanto questo “formalismo di Stato” si costituisce in potenza reale e diventa esso stesso il suo proprio contenuto materiale, s’intende da sé che la “burocrazia” è un tessuto d’illusioni pratiche ossia la “illusione dello Stato”. Lo spirito burocratico è fin nel midollo uno spirito gesuitico, teologico. I burocrati sono i gesuiti di Stato, i teologi di Stato. La burocrazia è la république prêtre” e proseguiva a lungo, ma vi risparmio per motivi di tempo il resto. Ma è sicuro che senza anima, senza cioè la politica, coi suoi presupposti (e le sue categorie) lo Stato, che è un’entità vivente, fatta di uomini, rapporti e (da ultimo) norme, non regge. E’ questa la principale ragione della crisi del diritto. I vari Dottori più o meno sottili, poco possono fare per ovviarvi: serve un idem sentire, una nuova legittimità e non una tecnocrazia di piagnoni. Come serve di capire la vera natura e causa della crisi, e non prendersela con uno Stato assai riduttivamente considerato. Da liberale italiano ricordo le nostre tradizioni, simili ma diverse da quelle dei liberali di altri paesi: in quelli lo Stato nazionale è stato edificato dalle monarchie barocche, e riformato dai liberali trasformandolo da assoluto a costituzionale. In Italia i liberali hanno fatto il Risorgimento e con ciò, lo Stato Nazionale e liberale insieme. Adempiendo dopo oltre tre secoli all’auspicio di Macchiavelli nell’ultimo capitolo del “Principe”. Lo Stato nazionale, anche in tempi di Impero mondiale è l’unica garanzia di esistenza collettiva e di libertà civile. Di fronte ai poteri forti, alle varie potestates indirectae, economiche, burocratiche, sindacali, è l’unico potere realmente democratico perché risponde al popolo, ora più di qualche decennio fa E’ degenerato nella pratica ma valido nell’idea. E non bisogna confondere la patologia (peraltro essenzialmente italiana), con l’idea stessa.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Coordinatore Romano P.L.I.

 

il taglio della lingua e l’autoreferenzialità, di Roberto Buffagni e Pierluigi Fagan

Roberto Buffagni
Il nuovo premier britannico, di origine indiana, annuncia che farà chiudere le sedi dell’Istituto Confucio nel Regno Unito. L’Istituto Confucio, come il British Council o la Società Dante Alighieri, si limita a favorire lo studio della lingua e della cultura cinese, non è una diabolica operazione di guerra psicologica architettata dallo SM cinese. Possono senz’altro esservi agenti segreti cinesi – o britannici, italiani, etc. – che si accreditano come dipendenti dell’Istituto Confucio, del British Council, etc. Se esso viene chiuso, le spie si accrediteranno con una diversa “leggenda”. Insomma l’Istituto Confucio è – meraviglia! – una istituzione culturale, preziosa per introdursi alla conoscenza di una lingua (difficile) e di una cultura (antichissima, ricchissima, molto diversa dalla nostra e, nel caso di specie, dalla britannica). Dunque, anche dal ristrettissimo pdv della sicurezza nazionale britannica, abolire l’Istituto Confucio è una decisione autolesionista, perché se lo UK designa la Cina come nemico, dovrebbe fare di tutto per migliorare la conoscenza il più possibile diffusa della cultura cinese, così allargando il bacino di potenziali reclute necessarie per l’analisi delle tendenze in atto in Cina (ovviamente per combattere con successo un nemico è indispensabile conoscerlo meglio che si può). Questa decisione del nuovo Premier britannico è insomma una decisione del tutto stupida, e chi l’ha presa è, almeno sotto un profilo importante della sua personalità, un imbecille.
Quali sono le giustificazioni di questa imbecillità di un uomo che, a giudicare dal suo CV, per altri versi imbecille non è? Vediamo. La prima e la più facile è l’effetto “spin”: così, sui media il Premier fa la bella figura del decisionista che schiaffeggia la grande potenza cattiva e comunista, e si appella alle inclinazioni più stupide e identitarie del suo elettorato. La seconda giustificazione è una cosa più seria e più grave: l’idea che la cultura sia un’arma direttamente politica, perché all’azione politica si affida il compito di creare la cultura, censurando e promuovendo a seconda degli interessi politici in vigore; o per dir meglio, il cortocircuito tra politica e cultura, la quale ultima viene integralmente politicizzata, ed è vero, interessante, valido, fruttuoso quel che è politicamente utile, mentre è falso, superfluo, dannoso e sterile quel che non lo è: perché quel che è politicamente utile o meglio “politicamente corretto” è CULTURALMENTE VALIDO ed ETICAMENTE GIUSTO. Questa è in effetti la tendenza che prevale nell’attuale pensiero dominante occidentale, ed è, va da sé, la MORTE della cultura (e l’iniezione letale per l’intelligenza di chi ci casca).
Sino al termine della Guerra Fredda, i due grandi campo geopolitici trovavano, seppur tra varie difficoltà, un terreno di comprensione culturale comune sulla base dell’umanesimo borghese, certo diversamente interpretato, ma formante un campo di intesa e di comunicazione nel quale i nemici potevano continuare a intendersi reciprocamente come uomini aventi pari dignità, pari possibilità di affrontare “i problemi che nessuno può risolvere per noi”, ossia gli interrogativi perenni che si pongono da sempre e per sempre agli uomini e alle loro civiltà, una delle principali funzioni della cultura, da sempre. Purtroppo, l’umanesimo, che è una gran bella cosa, è molto fragile, perché il suo fondamento è il senso religioso, la capacità di rivolgere la propria attenzione al grande mistero che ci supera e ci contiene come l’amnio contiene il bambino nel grembo materno; per farla corta e un po’ semplicistica il fondamento dell’umanesimo è Dio, parola nella quale ciascuno, e ciascuna civiltà, scorgerà significati diversi, e mai esaustivi perché come disse nel XV secolo Nicola da Cusa, la verità è infinita, e noi possiamo approssimarci ad essa come un poligono si inscrive nel cerchio, ossia mai perfettamente finché il poligono non diviene cerchio esso stesso, ciò che accade solo quando ce ne andiamo all’altro mondo e la realtà del Vero ci sommerge. Dio non va forte sull’attuale mercato delle idee e delle sensibilità, sembra addirittura che sia un prodotto obsoleto, come un modello di automobile d’epoca non più in fabbricazione: lo si vede ancora circolare nelle strade ma non si può più acquistare dal produttore, sparito da decenni; tocca impazzire per trovare i pezzi di ricambio e si finisce per dover supplire con un difficile, precario faidate. Suscita ancora un po’ di curiosità e magari di ammirazione per la sua eleganza, come quando vedi passare una Isotta Fraschini e ti sovvengono scenari Liberty high brow, le vestaglie di Fortuny, Proust che va a cenare al Ritz, le grandes horizontales, e altri ricordini farlocchi ma piacevoli (per cinque minuti). Poi si riprende a vivere la vita vera. Però è difficile, vivere “la vita vera” ossia sta roba che ci succede ogni minuto, viverla senza Dio; molto difficile. Difficile vivere e difficile pensare. Invece, è facile diventare imbecilli.
PIERLUIGI FAGAN
IL TAGLIO DELLA LINGUA. Il concetto moderno di progresso nacque nella seconda metà dell’Ottocento (Spencer) e quindi era l’istantanea del solo andamento della società britannica nel momento della Rivoluzione industriale poi generalizzato come perno dell’immagine di mondo occidentale generale.
Unitamente all’ignoranza degli studi storici, l’idea di progresso ha retroproiettato una falsa immagine del Medioevo. Il Medioevo è diventato un blocco storico buio, da cui poi si emancipò la modernità ovviamente a guida prevalentemente anglosassone. Va però ricordato che il “peggio del Medioevo” non si verificò all’inizio o a metà dei suoi mille anni, ma alla fine.
L’Inquisizione, ad esempio, fu istituzione precoce (1184), ma la maggioranza degli storici ritiene che per lungo tempo, fino al ‘300 inoltrato, sanzionava in vario modo ma con un uso molto raro delle punizioni corporali (tra cui il taglio della lingua) e della tortura. Da lì in poi, l’Inquisizione diventa centrale e sempre più violenta e repressiva. Quella spagnola nasce nel 1478, la portoghese nel 1536, quella romana contro i protestanti è del 1542.
Letta la faccenda in termini sistemici, si può dire che il sistema culturale medioevale con al centro la Chiesa, si chiude e si irrigidisce internamente quanto più perde controllo esterno. Del resto, chiudersi, rinchiudersi, corazzarsi è strategia di difesa biologica contro minacce esterne ritenute vitali.
Abbiamo quindi la falsa convinzione che il procedere del tempo porti progresso e una dinamica storica che mostra, al contrario, che il procedere del tempo porta regresso. In realtà tali idee sono inconsistenti in entrambi i casi perché non c’è alcuna dinamica propria collegata al tempo, dipende dal sistema che osserviamo nelle sue condizioni di contesto.
Veniamo così alla patria del liberalismo moderno, l’Inghilterra (detta Inghilterra e non Gran Bretagna o Regno Unito), dove il nuovo primo ministro indo-miliardario (dove cioè la classificazione economica di ceto sopravanza quella etnica), ha promesso di chiudere tutti e trenta gli Istituti Confucio inseriti nel complesso universitario dell’isola. Cosa già promessa dalla fugace Truss. Secondo Sunak, la Cina è oggi: “la più grande minaccia per il Regno Unito e la sicurezza e la prosperità del mondo in questo secolo” e gli istituti di cultura cinese sono l’avamposto della subdola penetrazione di lobbisti cinesi che vogliono traviare il tempio delle libertà moderne ed occidentali.
Gli istituti Confucio erano 530 nel mondo al 2019, al pari del British Council ed i vari istituti Dante, Cervantes, Goethe, diffondono conoscenza sulla propria lingua, il cinese. Chi scrive ha frequentato per tre anni quello dell’Università di Roma conseguendo i rudimenti di quella impegnativa lingua che è poi base per comprendere la relativa cultura di riferimento. In due lezioni settimana per nove mesi per tre anni, non mi è mai capitato di ascoltare nulla sulla Cina contemporanea, solo caratteri, grammatica, scrittura, lettura, pronuncia. La pronuncia è fondamentale ed impegnativa poiché il set di componenti base della lingua è limitato ma poi moltiplicato usando quattro diversi accenti per cui capita che il semplice “ma” possa significare: cavallo, mamma, insultare o tessuto di canapa. Per cui se non fate attenzione può capitare vi esca, anche con una certa aria soddisfatta, un “ieri ho montato tua madre”, invece che “ieri ho montato il tuo cavallo”.
Negli ultimi tempi, in US, Danimarca e Svezia hanno cominciato a chiudere questi avamposti della cultura sinica, dicendo che “cercano di modificare l’immagine di Pechino agli occhi del mondo”. Subdoli cinesi, noi invece propaghiamo i nostri istituti culturali di lingua nazionale per organizzare forum critici sui nostri Paesi, non c’è reciprocità.
Il taglio della lingua è il presupposto per impedire l’interrelazione tra immagini di mondo ed impedire i processi di formazione di una immagine di mondo mischiata in comune è il presupposto per non intendersi, non intendersi è il presupposto per confliggere.
La “società aperta” alza i muri e tagli ai ponti. Vuol dire che si sente debole. Viepiù procederà in questa sindrome da sistema alle fasi terminali che si rinchiude ostinatamente per preservare la sua coerenza interna, tanto più perderà attinenza esterna. Chiudersi porta ad irrigidirsi ed infatti siamo in piena società delle scomuniche.
Il Maestro diceva “Studiare senza pensare è futile, pensare senza studiare è pericoloso” (2.14 t:Leys).
Così oggi veniamo invitati a studiare STEM (Scienza, Tecnologia, Economia, Matematica) senza pensare e pensiamo al Mondo senza studiarlo. Che triste “finale di partita” (Beckett).

La nuda verità sulle transizioni energetiche, Di Jeanne Donovan

Un morbo contagioso_Giuseppe Germinario

Storicamente, le fonti di energia hanno impiegato decenni per passare dai vecchi metodi alle nuove tecnologie. I cambiamenti sono stati guidati da imprenditori visionari insieme all’evoluzione della domanda pubblica.

Il passaggio da cavalli e passeggini alle automobili è durato 50 anni. Anche in quel lungo arco di tempo, l’evoluzione non è stata sempre benefica per gli individui o le comunità. C’erano pro e contro da entrambe le parti. “Prima che gli abitanti delle città si lamentassero delle auto, dello smog, della congestione e della perdita di spazio pubblico, inveivano contro le ca..te di cavallo puzzolenti e cavalcate dalle mosche “.

La differenza tra il 19° secolo e il 21° secolo è che la nuova tecnologia energetica è cresciuta lentamente in popolarità mentre il capitalismo alimentava il desiderio di una vita migliore. Ora gli americani stanno soffrendo durante il mandato presidenziale di Biden e le ferite sono autoinflitte. I politici e i burocrati di regolamentazione stanno distruggendo di proposito la nostra indipendenza energetica mentre fingono che le loro politiche non abbiano nulla a che fare con problemi di inflazione, carenza e possibile razionamento. Stanno indirizzando erroneamente la colpa a Putin e al COVID-19, ma lo sanno meglio. Biden e le sue coorti stanno deliberatamente indebolendo il nostro paese per quella che sembra una miscela di ideologia marxista-verde. Pensano persino che il nostro dolore sia divertente .

I commercianti di clima di oggi, guidati da ideologi come Joe Biden, Nancy Pelosi, Chuck Schumer, Jennifer Granholm, Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez, solo per citarne alcuni, sono così sconsideratamente miopi che apparentemente non riescono a pensare oltre i suggerimenti dei loro nasi. Chiedono di rinunciare ai combustibili fossili e di sostituirli con energie rinnovabili, e lo vogliono proprio ora! Accidenti alle conseguenze per te, per me e per il nostro paese durante la transizione. Sanno che saranno tutti morti tra cinquant’anni, quindi non sono disposti a lasciare che il cambiamento avvenga in modo incrementale, inoltre hanno solo due anni e mezzo di presidenza di Joe per completare la loro strategia di ricostruzione peggiore, e se alcuni di questi ideologi sono fedeli alla loro convinzione dichiarata, saremo tutti morti nei prossimi nove anni a causa del riscaldamento globale. Pertanto, dobbiamo assolutamente accettare le loro scritture e cambiare il nostro modo di peccare per salvare il pianeta. A maggior ragione ci spingono verso il presunto nirvana energetico prima che si verifichi la nostra estinzione. Queste persone non sono pazienti o logiche, quindi non pensano mai al futuro per immaginare cosa potrebbe andare storto se riuscissero con la loro missione di ricablare il mondo a loro immagine.

