Spigolature, di Andrea Zhok

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Oggi, sfogliando un po’ di siti di informazione online sono incappato in due notizie, nessuna delle due del tutto nuova.
La prima è la notizia della cessione del governo italiano delle infrastrutture di telecomunicazione nazionali, prima TIM, al KKR Global Institute, fondo americano presieduto dall’ex generale David H. Petraeus, ex direttore della CIA.
Niente di anomalo, niente che non rientri nella fisiologia di questo paese.
Il governo “sovranista”, quello che si imporpora d’orgoglio nazionale quando deve fare gli spottoni pre-elettorali, cede serenamente e sistematicamente ogni residuo di autonomia al capobastone americano.
Per l’occasione, allarmi antifascisti non pervenuti.
I nostri sovranisti à la carte del “fascismo” hanno recepito più o meno solo il principio di cieca obbedienza gerarchica e un po’ di darwinismo sociale.
La cieca obbedienza al capobranco oggi si esercita in direzione di un padrone con passaporto americano e il darwinismo sociale si traduce in mercatismo (il mercato ha sempre ragione, il mercato è efficiente, il mercato è buono, in particolare se a comprare è un padrone a stelle e strisce.)
E incidentalmente, queste due ombreggiature “fasciste” – cieca obbedienza ai caporali di Washington e mercatismo – sono principi abbracciati entusiasticamente anche dal centrosinistra.
Ricordiamo, di passaggio, che la dismissione delle telecomunicazioni venne inaugurata illo tempore dal centrosinistra, con Prodi: c’è qualcosa di esteticamente mirabile nel vedere che la parabola che si è aperta con Prodi viene oggi chiusa dalla Meloni.
La seconda notizia in cui sono incappato è un’articolessa su Repubblica, in cui si perorava la causa della didattica a distanza, spiegando nel titolo come “l’84% degli studenti si sente più sicuro e preparato grazie al mondo digitale”.
Assumendo di rivolgermi a persone intelligenti non mi metterò neppure a refutare questa corbelleria.
Vi troviamo l’usuale sparata percentuale (l’84% eh, mica ca**i) che mima la retorica scientifica, attraverso la quale questi incartamenti per il pesce gabellano la propria propaganda come “autorevole”.
Vi troviamo una balla sesquipedale, evidente a chiunque abbia constatato la mostruosa impennata dei problemi psichiatrici adolescenziali dopo la clausura (e la didattica a distanza) del covid.
Ma ci troviamo, soprattutto – e questo è ciò che fa venire i brividi – una quadratura mirabile – ancorché contingente – con la prima notizia.
Ricordiamo infatti cos’è esattamente la rete venduta agli americani. Riporto, a titolo di resoconto, un passaggio da fonte non sospettabile di antiamericanismo, una pagina del Corriere della Sera di qualche tempo fa:
“La rete di telecomunicazioni di Tim è la più estesa d’Italia: è composta da oltre 21 milioni di chilometri di cavi in fibra ottica e copre l’89% delle abitazioni. È la principale infrastruttura per la trasmissione dei dati di cittadini, imprese e pubblica amministrazione. É considerata strategica per la sicurezza nazionale ed è lo snodo principale per la digitalizzazione del Paese, che passa per l’introduzione delle applicazioni digitali fondamentali per il futuro delle imprese italiane e per l’ammodernamento dei servizi al cittadino da parte della pubblica amministrazione previsto dal Piano di ripresa e resilienza.”
Dunque, in sostanza.
Il Piano di ripresa e resilienza, insieme a tutti i vari progetti europei di digitalizzazione forzata, preme per estendersi anche alla formazione scolastica (donde l’articolessa pubblicitaria di Repubblica).
Il quadro della società che emerge come un desideratum è dunque quello di un mondo di interazioni massimamente digitalizzate, i cui veicoli sono sorvegliati o sorvegliabili, manipolati o manipolabili, a piacimento da un comando estero con agenda militare.
Aggiungo una notazione laterale.
Conosco fin troppo bene le reazioni del liberale italiano medio (cioè dell’elettorato mainstream) per non anticiparne la reazione automatica di fronte a simili osservazioni.
La loro reazione naturale è di vedere in tutte queste osservazioni i germi di un complottismo che vede piani malvagi e intenzioni di nocumento ovunque.
Invece bisogna fidarsi.
Perché il soggetto politico qui è il Blocco-del-Bene (progressismo, liberalismo, dirittumanismo, globalismo, americanismo).
Ciò che in qualche misura diverte in questa forma di cecità selettiva è l’inavvertita inconsequenzialità.
Infatti, è parte della concezione antropologica di fondo del liberale l’assunto che tutti gli agenti siano mossi sistematicamente da agende di interesse autoaffermativo, da egoismo, ambizione autoreferenziale, pulsione ad appagare la propria curva privata di utilità.
Tra i tanti difetti di una visione così deprimente dell’umano, almeno un aspetto potrebbe tornare utile in tempi oscuri come i presenti: sotto tali premesse dovrebbe almeno essere diffusa un’allerta costante, una cultura del sospetto rispetto a intenzioni e dichiarazioni “idealiste”, una sfiducia nella “voce del padrone”.
E invece – potenza del bispensiero – niente di tutto ciò accade. Rispetto al padrone reale in carica vige solo infinita fiducia nella sua superiore nobiltà e lungimiranza.
Perché il Grande Fratello è buono.
E chi ne dubita è un complottista.

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PREMIERATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

PREMIERATO

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Se ci si chiede qual è la linea che divide il centrodestra e il centrosinistra sulle riforme volte a migliorare la governabilità dell’Italia, servendosi delle affermazioni (pubbliche) degli ultimi trent’anni, ne risulterebbe che la sinistra non ha le idee chiare. Si è divisa sia sull’oggetto da riformare (costituzione e/o legge elettorale?) sul carattere (premierato, fiducia costruttiva) nonché sulle tante varianti in cui possono declinarsi. Ma i connotati comuni a queste varie soluzioni sono due: opporsi a quanto propone il centrodestra e impedire un potere governativo forte e legittimato dal consenso popolare. Al contrario quelle del centrodestra sono connotate dall’inverso: realizzare un potere governativo forte e legittimato dal popolo.

Vediamo come le modifiche alla Costituzione proposte nel testo, approvato dal Senato il mese scorso, vadano in tal senso.

Le modifiche più rilevanti sono quelle all’art. 92, e in particolare che “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive… Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente. La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio” e di conseguenza che “Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo; nomina e revoca, su proposta di questo, i ministri”. Ma ad evitare che il Presidente del Consiglio legittimato dal corpo elettorale non ottenga dalle Camere la fiducia riconosciutagli dal popolo, è modificato l’art. 94 così “…il terzo comma è sostituito dal seguente:« Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. A ulteriore garanzia da manovre di palazzo è disposto “b) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

In caso di revoca della fiducia mediante mozione motivata, il Presidente del Consiglio eletto rassegna le dimissioni e il Presidente della Repubblica scioglie le Camere”. Quindi niente governi tecnici, balneari, d’emergenza e così via. E prosegue “Negli altri casi di dimissioni, il Presidente del Consiglio eletto, entro sette giorni e previa informativa parlamentare, ha facoltà di chiedere lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone. Qualora il Presidente del Consiglio eletto non eserciti tale facoltà, il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, al Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio.

Nei casi di decadenza, impedimento per-manente o morte del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio”.

È evidente in tali disposizioni l’intento di blindare la nomina del Presidente del Consiglio; di predisporre che lo stesso abbia la maggioranza alle Camere, contemporaneamente elette; che se la sostituzione del Presidente del Consiglio sia necessitata, il sostituto deve far parte della maggioranza “collegata” al sostituendo; l’iniziativa del Presidente della Repubblica è minima, perché vincolata al mancato ottenimento della fiducia o al sopravvenire di una revoca della fiducia parlamentare prima concessa.

Lo scioglimento delle Camere, che già un tempo (prima del consolidamento dei regimi parlamentari) era un istituto per lo più usato dai monarchi per “addomesticare” il Parlamento, è divenuto da secoli un mezzo per risolvere le crisi della democrazia parlamentare.

Mentre fino alla Restaurazione l’uso era quello, successivamente divenne lo strumento per decidere conflitti istituzionali facendo appello al corpo elettorale, in sintonia con l’allargamento della base democratica dello Stato.

E divenne così, prevalentemente, d’iniziativa del Primo Ministro. Attualmente gli scioglimenti possono ricondursi a due specie: a iniziativa del Presidente della Repubblica o a quella del Primo Ministro. Nella novella costituzionale vi sono entrambe anche se quella del Presidente della Repubblica è vincolata sia nei presupposti che nelle persone da nominare (collegate politicamente al sostituendo). È (anche) una normativa anti-ribaltone con un ossequio alla volontà popolare manifestata nella fiducia ad una maggioranza di governo a cui comunque deve appartenere il sostituto. È evidente che tale novella è rivolta contro la prassi, invalsa negli ultimi decenni, dei governi (e delle relative “coalizioni”) non rispondenti alla volontà popolare. Il cui esempio più evidente è quello del governo Monti, il cui partito, un anno dopo le dimissioni del suddetto, riportava alle elezioni europee lo 0,7% dei suffragi. A conferma del fatto che a Monti, mai eletto in qualche consultazione popolare, mancava (prima e dopo) il consenso. Quanto al potere del Presidente della Repubblica, anche qui c’è una riduzione, anche se conserva tutti (gli altri) poteri conferitigli dalla Costituzione: gli resta solo difficile organizzare o assentire “ribaltoni”, come capitato nella storia recente. E a farne le spese sono anche (alcuni) di quei poteri indiretti che prosperano se un governo è debole e sostituibile. Ma questo è un altro capitolo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Covid e vaccini! Coraggio e prezzo della verità Con Max Bonelli e la professoressa Ute Kruger

Proponiamo una sintesi, migliorata tecnicamente, della recente conversazione con la professoressa Ute Kruger, già ai massimi vertici del sistema sanitario svedese, sulle peripezie sofferte nella sua accurata attività di ricerca delle cause di morti concomitanti e successive alla campagna di vaccinazioni anticovid. La tenacia della professionista offre uno spaccato illuminante delle traversie che hanno dovuto subire tanti professionisti del settore sanitario poco propensi ad accettare acriticamente i dogmi propinatici negli anni recenti, ma che cominciano a vacillare alla luce dell’evidenza dei fatti. Una battaglia ben lungi da volgere al termine. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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CAMBIA IL VENTO?_di Teodoro Klitsche de la Grange

CAMBIA IL VENTO?

Quanto successo nei mesi scorsi sulle case occupate e l’obbligo di pagamento dell’IMU lascia sperare in un futuro – almeno in tema – meno scuro del passato recente, quello, per intendersi, della “Seconda Repubblica”.

Da una parte il Governo, su “spinta” di Salvini, ha tolto l’obbligo dei proprietari di pagare l’IMU se i loro immobili sono stati occupati abusivamente (e l’occupazione denunciata al giudice penale); dall’altra la Corte Costituzionale, sempre nel caso di occupazione abusiva denunciata ha dichiarato incostituzionale l’art. 9, I comma, previgente alla modifica (L. 197/2022 del governo Meloni), che imponeva al proprietario di pagare l’IMU anche se non ricavava alcuna utilità dall’immobile occupato abusivamente (sent. 60/2024).

La Corte costituzionale ha argomentato la propria decisione dal fatto che, non avendo il proprietario alcuna utilità dall’immobile, l’imposizione era violazione al principio della capacità contributiva, cioè all’art. 53 della Costituzione (letta anche in connessione con l’art. 3). Ma a chi scrive pare che la arpagonista pretesa di farsi pagare dai cittadini anche se questi non possano ricavare alcunché dalla proprietà, abusivamente occupata, sia contraria a qualcosa di ancor più generale della normativa costituzionale.

Invero, e come risulta dalla narrativa della sentenza 60/2024 della Corte, il proprietario si doleva che da 7 anni fosse occupato l’immobile e, malgrado ciò e il sequestro disposto dall’autorità giudiziaria, questo non fosse stato eseguito per diversi anni. Così che lo Stato che pretendeva l’imposta, non  assicurava affatto che all’obbedienza fiscale del contribuente corrispondesse la protezione del diritto di proprietà.

Thomas Hobbes, com’è noto, vedeva nel rapporto tra protezione ed obbedienza il fondamento dell’obbligazione politica. Chiudeva il Leviathan affermando di averlo scritto “senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”. Questa è una legge di natura “Il fine dell’obbedienza è la protezione, alla quale, dovunque sia vista da un uomo, o nella propria o nell’altrui spada, la natura fa aderire l’obbedienza di lui, e il suo sforzo per mantenerla”. Senza la protezione, viene meno l’obbligo dell’obbedienza “L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che duri fino a che, ma non più di quanto dura il potere, col quale egli è capace di proteggere quelli, poiché il diritto, che gli uomini hanno da natura di proteggere se stessi, quando nessun altro possa proteggerli, non può essere abbandonato con nessun patto”. Invece nella visione legalitaria (??) della seconda Repubblica (anche) il suddito contribuente deve pagare il potere pubblico anche se questo è inadempiente a proteggerlo. Perché? Le risposte sono quelle tanto spesso ripetute “ce lo chiede l’Europa”, per il “bene comune” (ma di chi? Di tutti o di qualcuno che di quella imposta campa?) e così via.

Onde che si riconduca, a mezzo della capacità contributiva, l’obbedienza al dovere di protezione è sicuramente un passo avanti. Anche perché se vogliamo che siano realmente protetti i diritti del cittadino, occorre che la mancata protezione dello Stato sia “sanzionata” con la mancata percezione dell’imposta. Se invece si desidera che tutto rimanga uguale non c’è che da mantenere ad  un potere predatorio ed inefficiente l’impunità economica.

Teodoro Klitsche de la Grange

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DEMOCRAZIA E CONSENSO, Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIA E CONSENSO

Lo scioglimento delle camere da parte di Macron ha suscitato in Italia reazioni difformi, accomunate da un misto di machiavellismo da bar ad un legalitarismo da parrocchia (non è obbligato….) e quindi non “si capisce perché l’ha fatto”.

La realtà è che Macron non ha della democrazia la concezione astratta e strumentale condivisa dalla sinistra italiana, ma soprattutto dal PD. Secondo la quale democratico è chi condivide una certa declinazione dell’idea tra le diverse possibili; ma soprattutto che, anche se il popolo ne condivide una diversa è dovere di chi governa infischiarsene della volontà popolare e seguire quell’ “idea”, respinta dalla maggioranza.

Non è così, grazie al cielo, in Francia (e, probabilmente nella maggior parte d’Europa): lì vale la regola che, anche se il popolo sbaglia, è obbligatorio osservarne direttive (e decisioni). Il governo democratico è, anzitutto un dominio della pubblica opinione “government by public opinion”. Come scriveva Schmitt, l’opinione pubblica è la forma moderna dell’acclamazione. Anche se non si lascia racchiudere (del tutto) in procedure formalizzate, al di là dello stesso contenuto legale delle decisioni (l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo), questa devono orientare comportamenti e azione di governo.

Come scriveva Schmitt “I metodi legali possono scegliere solo un momento unico. In ogni caso, fa parte dell’essenza di una vera democrazia il fatto che il valore sintomatico delle elezioni e delle votazioni popolari venga legalmente rispettato” (il corsivo è mio). In questo contesto “Lo scioglimento, come già illustrato, deve essere considerato come una normale istituzione di questo sistema. Se esso deve avere un senso per il diritto costituzionale, deve valere proprio nel caso in cui la maggioranza parlamentare ha dato al governo un voto di fiducia. Il rapporto diretto con il popolo può essere allora ricercato contro la votazione di sfiducia della maggioranza parlamentare ed il popolo decide come terzo in più alto grado il conflitto sorto fra il governo e la rappresentanza popolare” (il corsivo è mio). Onde “Qui il potere di scioglimento è un mezzo necessario e normale di equilibrio e di appello democratico del popolo… si basi sulla chiara contrapposizione di due diverse opinioni ed il popolo approvi mediante una nuova elezione o il punto di vista del Reichstag o quello del governo del Reich e in questo modo decida il conflitto”. Per cui la ragione è chiara e conferma il principio di legittimità democratica: il popolo decide sul conflitto generato da una riduzione verticale del consenso del governo, in elezioni non-parlamentari (in quelle parlamentari il problema non si porrebbe).

Questa sensibilità verso l’orientamento dell’opinione pubblica, in particolare se confortato da dati reali non è solo di Macron. Anche un eroe nazionale come De Gaulle quando la sua proposta di riforma regionale fu sconfitta dal referendum, si ritirò a vita privata. Né ovviamente questa osservanza è solo francese.

Cosa sarebbe invece successo nella Repubblica italiana, in un caso del genere?

Sarebbe partita una colossale campagna di costruzione di un’opinione pubblica artificiale. Migliaia di talk show, milioni di likes, centinaia di intellettuali da industria culturale, concerti, feste di paese, marce e cortei a gogò. Comici a far lezione di diritto costituzionale (volontariamente); insegnanti di diritto costituzionale a fare (involontariamente) i comici. Tutti a osannare che la democrazia (di marca PD) è la migliore delle possibili, anzi è l’unica possibile; che chi sostiene il contrario è un nemico del popolo e soprattutto che, se il popolo si sbaglia è dovere degli illuminati rieducarlo. Per cui è dovere degli illuminati correggere la volontà popolare: un tempo con i gulag, oggi con metodi meno drastici.

In fondo a tale concezione c’è comunque il potenziale conflitto tra i diversi modi con cui si declina il ruolo del governo democratico: della nota triade per cui questo è il governo dal popolo, del popolo e per il popolo, le prime due espressioni vengono omesse ed offuscate, la terza ingigantita (a beneficio delle élite). Che poi i risultati di tanto zelo siano modesti o addirittura dannosi non vale a scalfire la fede nell’immaginazione di un mondo migliore, più buono, più giusto e anche più pulito.

Resta da vedere quanto possa essere forte (in senso politico) un governo che abbia un consenso modesto, e certificato come tale dall’esito delle elezioni. Credere che le classi politiche degli Stati esteri prendano sul serio un governo  carente di consenso è pensare di vivere nel paese dei balocchi: è chiaro che cercheranno di sfruttarne la debolezza a proprio beneficio, concedendo a quello il meno possibile per tenerlo in  vita quale interlocutore (per loro) ideale.