Attualmente, vogliono che tutti noi, compresi i poveri, restiamo a casa o compriamo auto elettriche così non dovremo fare affidamento sui combustibili fossili. Ah! Sono davvero così stupidi o pensano che siamo stupidi? Tanto per cominciare, non sanno che la maggior parte dell’elettricità è prodotta con il carbone? Credono davvero che saranno in grado di alimentare le loro Tesla usando l’energia eolica o solare inaffidabile? L’energia fornita dal vento e dal sole è un dono gratuito di Dio al mondo, ma per sfruttare quell’energia per scopi rinnovabili richiede anche una fonte di energia, oltre ai sottoprodotti del petrolio, per non parlare delle terre rare che sono per lo più di proprietà della Cina. Costruiranno questi stessi mulini a vento e pannelli solari utilizzando solo energia rinnovabile? Non credo.

Quelle nuove ed eleganti Tesla, con tutti i loro equipaggiamenti di plastica, avranno anche bisogno di pneumatici.  Il 60% di tutti i pneumatici nel mondo sono realizzati in gomma sintetica, che è un sottoprodotto degli idrocarburi. Se ci sbarazziamo del petrolio, le gomme diventeranno una reliquia del passato.

“Tentare di sostituire tutti i componenti dei pneumatici a combustibili fossili con biomateriali sarà impossibile nel breve termine ed estremamente difficile nel lungo termine[.]” Come faranno i movimento terra senza mega-pneumatici a trasportare i materiali utilizzati per costruire le infrastrutture del nostro paese o costruire grattacieli? In che modo i caricatori pesanti trasporteranno anche una singola pala di una turbina eolica del peso di 12 tonnellate attraverso il paese? Come trasporteremo cibo e merci in diversi stati senza pneumatici? Immagino che avremo bisogno di più treni, ma oops, hanno anche bisogno di combustibili fossili per funzionare. Come faranno John Kerry, Nancy Pelosi e le star di Hollywood a far atterrare i loro jet privati ​​in giro per il mondo senza pneumatici?

Ma allora perché preoccuparsi degli pneumatici poiché gli aerei sono costruiti utilizzando prodotti realizzati con sottoprodotti del petrolio? La produzione di aerei deve cessare. Come potranno i nostri veicoli militari difendere il nostro Paese e i nostri alleati senza pneumatici? Come potremo fornire armi da guerra all’Ucraina? Senza i sottoprodotti del petrolio per la produzione di pneumatici e altre materie plastiche, il trasporto sarebbe irriconoscibile, se esistesse. Potremmo dover ricorrere a veicoli che somigliano all’auto di Barney Rubble .

Ognuno di noi potrebbe porre migliaia di domande simili e logiche su come sarebbe la vita dopo la perdita dei sottoprodotti del petrolio. I verdi non avrebbero risposte valide.

Un ultimo pensiero, e non carino. Immagina un giorno in cui tutti i prodotti petroliferi saranno stati cancellati. Di conseguenza, i suoi sottoprodottinon sono più disponibili. Ora immagina il tuo pazzo greenie meno preferito che ti insegna da un podio sul riscaldamento globale e sulla fine dei tempi. Imbarazzante, perché tutte le fibre sintetiche di idrocarburi utilizzate in precedenza per realizzare quasi tutto ciò che adornava il nostro corpo sono state vietate, e perché non ci sono più pneumatici per supportare i trattori per arare i campi per fibre naturali come cotone e lino, e perché PETA si oppone a chiunque usi pelliccia di animale o pelle per vestirsi, il pazzo verde è lasciato in piedi davanti a te, nudo come il giorno in cui è nato. L’imperatrice non ha vestiti. Né può distrarre i tuoi occhi dalla sua nudità applicando un rossetto rosso brillante, o gesticolando le sue unghie acriliche lucidate di rosso, o saltellando sui suoi scintillanti tacchi Louboutin. Sono scomparsi tutti quando il petrolio è stato bandito.

Quello non è progresso. È un salto indietro nel tempo. Purtroppo, ora che il deodorante, il sapone e lo shampoo sono scomparsi, la nostra imperatrice verde odora di merda di cavallo.

È ora di rimandare questi pazzi marxisti verdi e saccenti, e tutti i loro simili, nella caverna a cui appartengono.

https://www.americanthinker.com/articles/2022/06/the_naked_truth_about_energy_transitions.html

Il dominio dei migliori, di Roberto Buffagni

In Canada, il governo blocca i C/C dei dissenzienti. Domanda: sono dei fasci? sono dei comunisti? Sotto la risposta.
NON sono dei fasci. NON sono neanche dei comunisti. Sono dei liberal-progressisti. Il contenuto ideologico che impongono con la coercizione è il liberal-progressismo, del quale fa parte integrante l’ingegneria sociale (questo è un esempio preclaro di ingegneria sociale condotta con metodi coercitivi). La distinzione è molto importante perché altrimenti non si capisce più niente. Va tenuto presente che l’ordine internazionale unipolare a guida USA non è “agnostico”, ma ha un contenuto ideologico obbligatorio, che è appunto il liberal-progressismo. La ratio di questo contenuto ideologico è che a) il liberal-progressismo è il regime sociale più avanzato e migliore in assoluto b) se tutto il mondo diventa liberal-progressista si raggiungerà, in futuro, la concordia universalis, basta guerre, basta conflitti c) non si vedono motivazioni (se non malattie psichiatriche o arretratezza culturale) per opporsi al liberal-progressismo in nome di altre ideologie quali il fascismo (sconfitto, eticamente inaccettabile) il comunismo (sconfitto, eticamente meno inaccettabile del fascismo ma inaccettabile anche lui perché conculca l’individuo) il nazionalismo (eticamente inaccettabile perché arretrato, bellicista e incompatibile con la concordia universalis). Poi, siccome NON è vero che tutti sono d’accordo con il liberal-progressismo, il quale, anzi, specie dove viene imposto con le armi, suscita forti dissensi e resistenze (per tacere dei morti e dei disastri); e persino nei paesi di lunga tradizione liberal-progressista, quali gli USA, esso suscita endemici dissensi per i suoi effetti collaterali sgraditi (caduta del tenore di vita per l’esposizione diretta ai mercati, perdita di identità, immigrazione di massa, diseguaglianze stratosferiche); ne consegue che il liberal-progressismo, e le trasformazioni anche culturali che esso esige, andranno realizzate con un di più di coercizione, ovviamente “per il bene dell’umanità”. Le somiglianze con il fascismo stanno soltanto nell’imposizione autoritaria delle norme sociali, mentre il contenuto delle norme liberal-progressiste non potrebbe essere più lontano dal fascismo. La somiglianza con il comunismo è invece più prossima perché come il liberal-progressismo, il comunismo è universalista, ossia è (era) persuaso che il comunismo fosse in assoluto il migliore e definitivo regime sociale, che, una volta instaurato in tutto il mondo, avrebbe condotto alla concordia universalis, basta guerra, basta conflitti, la casalinga che dirige lo Stato, la fine della preistoria dell’umanità eccetera. Il contenuto ideologico imposto dal liberal-progressismo è però diverso dal contenuto ideologico imposto dal comunismo perché il liberal-progressismo è PIU’, molto più individualista del comunismo (il liberal-progressismo è il trionfo dell’individuo assoluto, la sua teodicea, un Valore con tripla maiuscola in nome del quale si possono anche fare sacrifici umani aztechi). Il comunismo insomma è un parente del liberal-progressismo, ma non è affatto la stessa cosa, cià la fissa delle classi, della Teleologia della Storia, insomma roba vecchia . La parentela liberal-progressismo/comunismo si vede chiara come il sole se si pensa a che sarebbe successo se dalla Guerra Fredda fosse uscita vincitrice l’URSS. Se l’URSS avesse vinto la guerra fredda, avrebbe sicuramente costruito un ordine internazionale unipolare con un contenuto ideologico obbligatorio (il comunismo), esattamente come gli USA hanno costruito un ordine internazionale unipolare a contenuto ideologico obbligatorio (il liberal-progressismo). Gli americani però hanno fatto i conti senza l’oste (l’oste è la storia + la logica di potenza) e sono sorte, negli ultimi decenni, due grandi potenze, Cina e Russia, che hanno tutto l’interesse e la capacità di costruire un ordine internazionale multipolare; e l’ordine unipolare USA, sia per questo, sia perché esso provoca conflitti endemici anche al proprio interno, è in crisi (grazie a Dio, auguriamogli un pronta eutanasia e magari anche un suicidio assistito).

Marco Revelli, “Turbopopulismo”, a cura di Alessandro visalli

Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.

Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.

Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].

Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.

Ma mentre il geografo francese sta con i rivoltosi, sperando possano divenire rivoluzionari, il politologo piemontese sta senza alcun dubbio con il centro assediato. La cosa non potrebbe essere più chiara. E non potrebbe essere più interessante. Come nel caso del Censis e della Treccani, qui è in corso il principio di uno scontro civile totale, occorre prendere posizione[10].

Come si prende posizione? Avvicinandosi ai simili. È quel che fa Revelli, in effetti, ed è quel che tutte le élite, con la loro ampia corona di organizzazioni, media, ed ambienti sociali, fanno. Si tratta di alzare le bandiere della ‘civiltà’, del ‘buon senso’, della buona educazione, della ‘competenza’ contro i barbari, incivili, incomprensibili, plebei, incompetenti, rozzi e ineducati, e quindi anche pieni di ri-sentimento, di rancore. Gente lontana, cattiva, la cui attitudine è distruttiva, l’opposto di ogni buon ordine. Questa “fibrillazione dei margini”, che il nostro professore osserva con distacco da entomologo, come fosse un brulicante mondo di insetti, è infatti pieno, al suo sguardo lontano, di “rancoroso distacco e ostilità nei confronti delle élite governanti” (p.68). Di rancore che “i secondi” portano ai “primi”, tra i quali, è evidente, si annovera per una sorta di diritto di nascita[11].

I “secondi”, vivono in quelli che descrive con precisa immagine spazi a “scorrimento più lento”, in sé quindi portatori dello stigma della lontananza dal principio della modernità e della civiltà. Questi “lenti” e per questo lontani (ed inferiori) vivono in spazi marginali, nella “province, le zone rurali, le periferie dei poveri”. Si tratta di spazi nei quali, l’immagine è di potentissima ed indicativa evocazione, “domina il buio, la luce privata costa, quella pubblica è magari fulminata o intermittente”.

Se domina il buio insorgerà il maligno. Non tarderà a palesarsi.

Il sociologo qui introduce alcune spiegazioni, in epoca di risorse pubbliche calanti e di dominio dello spirito del mercato i servizi sono andati dove potevano essere sostenuti, ed hanno abbandonato le periferie, incoraggiando un circolo vizioso discendente nel quale molti, e molti territori, sono affondati. Naturalmente chi è vicino a chi affonda, anche se sta per ora un poco meglio, ha paura. Ha paura di raggiungere chi sta scendendo (p.76). Del resto ormai mancano tutti quei corpi intermedi, come i vecchi partiti di massa (quelli socialisti e la democrazia cristiana) che sostenevano una relazione interna con i ceti marginali. Questa relazione, ormai persa, è descritta come disciplinante; attraverso l’egemonia culturale che il mondo allargato della sinistra, nella quale svolgevano ruolo centrale e strutturante i ‘chierici’ dei quali l’autore è esponente, lo spirito del buio era tenuto a freno. Oggi il freno è venuto meno.

Tramite gli effetti di questo venire meno è interpretato da Revelli il dispositivo centrale del populismo. L’uomo che si sente ‘perduto’, perché si rende conto di essere periferico, catturato nella lentezza e nel buio, abita spesso in una piccola città, assiste alla proletarizzazione diffusa e alla conseguente perdita di status ne è il protagonista. Si tratta di quello che moltissimi sociologi ed economisti identificano come l’arretramento della classe media.

Il populismo è, in altre parole, l’effetto di una disattivazione. La disattivazione del dispositivo della cetomedizzazione che era sviluppato dall’insieme di politiche e dei corpi sociali che le trasmettevano (sindacati, centri dopolavoristici, circoli sportivi, associazioni, volontariato, partiti). Dispositivo che, sottolineo ancora, sotto la guida degli intellettuali ‘organici’, disciplinava i ‘subalterni’, spingendoli ad accettare il loro posto nel mondo. Questa è una delle possibili declinazioni del concetto di “riformismo” nel quale la cultura azionista e quella ex socialista in particolare di matrice comunista (e della ‘nuova sinistra’) si è ritirata dopo gli anni ottanta.

In realtà è sempre stata la declinazione principale del termine.

Revelli la tocca davvero forte. Con un richiamo prima a Kracauer[12], poi a Bloch[13], peraltro entrambi datati e quindi fuori spazio, lancia un anatema sui ribelli che si rifiutano a farsi ancora guidare. Sarebbero niente di meno che inumani.

Con la stessa mossa del Censis e della Treccani, ma molto più violento, riduce ogni opposizione al disciplinamento che il riformismo diretto dall’alto produceva sulle masse, e che è ormai del tutto screditato, con la tecnica dell’evocazione del male assoluto. Nel 1933, quando sale al potere Hitler, Ernst Bloch scrisse: “non è solo l’uomo mite a scomparire: scompare tutto quanto reca il nome di uomo”. Ciò che accadde, secondo lo scrittore tedesco, alla insorgenza del primo nazismo è quindi una metamorfosi degli uomini in demoni[14].

Seriamente, per decine di pagine, procede a paragonare, fino ad identificare, il male del nazismo con la rivolta degli elettori contemporanea[15]. L’insorgenza di Hitler con l’eventuale, aborrita, vittoria democratica del più vecchio partito italiano, pur criticabile[16].

Richiama una presunta “tara antropologica”, il male nell’uomo, una “cattiveria”, un “compiacimento nell’inumano”, il gusto di “mostrarsi crudeli”, o “indifferenti al male altrui” (cosa che sarebbe, da notare, per lui equivalente). Certo l’indifferenza al male altrui è, in effetti, quella che lui stesso esercita, in quanto nomina ma non comprende il senso di essere abbandonati e traditi dalle politiche che la sinistra, in primis, ha portato avanti. Politiche che ha lui stesso avallato qaundo non mancò di dare il proprio pensoso appoggio a Monti[17] (dato che scacciava l’altro male assoluto, all’epoca rappresentato da Berlusconi).