Perciò è meglio un Macron come in altri tempo, per la Francia fu Coty, che favorì la sostituzione di governi lontani dalla volontà popolare con uno che di quello era la compiuta espressione.

Iniziando un nuovo ciclo della politica e delle istituzioni francesi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia, Il Mulino, Bologna 2023, pp. 291, € 18,00.

Il saggio di Vassallo e Vignati a partire dagli albori della Repubblica analizza l’evoluzione della destra: dal MSI, passando per AN ed arrivare all’oggi, ossia a Fratelli d’Italia. Il tutto realizzato sia attraverso l’analisi di programmi, flussi elettorali, dichiarazioni dei leaders che mediante informazioni raccolte da vari esponenti.

Gli autori distinguono tre fasi, caratterizzate da diverse classi dirigenti. La prima, quella del MSI, dove la classe dirigente del partito era formato da ex appartenenti al PNF e, in particolare da reduci della RSI: cioè un insieme fortemente connotato, distinto dai partiti ciellenisti, ostracizzato e, anche per questo consolidato nella continuità con i valori del fascismo, sia del regime che della fase terminale. Nella seconda, di AN, la classe dirigente è nella totalità o quasi costituita da persone che, per motivi anagrafici – essendo quasi tutti nati dopo il 1945 – col fascismo non avevano avuto rapporti come Fini, Gasparri, La Russa, Alemanno; altri che al massimo erano stati balilla (come Matteoli e Tatarella).

Quanto a FdI “i fratelli di Giorgia erano diventati militanti del MSI all’inizio degli anni Novanta, durante la crisi della Prima Repubblica, e avevano fatto pratica della politica come professione dopo la svolta di Fiuggi in epoca bipolare. Sono loro (la terza generazione della Fiamma) a costituire l’ossatura organizzativa di FdI”. Pur nella continuità con la propria storia “oggi nel codice di condotta di FdI sono esclusi i saluti romani, i pellegrinaggi collettivi a Predappio o l’uso del termine «camerata»”. Soprattutto non c’è in vista alcun pericolo di deriva autoritaria e gli esami e le accuse di fascismo alla Meloni sono del tutto infondati “L’attribuzione a FdI di quella categoria (o di suoi derivati) si fonda sull’uso di definizioni metastoriche, soggettive e concettualmente dilatate del «fascismo»”.

Per cui, scrivono gli autori “a chi si domanda «quanto fascismo c’è oggi in FdI?» suggeriamo di distinguere tra fascisti, neofascisti, postfascisti e afascisti. La prima generazione di fondatori del MSI era formata da fascisti (da persone che avevano avuto un ruolo, piccolo o grande, nel regime, e soprattutto nella sua ultima incarnazione, la RSI) e da neofascisti”. Con la svolta di AN si “compie il passaggio dal neofascismo (via via ridotto, a partire dagli anni ottanta, a puro nostalgismo testimoniale) al postfascismo: afferma cioè la piena integrazione nel sistema democratico”. Con FdI “la generazione di Giorgia Meloni è piuttosto definibile come formata da democratici afascisti: il processo di integrazione democratico è proseguito e il fascismo ha smesso completamente di esercitare una funzione di ispirazione. È stato ormai definitivamente relegato a momento storico di un passato irripetibile, che ha poco o niente da offrire per orientare l’azione politica, che così viene percepito anche dall’elettorato a cui oggi FdI si rivolge”.

Quanto alla democrazia interna, FdI lascia (molto) a desiderare “In pratica l’intera intelaiatura organizzativa è posta nelle mani del presidente e dell’Esecutivo nazionale, dei Presidenti dei Coordinamenti regionali e provinciali”. Per cui “Il sostanziale dissolvimento delle strutture territoriali e degli organi assembleari del partito si accompagna a una direzione fortemente centralizzata nelle mani del leader”.

Per l’appartenenza ideologica, FdI è stata classificata come “destra estrema”, come populista, ma appare meglio riconducibile ad un  partito nazionale conservatore “Giorgia Meloni e i suoi Fratelli, hanno appreso che il patriottismo nazionalista e il conservatorismo, già di fatto elementi chiave del loro bagaglio ideologico, potevano diventare un appropriato/utile «marchio». L’etichetta di conservatore consente di dare un nome alla destra all’interno del campo più largo del centrodestra italiano, conferendole una identità distintiva rispetto alle altre componenti”. Oltretutto il meglio “spendibile” in Europa.

Il saggio è accurato e non partigiano: due caratteri per consigliarne la lettura.

Quello che manca, anche se in un paragrafo gli autori valutano l’incidenza della fortuna e della virtù (le “categorie” machiavelliche) nella valutazione del rapido e travolgente successo di FdI è quanto vi abbia concorso la decadenza sia della società che del sistema politico italiano. Se l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo totalmente anti-establishment (il Conte 1), le levatrici di tale successo, proseguito in quello di FdI sono la peggiore crescita economica dell’Europa, ossia quella italiana e l’incapacità della classe dirigente a garantirla (così come le altre crisi). Un buon favore della Fortuna al governo Meloni.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Dopo la condanna, Trump è di nuovo la tribuna degli outsider e altro, di American Conservative

Tre articoli tratti dall’area conservatrice contigua, ma non legata a MAGA_Giuseppe Germinario 

Dopo la condanna, Trump è di nuovo la tribuna degli outsider

È il momento della fiducia e del buon umore, se Trump spera di essere assolto dagli elettori il 5 novembre.

Donald Trump sarebbe un imputato poco simpatico anche in una sede più amichevole di un tribunale di Manhattan. Sfida l’autorità e né i giudici né le giurie lo vedono di buon occhio. Ora è stato condannato per 34 reati che riguardano un’arcana confluenza di sesso, denaro e leggi elettorali. Trump ha ovviamente pagato il silenzio di un’amante. Ma questo non è un crimine in sé; i pubblici ministeri hanno convinto la giuria che Trump ha violato la sacralità delle elezioni autorizzando questo particolare pagamento. I suoi oppositori vorrebbero mettere Trump in prigione per le sue azioni il 6 gennaio 2021, ma per ora questa serie di condanne legate al sesso dovrà bastare.

C’è dell’altro, naturalmente: Trump è sotto processo per la sua vita, data l’azione legale che sta affrontando. Trump si è presentato alla convention del Partito Libertario lo scorso fine settimana e ha detto che, se non era un libertario prima di questo processo, lo era ora. C’è una vecchia battuta tra i libertari e i conservatori di orientamento libertario che dice che ogni americano è colpevole di un crimine o di un altro, tanto è sovraccarico il nostro codice legale di norme fiscali e regolamenti aziendali e, addirittura, di minuzie relative alle campagne elettorali. “Mostrami l’uomo e ti mostrerò il crimine” è un detto attribuito a vari commissari dello Stato di polizia sovietico. Ma anche in America la legge criminalizza così tanto che un pubblico ministero intraprendente può trovare qualche motivo per condannare chiunque, anche un nemico politico.

Il motivo per cui l’apparato giudiziario non viene armato apertamente più spesso è che i leader di entrambi i partiti hanno un interesse comune a mantenere tali procedimenti al minimo. Donald Trump, tuttavia, è un nemico comune: i repubblicani dell’establishment non intendono perseguire un Biden o una Clinton fino alla massima estensione della legge solo perché un democratico se la prende con Trump. Nei modi che contano, Donald Trump è ancora un outsider e gli addetti ai lavori sono tutti ansiosi di vederlo punito. Le sue condanne sono una vendetta soddisfacente non solo per i democratici, ma anche per i molti repubblicani di vecchia data che ha umiliato.

Trump non è un rivoluzionario, tuttavia è semplicemente un individuo ribelle, che non può essere assimilato alla classe dirigente perché è troppo orientato e autodiretto. È un traditore di classe, o meglio un beffardo. Ma è anche il tribuno degli americani che rifiutano la classe dirigente bipartisan della nazione per ragioni politiche più profonde. Umiliare Trump, magari ostacolando la sua campagna elettorale o addirittura condannandolo a morire in prigione, non risolve il problema che i suoi potenti nemici devono affrontare. Anzi, un’azione legale di successo non fa che peggiorare il loro problema, perché il loro problema è che gran parte dell’opinione pubblica americana non vede più la classe dirigente e le istituzioni che essa controlla con rispetto e deferenza. Vedere la legge usata per colpire Trump non fa che confermare l’impressione dei suoi sostenitori che l’intero sistema sia marcio. E se può essere usata contro Trump in questo modo, può sicuramente essere usata contro chiunque di loro, qualsiasi uomo d’affari, qualsiasi cristiano, qualsiasi critico del potere.

Per il segmento più impegnato della base di Trump, le sue condanne penali non fanno altro che confermare ciò che hanno sempre creduto, ovvero che Trump si è imbarcato in un lavoro pericoloso per loro conto e che prima o poi l’impero contrattaccherà. I sostenitori di Trump sono troppi e troppo forti perché il Partito Repubblicano possa scrollarseli di dosso, quindi la campagna di Trump per la Casa Bianca andrà avanti e molti repubblicani di Trump saranno ancora più eccitati. Non è certo che gli avversari di Trump saranno altrettanto eccitati. Per il democratico medio, Trump era già colpevole di ogni capo d’accusa prima di essere condannato, anzi, prima ancora di essere accusato. Il verdetto della giuria di Manhattan non cambia molto sul versante democratico del braccio di ferro politico.

Ci sono in generale due tipi di americani che non sono già impegnati né con Trump né con i suoi avversari. Ci sono quelli che non vogliono sfidare la classe dirigente, ma che pensano che il Paese debba avere un leader migliore di Joe Biden. Questi elettori avrebbero potuto vincere per Trump prima delle sue convinzioni, ma ora lo troveranno una figura più pericolosa e poco attraente.

Dall’altra parte, però, ci sono quegli americani che non sono repubblicani, conservatori, populisti o fan di Trump, ma che comunque ritengono che il sistema di leadership e il sistema giudiziario di questa nazione siano rotti. Alcuni di questi elettori possono non avere affinità con la politica di Trump, ma possono forse identificarsi con la sua situazione e la sua lotta. Trump è ora una versione più radicale di ciò che era in precedenza: un simbolo di resistenza-rifiuto della politica convenzionale personificato. (Ancora una volta, si tratta di simbolismo. In pratica, le politiche di Trump si sono spesso allontanate in modo tutt’altro che drammatico, nel bene e nel male, dalla prassi di Washington).

Una classe dirigente che vuole rimanere al potere non può essere fragile, non può farsi vedere in preda al panico e reagire in modo eccessivo. Ma è quello che è successo in questo caso. Le armi che la legge mette nelle mani dei procuratori non sono così impressionanti da porre fine alla sfida di Trump, e ancor meno da far ammutolire i suoi sostenitori. L’azione legale contro Trump, anche quando ha successo, non è risolutiva e non può sedare la ribellione. Tutto ciò che può fare è provocare un’escalation: Trump continuerà a sparlare di giudici e pubblici ministeri e i suoi sostenitori vedranno nella sua persecuzione una minaccia per la Repubblica stessa, che deve essere affrontata con misure istituzionali forti: la legge contro la legge o lo sradicamento dello Stato amministrativo e dell’apparato giuridico armato.

La posta in gioco per le elezioni di novembre è stata alzata dal successo dell’accusa di Alvin Bragg, ma anche se Joe Biden dovesse vincere, nulla tornerà alla normalità. La questione se un repubblicano possa ottenere un processo equo in una città democratica quando viene accusato di reati politicizzati persisterà, così come la questione più ampia se il governo stesso, così come si è sviluppato sia sotto i democratici che sotto i repubblicani, sia equo, imparziale e anche minimamente giusto.

I successi di Trump, ma anche le sue più grandi battute d’arresto, possono essere attribuiti alla sua personalità fondamentalmente sfiduciata, e reagendo in modo eccessivo o sbagliato potrebbe fare a se stesso ciò che i suoi nemici non possono fare a lui. Se a seguito delle condanne appare più petulante e ossessionato da se stesso, se appare scosso e più debole, la sua campagna vacillerà. I suoi nemici contano sul fatto che si innervosisca.

È il momento della fiducia e del buon umore, se Trump spera di essere assolto dagli elettori il 5 novembre. Se si presenterà al grande pubblico come antipatico, come ha fatto con i giurati di Manhattan, non solo perderà le elezioni, ma anche la libertà e l’eredità. Ma qualunque sia il destino di Trump, il conflitto tra gli outsider che hanno trovato in lui uno sbocco e gli insider che si affidano alle azioni legali come sostituto della legittimità continuerà.

Il complesso industriale non profit e la corruzione della città americana di Jonathan Ireland

Una indagine che potrebbe benissimo essere estesa all’Europa e all’Italia, in un paese, il nostro, nel quale l’associazionismo, spesso collaterale ai partiti e alla chiesa assume un ruolo particolarmente rilevante che nel corso degli anni ha assunto progressivamente forza propria e costruito strutture burocratiche particolarmente influenti che si autoalimentano. Il sito ha trattato diffusamente del tema dell’affidamento dei bambini alle case-famiglia e del modo distorto e, spesso, aberrante con il quale viene gestito grazie anche alle connivenze e cointeressenze con il mondo politico. Ma è solo una punta dell’iceberg. Non è solo un problema di intrecci di interessi, di parassitismo, di organizzazione di consenso politico; riguarda anche il tema sempre più scottante della patologizzazione dei comportamenti e delle politiche di controllo degli individui, emersi con ogni evidenza, con la gestione della pandemia da covid, delle quali la componente progressista, ormai ben combinata con gran parte di quella cattolica, dello schieramento politico è la più accesa sostenitrice. Temi che rientrano a pieno titolo in quello più ampio della costruzione e della difesa del welfare, dello stato sociale, bandiera e spesso alibi che ha determinato le fortune e la degenerazione e consolidamento di forze politiche e strutture di potere tutt’altro che impegnate in processi di emancipazione. Giuseppe Germinario

Il complesso industriale non profit e la corruzione della città americana

Latto di dare un nome è sempre una forma di propaganda. Quando si dà un nome a qualcosa, non si sta mai descrivendo perfettamente ciò che è, ma si sta invece influenzando il modo in cui viene percepito.

Gli esperti di marketing lo sanno meglio di chiunque altro. Prima del 1977, il branzino cileno non esisteva; il pesce era invece chiamato austromerluzzo della Patagonia. Il branzino cileno non è affatto un tipo di branzino e la maggior parte di essi non proviene dal Cile. Si trattava di una pura invenzione di marketing: un imprenditore di nome Lee Lantz intuì che il mercato americano avrebbe potuto apprezzare il sapore dell’austromerluzzo della Patagonia, ma non lo avrebbe mai acquistato con il suo nome. Per prima cosa scelse di chiamarlo falsamente “spigola”, perché gli americani si sentivano a proprio agio con quel tipo di pesce. Scartò quindi i nomi “branzino del Pacifico” e “branzino del Sud America”, perché troppo generici, e alla fine scelse “branzino del Cile” come alternativa più esotica.

Il nome di uno dei pesci più popolari al mondo non ha quindi nulla a che vedere con la sua vera natura. Un tipo di merluzzo che viene allevato principalmente vicino all’Antartide è diventato il branzino cileno come compromesso di Goldilocks. La familiarità del branzino è stata coniugata con l’esotismo percepito del Cile, in modo che un imprenditore americano potesse vendere un pesce di cui nessuno aveva mai sentito parlare ai ristoranti di alto livello degli Stati Uniti. Questo stratagemma ha funzionato così bene che oggi nessuno ha mai sentito parlare dell’austromerluzzo della Patagonia, mentre il branzino cileno ha una posizione sicura e irrinunciabile nei menu dei ristoranti da un mare all’altro.

Il suo nome è propaganda, ma a nessuno importa. Una bugia che fa soldi sarà sempre preferibile a una verità che non ne fa. Una volta capito che ogni nome è propaganda, diventa subito evidente quanta cattiva condotta, avidità e corruzione si possano nascondere dietro un nome innocuamente insincero, soprattutto un nome che riesce a evocare emozioni positive nel pubblico in generale.

Considerate la parola “nonprofit”. Chiunque abbia avuto l’idea di chiamare queste organizzazioni “nonprofit” è stato un genio del marketing al livello di Steve Jobs. Quando si sente la parola “nonprofit”, si presume che un’organizzazione lavori per il bene pubblico; che serva i senzatetto, che protegga i deboli, che esista per il bene e il miglioramento della società in generale. Sentire che qualcosa è “non profit” dà immediatamente l’idea che l’organizzazione sia affidabile e che le persone che la gestiscono siano guidate da un programma caritatevole. È una parola che spegne le facoltà critiche e conferisce una statura morale istantanea a qualsiasi organizzazione a cui viene applicata. Di conseguenza, le organizzazioni non profit ricevono un beneficio del dubbio che non sarebbe concesso a nessun’altra forma di società privata.

Eppure le organizzazioni non profit sono spesso l’esatto contrario di ciò che sembrano. Come conseguenza del beneficio del dubbio concesso alle organizzazioni non profit, raramente c’è una supervisione sufficiente a garantire che esse facciano ciò per cui vengono pagate. In alcune città, ogni anno viene versato alle organizzazioni non profit un miliardo di dollari di fondi pubblici, con garanzie palesemente insufficienti a garantire che il denaro venga utilizzato in modo da servire l’interesse pubblico.

Questo denaro viene poi speso in modi che sconvolgerebbero i contribuenti ai quali vengono di fatto sottratti i soldi guadagnati con fatica. Le organizzazioni non profit che si autoproclamano fornitori di servizi per i senzatetto fanno attivamente pressioni per peggiorare la situazione dei senzatetto al fine di aumentare i propri finanziamenti; le organizzazioni non profit assumono criminali condannati – tra cui assassini, capi di bande, molestatori sessuali e stupratori – che continuano a commettere altri reati mentre ricevono centinaia di migliaia di dollari in contratti governativi; e i dirigenti delle organizzazioni non profit, le stesse persone a capo di istituzioni il cui scopo dichiarato è quello di non fare soldi, guadagnano milioni di dollari mentre falliscono catastroficamente nel fornire i servizi pubblici per i quali li paghiamo.