Ovviamente il punto di massimo esercizio di questo paradigma interpretativo, che segnala in modo davvero plastico l’abbandono dello spirito popolare da parte delle sinistre rifugiatesi da decenni nelle loro cittadelle (siano esse sociali, universitarie o variamente baronali), è l’immigrazione. Una ventina di pagine di autentici deliri. In cui le “vere vittime” sono gli immigrati (lo sono, naturalmente[18], ma non per questo le plebi abbandonate a se stesse dall’assetto neoliberale non lo sono, non per questo sono “false”). Tutte le politiche di respingimento sarebbero allora semplicemente “disumanizzazione” (dal che si deduce che sono inumani in pratica tutti i popoli del mondo, e lo sono da sempre[19]). Per respingere sarebbe necessaria una sorta di “neutralizzazione morale” ed il “rovesciamento del rapporto vittimario” (p.101). Questo rovesciamento poggerebbe sulla “percezione di una concorrenza sleale”, che viene vissuta da chi si sente assediato dalle bollette da pagare, non riesce più a stare dietro alle scadenze e a pagare la scuola ai figli, o a vestirli, soffre la deprivazione corrispondente, non si può pagare le cure mediche, e via dicendo. Si tratta di “un grande serbatoio di disagio materiale” che, però, essendo solo un “disagio” (e non una disperazione, che evidentemente il professore, non avendola mai vissuta, non è in grado di capire e neppure di com-patire) non basta a spiegare quel che Revelli identifica come, niente di meno che “uno spaventoso svuotamento del sé dall’umano”. Una frase pomposa, come se il sé possa essere svuotato dall’essenza umana, quasi come si toglie un liquido da un recipiente. Una frase che alluderebbe a “qualcosa di mentale”, un vedersi fuori del “racconto collettivo”, invisibili.

C’è qualcosa del genere, accade, ma resta il fatto che per il nostro professore torinese il ‘mentale’ implica immediatamente una “regressione nel disumano” che nessun dolore subito può giustificare; implica una “metamorfosi in demoni” di gente comune che, se poteva essere magari sostenuta da Bloch (se pur nel 1933 e non nel 1943), suona strana, stridula applicata oggi a persone che, in fondo, protestano contro la perdita di senso e di democrazia.

Suona ancora più strana nel momento in cui l’autore si mostra consapevole che c’è una connessione con il fatto della globalizzazione. Un evento che era stato indicato dalla sinistra come la “premessa per un nuovo, più universalistico, umanesimo”, mentre ne è nemico. Ma questa relazione è ricondotta a sua volta ad una “sindrome”, ovvero è ancora medicalizzata. La sindrome non elaborata del melting pot in cui si sciolgono (e devono farlo perché è un destino storico) le identità collettive e “nessuno riesce più ad avere un proprio ruolo e un proprio status corrispondente, garantito”. Qui compare, scritto da un garantito ovviamente, un gioco di prestigio dialettico:

“cosicchè si crede – falsamente – che segregando e sigillando ‘fuori’ quell’umanità eccedente, che preme oltre i confini e che si vorrebbe escludere rafforzando quei confini (peraltro sempre più precari), si possa ritornare ad ‘essere’ – come prima – qualcosa, senza accorgersi che così, sciaguratamente, si finisce per estinguere anche quel residuo di umanità che si conservava dentro, e che ci salvava. Come individui e come ‘popolo’. Ci si riduce, appunto, a niente” (p.108).

Sarò sincero, è un esercizio di stile, ma non significa assolutamente nulla. Intanto non c’è qualcosa come una “umanità eccedente”, questo è esercizio di pura astrazione liberale del tipo peggiore[20], esistono invece sempre esseri umani situati, che sono ‘nati da donna’ e che sono stati cresciuti in una cultura, connessi a degli obblighi e portatori dei diritti reciprocamente riconosciuti in comunità umane specifiche. E questi esseri umani possono essere talvolta ‘eccedenti’, quindi indotti o costretti ad emigrare, ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’essere qualcosa (ovvero dotati di risorse e diritti, ordinati nel mondo) o con il non esserlo. Comprendo molto bene che la generazione dei chierici alla quale appartiene Revelli abbia fatto dell’abbandono del popolo al suo destino un segno morale, un elemento di distinzione e marcatore di superiorità, l’identificatore di una appartenenza e di una promozione[21], ma la questione di essere qualcosa, usando gli stessi termini, si pone, e non è affatto vana. Avere, come ovviamente si ha, un confine ed affermare in esso una sovranità è una precondizione per poter lottare (certo contro le élite che l’autore così ben rappresenta), per tornare ad essere. Non è questione di avere “residui di umanità” che “salvano”, idea che solo un borghese con tutto l’essenziale al sicuro può accarezzare. È questione di avere di nuovo il materiale necessario.

Per nascondere questa semplice posta, keynesiana si potrebbe dire, della redistribuzione necessaria per rimettere in questione i rapporti di forza, ci si sposta sulla Repubblica di Weimar, la Turchia del 1916, la Roma del tardo impero, addirittura Sodoma e Gomorra… per sostenere la tesi piuttosto astorica ed astratta che la pietà sarebbe “sostanza indivisibile”, o si ha per tutti e sempre o non c’è, o la si prova o se ne è privi. Se ne deduce che Revelli ne è privo, dato che prova un evidente disprezzo di classe, con assoluta incapacità di comprensione, delle sofferenze di almeno dieci milioni di italiani, cinquanta milioni di statunitensi, un’altra trentina di milioni di europei, che magari talvolta si fanno tentare a votare populista (qualunque cosa significhi), ma certo vivono la disperazione di sentirsi scendere ed arretrare giorno dopo giorno da anni. Come sia, al netto di qualche altra ridicolaggine, come il sacro dovere di ospitalità (che è sempre stato altamente selettivo) o l’abuso di Cicerone e Seneca, il tono resta questo.

Ovviamente i politici che hanno interpretato questo sentimento di dolore ed abbandono dei propri concittadini sono dichiarati “psicopatici” (anche se “di successo”), colpevoli di “sdoganare il male” e di un comportamento mimetico che compie la mossa del “assorbimento mediante abbassamento” (p.126). Colpevoli di utilizzare ed esercitare un linguaggio semplificato e di cercare di passare dal principio di legittimazione nel quale le élite “positive” sono esperte, il “paradigma della superiorità”, a quello nel quale eccellono quelle populiste, il “paradigma del rispecchiamento”.

In altre parole, invece di mostrarsi “migliori” (ovvero aristoi) questi nuovi politici si mostrano schietti, talvolta volgari, praticano “l’abbassamento” verso un popolo che è “un aggregato linguistico maleodorante di termini fallici e in genere sessuali, di posteriori e promiscuità, da frequentatori di angiporti e di trivii; un popolo, appunto ridotto ai propri attributi corporeo-materiali, capace di recepire con particolare rilievo i richiami elementari della riproduzione genitale o gastro-intestinali”.

In questi passaggi lo scontro tra estetiche e quindi tra classi non potrebbe essere più chiaro. Si tratta di una profonda frattura, incomunicabile, una matrice di reciproco disprezzo e finanche di odio. Ma non sono solo i “populisti” che odiano gli aristocratici alla Revelli, è, evidentemente, anche che lui odia loro.

Revelli sente emanare da questo popolo frammentato quello che chiama “un acre odore di zolfo”, una società regredita ad una condizione asociale. Una regressione alla “forma informe del vuoto” (p.163). Una forma che “farà il suo giro” e nella sua ambiguità costitutiva sta prendendo la forma di una sorta di “populismo 3.0”, più espressamente “di destra” che lavora con la vecchia tecnica del “capro espiatorio”.

Scrivevamo all’inizio che è il principio di uno scontro civile totale.

Gli allineamenti sono abbastanza evidenti, anche formazioni intermedie, sensibili al “momento populista”[22] sentono il richiamo della foresta, i tam tam della tribù che battono. Oppure è evidente nella mobilitazione semispontanea delle “Sardine”[23] che appare sempre più come un movimento vasto e reattivo, trascinato dalla paura esistenziale. Se quel che si muove dal fondo e dalla periferia della società occidentale è una ‘rivolta degli elettori’ alla loro designazione come vittime (della storia, secondo la lettura di aristoi come Revelli), quel che dall’altro lato si allinea è una contro-rivolta, un singolare movimento pro-establishment composto da ceti e frazioni di classe non solo protetti e garantiti, ma accumunati da un desiderio di status. Sostiene Guilluy che la frazione dominante della società occidentale ha abbandonato i segmenti popolari e si è distaccata (una tesi che a suo tempo avanzò anche Lasch ed altri), e che l’egemonia sta passando al basso.

Di fronte a questo movimento ‘polanyiano’[24] è in corso una sorta di contro-contro-movimento. Si tratta di un allineamento che in altri termini avremmo definito “sovrastrutturale”. Una spaccatura che nasce dalla paura di alcuni mondi vitali di essere travolti, dalla “rivolta degli elettori” che si sentono messi a margine e scacciati nell’irrilevanza.

Il mondo vitale plurimo che si mobilita contro la rivolta, e che si esercita in una singolare contro-rivolta pro-establishment, è aggregato da un certo tono libertario, da un’estetica liberale e da un afflato ancora competitivo, dal desiderio se non altro di essere cooptato di accedere alle aree dense e veloci. Spesso si assommano anche i militanti di movimenti non distributivi, come l’ambientalismo, le lotte per i diritti civili, il pacifismo, il femminismo. Movimenti che hanno, e da sempre, una chiara egemonia piccolo-borghese e metropolitana. In questo campo c’è maggiore densità degli urbani, di coloro che hanno una formazione media o alta, che condividono quindi le narrazioni e le strutture cognitive dominanti, sono stati formati in esse. In termini di stratificazione sociale (ma ricordo che l’adesione ai ceti medi è questione di status percepito molto più che di mera condizione materiale), troviamo in questo campo allineato con la contro-reazione impiegati, giovani precari ad alto sfruttamento (ma “provvisorio”), insegnanti, studenti, quadri pubblici, piccolo borghesi anche autonomi, professionisti, pensionati a reddito alto, imprenditori di imprese rivolte ai mercati esteri. Insomma, coloro che sono nel centro o aspirano ad accedervi.

Nello scontro civile l’altra parte, i barbari e gli inumani, i demoni, sono molto più operai, ancora giovani precari, ma con poche speranze di riscattarsi, certo anche alcuni sottoproletari, alcuni dipendenti pubblici e privati, ancora segmenti di piccola borghesia e di lavoro autonomo, molti professionisti, anche imprenditori che lavorano verso il mercato interno e ne percepiscono la sofferenza. Coloro che sono al margine sanno di esservi.

Le contraddizioni attraversano entrambi i campi ed i confini sono tutt’altro che impermeabili, soprattutto i meri interessi economici non spiegano tutto. Se la prima Italia, quella alta e centrale, è per il mercato, di cui apprezza le virtù salvifiche, lo spirito libero e competitivo, il vitalismo, la seconda Italia, quella bassa e periferica, normalmente avversa lo Stato, la sua imposizione fiscale. Contraddittoriamente la prima si trincera in esso, la seconda ne richiede la protezione, sociale e lavoristica.

Lo scontro civile totale, al quale il libro di Revelli porta armi, nasce dall’incapacità di entrambe le Italie, della rivolta come della contro-rivolta, di comprendere se stesse e di venire a patti con la propria estetica. Non si riconoscono vicendevolmente l’appartenenza al campo dell’umano, e parlano lingue diverse.

Si riconoscono al primo sguardo, al movimento, al vestiario, alla prima parola, e si odiano.

[1] – Il neologismo compare a questa voce: “sovranismo psichico s. m. Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale. ♦ Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del «populismo» al potere. L’espressione ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». (Roberto Ciccarelli, Manifesto.it, 8 dicembre 2018, Italia) • Non accettiamo la realtà del nostro futuro che sarà nella globalizzazione dei mercati e in una società multietnica e multirazziale? Noi italiani che corrispondiamo a meno dell’1% della popolazione mondiale vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi? Naturalmente, in questo modello di pensiero, se gli altri popoli non si adeguano ci sentiamo incompresi e accerchiati per cui costruiamo dei nemici mentali che in questo momento storico sono i migranti e le istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, i mercati, il Fondo monetario, etc. Ringrazio il Censis e il Dr. De Rita per aver chiarito, inventando il termine sovranismo psichico, questo modello di pensiero e perché poi, inevitabilmente, sfoci in rabbia e cattiveria verso gli altri. (Luciano Casolari, Fatto Quotidiano.it, 18 dicembre 2018, Blog) • È vero: sondaggi alla mano, questo grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani, rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del “sovranismo psichico” (per restare alla formula Censis). (Massimo Giannini, Repubblica.it, 2 gennaio 2018, Commento).”

[2] – 52° Rapporto Censis, che attribuisce ad un sentimento, come il rancore e quindi la cattiveria, che è normalmente pensata come una attitudine ad offendere, a far del male, e quindi la radice di azioni riprovevoli, dannosi, il sovranismo. Cito: “Al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒ quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani. Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo verso un altrove incognito. Una disponibilità resa in maniera pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall’esito incerto, non importa se si rende necessario forzare – fino a romperli – i canonici schemi politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche, a cominciare dalla messa in stato d’accusa di Bruxelles. L’Europa non è più un ponte verso il mondo, né la zattera della salvezza delle regole rispetto al nostro antico eccesso di adattismo: è una faglia incrinata che rischia di spezzarsi. Così come il Mediterraneo non è più la culla delle civiltà e la nostra piattaforma relazionale, bensì ritorna come limes, limite, linea di demarcazione dall’altro, se non proprio cimitero di tombe. Gli italiani sono ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo. È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale”.

[3] – Scrive, ad esempio, Andrea Zhok: “Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di ‘sovranismo psichico’ ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario. Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale. Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica. Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’. Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale. Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data: ‘Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale’.

La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti, la ‘difesa identitaria del proprio spazio vitale’ è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.

Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ ‘atteggiamento mentale’ una forma di delirio, di allucinazione malata. Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.

La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità. Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.

E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.”

[4] – Si veda, Marco Revelli, “Finale di partito”, 2013; “Dentro e contro”, 2015; “Populismo 2.0”, 2016.

[5] – Marco Revelli, figlio di un partigiano e poeta come Nuto Revelli, si è laureato in giurisprudenza sotto la guida di Norberto Bobbio all’avvio degli anni settanta, insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale dalla fondazione fino allo scioglimento aderisce a Lotta Continua e poi aderisce al gruppo di Primo Maggio. La sua biografia è perfettamente rappresentativa di un’intera epoca della cultura italiana.