E mentre tutto questo accade, le organizzazioni non profit in questione ricevono agevolazioni fiscali dal fisco, assicurando che le organizzazioni incompetenti che peggiorano la crisi dei senzatetto della vostra città esercitino la loro influenza corruttrice fino alle sale del potere a Washington.

Soldi in cambio di niente

A San Francisco esiste una famigerata organizzazione non profit chiamata Tenants and Owners Development Corporation, in breve todco. La Tenants and Owners Development Corporation, nonostante contenga la parola “sviluppo” nel suo nome, non ha sviluppato una sola proprietà in circa vent’anni. Inoltre, la todco non spende i suoi soldi per aiutare gli attuali inquilini. Il San Francisco Standard ha scoperto che la spesa della todcoper i servizi ai residenti è diminuita dal 62% delle entrate nel 2012 a solo il 45% otto anni dopo. Lo Standard ha intervistato gli inquilini di uno dei palazzi della todcoed è stato sommerso da lamentele su alloggi in decadenza e infestazioni di roditori. Una donna ha raccontato senza mezzi termini che c’erano topi nei muri e che i reclami alla direzione non erano serviti a nulla; l’acqua del rubinetto aveva un sapore sgradevole e a volte trovava scarafaggi nel cibo. Un uomo si sentì mordere sul collo e in un primo momento pensò di essere stato morso da una delle moltitudini di parassiti che strisciavano attraverso le lampade dell’edificio; in realtà, gli avevano accidentalmente sparato e il foro del proiettile era ancora visibile nel muro quando i giornalisti lo intervistarono alcuni mesi dopo il fatto.

Si è scoperto che invece di spendere soldi per lo sviluppo degli alloggi e per il sostegno agli inquilini, la todco ha aumentato gli stipendi dei dirigenti e ha incanalato milioni di euro nelle attività di lobbying. Mentre la spesa della todcoper gli inquilini è diminuita di 17 punti percentuali, le retribuzioni dei dirigenti sono quadruplicate. Nel frattempo, il presidente della todco, John Elberling, ha lanciato lo Yerba Buena Neighborhood Consortium, un’organizzazione di lobbying politico. Tra il 2012 e il 2020, le attività di lobbying diretto della todcopresso gli organi legislativi sono aumentate di 95 volte, passando da 5.000 a 470.000 dollari. Lo Yerba Buena Neighborhood Consortium ha speso altri 1,35 milioni di dollari per i referendum elettorali tra il 2016 e il 2021 e, all’interno del piccolo stagno della politica municipale, una tale quantità di denaro, se impiegata in modo strategico, può acquistare una quantità sconvolgente di influenza.

È qui che la storia si fa strana. Sebbene lo status di no-profit della todcosia basato sull’aiutare i poveri a permettersi un alloggio, la todco esercita incessanti pressioni per impedire la costruzione di unità abitative a prezzi accessibili in alcuni dei quartieri più costosi di San Francisco. Nel 2018, la todco ha fatto causa per impedire la costruzione di un edificio a uso misto con la motivazione che avrebbe gettato “nuove ombre” su un giardino comunitario; la todco ha poi accettato di ritirare la causa dopo che il costruttore dell’edificio ha pagato 98.000 dollari, sollevando il dubbio che la todco stesse semplicemente usando il bizantino processo di autorizzazione di San Francisco per estorcere una tangente a un altro costruttore. In un altro caso, la todco ha esercitato pressioni per bloccare un progetto di edilizia residenziale di 495 unità che avrebbe incluso oltre cento unità a prezzi accessibili. In altre parole, un’organizzazione non profit che si occupa di alloggi a prezzi accessibili ha ripetutamente citato in giudizio altri costruttori per impedire la costruzione delle stesse unità a prezzi accessibili che si suppone stia lavorando per fornire.

E poi, nel luglio del 2020, si verificò il più strano dei fiaschi della todco. Quell’anno, la todco ha impedito la costruzione di oltre mille nuovi appartamenti, tra cui 350 unità a prezzi accessibili, per poter condurre uno “studio di equità razziale”, che poi non si è mai preoccupata di condurre. Il supervisore di San Francisco Dean Preston, un alleato politico della todco , convinse la commissione per l’uso del territorio a rimandare la costruzione di sei mesi, durante i quali la todco avrebbe dovuto analizzare l’impatto dello sviluppo sui residenti di minoranza del quartiere.

Nell’agosto del 2022, la todco non aveva nemmeno iniziato lo studio che avrebbe dovuto essere completato diciotto mesi prima. Alla domanda dei giornalisti del San Francisco Chronicle sul perché lo studio non fosse mai stato fatto, il presidente della todcoha risposto che la Covid aveva interferito con i loro piani e che un gruppo di consulenza a cui si erano affidati aveva abbandonato il progetto. Entrambe le scuse sono molto dubbie. Quando la todco ha fatto pressioni per ritardare la costruzione degli alloggi in modo da poter condurre il suo mitico studio, il Covid era già in giro per gli Stati Uniti da sei mesi, il che significa che la todco non è stata colta alla sprovvista dal Covid e non può usarlo come scusa per il fallimento. Inoltre, l’abbandono di un gruppo di consulenza non dovrebbe ritardare indefinitamente uno studio quando l’organizzazione che lo gestisce ha un fatturato annuo di milioni di dollari, un patrimonio totale di decine di milioni di dollari e una miriade di conoscenze politiche. Se la Todco avesse voluto condurre lo studio, avrebbe potuto farlo, ma non ha mostrato alcun senso di urgenza, nonostante il fatto che la mancata realizzazione dello studio promesso abbia impedito indefinitamente l’esistenza di 350 unità abitative a prezzi accessibili.

La Todco è una società senza scopo di lucro il cui mandato è quello di fornire alloggi a prezzi accessibili. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, la Todco non ha prodotto ulteriori unità abitative a prezzi accessibili, ha lasciato che le unità abitative che già possiede andassero in rovina e ha speso milioni di dollari per impedire ad altri costruttori di costruire migliaia di appartamenti e centinaia di unità abitative a prezzi accessibili. Paradossalmente, un’organizzazione non profit che ha lo scopo di fornire alloggi a prezzi accessibili sta spendendo i soldi dei contribuenti per impedire la costruzione di alloggi a prezzi accessibili; un’organizzazione che esiste con l’esplicito mandato di contribuire ad alleviare la crisi abitativa di San Francisco sta invece lavorando instancabilmente per peggiorare tale crisi. Come si può spiegare tutto questo?

Per comprendere il comportamento di Todco, è necessario conoscere il modello di business delle organizzazioni non profit che si occupano di alloggi a prezzi accessibili. Una ONG che si occupa di alloggi a prezzi accessibili guadagna di più quando gli affitti aumentano nella zona in cui si trovano i suoi edifici. I sussidi governativi compensano la differenza tra quanto pagano gli inquilini della ONG e quanto potrebbero pagare se l’edificio applicasse loro la tariffa di mercato. Ciò significa che una ONG, nonostante il suo nome, ha lo stesso incentivo al profitto di qualsiasi altro proprietario, in quanto la mancanza di costruzione di alloggi aumenta i suoi margini di profitto facendo salire gli affitti. L’unica differenza è che una nonprofit beneficia di affitti elevati attraverso sussidi governativi, invece di farli pagare direttamente ai suoi inquilini.

E questo è un evidente conflitto di interessi. I fornitori di alloggi senza scopo di lucro traggono vantaggio finanziario se vengono costruiti meno alloggi, perché gli affitti elevati aumentano i loro sussidi. Le organizzazioni non profit che si occupano di alloggi a prezzi accessibili sono quindi incentivate a lavorare contro l’accessibilità degli alloggi se vogliono aumentare il compenso dei loro dirigenti. Tutto ciò che la Todco sta facendo è una conseguenza naturale del complesso industriale del non profit. I sussidi dellaTodcoaumentano di pari passo con gli affitti; la todco poi incanala il denaro che riceve dal governo per fare pressione sugli stessi politici responsabili del suo finanziamento; questi politici impediscono la costruzione di alloggi per conto della todco, assicurando così che gli affitti rimangano alti e che la todco rastrelli altri milioni di dollari in sussidi governativi; i dirigenti della todcoricevono enormi aumenti dei compensi personali e comprano case milionarie in periferia. È uno schema di tangenti così ingegnoso che farebbe invidia ad Al Capone.

Questa propensione delle organizzazioni non profit a privilegiare le proprie finanze rispetto ai bisogni dei poveri non è un’esclusiva di San Francisco. L’anno scorso, a Seattle, un’iniziativa per la creazione di un’impresa pubblica di edilizia sociale è stata osteggiata dall’Housing Development Consortium, un’organizzazione di lobbisti che si occupa di alloggi a prezzi accessibili. Il resoconto del Seattle Times su questa iniziativa è rivelatore:

L’Housing Development Consortium, un gruppo di pressione i cui membri includono i principali costruttori di alloggi a basso reddito della contea di King, istituzioni finanziarie e agenzie governative di sviluppo, non vuole competere con una nuova organizzazione per i finanziamenti.

L’Housing Development Consortium sostiene che Seattle dovrebbe concentrare le proprie risorse sul sistema esistente … che prevede una collaborazione tra la Seattle Housing Authority, in gran parte finanziata a livello federale, le agenzie di sviluppo pubblico locali e altre organizzazioni non profit [enfasi aggiunta].