[6] – Per questa distinzione tra le tradizioni della “sinistra” e del “socialismo” si veda Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”, che pone in chiave di ricostruzione filosofica della storia delle idee al centro il semplice fatto, noto a tutti ma da tutti dimenticato, che il socialismo non è il liberalesimo. Sono stati alleati, nella lotta contro la reazione, ma non coincidono. E neppure si può dire che il socialismo sia il superamento dialettico del liberalesimo, in quanto si tratta di tradizioni di pensiero che da quasi duecento anni procedono in parallelo, anche se hanno alcuni costrutti comuni. Tra i più profondi e problematici quello di “progresso”, che entrambe le tradizioni tendono a leggere, in una sorta di residuo illuminista e positivista, sotto la forma della crescita economica illimitata e auto programmata. In questo modo la dimensione “sociale” e comunitaria della tradizione socialista viene oscurata in favore della fascinazione per il continuo sradicare e rendere flessibili, mobili, della modernità contemporanea. La pratica della costante rivoluzione culturale della modernità discioglie nelle gelide acque del calcolo egoista tutte le costituzioni e le eredità, smontando ciò che permane. E’ chiaro che questa ideologia, e sin dall’inizio, trova senso e scopo nell’ineguaglianza e guarda il mondo dal punto di vista dei possidenti. A chi giova la libertà desiderante dai vincoli sociali ed il trionfo dell’individuo, a chi ha le risorse economiche per goderne e non vuole limiti a questo, o a chi lotta giorno per giorno per avere l’essenziale? Nascondendo questo fatto la metafisica del progresso è “lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo” (Michéa), e con esso l’idea che le forme produttive dominanti siano anche, e sempre, delle forme della ragione (una sorta di hegelismo pervertito) e dunque “tappe storicamente necessarie” per la liberazione e la parusia. La versione liberale di questa è la “pace perpetua” nel contesto di una futura governance mondiale a-politica e della totale mobilità di ogni fattore (con la dissoluzione di ogni identità, in quanto ostacolo al dispiegarsi della logica del valore e della sua appropriazione individuale). La versione socialista sfuma in quella. Ma nella tradizione socialista è presente anche un altro sistema di idee, radicalmente indisponibile alla dissoluzione nelle gelide acque del calcolo, la critica alla reificazione che ricorda come non necessariamente ogni passo “avanti” è per definizione nella “giusta” direzione. La direzione della storia, in particolare quando procede verso la dissoluzione delle forme sociali esistenti sotto la spinta dell’automovimento della tecnologia e dell’economico, non è sempre apprendimento ed emancipazione. Secondo quanto sintetizza Michéa, “nessun liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p.31). I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti. Ma essere ‘conservatori’ non è sempre identico all’essere di destra, a volte significa essere realmente socialisti. La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del populismo.

[7] – Si veda in proposito Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014

[8] – Christophe Guilluy, “La società non esiste”, 2018.

[9] – Si veda la diagnosi dello stesso Revelli in “Dentro e contro”, 2015.

[10] – Da una parte la visione dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario. In quella che Honneth in “Il diritto della libertà”, caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso (da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco che un’emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze.

[11] – Ciò che accade nel secondo dopoguerra è, in particolare in alcuni ambienti semicentrali come la Torino degli anni dai cinquanta ai settanta e ottanta l’effetto di un mito fondativo imperniato sulla resistenza e sull’azionismo. Chi scrive condivide l’alta valutazione della resistenza ma bisogna avere il coraggio di dire il vero. Intorno a questa si sono formate delle vere e proprie aristocrazie che fondano il proprio potere, radicato in alcuni ambienti densi come l’università e alcune amministrazioni e soprattutto corpi intermedi essenziali per il funzionamento democratico, ma anche viatico di cooptazioni che assicurano la continuità, sulla presunta e rivendicata superiorità morale. Questo tono inconfondibile è la tecnica attraverso la quale si sceglie ex ante chi è “primo” e chi “secondo”, chi sta al centro, perché ha il buon diritto che deriva dalla riconosciuta cultura e dalla indubitabile integrità, e chi è, perché lo deve, periferico.

[12] – Siegfried Kracauer, “Gli impiegati”, Einaudi, 1980

[13] – Ernst Bloch, “Il mito della Germania e le potenze mediche”, 1933

[14] – Ricordiamo qualche antefatto: Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar. A Monaco, invece, venne proclamata una Repubblica Sovietica che fu repressa dall’esercito. Quindi ci furono sollevazioni in Polonia e tre distinte sollevazioni slesiane. Nel frattempo la Germania firmò il Trattato di Versailles accettando condizioni che umilieranno il paese e porranno le condizioni (come previse un giovane Keynes), della rivalsa successiva. Tale fu l’odio per il Trattato che due dei firmatari per parte tedesca saranno successivamente assassinati. Il nuovo Stato è sotto la pressione di opposti estremismi. Mentre altre sollevazioni comuniste si susseguivano (nella Ruhr, in Sassonia ed a Amburgo) dal 1923 la Repubblica è insolvente verso le riparazioni di guerra e le truppe francesi occuparono la Ruhr; seguirono scioperi massicci e stampa di ulteriore moneta per pagare comunque gli operai. Partì quindi una breve ma impressionante fiammata di iperinflazione (causata dalla totale mancanza di fiducia nella moneta e nel governo che questa rappresentava). Nel 1923, a Monaco di Baviera, Adolf Hitler con il neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP) diede seguito al Putsch della birreria; dal 1921 si formarono le SA (sturmabteilung). Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere, ma dopo uno fu rilasciato. Dal 1923 si formò un governo di coalizione che sembrò tranquillizzare un poco la situazione, per stabilizzare l’economia avviò però una brutale politica restrittiva (ridusse le spese e alzò le tasse). Purtroppo nel 1930 Heinrich Bruning venne nominato cancelliere, ma il governo era debole e cadde quasi subito. Il 14 settembre 1930 alle elezioni il NSDAP ottenne il 18% dei voti. Mentre la nazione scivolava verso la guerra civile Bruning sulla base di Decreti Presidenziali di emergenza, non avendo la maggioranza, tentò di risanare lo Stato su inflessibili linee di stretta austerità liberale. Ridusse quindi drasticamente la spesa pubblica, creando milioni di disoccupati in un paese in cui l’iperinflazione di pochi anni prima aveva distrutto i risparmi di moltissimi, ed eliminò anche i sussidi per la disoccupazione introdotti nel 1927. La disoccupazione arrivò al 40%. Le elezioni del 3i luglio 1932 portarono la NSDAP al 37,2%, e poi al 33% nelle immediatamente successive nuove elezioni. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler fu nominato Reichskanzler.

Ma anche nel resto del mondo nei cruciali anni venti si era nel pieno di quelle reazioni difensive a catena imperniate sotto molti profili nella difesa ostinata della “base aurea” e quindi delle politiche deflattive che questa imponeva. Negli anni venti l’Italia cade nel fascismo, nei trenta tocca alla Germania e, al termine del decennio, alla Spagna. Il sistema internazionale che aveva retto il mondo nel settantennio di pace sotto l’imperialismo inglese e “il concerto” delle nazioni termina quindi definitivamente; fallisce cioè il tentativo di ripristinarlo dopo la grande guerra. In tutti i paesi europei, Inghilterra nel 1931, Austria nel 1923, Francia nel 1926, Germania nel 1931, i partiti della sinistra, dopo aver sostenuto politiche di austerità perdendo parte del loro consenso, furono allontanati quando si trattò di “salvare la moneta”. Come Karl Polanyi fisserà nel suo capolavoro “La grande trasformazione” furono accusati delle difficili condizioni i salari inflazionati e i disavanzi di bilancio per cui si perseverò nella scelta di ulteriore austerità nel mezzo di una devastante crisi. Come dice Polanyi, quindi: “il tempo divenne maturo per la soluzione fascista”. Nel 1932 molti intellettuali si rivolsero verso la ricerca di soluzioni forti, Werner Sombart pronunciò un indicativo discorso su “L’avvenire del capitalismo”.

[15] – Formula richiamata in un fortunato libro di Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori”, del 2017.

[16] – Si veda, ad esempio, “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega

[17] – Si veda, Marco Revelli, “Bacio il rospo Monti, ma…”. E’ interessante che dichiari di fare il tifo per Monti per una questione estetica (ed etica), di pelle. Lo strepitio, la volgarità al potere, il caravanserraglio, … del governo di Berlusconi offendevano il suo senso dell’appropriato. Si tratta di uno schieramento che si manifesta su linee prerazionali (anche se non mancano anche le ragioni razionali, il solito Tina), ovvero per allineamenti identitari. E quale è l’identità che è qui così bene manifestata? Ovviamente si tratta di un richiamo ai tradizionali valori di sobrietà, buon senso, educazione ed ordine della buona borghesia. Anche un poco noiosa, un poco conservatrice, ma certamente capace di sapere come si sta a tavola. Si potrebbe dire molto altro, e di interessante, su questo articolo, ma non è la sede.

[18] – Sono vittime sia per il viaggio, sia per il selvaggio sfruttamento, la vera e propria schiavitù cui sono sottoposte da parte dei ceti imprenditoriali e borghesi italiani. In un sistema di sfruttamento paraschiavistico che coinvolge milioni di persone (questa è l’unica parte valida del recente libro di Luca Ricolfi “La società signorile”, 2019.

[19] – Difficile non vedere, se non dagli spessi occhiali della ideologia, che in pratica tutti i paesi del mondo praticano, tanto più quanto più sono sovrani, la regolazione dell’immigrazione. Come difficile non sapere che le politiche di welfare sono cresciute sempre in condizione di regolazione forte degli spiriti animali del capitalismo e di rafforzamento della coalizione sociale del lavoro, e quindi dell’immigrazione (che tende ad alimentare gli uni e depotenziare l’altra). Si veda, ad esempio, Kiran Klaus Patel, “Il New deal”, ma si veda anche per un quadro allargato “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.

[20] – Si veda, ad esempio la polemica tra liberali e comunitari degli anni ottanta. Ad esempio il grande classico di Michael Sandel “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.

[21] – La promozione a classe dirigente del paese e a parte essenziale della sua borghesia. Proprio mentre si disprezza il paese reale e si dichiara l’indispensabilità del vincolo esterno.

[22] – Mi riferisco a Patria e Costituzione, che qualche giorno fa ha pubblicato il post “Perché il fascismo è una patologia dell’anima”, nel quale con argomenti piuttosto leggeri riprende la tesi di una sorta di radice antropologica del fascismo e con l’artificio retorico dell’abuso del termine “negazionalista” (riferito non a chi neghi l’olocausto, ma a chi dubiti della natura fascista dei populisti) accusa indifferentemente di “tentare di difendere i fascisti”. Con questo cortocircuito, ed il richiamo del libro più liberale della fase più liberale di un autore come Umberto Eco (“Il fascismo eterno”, nel quale in sostanza si bollava come fascismo tutto quello che non è liberale), e la dimostrazione dell’esistenza di qualche sparuto gruppuscolo di autentici fascisti, la redazione prende posizione, disumanuzzando gli avversari. Si tratta di un allineamento estetico, in effetti. Un allineamento di classe.

[23] – Si veda, “Sardine”. Per un intervento di Marco Revelli si veda, “Il neo-qualunquismo della sinistra radicale che attacca le sardine”.

[24] – Si veda Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944. nel quale descrive appunto il crollo subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.

È per reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).

Per Polanyi la popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del danno ai territori).

https://tempofertile.blogspot.com/2019/11/marco-revelli-turbopopulismo.html

Il liberalismo e il populismo sono davvero così incompatibili come pensa Patrick Buisson?

Un importante articolo tratto da “Atlantico” sul riposizionamento delle correnti di pensiero politico e delle forze organizzate nella formazione francese. Offre parecchi spunti da utilizzare nel nostro cortile di casa; in particolare ad analizzare le discontinuità e le costanti presenti nella Lega_Giuseppe Germinario

Il liberalismo e il populismo sono davvero così incompatibili come pensa Patrick Buisson?

Atlantico: In un’intervista a L’Opinion, Patrick Buisson, l’ex stratega di Nicolas Sarkozy, afferma che non esiste una possibile convergenza tra liberalismo e populismo laddove ce ne sarebbe una tra conservatorismo e populismo. Le offerte politiche rappresentate da Donald Trump, Boris Johnson, Viktor Orban e altri Andrej Babis nella Repubblica Ceca non contraddicono la dichiarazione del signor Buisson? 

Edouard Husson: Patrick Buisson è un uomo intelligente e colto. Ma confesso di non capire quello che definisce “liberalismo”. Non capisco la frase della sua intervista in cui afferma: “Non possiamo sostenere il libero mercato e combattere la PMA e il GPA”. La frase contiene un pleonasmo: per definizione, il mercato è libero: è una realtà, ben prima del capitalismo, dove ci sono acquirenti e venditori che sono liberi nelle loro transazioni – secondo le regole, ovviamente garantite da un’autorità esterna, sia politica, giudiziaria o altro. La salumeria dietro l’angolo è già un mercato. Forse è un problema che la stessa parola sia usata per i mercati finanziari, ma la realtà di base è sempre la stessa, quella di domanda e offerta. Potremmo anche vedere l’universalità del “commercio”: giungeremo sempre alla stessa conclusione, vale a dire che l’uomo vive di scambi. Ciò non significa che tutto ciò che riguarda l’uomo sia oggetto di scambio. La società è fatta di rapporti di mercato ma anche di rapporti gratuiti, etica, cultura. Ci sono mercati che la morale riprova, come la prostituzione. Ci sono altri che il progresso della morale ha bandito, come la schiavitù. Non solo possiamo, ma dobbiamo essere per il mercato e contro la PMA e l’AAP, se ci piace davvero la libertà. La PMA si basa su tecniche complesse, che hanno lo svantaggio di produrre e distruggere masse di embrioni – tranne quello impiantato nell’utero; non vediamo nel nome di cosa un embrione sia scelto più di un altro: il dottore si crederebbe Dio? Aggiungiamo che questa tecnica è accessibile solo agli individui che possono permettersela, e più la PMA viene ampliata, più si vedrà il rafforzamento della discriminazione sociale. Che l’AAP sia nella continuità del “PMA per tutti”, questo è stato ampiamente dimostrato recentemente da menti lucide. E questo ci riporta al nostro argomento: il mercato non può riguardare l’intera esistenza. Solo alcuni liberali ci credono: da un lato i libertari, che sono a favore dell’abolizione dello stato e credono che la totale privatizzazione dell’economia possa risolvere tutto; d’altra parte i progressisti (i “liberali” in America), che sostengono una totale liberazione della morale, accessibile, infatti, solo per i più ricchi. A parte queste famiglie di pensiero, tutti coloro che sanno che il mercato è l’unico modo per far funzionare l’economia in modo efficace concordano di porre dei limiti e di rifiutare la mercificazione del corpo, per esempio.

Contrariamente a quanto ritiene Patrick Buisson, i conservatori sono i migliori amici dell’economia di mercato: inquadrano il mercato e lo regolano meno dalle direttive statali accatastate che dall’istruzione, dall’etica, dalla protezione di famiglia, dal rispetto religioso di una giornata non lavorativa, ecc. Per capire questo, dovremmo andare oltre la tradizione del conservatorismo francese del 19 ° secolo, che è davvero molto sospetto per l’economia moderna. . Dovremmo rivolgerci al conservatorismo anglo-americano, tedesco e italiano, dove la preoccupazione per la trasmissione, i valori, la famiglia va di pari passo con l’economia di mercato, comprese le sue versioni capitalistiche più moderne. E citi giustamente Trump, Johnson, Orban o Babis, che sono allo stesso tempo liberali, conservatori e patriottici!

Affrontiamo la stessa questione per il verso del capitalismo. L’economia di mercato esiste sin dall’inizio della civiltà. Ma è stato permanentemente minacciato da saccheggi, guerre, invasioni del potere statale. Il genio dell’Occidente è di aver inventato il capitalismo! L’economia di mercato diventa praticabile nel tempo e in grandi aree perché il potere politico si impegna a rispettare lo stato di diritto. Di conseguenza, gli individui cessano di avere paura, di accumulare; il denaro circola; l’interesse del prestito sostituisce l’usura. Il risparmio e gli investimenti consentono la costituzione del capitale. In combinazione con la rivoluzione della scienza e della tecnologia, stiamo assistendo alla magnifica ascesa che ha portato la grandezza dell’Europa e la sua influenza dal Medioevo al 1914: L’Europa fu il continente della prima rivoluzione industriale, dal 1770, e condivise l’invenzione della seconda con gli Stati Uniti, dopo il 1870; ed è ancora questo sistema capitalista, preziosamente conservato dal mondo anglo-americano, nonostante i totalitarismi e l’occupazione dell’Europa, che ha permesso la nostra straordinaria ripresa dopo il 1945. Possiamo persino restituire le dichiarazioni di Patrick Buisson con un osservazione storica: l’economia di mercato ha funzionato molto bene in Europa, purché sia ​​stata dispiegata entro limiti identificabili, quelli delle società conservatrici e socialdemocratiche dei Trenta Gloriosi (1945-1975). È l’incontro del neoliberismo e l’individualismo assoluto dei sessantottini che produce la folle fuga dei Trenta Pitei (1980-2010): Creazione monetaria inflazionistica USA controbilanciata da trasferimenti di lavoro, immigrazione massiccia e abolizione delle frontiere; finanziarizzazione dell’economia fino al punto di estendere il campo della mercificazione alle aree che sono state adeguatamente devastate, come gli sport professionistici, che muoiono a causa del diffuso doping; distruzione delle classi medie vittime della concentrazione nelle mani di una valuta che si sarebbe svalutata ad alta velocità a causa di un allentamento quantitativo, ecc. Tutto il nostro mondo è da ricostruire; non si farà contro il capitalismo e il mercato; ma ricreando contrappesi. Questa è la sfida. E una destra allo stesso tempo identitaria, conservatrice, imprenditoriale,  decentralizzatrice, attenta alla coesione sociale sarebbe meglio piazzata per rispondere alle sfide epocali

Nella stessa intervista, Patrick Buisson afferma che Emmanuel Macron sarà il candidato della destra nel 2022 e che l’unica candidatura che potrebbe minacciarlo sarebbe quella di un candidato che potrebbe creare un’offerta politica che combini la questione sociale e quella delle fratture etniche, culturale. Buisson ritiene che il liberalismo non possa, naturalmente, essere una proposta convincente sulla questione sociale. Anche se è vero che la parola provoca allergia in Francia, è davvero così?

Questo è il tipo stesso di profezia che si autoavvera. Dal momento in cui ha decretato che la società e il mercato non avevano posto nel software di destra, Patrick Buisson ha annunciato che il diritto non vincerà. Curiosa evoluzione semantica, a proposito: all’improvviso, il Rassemblement National non è più una destra? Cosa rappresenta allora il partito di Marine Le Pen? L’estrema destra? Il populismo? Questa non è l’unica approssimazione nell’intervista: parlare del populismo cristiano sul Manif per tutti può solo farti sorridere. Il limite incontrato dal rinnovamento cattolico è quello della barriera sociale. Ho sostenuto il Manif per tutti e ho ammirato la testimonianza di queste famiglie e il coraggio di questi giovani che hanno rischiato di essere picchiati per ordine di Manuel Valls, ministro degli Interni, in nome di un anti-cattolicesimo che purtroppo non è scomparso dal nostro paese. Ma è abbastanza ovvio che non erano le classi lavoratrici a manifestare. È la barriera di classe, ancora, che ha impedito al Manif per tutti di fraternizzare massicciamente con i giubbotti gialli – anche se la polizia di Christophe Castaner riproduce, amplificando, il comportamento della polizia di Manuel Valls.

Concordo con Patrick Buisson sul fatto che per battere Emmanuel Macron dovremo combinare la questione sociale con quella delle fratture etno-culturali. Ma questo non sarà abbastanza. Stiamo affrontando un fenomeno tragico: il voto dei cattolici, nelle ultime elezioni europee, per la lista di LREM. Mentre il presidente smentisce ciò che i cattolici hanno più a cuore in molte aree (dilettantismo sulla questione della ricostruzione di Notre Dame, eutanasia di Vincent Lambert, anticamera del GPA del GPA), i cattolici hanno votato per lui. Come invertire tale tendenza? Quale elettorato prendere se non hai cattolici dalla tua parte? Tutto sarà suonato a poche centinaia di migliaia di voci che oscilleranno da una parte o dall’altra. Ricordiamo che Nicolas Sarkozy ha perso per molto poco nel 2012! È quindi sui nuovi elettori – dal punto di vista di un diritto interessato alla questione sociale e all’immigrazione – che sarà necessario concentrare la maggior parte degli sforzi portati avanti. In effetti, Patrick Buisson apre una porta: ciò che ci descrive è esattamente il posizionamento dell’attuale Rassemblement Nazionale. Dobbiamo senza dubbio rinnovare i discorsi e imparare dal fallimento del 2017, ma non è il fatto di arare indefinitamente le stesse terre che porterà la vittoria.

Concordo seriamente con il movimento dei gilet gialli. Ma poi devi ridargli la sua complessità. Non è solo una sete di legame sociale, espressa dalla comunità! È un movimento ribelle della Francia che lavora e produce contro l’invasione dello Stato e le sue normative sempre più noiose, anche se ritira i suoi servizi di prossimità per ragioni di costi. È un movimento che interessa i giovani pensionati della classe media di fronte al declino del tenore di vita che attende i loro nipoti. È una rivolta della Francia di buon senso contro quella dell’iperdiploma. Bisogna anche capire fino a che punto questo movimento originariamente a destra è stato parzialmente recuperato dalla sinistra e parassitato dall’estrema sinistra. Se Patrick Buisson ritiene che sarà possibile mordere le terre della sinistra populista, si tratta di pie illusioni. La sinistra populista aderisce al divario fondamentale tra progressisti e conservatori sotto due aspetti: è immigrazionista ed è progressista in termini di morale.

Il brillante stratega dell’elezione di Nicolas Sarkozy nel 2007 potrebbe riportare il problema in tutte le direzioni: non avrà altra scelta che tornare in questa unione di elettori di destra che aveva saputo accompagnare a quel tempo. E per questo, sarà necessario parlare di economia, istruzione, terza rivoluzione industriale, Europa non meno di sicurezza, immigrazione, identità nazionale. E poiché si tratterà di reinvestire nei settori sovrani senza aumentare le tasse, sarà necessario scommettere su uno shock fiscale per stimolare l’attività e assicurare allo Stato un aumento delle entrate nel lungo periodo. Vale a dire, fidarsi delle forze di mercato, liberarle in modo che la Francia possa tornare alla crescita a lungo termine.

Patrick Buisson alla fine dipinge un ritratto intransigente di Marion Maréchal: secondo lui, è solo una costruzione mediatica, il suo spazio politico (conservatore liberale) sarebbe quasi zero e la sua strategia politica di mano estesa a LR destinata al fallimento. Ti sembra questa affermazione quella di un noto analista della vita politica o quella di un attore che cerca di influenzare la riorganizzazione della destra?

Come Steve Bannon, Patrick Buisson lavora con le emozioni ed è in grado di bruciare ciò che ha amato durante la notte; abbiamo visto Nicolas Sarkozy. Quindi penso che non abbia molto senso scoprire perché sta dicendo il bene o il male a questa o quella persona. D’altra parte, ciò di cui sono sicuro è che personalizzando la questione del futuro della destra, positivamente o negativamente, Patrick Buisson correrebbe il rischio di essere emarginato nella ricostruzione di una macchina per vincere le prossime elezioni. Sarebbe un peccato perché tutte le competizioni avranno la loro importanza in questa grande battaglia che si impegna.

Questa battaglia è la “lotta finale” iniziata da un progressivismo senza fiato ma con ancora molte leve culturali, politiche, economiche, finanziarie; e chi può contare su organizzazioni internazionali e sovranazionali per rendere molto arduo per il conservatorismo, suo principale avversario, riconquistare la nazione. Questa guerra non è solo francese, si svolge in tutte le nazioni occidentali, ma può girare diversamente in ogni nazione. Per il momento osserviamo che il progressismo mantiene le sue posizioni migliori in Francia più che in altri paesi: è in procinto di lasciarsi andare negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Ungheria, Italia; ma resiste in Francia. Ciò è spiegato dalla prima inversione di tendenza del conservatore francese mancato, quella di Nicolas Sarkozy tra il 2007 e il 2012.

Esiste un modo per radunare le destre, permettendo ai destri nazionalisti, conservatori, imprenditoriali e sociali cattolici di lavorare insieme. Ma questo deve iniziare con la cessazione degli anatemi: non può esserci divieto di lavorare con questo o quello. Non è né scandaloso né irrealistico che un conservatore, un gollista, un liberale classico e un populista provino a trovare un linguaggio comune. Soprattutto, è necessario smettere di agitare questo spaventapasseri che è il “liberalismo”. Di cosa stiamo parlando? Il liberalismo è una famiglia estremamente diversificata. Esiste un liberalismo politico: chi pretenderà di non dover tornare a un rafforzamento del parlamentarismo nelle nostre istituzioni? C’è un liberalismo economico: chi affermerà che Emmanuel Macron è un difensore della libera impresa al di là della sua difesa del capitalismo connettivo e di un discorso molto superficiale sull’innovazione e le start-up? Perché non possiamo essere liberali, autentici e giusti? Al contrario, in un momento in cui siamo minacciati di sistematica censura progressiva sui social network, dovremo alzarci per difendere le libertà. Se la destra vuole vincere, deve cogliere questo tema: è tanto più vitale che non stiamo più trattando, come negli anni ’80, un totalitarismo situato dall’altra parte di un ” cortina di ferro “. Abbiamo a che fare con l’istituzione del “Brave New World” e del “Camp of Saints” sul nostro territorio! Non abbiamo più a che fare, come nel 1940, con un nemico organizzato militarmente ma a una internazionale progressista che cerca di costruire monopoli, soprattutto in termini finanziari e di big data, e sempre più affidandosi ai servizi di un esercito di riserva, immigrazione di massa e di un “servizio di intelligence”, i gruppi che trasportano tutte le ideologie della sinistra e dell’estrema sinistra: teorici del genere, formulatori della cattiva coscienza occidentale e profeti dell’apocalisse climatica. Contro questo fronte, sia sfuggente che strutturato, ci vorrà immaginazione e coesione.

Forse, per chiarire il dibattito, è necessario parlare di individualismo e denunciarlo! Se questo è ciò che sostiene Patrick Buisson, allora sì, il diritto si distingue per il suo rifiuto dell’individualismo assoluto. Ma una conoscenza, anche superficiale, dell’azienda, deve chiarire che non si è molto fortunati ad avere successo lì quando si è un puro individualista. È tempo di uscire dalle parole preconfezionate e dal fraseggio stereotipato.

È tempo di capire che sempre più imprenditori riscoprono l’importanza del capitale culturale e dell’appartenenza nazionale per lo sviluppo della propria attività. Ascolta allo stesso tempo il sogno di Boris Johnson delle capacità ereditate e del potenziale di innovazione dell’economia del Regno Unito! Ascolta, più modestamente, come si svolge il dibattito economico all’interno di LR, per la successione di Laurent Wauquiez: improvvisamente, parte della destra liberale riscopre il concetto di protezione! Siamo ancora molto lontani dall’obiettivo; a dire il vero, la ricostruzione è solo all’inizio. Ci vorrà pazienza, ascolto reciproco e inventiva.

https://www.atlantico.fr/decryptage/3577223/le-liberalisme-et-le-populisme-sont-ils-vraiment-aussi-incompatibles-que-le-croit-patrick-buisson–edouard-husson-

Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea, di Andrea Zhok

A proposito di cosmopolitismo, universalismo e identità (il tempo e il luogo di interazione) e l’utilizzo concreto di questi concetti nell’inquadrare la natura dell’Unione Europea. Un interessante dibattito_Giuseppe Germinario

Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea (una risposta a Roberta De Monticelli)

https://ilmanifesto.it/stati-uniti-deuropa-un-edificio-politico-architettato-dalla-filosofia/

Oggi è apparso sul Manifesto un articolo della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo: Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia. Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.

Al netto del condivisibile sconforto per l’attuale campagna elettorale, si potrebbe notare come la contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad un sistema che ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere contrattuale dei lavoratori.

Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale. Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.

Due argomenti giocano un ruolo centrale.

Il primo vede nell’Unione Europea

“il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”

Il secondo specifica il carattere di questo ‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:

“Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

1) Il primo argomento pone un’equivalenza tra cosmopolitismo e universalismo della ragione, concependo dunque il cosmopolitismo europeista come erede della tradizione filosofica nel suo nucleo portante, quello che riconosce l’universalità della ragione.

2) Il secondo argomento qualifica tale universalismo opponendolo alla contingenza, e specificamente a quella particolare contingenza che è l’essere nato in un certo tempo e luogo, posto come base dell’idea di nazionalità.

Sotto queste premesse, l’Unione Europea si presenterebbe come incarnazione dell’universalismo della ragione, volta a superare gli accidenti della nascita (e nello specifico gli accidenti che determinano l’identità nazionale).

Nel prosieguo proverò a spiegare, in breve, perché ritengo che entrambe queste tesi contengano degli errori. Sono errori interessanti, come sempre sono gli errori filosofici, ma non perciò meno radicalmente fuorvianti e dannosi di errori più volgari.

Commento a (1)

L’idea che universalismo e cosmopolitismo siano in qualche modo considerabili in equivalenza è un’idea assai curiosa. Si ritiene, apparentemente, che le esperienze, o forse le ‘inclinazioni’, cosmopolite siano latrici di un ampliamento delle prospettive, un ampliamento che conferirebbe un particolare privilegio, ovvero la capacità di uscire dal proprio ‘particulare’ e di accedere ad una visione esente da pregiudizi e parzialità. L’opposizione chiaramente evocata è quella tra l’equanimità della ragione e il torvo egoismo dei ‘particolarismi’.

Ora, l’equivalenza tra universalismo e cosmopolitismo, una volta che la si guardi da vicino, risulta subito destituita di ogni fondamento.

Che una semplice ‘inclinazione’ cosmopolita non sia di per sé capace di superare pregiudizi e parzialità è piuttosto ovvio. Per capirlo basterebbe rammentare le idee sulle razze umane, di parvenza oggi alquanto imbarazzante, di quel genio, cosmopolita e razionalista, di Immanuel Kant.