In altre parole, un’organizzazione di lobbying per le organizzazioni non profit che si occupano di alloggi a prezzi accessibili si è schierata contro un’iniziativa di edilizia sociale perché avrebbe sottratto fondi ai suoi membri. Molte delle persone coinvolte in queste organizzazioni non profit che si occupano di alloggi a prezzi accessibili si definirebbero socialiste, eppure si sono schierate contro una forma più socialista di sviluppo dell’edilizia pubblica e a favore del sistema privatizzato, complesso e inefficiente che, guarda caso, va a loro vantaggio finanziario.

Nel caso in cui l’America cercasse di aumentare drasticamente la quantità di alloggi pubblici, una politica sostenuta da molti progressisti, è probabile che alcuni dei più accaniti oppositori sarebbero i proprietari di case non profit, che sarebbero indignati dalla prospettiva di una concorrenza diretta da parte degli alloggi di proprietà del governo. Questo è un comportamento normale per un’organizzazione privata che si affida al governo come fonte primaria di entrate, ma è direttamente contrario a ciò che il termine “non profit” sembrerebbe implicare. Nonostante il nome affidabile, le organizzazioni non profit non sono , né sono mai state , gli agenti incorrotti del bene pubblico che i loro difensori vorrebbero farci credere.

Crime Inc.

Ad aggravare i profondi conflitti di interesse creati dall’esternalizzazione dei servizi governativi a organizzazioni private non profit è la quasi totale mancanza di supervisione di queste organizzazioni non profit, in particolare per quanto riguarda il modo in cui vengono spesi i loro soldi e chi assumono per fornire i loro servizi. Capita regolarmente che il denaro dato alle organizzazioni non profit venga indirizzato in modo rovinosamente contrario all’interesse pubblico. In casi particolarmente gravi, il denaro dato alle organizzazioni non profit finisce nelle tasche di persone che non sarebbero mai state assunte da un’agenzia governativa a causa di una mancanza di competenza o di una storia criminale squalificante.

Per esempio, San Francisco ha dato decine di milioni di dollari a un’organizzazione non profit chiamata United Council of Human Services nel corso di due decenni; il suo amministratore delegato ha continuato a spendere grandi somme di denaro in modo totalmente illegale, comprando almeno cinque veicoli per sé e per i membri della sua famiglia e andando in giro con un bagagliaio pieno di gioielli costosi. Ha anche permesso a venti suoi amici, familiari e dipendenti di occupare appartamenti sovvenzionati dal governo che dovevano essere utilizzati come alloggi per i cittadini di San Francisco a basso reddito.

Quando si tratta di grosse somme di denaro c’è sempre un certo livello di malaffare, ma ciò che rende imperdonabile la criminalità dello United Council è che Gwendolyn Westbrook, l’amministratrice delegata che ha rubato i soldi dei contribuenti e li ha spesi per se stessa, si è dichiarata colpevole nel 1997 di aver rubato migliaia di dollari in incassi di parcheggi mentre lavorava per il Porto di San Francisco. Una no-profit gestita da una donna con una comprovata storia di furti alle agenzie governative ha ricevuto decine di milioni di dollari per fornire servizi abitativi a prezzi accessibili, e la classe politica di San Francisco si è in qualche modo sorpresa quando, fedele ai suoi precedenti, ha rubato anche quei soldi.

Dopo la caduta in disgrazia di Westbrook, un’inchiesta del San Francisco Standard ha scoperto che la città aveva versato decine di milioni di dollari a organizzazioni non profit che non erano ammissibili ai finanziamenti pubblici: 25 milioni di dollari sono andati a enti di beneficenza morosi o sospesi e altri 65 milioni di dollari sono andati a organizzazioni non profit che sono state successivamente dichiarate non ammissibili. Al momento dell’indagine dello Standard, San Francisco aveva altri 300 milioni di dollari di obblighi contrattuali futuri verso ONG che non era legalmente autorizzata a finanziare.

Sebbene San Francisco sia una delle città peggiori quando si tratta di organizzazioni non profit che si comportano male, questi stessi problemi esistono in ogni città che fa un uso eccessivo del settore non profit. Seattle, in particolare, ha una tendenza piuttosto preoccupante a dare somme esorbitanti di denaro dei contribuenti a criminali condannati, compresi i criminali violenti e i criminali sessuali registrati. Nel 2001, un uomo di nome Khalid Adams è stato condannato per furto di primo grado in un incidente in cui avrebbe palpeggiato la vittima urlando insulti razziali; due anni dopo Adams è stato nuovamente condannato, questa volta per rapina di primo grado e possesso illegale di un’arma da fuoco. La terza condanna , ma non definitiva, è arrivata nel 2021, quando Adams si è dichiarato colpevole di possesso illegale di un’arma da fuoco da parte di un criminale già condannato.

Tuttavia, solo un anno dopo la terza condanna, Adams è stato assunto come “interrutore di violenza” da un’organizzazione no-profit dell’area di Seattle, finanziata dal governo, chiamata Community Passageways. Nel novembre del 2022, mentre riceveva uno stipendio dai contribuenti della contea di King per prevenire la violenza con armi da fuoco, Adams si è introdotto nell’appartamento della sua ex fidanzata, ha tenuto sotto tiro il suo nuovo ragazzo ed è stato poi ucciso dal cugino diciottenne della ex. Ad aggiungere un elemento surreale a questa storia già incredibile, Savior Wheeler, il giovane cugino che ha sparato a Khalid Adams, era un cliente di Community Passageways, uno degli stessi giovani a rischio che Adams avrebbe dovuto tenere lontano dalla violenza delle armi. Un’organizzazione no-profit di Seattle ha quindi assunto un tre volte condannato, appena uscito di prigione, per lavorare come mentore di giovani a rischio, e in seguito è stato ucciso proprio da uno di questi giovani a rischio mentre minacciava un’ex fidanzata con una pistola.

È un caso sorprendentemente comune a Seattle. Nel 2022, la città ha dato 260.000 dollari a un criminale sessuale registrato che operava sotto falso nome e credenziali per fare da mentore a giovani a rischio. Nel 2020, ha concesso un contratto da 3 milioni di dollari senza gara d’appalto – una delle più grandi sovvenzioni nella storia della città – a un’organizzazione non profit chiamata Freedom Project per condurre uno “studio sull’equità razziale”. All’epoca il direttore esecutivo di Freedom Project era David Heppard, che da adolescente era stato condannato per aver partecipato allo stupro di gruppo di una diciassettenne incinta. Il direttore finanziario del Freedom Project, Quddafi Howelluna volta ha sparato alla casa di un uomo come tattica intimidatoria per evitare che facesse la spia sul traffico di droga di Howell.

Che ci crediate o no, i 3 milioni di dollari che Seattle ha consegnato a un gruppo di criminali condannati sono stati in qualche modo gestiti male. Un blog politico locale chiamato Seattle City Council Insight ha esaminato le carte di questo contratto e ha scoperto che centinaia di migliaia di dollari sono stati distribuiti a subappaltatori per un lavoro minimo e che il responsabile del progetto è stato pagato 300 dollari all’ora, pur dichiarando pubblicamente di essere un volontario.

In un altro caso, un’organizzazione non profit per i senzatetto chiamata Share (Seattle Housing and Resource Effort) ha scoperto di impiegare un contabile senza licenza mentre gestiva milioni di dollari in fondi governativi. Share ha dichiarato di essere la vittima di questo caso, in quanto è stata inconsapevolmente frodata da un uomo che si presentava come un contabile legittimo. È giusto così. Share, tuttavia, avrebbe potuto accorgersi che il suo commercialista era privo di licenza se non fosse stato per il fatto che il tesoriere di Share, l’uomo presumibilmente responsabile della gestione di tutto il denaro, era Lantz Rowlandun senzatetto non qualificato che viveva in una tenda. Nel 2016 questa organizzazione non profit ha avuto un fatturato annuo totale di circa un milione di dollari, che comprendeva sovvenzioni dalla Contea di King e dalla città di Seattle, e le persone responsabili della gestione di quel denaro erano un contabile illegale e un sessantenne senzatetto che viveva in una tenda senza alcuna qualifica.

Lasciando per un attimo la West Coast, nella Città del Vento si riscontrano esiti simili derivanti dall’uso eccessivo delle organizzazioni non profit. A Chicago, un’organizzazione non profit antiviolenza chiamata CeaseFire ha fatto arrestare per reati gravi un numero impressionante di suoi “interruttori della violenza” sin dalla sua nascita. La cosa non dovrebbe sorprendere nessuno, visto che questi “interruttori della violenza” sono quasi tutti pregiudicati. Tra i lavoratori di Ceasefire condannati per reati commessi mentre erano impiegati dall’organizzazione ci sono un cinquantunenne arrestato per possesso illegale di armi da fuoco, che secondo le autorità lavorava in nero come capo di una gang nazionale; un pregiudicato sorpreso nudo sotto il letto con 50.000 dollari, un’arma da fuoco illegale, crack, cocaina ed eroina; e una donna che è stata assunta nonostante quattro precedenti condanne per reati e che in seguito ha rubato diamanti per un valore di 10.000 dollari.