Ma l’idea che esperienze di tipo cosmopolita possano veicolare una visione emancipata da pregiudizi e parzialità può sembrare prima facie più convincente. Dopo tutto, chi può negare che fare più esperienze ‘ampli gli orizzonti’? Bene, ma per uscire dalla vaghezza è importante capire di cosa parliamo quando nominiamo il ‘cosmopolitismo europeo’. I ‘cosmopoliti’ non sono semplicemente ‘quelli che vanno all’estero’. Naturalmente non lo sono i semplici turisti. E non lo sono certo neppure i migranti per necessità (passare dallo stringere bulloni a Termini Imerese allo stringere bulloni a Uppsala difficilmente può contare come progresso spirituale verso l’universalismo della ragione). No, il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita, per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere. Ora, – come ricorda Vincenzo Costa nel suo recente Élites e populismo – è importante comprendere come il ‘mondo della vita’ di questi ceti sia e resti una sezione trasversale, altamente astratta e sterilizzata, del mondo reale. I ceti cosmopoliti che vedono il mondo dalle loro magioni nel centro di Londra, Parigi o Milano sono vittime di settorialità esperienziale non meno dei panettieri di Tor Bella Monaca o dei barbieri di Petroupoli. Invero le élite cosmopolite, a ben vedere, sono vittima, oltre che dei propri limiti esperienziali, anche di un rimarchevole grado di presunzione, che li lascia immaginare di avere uno sguardo più comprensivo e lungimirante, e di potersi perciò concepire come ‘avanguardie’ del progresso a venire.

Le certezze dei cosmopoliti sono semplicemente pregiudizi in cofanetto de luxe.

Commento a (2)

Il secondo argomento sollevato è di particolare interesse, perché si tratta di un errore teorico diffuso. L’universalismo viene opposto (in maniera tecnicamente impropria) alla contingenza o accidentalità. All’universalismo viene poi attribuito un compito schiettamente morale, ovvero quello di ‘superare la contingenza’.

Tradotto in una proposizione, quanto viene qui sostenuto ha la seguente forma:

“Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.”

  • Digressione per filosofi.

Nella proposizione di cui sopra troviamo presentato come ovvio un contrasto tra universalità e contingenza. Lungi dall’essere un’ovvietà condivisa, l’idea di ‘ragione’ o di ‘universalità’ presupposta da questo ragionamento è assai discutibile. Si tratta infatti di una visione dove la ragione e la sua universalità per essere tali devono appartenere ad una sfera astorica e smaterializzata. Si tratta in sostanza di un’idea di ragione e universalità di tipo platonico. Autori (cari a chi scrive, come a De Monticelli) quali Wittgenstein e Husserl hanno attraversato nel corso della loro vita l’intero percorso da una iniziale concezione di razionalità astorica e svincolata dalla materialità, dalle prassi, dalla corporeità, ad una matura concezione in cui la razionalità trovava una sua necessaria collocazione proprio nella sfera della storia, della materia, delle prassi e del corpo vivente. Pensare che qualcosa per avere valore universale e razionale, debba (o anche solo possa) essere estraneo ad una realtà materiale e storica è, in termini schiettamente filosofici, una tesi assai discutibile, una tesi rispetto a cui tanto il Wittgenstein delle Ricerche che lo Husserl della Crisi sarebbero in diretta opposizione.

Fine della digressione per filosofi.

Ora, però, in termini di analisi concreta: cosa ci si immagina di poter o dover ‘correggere’ della ‘contingenza’ in nome dell’universalismo? Nel testo in questione ci si focalizza sulla territorialità della nascita, ponendola come contingenza ingiustificabile da superare. Ma perché concentrarsi proprio su questa ‘contingenza ingiustificabile’? Dopo tutto non è parimenti una ‘contingenza ingiustificabile’ anche il mio corpo, con la sua struttura e le sue facoltà? E che dire della mia intelligenza o forza di volontà? E a ben vedere anche la mia stessa appartenenza alla specie umana e al novero dei ‘soggetti razionali’, mica l’ho decisa io? Tutte queste sono cose che nessuno di noi ha deciso, che ci sono, se ci sono, senza nessuna giustificazione. Sono cose che ci siamo ritrovati, e a partire dalle quali, traendone il meglio di cui eravamo capaci, e facendocene carico, abbiamo cercato di tracciare una nostra strada su questo contingentissimo pianeta.

Ecco, ora la domanda è: in che senso la mia nascita in un tempo e luogo, la mia educazione, la mia lingua madre, la cultura materiale in cui sono cresciuto e in cui sono diventato ciò che sono, in che senso tutto questo sarebbe un arbitrio da superare nel nome dell’universalismo in quanto ‘non-contingenza’? E chi sarei io, il soggetto chiamato a svolgere tale superamento, una volta tolte tutte quelle contingenze? In che senso, la contingenza della mia territorialità o cultura sarebbero da superare,  mentre non sarebbe parimenti da superare, per dire, la mia appartenenza alla specie degli ‘animali razionali’? Dov’è qui il discrimine in cui io posso dire che la mia nascita, crescita ed educazione non sarebbero davvero ‘io’, mentre il mio genoma, quello sì ‘sono davvero io’?

In verità, l’universalismo astratto e matematizzante che viene qui implicitamente ammesso è insostenibile. Io sono ciò che sono in quanto nato e cresciuto, in quanto sono divenuto ciò che sono, e non certo in quanto ho deciso o deliberato ciò che potevo essere. (E, a fil di logica, come avrei potuto farlo, se non essendo già qualcosa che a sua volta non posso aver deciso io?).

Detto questo, quell’universalismo astratto non è affatto l’unico universalismo concepibile. Al contrario, a ben vedere esso è propriamente inconcepibile. Dalla posizione che io sono e incarno io posso riconoscere posizioni e incarnazioni altrui: posso riconoscere, in modo perfettamente razionale ed universalizzabile, che la mia appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale concorre a definirmi, così come l’appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale di un abitante di Sapporo, Budapest, York, Adelaide o Cuzco, concorre a definire loro. E ciascuno di noi, a partire dalla propria cultura (che non ha deciso), dalle proprie facoltà cognitive (che non ha deciso) e dalla propria capacità empatica (che non ha deciso) può decidere di aiutare qualcun altro ad uscire dalle sue difficoltà, che sono proprio sue, e non di un soggetto ideale disincarnato, astorico e non situato. Lo può fare perché può comprendere, in qualche misura, la specificità della situazione altrui e le sue difficoltà contestuali. Per farlo con convinzione e motivazione, comprendere la specificità della situazione altrui, lungi dall’essere di impaccio, sarà essenziale. Al contrario, lo sguardo da lontano, che si presume disincarnato e superiore alle incarnazioni storiche, corporee e pratiche non è affatto uno sguardo che muove né alla compassione né all’aiuto. L’operazione di ‘comprendere il punto di vista dell’altro’ è un’operazione che ha senso solo quando si ammette che l’altro ha appunto un punto di vista, una posizione reale, e si simpatizza con esso, con il suo essere situato.

Questo, tradotto dal piano soggettivo a quello politico significa che è la nostra dimensione di appartenenza a definirci innanzitutto per ciò che siamo, e che tale dimensione è condivisa universalmente, da ciascuno con la sua appartenenza. E tutto ciò può permettere perfettamente riconoscimento, rispetto, e simpatia vicendevoli. Come italiano, che assume su di sé la sua nascita, cultura, educazione, posso simpatizzare con un fratello greco o austriaco o scozzese, stimandone la determinatezza delle forme di vita; e l’altro può fare lo stesso nei miei confronti. La mia appartenenza mi consente di capire la tua, e di esservi solidale. Per lo sguardo nutrito dalla mancanza di appartenenza, invece, gli individui e i gruppi reali sono solo astrazioni, concetti, forse numeri, enti interscambiabili.

L’universalismo che sembra ovvio nella prospettiva di De Monticelli è l’universalismo disincarnato dello ‘sguardo da nessun luogo’, del ‘punto di vista di Dio sul mondo’. Ma, per fortuna o per disdetta, il punto di vista di Dio sul mondo non lo possiamo incarnare affatto, e neppure immaginare propriamente.

E credere di poterlo incarnare e immaginare è solo una forma di Hybris, eticamente poco raccomandabile.

Riassumendo quanto detto.

Universalismo e cosmopolitismo non solo non sono sovrapponibili, ma non sono neanche vicini di casa.

Quanto all’appello all’universalismo, esso non può essere quello sguardo disincarnato e destoricizzato che pretende di essere, e non può, né di fatto né di diritto, abolire gli ‘accidenti della nascita’.

Per tutte queste ragioni, è opportuno lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla improvvidamente in soccorso di quello spregiudicato pasticcio neoliberale che prende il nome di Unione Europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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3 commenti su “Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea (una risposta a Roberta De Monticelli)”

  1. Ecco le mie risposte a Andrea Zhok, che ringrazio di avere letto e commentato il mio pezzo apparso sul “Manifesto” (24/05/2019). Comincio dalla filosofia.
    1. Filosofia. Mi colpisce molto quando un filosofo in sostanza dice: lasciamo in pace la filosofia, qui si tratta di politica. O di storia. O di economia. Uno di quelli che più spesso mi rispondono così, a volte in modo più aggressivo e meno argomentato di quanto faccia Andrea Zhok, è Massimo Cacciari. Sui socials poi queste risposte si sprecano, ma almeno non vengono in generale da filosofi di studi, o di mestiere (molti però almeno di studi sono tali). Cosa c’è dietro questo atteggiamento? Evidentemente, che la filosofia non può essere pensiero pratico, non può cioè istruire le questioni riconducibili a quella centrale per il nostro agire, in tutti i campi dive dobbiamo prendere posizioni e decisioni: che cosa dovrei fare? E anche: che cosa dovremmo fare?

    Questo atteggiamento ha alcune conseguenze imbarazzanti. Ad esempio, l’opposizione fra “filosofia” e “concretezza”. Tipo: “Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca”.

    Suppongo che la macelleria sociale greca sia resa possibile da scelte politiche sbagliate che consentono a gruppi più forti di avvalersi della possibilità di perseguire i loro interessi a danno di una (maggior) giustizia che sarebbe invece POSSIBILE evitare con scelte politiche giuste, che pongano vincoli al perseguimento arbitrario di quegli interessi. O altrimenti non so di cosa parliamo. Ma Kant e Rawls si sono posti precisamente il problema dei fondamenti di ragione del pensiero politico, più in generale pratico. Che non significa certo disconoscere che persone e gruppi perseguono normalmente i loro interessi (spesso nobili e ed eticamente compatibili, altre volte no) e che senza vincoli di alcun genere la libertà di perseguirli porta molto male per tutti. Le loro teorie normative sono indubbiamente insufficienti: dunque bisognerà far di meglio. La politica e il diritto esistono precisamente perché le società umane non sono società angeliche. Oppure si preferisce affermare che nessuna fondazione ragionevole del pensiero pratico è possibile, e che non ci si può impegnare, anche in democrazia, che sulla base di fedi, oppure volontà di potenza, oppure determinismi di classe, o ahimé, come scrive Andrea con una parola che mi dà qualche brivido, “appartenenza”? Che umano sia precisamente il contrario, che ciò che può distinguerci sia la vita esaminata e non l’adesione cieca alla propria comunità d’origine lo sappiamo da Socrate, mica da Kant. Ora quando si parla di ideali, anche di ideali politici, si parla da persone che questa scelta hanno fatto a persone che questa scelta hanno fatto o possono fare: ovvero si parla in termini assiologici e razionali (Come dovrebbe essere una democrazia in cui anche tu che sei nato a Rozzano, e anche tu che vieni dal Ghana, e anche io che ci terrei a lavorare qui, otteniamo per le nostre vite tutto ciò che serve a farle fiorire, se poi la sfortuna o l’incapacità non ce lo impediscono?). In sintesi, si parla dal punto di vista di prima persona, singolare e plurale, e in termini pratici. Non si sta contemplando da non so qual punto di vista superiore il divenire del mondo, come facevano i marxisti. Né si assume una prospettiva sociologica che dice cosa di fatto fa e pensa la gente. La prospettiva di molti fra quelli che mi criticano, anche filosofi, presuppone in definitiva questo sguardo “di terza persona”: la tesi è che la gente è irrimediabilmente massa opaca e cieca, e “politico” è solo chi la sa organizzare, sulla base del suo proprio decidere. Coerentissimo, l’unica domanda è in che senso siano filosofi.

    2. Universalismo e accidente della nascita.
    Qui c’è un grande equivoco, mi dispiace che la concisione rischi di non rendermi chiara, rinvio alle Sette tesi sulla democrazia e l’Europa che ho pubblicato su “Il Mulino”. E’ evidente che l’accidente della nascita è inteso qui come fonte di un destino che in buona parte è la nostra stessa individualità. Ma che è anche, innegabilmente, fonte di radicale diseguaglianza. E’ solo nella misura in cui questa radicale disuguaglianza limita la POSSIBILE giustizia politica, ovvero l’eguale libertà e le pari chances di fiorire per la persona che si può divenire, con le proprie doti e la propria lingua e cultura etc etc., è solo in questa misura dunque che la ragione pratica, il nostro pensiero politico in particolare, può e dovrebbe aspirare a costruire una società (facciamola breve: un tipo di democrazia) che “rimuova gli ostacoli”, come dice la Cost. ital. art. 3, e in primo luogo gli ostacoli al riconoscimento di quello status che è in definitiva l’implementazione istituzionale e giuridica della dignità, il diritto di avere dei diritti. Per questo ritengo che “La democrazia, con tutte le sue insufficienze, non è soltanto un sistema di governo: è l’aspetto politico di una civiltà umanistica, è il mezzo per consentire l’accesso del più largo insieme possibile di persone all’esercizio effettivo della sovranità esistenziale e politica”, e non vedo argomenti he confutino questa tesi. A meno che si fraintenda tanto brutalmente quello che scrivo da leggere questa tesi come se descrivesse la realtà di fatto e di oggi. Quando il senso dell’articolo è di mostrare quanto tragico sia appunto che le democrazie nazionali abbiano imboccato il circolo vizioso invece di quello virtuoso, e quindi si stiano suicidando, insieme con l’ideale umanistico che ne ha ispirato le lunghe e dolorose storie, almeno nella mente dei migliori fra quelli che per loro hanno combattuto, non esclusi alcuni fra i nostri genitori e nonni. Precisamente l’intuizione di Spinelli e altri è che questo circolo vizioso è irreversibile senza l’evoluzione sovranazionale, in linea di tendenza cosmopolitica, delle democrazie.
    3. Universalismo e democrazia

    Onestamente non vedo gli errori tecnici e logici che Andrea mi attribuisce. Certo, bisogna rifiutare una visione storicistica e relativistica del giudizio e dell’argomentazione di valore per accettare quello che io dico, intorno ad esempio al senso della giustizia, che vediamo emergere nelle forme infantili fin dalla prima infanzia, quale che sia la lingua, trapanese o suahili o tedesco. Se veritas filia temporis, e figlia di appartenenze etc., allora la giustizia di Salvini (prima gli italiani) vale quanto quella del primo principio della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, che ho definito il principio più normativo e meno descrittivo che ci sia. E’ interessantissimo riflettere sulla gigantesca svolta che fu, nel dibattito pubblico mondiale, la scelta che prevalse per poco, per pochissimo, nella commissione di redazione del testo della Dichiarazione — MA PER FORTUNA PREVALSE – di scegliere per il sostantivo “Dichiarazione” l’aggettivo UNIVERSALE e non INTERNAZIONALE.
    Il mio universalismo è tutto qui, ed è assolutamente innegabile che la chiara concezione d’’accessibilità universale (cioè: tutti quelli che vogliono capire e vedere, sono in grado di vedere e capire) dei principi che articolano l’idea di giustizia (e corrispondono alle generazioni dei diritti: civili, politici, sociali e culturali) SIA un’idea che permea la filosofia pratica fin da Socrate, ha in Kant un grande momento e nel Novecento, pur assediato da mainstream contrari, un altro grande momento di formulazione limpida (alla quale ho dedicato tutti i miei ultimi libri). Le democrazie postbelliche europee sono democrazie che includono essenzialmente i diritti UMANI, che sarebbero cioè dovuti indipendentemente dalla propria cittadinanza e nazionalità, e per questo solo fatto sono in linea di principio sbilanciate in senso cosmopolitico. Curioso che non si veda questa possibilità enorme, che solo la tarda scuola di Habermas (Nida Ruemelin e altri) comincia ora ad articolare

    4. Universalismo e ragione
    Io non ho altra idea di ragione che la disponibilità a chiedere e rendere ragione dell’altrui fare e dire, e del proprio. Non è soltanto una capacità, ma anche una disponibilità, appunto: ci si può rifiutare. Per questo non capisco affatto l’assurdo ragionamento che Andrea mi attribuisce:
    “Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.”
    Ma qui immagino che abbia voluto scherzare. E’ una vita che vado dicendo che le nostre ragioni personali, quelle per cui e di cui viviamo con la nostra vita di persone incarnate, radicate, passionali e irriducibilmente plurali, non sono appunto “la ragione umana” ma la nostra personale scala di priorità di valore, cui sono posti vincoli precisi dalla compatibilità che ogni scala di priorità deve esibire con il rispetto di ogni altra persona o della sua pari dignità. DEVE: non che lo faccia ovviamente. Se non lo fa, SBAGLIA. Punto. Naturalmente proprio qui si apre la discussione: ed è proprio questo l’universalismo della ragione, che la discussione POSSA instaurarsi. I diritti nelle democrazie sono discussi, attaccati, difesi a ogni svolta. Qui certo si può esercitare la libertà e dire: non vedo che Salvini sbagli. Non vedo perché non si dovrebbe dire, nel senso in cui lo intende Salvini, “prima gli italiani”. Qui si può cercare di articolare questo senso, e mostrare la componente di esso che effettivamente contrasta con il primo articolo della Dichiarazione Universale. E uno può rispondere: e che m’importa di quell’articolo. E qui la discussione si ferma, nel senso preciso che il CONFLITTO non può divenire DISSENSO, e io scappo via spaventata. Perché spero che Andrea capisca e sappia che dove il conflitto non può diventare dissenso, vengono fuori le guerre, o anche solo il sangue per le strade.
    Roberta De Monticelli

    • antropologiafilosofica il said:

      Cara Roberta, ti ringrazio per la gentile e attenta risposta.
      Vorrei potermi dire soddisfatto, ma temo di non essere riuscito a comprendere, certamente per miei limiti, diversi punti essenziali, fino al punto da chiedermi se la tua replica sia davvero una difesa dell’articolo originario, o se non sposti il discorso su altri temi, interessanti ma collaterali.
      Provo a ripercorrere le tue risposte.

      Ad 1). Nella tua prima risposta mi rimproveri di sostenere la separazione tra filosofia e politica (o economia, ecc.). Ora, capisco che forse la chiusa del mio commento possa essere fraintesa, tuttavia mi pare piuttosto evidente dal nostro intero scambio che nessuno dei due pensa che filosofia e politica stiano su binari separati. In effetti la chiusa cui tu sembri fare riferimento diceva qualcosa di un po’ diverso, e precisamente che “è opportuno lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla improvvidamente in soccorso” dell’Unione Europea.
      Il problema non è affatto quello di dire ‘niente politica, siamo filosofi’, figuriamoci.
      Il punto, se proprio vogliamo, è che le conclusioni filosofiche non sono mai meccanicamente traducibili in conclusioni politiche e richiedono dei passaggi intermedi che calino l’ideale nel reale.
      Nella fattispecie è del tutto trasparente che un articolo che compaia all’antivigilia delle Elezioni Europee e che sostenga – come tu fai – una filiazione diretta tra gli ‘ideali della ragione’ e il ‘progetto europeo’ sta, perdona l’espressione triviale, calando un carico da novanta a supporto dell’attuale struttura istituzionale chiamata Unione Europea. Ed è questa operazione di passaggio dal filosofico al politico che ritengo inaccettabile, non certo una generale applicazione del filosofico al politico.
      Il problema, cioè, è che è proprio illegittimo chiamare in aiuto niente poco di meno che la tradizione razionalistica occidentale per operazioni indegne come quelle che hanno ridotto un ‘paese europeo fratello’ ad un protettorato con tassi di mortalità infantile da terzo mondo.
      Invocare l’idealità di un eventuale modello razionalistico (kantiano o rawlsiano o altro) a supporto dell’UE è legittimo quanto invocare il modello tomistico della monarchia come migliore tra i modelli di governo per giustificare il governo di Kim Jong-Un o del sultano del Brunei.
      Non basta una vaga analogia, bisogna sporcarsi le mani con una descrizione della realtà storica e istituzionale per vedere se oltre a quella vaga analogia ci siano elementi sostanziali in comune. E qui non posso che esprimere la mia curiosità nel vedere cosa ci sia di kantiano o rawlsiano in un modello di trattati europei esplicitamente ispirati al neoliberismo di Milton Friedman.

      Ad 2). Se la tua prima risposta mi ha lasciato perplesso, la seconda mi lascia basito. Francamente faccio fatica a capire cosa abbiano a che fare la ‘correzione degli accidenti della nascita’ (con specifico riferimento alla nascita in un paese) da un lato con l’articolo 3 della nostra Costituzione e dall’altro con l’Unione Europea.
      A scanso di equivoci, ricordiamo cosa dice il passo della Costituzione cui fai riferimento:
      “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
      In che senso questo articolo avrebbe qualcosa a che fare con una correzione ‘tendenzialmente cosmopolita’ dell’accidente della nascita? A ben vedere nell’articolo 3 si dice una cosa radicalmente diversa: si parla di rimozione di “ostacoli di ordine economico e sociale”, e specificamente di quelli che limitano “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Cioè si parla principalmente di correggere diseguaglianze di censo che concernono i cittadini della Repubblica italiana (non i ‘cittadini del mondo’), Repubblica che infatti è il soggetto chiamato in causa per correggerli.
      Cosa abbia ciò a che fare con il superamento delle datità nazionali in chiave cosmopolita francamente non riesco proprio a capirlo. Come se, per dirla fuori dai denti, un governo sovranazionale guidato da lobby finanziarie e da un’alleanza franco-tedesca, e dedito all’implementazione di politiche neoliberali, avesse qualche cosa in comune con le istanze egalitarie e socialiste menzionate dall’Art. 3 della Costituzione Italiana.

      Ad 3.) Nella terza risposta, mi spiace dirlo, ma semplicemente non stai rispondendo alle mie obiezioni, obiezioni che hanno di mira, sul piano ‘tecnico’ l’opposizione tra universalismo e “accidente della nascita” (cui tu attribuisci, voglio ricordarlo, niente meno che “ogni ingiustizia”). Tale opposizione è insostenibile per le ragioni che ho detto: perché la nostra stessa capacità razionale dipende dall’accidente della nascita, e perché la nostra stessa idea di ‘diritti umani’ è con tutta evidenza una formazione legale storica sorta all’interno della tradizione occidentale.

      Non c’è bisogno che io ti ricordi come la ‘Dichiarazione Universale dei diritti Umani’ del 1948 venne votata da 48 paesi, che la sua universalizzabilità venne contestata da subito e già in fase di elaborazione, che gli articoli 22-27 sui diritti economici e sociali vennero introdotti solo su pressione dell’allora Unione Sovietica, e che successivamente vennero totalmente dimenticati (tanto è vero che oggi chi parla di ‘diritti umani’ immagina sempre solo diritti civili, libertà personali).
      E faccio notare per inciso che poche cose sono meno ‘evidenti’ al sano intelletto umano dell’idea di un diritto che, invece di essere conferito da altri soggetti storici, sia ‘inscritto nella nascita’ di un membro della specie Homo Sapiens. Questa è in effetti una concezione di ispirazione teologica, dove si presumeva inizialmente che il diritto dell’uomo (dell’anima umana) gli venisse conferito da Dio. L’idea che un espediente legale altamente artificiale come un ‘diritto’ sia scritto da qualche parte in natura è un’idea che può risultare ‘evidente’ solo all’interno di una assai specifica tradizione storica; alla faccia dell’universalità.

      E non c’è bisogno che ti ricordi che opporre razionalità a ‘storicismo e relativismo’, come tu fai qui sopra è improprio, visto che eminenti autori come Hegel o lo Husserl dagli anni ’20 in poi presentano posizioni razionalistiche e non relativistiche in una cornice storicista (posizione che, per quel niente che conta, ho difeso e argomentato più volte per esteso).

      Ad 4.) Sull’ultimo punto non ho niente da dire, perché chiama in causa la democrazia e Salvini, cose su cui non ho detto una parola, e su cui magari la pensiamo anche in modo simile, ma che qui non rileva.

      Concludo con una osservazione generale.
      Dopo aver letto la tua gentile risposta sono andato a rileggermi il tuo articolo, perché vedendo le risposte ho avuto il dubbio di aver letto un articolo del tutto diverso. Infatti l’articolo che mi pareva di aver letto era un pregevole scritto il cui passaggio decisivo e fondamentale era quello che passava dalla difesa del cosmopolitismo, come superamento degli accidenti della nascita, e come visione propria di una civiltà fondata sulla ragione, ad una difesa dell’Unione Europea, concepita niente meno che come edificio politico architettato dalla filosofia.

      È questo nucleo argomentativo che mi pareva radicalmente insostenibile e che ho provato a criticare.

      Dopo le tue risposte, in cui il tema centrale del cosmopolitismo praticamente non compare, ho avuto il timore di non aver letto giusto, di aver preso fischi per fiaschi.

      Ed è per questa ragione che voglio lasciare l’ultima parola a te, citandoti direttamente:
      “[O]ggi l’Unione europea, in quanto è il lungo, lento processo di costituzione di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa, è almeno virtualmente il più grande e innovativo laboratorio politico del mondo. È il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica. – Cosmopolitica è in effetti la forma di una civiltà fondata in ragione, vale a dire, semplicemente, sulla nostra capacità di chieder ragione agli altri e a noi stessi di ogni azione e di ogni affermazione – e di chiederla in particolare a chi prende decisioni che influiranno sulla vita e il destino di tutti. La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia: è, potremmo dire, costitutiva della mente umana, della stessa lingua umana, la sola fra i linguaggi animali che possiede il tono e il simbolo dell’interrogativo: “Perché?” Perché mi fai questo? Perché devo soffrire questo? Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

IDEOLOGIA VERDE E POLITICA, di Vincenzo Cucinotta

Parto da lontano, ponendomi la domanda di quale sia la questione centrale della politica.

Non avrei dubbi, la questione al centro della politica è quella che riguarda il potere, chi ha il potere, in quali forme lo esercita, quali conseguenze pratiche ha sui modi di convivenza di quella società.

Affermando ciò, non intendo certo delimitare la politica a questo ristretto ambito, ma invece ricordare che ogni ipotesi strategica che non sia in grado di affrontare questa questione di fondo finisce per restare in un ambito che potremmo chiamare prepolitico.

Aggiungo che molte volte non c’è bisogno di entrare esplicitamente nel merito di questo fondamentale aspetto perchè esso appare scontato, ma credo sia buona norma ritornarci almeno di tanto in tanto per verificare se, magari seguendo un evento dell’attualità politica, non si finisca per trascurarlo finendo con l’uscire proprio dall’ambito politico.

Questa premessa risulta tanto più necessaria quando si parla di ambientalismo.

Il fatto è che l’ecologia risulta essere la scienza più difficile che ci sia, richiedendo così una pluralità di competenze, assieme alla necessità di raccogliere una gran mole di dati. Ciò porta automaticamente a una centralizzazione degli studi e di conseguenza della sede delle decisioni.

Se aggiungiamo a questo fatto obiettivo e sostanzialmente inevitabile gli enormi interessi che gravitano sulle politiche ambientali, tali che un dato provvedimento legislativo può determinare arricchimenti o impoverimenti formidabili, si capisce come l’attenzione di chi detiene il potere economico verso queste tematiche sia asfissiante e determini strategie di controllo ben più sofisticate della narrazione comune che vorrebbe che i capitalisti vogliano semplicemente negare i problemi ecologici, cosa forse vera in un passato nel quale se ne sapeva molto di meno a livello scientifico e figuriamoci poi a livello di cosiddetta opinione pubblica. Adesso, tanto per fare un semplice esempio, i produttori automobilistici potrebbero ben essere interessati a una conversione verso le auto elettriche, perchè porterebbe certamente a una maggiore obsolescenza delle attuali automobili a combustibile fossile e quindi aprire a un possibile aumento del ritmo di produzione di nuove autovetture.

Con tali premesse, ditemi chi potrebbe fidarsi di questi centri mondiali di studi scientifici. E’ evidente che uno scienziato non è un santo, e i rischi di corruzione sono oggettivamente enormi. Inoltre, data la complessità di questi studi come dicevo all’inizio, utilizzare l’enorme mole di dati accumulati in un modo piuttosto che in un altro, utilizzare un modello piuttosto di un altro, consente di confondere un caso esplicito di corruzione con una valutazione errata dei dati. Nè d’altra parte è possibile escludere clamorosi errori, anche dovuti ad esempio alla presenza di un fattore ignoto che viene tralasciato.

E’ per questo che testardamente continuo a insistere su un punto, che porre alla ribalta i problemi ambientali non solo non aiuta a risolverli, ma addirittura, visto il controllo sostanzialmente monopolistico dei media da parte di questa ristretta elite finanziaria, serve a fare confusione.

La vicenda di Greta del resto in questo senso è emblematica. Essa dice agli adulti “avete creato danni ambientali e siamo molto incazzati, ora dovete fare qualcosa per riparare”.

Cosa vi colpisce in questa espressione? Che Greta non mette minimamente in dubbio la sede del potere, si affida anzi esplicitamente a questi, anche se sotto la forma della pretesa imperiosa.

La cosa colpisce, perchè come puoi affidare la soluzione del problema proprio a coloro che l’hanno creato? Che senso ha dare agli assassini la delega a condurre le indagini e a comminare le sanzioni necessarie?

Cosa osserviamo? Che Greta evidentemente non affronta per niente il tema principale della politica, chi deve avere il potere, con il che non fa che adeguarsi a una lunghissima tradizione ambientalista, quella di pensare che la causa dei danni ambientali è sostanzialmente dovuto a un mix di ignoranza e di eccesso di interessi privati, tale che basti un atto di buona volontà perché una politica ambientalista venga avviata.