Chicago ha anche un programma di “Peacekeepers”, finanziato dallo Stato, in cui “organizzazioni basate sulla comunità” impiegano ex detenuti come interruttori di violenza nei momenti in cui si prevede che la tensione sia alta. Lo scorso Memorial Day, un “Peacekeeper” di nome Oscar Montes ha aggredito un automobilista mentre era in servizio, causandogli danni potenzialmente permanenti agli occhi. Montes è stato assunto dal programma Peacekeepers solo un anno dopo aver scontato una condanna a dieci anni di carcere per aver sparato a un membro di una gang rivale.

Ciò che salta subito all’occhio negli esempi sopra citati è che nessuna di queste persone potrebbe percepire uno stipendio governativo , a meno che non venga riciclato attraverso un’organizzazione no-profit. Un dipartimento di polizia non potrebbe mai assumere un criminale condannato con legami di lunga data con le gang di strada, ma un’organizzazione non profit privata ha standard più blandi per quanto riguarda chi può accedere ai fondi pubblici. Questo non solo sperpera denaro per persone che non sono in grado di svolgere i ruoli loro assegnati, ma rappresenta una minaccia attiva alla sicurezza pubblica nei casi in cui lo Stato utilizza organizzazioni non profit con personale condannato per compiti che dovrebbero essere riservati alla polizia.

Il ciclo progressivo di Doom

All’inizio di questo articolo ho detto che “l’atto di dare un nome è una forma di propaganda”, un aforisma che si applica alle organizzazioni non profit perché il nome che è stato dato loro è uno strumento di marketing, piuttosto che una rappresentazione oggettiva della loro condotta e del loro comportamento. È importante riconoscere, tuttavia, che le organizzazioni non profit non sono l’unico gruppo rilevante per questa storia a cui è stato dato un nome impreciso come manovra di marketing. L’ideologia politica che sostiene il complesso industriale del non profit viene generalmente definita “progressismo”, che richiama il movimento progressista di orientamento socialista dei primi del Novecento. Nonostante il nome comune, però, il “progressismo” di oggi non ha nulla in comune con i movimenti progressisti del secolo scorso, non è socialista in senso proprio ed è, semmai, un movimento libertario estremista che distrugge la capacità del governo di funzionare, piuttosto che usare il potere dello Stato per il miglioramento dei poveri.

Quando si inizia a scavare nelle prove, si scopre che i luoghi in cui i “progressisti” esercitano il maggior potere sono alcuni dei governi meno socialisti del Paese. Nel 2022, San Francisco ha speso 5,8 miliardi di dollari in contratti privati, oltre il 40% di tutta la spesa del governo cittadino, mentre l’intero bilancio di Houston, una città 2,5 volte più grande, era di soli 5,7 miliardi di dollari. Si tratta di una strana forma di socialismo che gestisce più di due quinti del governo attraverso appaltatori privati, invece di utilizzare sviluppatori di proprietà pubblica e case popolari.

Portland, nell’Oregon, soffre da diversi anni di una grave crisi della spazzatura, dovuta sia all’aumento della popolazione di senzatetto che al rifiuto del governo di far rispettare le leggi antidumping. La risposta di Portland ai cumuli di immondizia che stanno devastando una città un tempo bellissima non è stata quella di aumentare drasticamente la capacità del governo di raccogliere e trattare i rifiuti; al contrario, Portland, in collaborazione con lo Stato dell’Oregon, ha pagato milioni di dollari a organizzazioni non profit per affrontare il problema della spazzatura.

Con l’esternalizzazione della raccolta dei rifiuti da parte di Portland a organizzazioni private senza scopo di lucro, la capacità del governo di raccogliere i rifiuti è stata sminuita dai tagli al bilancio e dalla mancanza di risorse. Secondo l’attivista locale Frank Moscow, Portland era solita spazzare tutte le strade, ma attualmente ha solo una spazzatrice funzionante in tutta la città. Non che abbia molta importanza, visto che l’Ufficio dei trasporti di Portland ha sospeso tutte le attività di spazzamento delle strade lo scorso giugno dopo un’altra serie di tagli al bilancio.

Ad aggravare la miseria di Portland, che è sommersa dai rifiuti, c’è l’incapacità della città di impedire a chiunque di gettare la propria spazzatura dove non è legalmente consentito farlo. Nel 2016, la città ha emesso trentuno citazioni per scarico illegale; nel 2021, ha emesso un totale di una citazione, per un misero importo di 154 dollari. Un articolo d’opinione pubblicato sull’Oregonian nel 2022 affermava con sicurezza che “si possono scaricare 10 grandi sacchi di spazzatura a Pioneer Square stasera e andarsene senza paura di essere scoperti o sanzionati”, prima di continuare a lamentarsi del fatto che Portland raccoglie la spazzatura dalle unità residenziali ogni due settimane, invece di offrire il ritiro settimanale della spazzatura come quasi tutte le altre città di dimensioni comparabili.

Questo è lo stato delle cose in quasi tutte le città in cui i “progressisti” hanno un grande impatto sulla politica locale. I progressisti sostengono di appoggiare i programmi di spesa del governo, ma hanno anche un atteggiamento anarchico e antigovernativo che può essere visto nel loro sostegno a politiche come l’abolizione della polizia nel 2020. Sebbene i progressisti vogliano che il governo finanzi i programmi pubblici, la loro opposizione al potere statale centralizzato significa che spesso non vogliono che il governo gestisca i programmi finanziati.

Le città controllate dai progressisti tendono quindi a sottofinanziare le agenzie governative di base a favore di “organizzazioni basate sulla comunità”, intendendo con questo termine le ONG e le organizzazioni non profit. Quando il governo non è più in grado di far fronte alle proprie responsabilità, le città progressiste esternalizzano i servizi alle organizzazioni non profit, privatizzando di fatto il governo.

Si verifica quindi un problema serio. L’utilizzo di diverse organizzazioni non profit al posto di un’unica agenzia governativa è intrinsecamente inefficiente a causa della debolezza della supervisione e dell’incapacità di trarre vantaggio dalle economie di scala. Ecco perché le città della costa occidentale spendono così tanto per i senzatetto, senza alcun risultato. La spesa di San Francisco per i servizi ai senzatetto è passata da 200 milioni di dollari nel 2016 all’astronomica cifra di 1,1 miliardi di dollari nel 2021. Nonostante questo incredibile investimento, nel 2022 ci saranno in media mille senzatetto in più rispetto al 2015. A onor del vero, tra il 2019 e il 2022 si è registrato un calo della popolazione di senzatetto della città, che ha portato il vicedirettore del San Francisco Department of Homelessness and Supportive Housing a dichiarare che “gli investimenti funzionano”. Tuttavia, la popolazione di San Francisco è diminuita di settantamila residenti tra il 2019 e il 2022, il che significa che la minuscola riduzione dei senzatetto è stata probabilmente un mero sottoprodotto della massiccia perdita di popolazione.

Né sono estranei i problemi che città come San Francisco, Portland e Seattle hanno con il calo demografico. Finanziando organizzazioni non profit inefficienti invece di iniziative governative più centralizzate e responsabili, le città progressiste hanno tasse elevate ma servizi scadenti; i residenti non ricevono nulla in cambio delle tasse che pagano. Portland ha una delle imposte comunali sul reddito più alte del Paesema è quarantottesima tra le cinquanta città più grandi per quanto riguarda il personale di polizia, ha cumuli di rifiuti incancreniti e non raccolti che disseminano le sue strade e ha solo duemila posti letto per un numero di senzatetto pari a 6.300, il che impone a quattromila portlandesi senzatetto di dormire all’aperto anche se ognuno di loro volesse un letto.

Contrariamente all’assunto conservatore secondo cui le tasse elevate sono un male intrinseco, spesso le persone sono d’accordo con tasse più alte, a patto che queste vengano utilizzate per migliorare gli standard di vita locali. Ciò che accade nelle aree urbane americane più performativamente socialiste è che le tasse vengono costantemente aumentate per finanziare i servizi pubblici, con il risultato di avere alcune delle popolazioni più tassate del Paese. Ma questo gettito fiscale viene poi sperperato in appalti privati a organizzazioni non profit non rendicontabili, le cui attività fanno ben poco per risolvere i problemi per i quali vengono nominalmente finanziate.

Le tasse aumentano di pari passo con il crollo del tenore di vita locale e il decadimento dei servizi pubblici. I parchi pubblici dove un tempo giocavano i bambini si riempiono di senzatetto tossicodipendenti che lasciano aghi usati vicino alle palestre; una bambina di sei anni in California ha scambiato una siringa per un termometro e se l’è messa in bocca, e un undicenne ha calpestato un ago mentre nuotava a Santa Cruz. Le strade diventano sempre più insalubri a causa dell’aumento vertiginoso dei senzatetto, reintroducendo malattie un tempo considerate debellate dalla vita civile. A Los Angeles nel 2022 ci sono stati tre decessi per tifo trasmesso dalle pulci, i primi in tre decenni; un reverendo che lavora a Skid Row ha perso entrambe le gambe a causa di un’infezione contratta semplicemente camminando per le strade del quartiere; e la Old Town di Portland è stata recentemente colpita da un’epidemia di Shigella, una malattia diffusa soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che si diffonde attraverso la materia fecale.