Insomma, l’ambientalismo non viene ancora oggi considerata una vera teoria politica, come tale autonoma e autoconsistente, ma innanzitutto un problema di natura scientifica che quindi va risolto dalla stesso incontrollato sviluppo tecnologico che ne è stato la causa.

E qui veniamo a un altro enorme tematica, quella dello sviluppo tecnologico e il suo rapporto con la scienza.

Come dicevo di recente, la scienza è solo un metodo, il metodo sperimentale, quelle che chiamiamo scienze sperimentali andrebbero piuttosto chiamate discipline sperimentali. La differenza sta nel fatto che così si elimina alla radice la pretesa di far coincidere tecnologia e scienza.

Visto che d’altra parte si è diffusa questa strana tesi che la scienza sia la verità, negando così la filosofia della scienza nella sua interezza, si usa questa scienza portatrice di verità indiscutibili per giustificare e anzi imporre ogni sviluppo tecnologico, in verità trainato da interessi economici, visto che l’economia costituisce l’ordinatore supremo della società contemporanea.

In questo quadro, è quasi inevitabile che gli scienziati, e in particolare quelli ambientali per ciò che oggi significa (in verità, non si è ancora formata una generazione completa di scienziati dell’ambiente, perchè a livello accademico ogni disciplina difende gelosamente il proprio campo di interesse e l’ecologia tende a infrangere quest’ordine, invadendo tutta una serie di discipline tradizionali, così che ad esempio un chimico ambientale rimane prima di tutto un chimico) finiscano per assumere il ruolo di supremi sacerdoti. La logica sottesa è quella che dicevo, che le tematiche ambientali possano essere affrontate sotto il profilo tecnico e essendo buoni, e quindi andiamo avanti con gli scienziati da una parte, le Greta dall’altra. D’altra parte, sapete che si è diffusa l’espressione “ecosocialismo” con il che si intende che il socialismo possa essere avveduto e attento alle tematiche ambientali, e tutto automaticamente si risolverà.

Come si capisce, io sono molto critico su l’intera storia dell’ambientalismo in politica, proprio perché sono convinto che invece l’ambientalismo è una teoria politica compiuta, e che come tale è autosufficiente e alternativa ad altre politiche.

Ma torniamo alla questione dell’uso strumentale che si fa della scienza, e ciò lo riscontriamo anche in ambiti ben differenti da quelli ambientali.

Il caso che mi viene alla mente è quello dei vaccini e di personaggi come Burioni che come i giornalisti, fa il politico al 100%, ma finge di parlare da scienziato e zittisce tutti sulla base dell’autorità della scienza. Da persona che ha dedicato la propria vita alla scienza, sono sconcertato da simili atteggiamenti. La scienza sin dai suoi fondamenti filosofici, non ha nulla a che fare con la verità, e coltiva sistematicamente il dubbio , così che ogni risultato raggiunto è automaticamente di tipo provvisorio e quindi suscettibile di modifica. Invece, cosa ti fa il Burioni? Non fa scienza, fa il politico della tecnologia, e il vaccino in sè è un prodotto tecnologico e come tale è prodotto prima di tutto per tornaconto economico. Seppure c’è un contenuto di disciplina medica, questa si aggiunge a interessi economici, e a una politica complessivamente portata avanti. Nello stesso tempo, non esita a invocare l’autorità della scienza per zittire ogni genere di obiezione.

Ad esempio, questa cosa di protezione degli immunodepressi come motivazione per costringere tutti a vaccinarsi, ha veramente elementi di demenza. Mi chiedo perchè le persone sane dovrebbero eventualmente mettere a rischio la propria stessa salute per garantire quella di persone che hanno problemi loro propri. Può uno stato senza chiamarsi etico obbligare i cittadini a una generosità che appare francamente eccessiva, il potenziale sacrificio di sè come dono mi pare non possa essere richiesto come obbligo, al massimo ci sarà qualcuno che lo vorrà fare per proprie personali convinzioni. Se proprio lo stato vuole intervenire, dovrebbe farlo in senso inverso, garantendo innanzitutto la salute dei cittadini sani, non pretendendo di difendere lo stato di buona salute di chi ha qualche problema sanitario probabilmente di natura genetica, a danno di chi può e vuole fare a meno dei vaccini. E in ogni caso, questo è un campo del tutto opinabile, tipico della politica: che c’entra invocare qui l’autorità della scienza?

La mia impressione è che i media distraggano l’attenzione dal problema fondamentale, quello del potere, attraverso le più improbabili digressioni, andando dietro alla Greta di turno, e perseguano implacabilmente un disegno autoritario che passa attraverso una estrema centralizzazione. Si toglie quindi potere agli stati moltiplicando sedi internazionali che finiscono per occupare spazi decisionali a danno proprio degli stati, e non si esita a usare anche la fama comune della scienza per imporre le più diverse decisioni.

Questo pericolo mi pare particolarmente attuale proprio nell’ambito ambientale. Ci sono tutte le condizioni, prima si nega la natura politica dell’ambientalismo, i vari partiti verdi finiscono per fare i predicatori, semplicemente imponendo le conclusioni degli scienziati e pretendendo che possano costituire una politica, e così si finisce per rivolgersi agli scienziati-sacerdoti perchè ci concedano la verità. A questo punto, è fatta, gli scienziati sono facilmente controllati dal capitale che può continuare a fare i propri porci comodi, e inoltre continuando a iniettare dosi crescenti di senso di colpa a un pubblico del tutto istupidito che penserà che l’ambiente è sempre più inquinato per i suoi colpevoli comportamenti individuali.

Io mi convinco sempre più che la democrazia effettiva richieda una certa vicinanza tra rappresentanti e rappresentati, quando dipendiamo completamente da una distante equipe di scienziati per stabilire misure legislative, la democrazia è definitivamente persa.

Sono infine pervenuto alla conclusione che esiste un sovranismo anche in ambito ambientale, ovvero un localismo che ci dovrebbe permettere di prescindere dai moniti di scienziati ignoti e distanti.

Sembra un paradosso, perchè se uno stato produce troppo biossido di carbonio, il peso va a ricadere anche sugli stati che fossero virtuosi. Ciò sottintende che bruciare combustibili fossili sia una cosa che porta vantaggi, e quindi imporre ai propri cittadini di non farlo, significherebbe svantaggiarli. Se però le cose non stessero così, e non stanno così se si guarda all’ambientalismo come una teoria complessiva e non come uno specifico tema trattabile all’interno di qualsiasi sistema di governo, allora lo stato che iniziasse a fare una vera politica ambientalista potrebbe divenire un modello imitabile da altri.

Ma la temperatura media della terra sta davvero aumentando? In effetti non possiamo essere certi che sia così, visto che non possiamo controllare l’intero procedimento richiesto per pervenire a questo dato. Però qualcosa la possiamo sapere egualmente, ad esempio il fatto che la temperatura superficiale del mediterraneo è certamente aumentata, fatto confermato da un cambiamento di flora e fauna. Tale aumento sta provocando variazioni climatiche che non possono essere ignorate, almeno qui dove vivo. Abbiamo avuto il 4 gennaio del 2018 un vero e proprio uragano con punte di velocità superiori ai 140 km/h, cosa che a memoria d’uomo non si è mai prima verificato, e da allora sembra sia intervenuta una modifica permanente nel regime dei venti, prima sempre deboli in questa specifica zona, mentre quest’anno, pur senza raggiungere questi estremi, abbiamo avuto, mi pare a fine febbraio un vento intenso che non si è chetato per circa 48 ore. Queste osservazioni, che naturalmente non implicano alcuna conclusione sul clima globale, ci dicono che la temperatura localmente è di certo aumentata, e che sembra ragionevole tentare di ridurre questo aumento con i mezzi disponibili, cioè intervenendo sui fattori che controlliamo, senza per questo dovere attendere chissà quale sentenza degli scienziati. Poi, ovviamente, nulla osta a convocare una conferenza dei paesi del mediterraneo e proporre a tutti di prendere provvedimenti simili a quelli che si vogliono introdurre nel proprio paese, e quindi in una logica di accordi multilaterali, ma senza delegare a un’incontrollabile unità centrale l’autorità di definire cosa dobbiamo fare.

E’ ovviamente un approccio del tutto nuovo e che andrebbe meglio approfondito, spero di avervi fatto cosa gradita nel proporvelo allo stato di elaborazione a cui sono giunto.

IL PROCESSO DI VERONA…, di Antonio de Martini

IL PROCESSO DI VERONA…
( tardivo ma non privo di ragioni, proprio come l’altro)

Leonardo Da Vinci nacque mezzo millennio fa da una relazione, illegale secondo il congresso di Verona .
Anche Lawrence d’Arabia fu frutto di una relazione adulterina.

La mancanza della possibilità di abortire ha provocato la nascita di numerosi inutili contemporanei che conosciamo bene.
Leonardo scrisse “ molti non lasciano dietro di se che cessi pieni”.

La materia è complessa e, chi voglia regolamentarla dovrebbe tener conto sia dei diritti naturali che di alcune esigenze della società.

Esempi.

a) Divorzio. Ogni essere umano ha diritto a sbagliare e avere un’altra opportunità , ma non indefinitamente. Dopo un secondo matrimonio/unione la terza volta dovrebbe essere preceduta da un test psicologico che assista chi ha evidentemente difficoltà a non ripetere scelte che lui/lei stesso considera poi errate.

Uomini molto ricchi o donne intraprendenti che si sposano cinque o sei volte non dovrebbero essere disponibili per pubblici uffici o impiegati nel media mainstream.
In alcune zone del mondo ( America Latina, Africa, Asia ) viene riconosciuto uno status pubblico alle amanti ( e diritti ereditari ai figli). Ma siccome di amanti tutti i congressisti ne hanno una/o, sull’argomento si sorvola.

b) Aborto. È certamente un diritto dei concepitori abortire, ma , se non si è psicolabili capricciosi e non vi sono inderogabili esigenze terapeutiche, cinque mesi sono un lasso di tempo sufficiente per prendere una decisione tanto drammatica e abortire ripetutamente non può essere consentito, salvo serie ragioni mediche.
Abortire è un diritto, ma – non illudiamoci- specie se fatto dopo il quinto mese, resta un omicidio. In Francia, un deputato ottenne la bocciatura delle legge facendo sentire in aula il battito del cuore del nascituro. A Verona hanno fatto il “ gadget” del feto. “ Convenscion molto lumbard “.

Gli esempi di famiglie non abbienti e numerose sono troppo noti perché ci si debba soffermare.
I figli sono, dovrebbero essere, frutto di amore, non cagione di bonus ad personam. I servizi sociali collegati alla vita familiare dovrebbero essere impeccabili ed avere una qualche forma riconosciuta di priorità.

Coi fondi del MOSE si sarebbero potuti assistere tutti i bambini del paese , mentre il MOSE è servito ad assistere qualche decina di figli di donne che non usufruitono, a suo tempo, del diritto all’aborto.

Il presidente del Consorzio “ Venezia Nuova” Zanda ( nato Zanda Loi , ma che non si vuole far ricordare la discendenza dal capo della polizia degli anni in cui il PCI prese potere) è quello stesso che adesso – tesoriere del PD dopo essere stato capo del gruppo parlamentare- ha proposto di aumentare le indennità dei Deputati.

Si, sono tanto favorevole all’aborto che a volte lo vorrei retroattivo.

c) Adozioni. L’ideale è che i bambini vengano dati in adozione a una coppia rappresentativa della famiglia tipo , ma , in mancanza, qualsiasi altra soluzione è preferibile all’orfanatrofio.
Numerose coppie si rivolgono all’estero per aggirare una legge che favorisce attese secolari, pone paletti illogici, pretende la perfezione dei candidati e favorisce in realtà lo sfruttamento dei bambini da parte di industriali dell’infelicità.

d) Unioni omosessuali. Sono sempre esistite e non vedo perché proibirle. Hanno certamente alcuni dei diritti e doveri tipici di una unione familiare. Possono ottenere ogni cosa, ma non l’equiparazione alla famiglia perché non sono la strada maestra per la perpetuazione della società. Sono una strada privata.

MEDIOEVO E DINTORNI

La TV del TG1 ieri sera ha presentato le tesi del presidente del “ convegno mondiale sulla famiglia” e il parere contrario di una decina di oppositori della stessa.

In coro tutto gli intervistati, accuratamente scelti, hanno lamentato un – da loro paventato – ritorno al Medioevo.

Guardandoli e ascoltandoli , ho pensato che ho ragione io ad essere ostinatamente favorevole all’aborto retroattivo.

Si continua a credere che il Medioevo sia un periodo di oscurantismo, vessazioni, infelicità.

Il povero Umberto Eco sta rigirandosi nella tomba al vedere che nessuno di questi virgulti progressisti , accuratamente scelti lo ripeto, ha letto i suoi testi.

È nell’alto Medioevo che sono nate le signorie comunali di cui tutta Italia mena ancor oggi vanto.

In quel periodo l’Italia ha creato il mestiere bancario e lo ha diffuso nel mondo, ha ripreso la guida culturale e spirituale del consorzio umano.

In quel periodo sono diminuite le tasse a causa dell’abitudine a pagare i soldati in terre e del conseguente diminuito bisogno di denaro da parte delle autorità.

La crescita di ricchezza provocò la reintroduzione delle monete d’oro come strumento di pagamento. Nacquero le Repubnliche marinare. Si iniziò a commerciare con la Cina.

È in quel periodo che nacque e si sviluppò l’Islam e vennero preservati – grazie a questo- secoli di cultura e sapienza greca che altrimenti sarebbero andati perduti.
Fu inventato lo zero e l’algebra, introdotta la bussola.
Nacquero gli ospedali e la scuola salernitana, la lingua italiana, il movimento benedettino è quello francescano , l’amor cortese, Dante, Petrarca e Boccaccio non hanno partecipato alla Resistenza, ma alla cultura medioevali come Chaucer e Shakespeare.
Federico I e II e la riforma gregoriana del calendario sono prodotti della cultura medievale. Nacquero le Università tra cui prime tra tutte Padova e Bologna .
Guglielmo di Occam , Bruno, Campanella e tanti altri pensatori iniziarono la marcia verso l’era moderna.
Ritenere negativo questi periodi medioevali e positivi questi tempi odierni può essere spiegato solo con la psicoanalisi.
Approfondita.

La Santa Inquisizione, la persecuzione e le torture degli alchimisti e filosofi, lo sterminio degli indiani del centro e Sud America , la reintroduzione della schiavitù ( finita con la nascita, medioevale, delle città) , le guerre di religione e di successione e dei trenta anni , sono tutti frutti del tardo cinquecento e del seicento.
Roba da scuola dell’obbligo ragazzi.

Al presidente RAI mi permetto di suggerire la buona pratica di mettere in sovrimpressione – come fanno nei paesi “avanzati”- nomi e cognomi degli intervistati invece di quelli dei cameraman di cui non ci importa nulla.

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