L’incapacità delle organizzazioni non profit di gestire correttamente i servizi si traduce in tasse europee per capacità statali da terzo mondo. I residenti non sanno quale sia il problema: non sanno che le loro tasse vanno agli “interruttori di violenza” che sono criminali condannati; non sanno che le organizzazioni non profit che si occupano di alloggi a prezzi accessibili usano i soldi dei contribuenti per fare lobby contro gli alloggi a prezzi accessibili; e non sanno che i soldi vengono assegnati in modo errato a causa di una supervisione insufficiente delle organizzazioni non profit.

Tutto ciò che sanno è che pagano tasse elevate senza motivo. E così se ne vanno. La contea più grande dell’Oregon ha perso il 2,5% della sua popolazione tra il 2020 e il 2022. Quando la popolazione diminuisce, la base imponibile si riduce. Il gettito dell’imposta sulle vendite di San Francisco è diminuito del 22% tra il 2019 e il 2022, e il calo peggiore si è registrato in centro, dove gli edifici adibiti a uffici hanno ora tassi di sfitto da record.

Di recente sono stati scritti molti articoli sulla minaccia che tali città corrono di un “circolo vizioso urbano”, in cui il calo della popolazione riduce le entrate fiscali, obbligando a tagliare i servizi cittadini, riducendo così la vivibilità e causando un esodo accelerato della popolazione in un circolo vizioso. Che io sappia, però, nessuno ha mai sostenuto che uno dei principali fattori che contribuiscono a questa spirale mortale è l’esternalizzazione dei servizi pubblici a organizzazioni non profit non rendicontabili, piuttosto che l’aumento delle capacità dello Stato e il miglioramento della capacità del governo di risolvere i problemi da solo. Secondo questa tesi contraria, le città americane non stanno fallendo perché sono troppo socialiste; stanno fallendo perché non sono abbastanza socialiste.

E questo, ahimè, è lo stato della grande città americana all’inizio del XXI secolo, dove nulla è come sembra. Il nostro è un Paese in cui il “progressismo” non ha nulla in comune con il movimento da cui prende il nome; in cui i “socialisti” privatizzano i servizi governativi a ogni occasione; e in cui innumerevoli “organizzazioni non profit” esistono solo per il malinteso profitto di chi le gestisce. Ancora una volta, i nomi che usiamo per spiegare le realtà della moderna politica urbana sono termini di marketing propagandistico e non rappresentano in modo accurato ciò che sta accadendo.

Come nel caso dell’invenzione della spigola cilena – che non è né cilena né una spigola – molte persone stanno facendo soldi grazie a questo schema. Chi se ne frega se è tutta una bugia?

Questo articolo è apparso originariamente in American Affairs, volume VIII, numero 2 (estate 2024): 134-45.

Governare dietro le quinte, a cura di Guido Melis e Alessandro Natalini, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V.  Governare dietro le quinte, a cura di Guido Melis e Alessandro Natalini, edizioni il Mulino, Bologna 2023, pp. 201, € 20,00.

Questa raccolta di saggi ha quale oggetto i gabinetti ministeriali (o meglio gli uffici di staff), cioè quegli uffici composti da “una rete di persone provenienti da grandi corpi dello Stato che per periodi significativi della loro carriera hanno occupato le posizioni di capo del gabinetto e – specialmente – dell’ufficio legislativo”, in genere (ma non sempre) non appartenenti alla burocrazia del ministero al quale sono addetti. Dati la collocazione, il carattere, il trattamento e il sistema di “reclutamento” costituiscono un’eccezione all’ordinamento normale delle amministrazioni: la scelta è fiduciaria (da parte del ministro), la durata è, di solito, quella del Ministro, la nomina non comporta avanzamenti di “carriera”. Accanto a ciò e a conferma del carattere “eccezionale” di queste figure sono collocati sulla linea di confine tra diversi ordini, organi e poteri: nei crocevia tra amministrazione e politica, Parlamento e Governo, potere amministrativo, governativo e legislativo. Il tutto in uno Stato, come quello contemporaneo che è, sul piano materiale uno Stato amministrativo, ossia connotato della prevalenza per funzione, ampiezza dei poteri, dei compiti e delle risorse e così dal primato del potere governativo-amministrativo. Primato il quale sul piano formale, compete al Parlamento, tenuto conto del principio di legalità e della riserva di legge. Proprio questa collocazione nei crocevia, poco o punto “regolati” è alla radice del potere dei gabinetti, alimentato e connotato proprio dai caratteri delle rette che vi s’intersecano. Così dalla politica prendono la temporaneità e dall’amministrazione la “professionalità”, mentre non è detto che la stessa scelta discrezionale del Ministro renda “stabili” coppie ricorrenti tra Ministri a capi degli “uffici di staff” (con politicizzazione del capo di gabinetto). Succede, ma capita anche l’inverso: ossia che capi di gabinetto abbiano collaborato con ministri diversi, talvolta provenienti da diverse forze politiche: i c.d. “gabinettisti professionisti”. Sempre dal connotato di Stato amministrativo materiale, consegue l’importanza degli uffici legislativi dei ministeri, che di fatto sono i “veri” legislatori, tenuto conto che gran parte delle norme legislative (decreti legislativi delegati e decreti-legge) sono redatte da questi, e l’altra attentamente dagli stessi “controllata” nell’iter di formazione.

Nei saggi è considerato anche il ruolo differente (e crescente) dei gabinetti e dei loro dirigenti dall’Unità d’Italia in poi; suddiviso in cinque fasi.

Nelle prime due (la liberale e la fascista) il ruolo di tali uffici era limitato e i capi erano tratti dalla stessa burocrazia ministeriale. Con la Repubblica, data la diffidenza nei confronti della burocrazia, ereditata dal fascismo, prevale la nomina di elementi tratti dai grandi corpi della Repubblica (Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato, Corte dei Conti); nella quarta e quinta fase (da fine anni ’60 in poi) l’estrazione è la stessa ma cresce la fidelizzazione al vertice politico. Ora si prevedono “due effetti negativi: il primo consiste in quella che si potrebbe definire come la supplenza nei confronti della dirigenza amministrativa (che risulta depressa e ulteriormente emarginata); il secondo come la supplenza nel confronti della politica: una politica che, all’atto pratico, priva com’è di conoscenza approfondita della macchina amministrativa, finisce sovente sotto tutela dei suoi principali collaboratori”.

Dato l’assetto della competenza e il carattere gerarchico dell’organizzazione amministrativa, l’influenza di tali uffici non si esercita tanto con provvedimenti, quanto con consigli, suggerimenti, indicazioni. I consigli vengono dati verso il basso, ma soprattutto verso l’alto: cioè al vertice politico (dove possano tradursi in comandi).

Proprio il particolare carattere del rapporto tra gabinetti e Ministro in carica ricorda l’argomento del saggio di Carl Schmitt, tradotto in italiano da Antonio Caracciolo e pubblicato sul Behemoth n. 2 nel 1987 (cui sono seguite altre due diverse traduzioni pubblicate nei decenni successivi), dal titolo Colloquio sul potere e sull’accesso presso il potente.

In tale breve saggio, scrive Schmitt che, “anche il principe più assoluto deve affidarsi a informazioni e relazioni e dipende dai suoi consiglieri… Chi fa una relazione al detentore del potere o lo informa, partecipa di già al potere, indipendentemente dal fatto che egli sia un ministro che controfirma responsabilmente o che sappia in modo indiretto farsi da lui ascoltare… Così ogni potere diretto diventa subito soggetto ad influenze indirette. Ci sono stati detentori del potere che hanno avvertito questa dipendenza e sono andati per questo in collera”. Per cui “In altre parole: davanti ad ogni luogo del potere diretto si forma un’anticamera di influenze e poteri indiretti, un accesso all’orecchio, un corridoio verso l’anima del detentore del potere. Non c’è potere senza questa anticamera e senza questo corridoio”. E ricordava come esempio storico di controversia sull’accesso al potente la caduta di Bismarck e, in letteratura, il Don Carlos da Schiller. Per cui i capi di gabinetto possono essere considerati una specie, rapportata all’organizzazione dello Stato moderno, e con caratteristiche peculiari, di potere indiretto (in altri tempi e contesto attribuito al Papa).

Teodoro Klitsche de la Grange

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Rovesciare la dittatura dell’assenza di alternative, di Roberto Mangabeira Unger

Rovesciare la dittatura dell’assenza di alternative

Il mondo rimane inquieto sotto il giogo di una dittatura senza alternative. L’ultimo grande momento di rifondazione istituzionale e ideologica nei ricchi Paesi dell’Atlantico del Nord è stata la socialdemocrazia istituzionalmente conservatrice, preannunciata prima della Seconda guerra mondiale e pienamente sviluppata in quei Paesi nel dopoguerra. La sua controparte negli Stati Uniti fu il New Deal di Franklin Roosevelt. Questa rifondazione proponeva di regolare più intensamente l’economia, di attenuare le disuguaglianze attraverso una tassazione progressiva e una spesa sociale ridistributiva e di gestire l’economia in modo anticiclico attraverso la politica fiscale e monetaria.

Nella sua forma più elaborata, in Europa occidentale, proteggeva gli insider contro gli outsider nel mercato del lavoro (difendendo la forza lavoro stabile con sede nei settori ad alta intensità di capitale del sistema produttivo contro il resto della forza lavoro), nei mercati dei prodotti (difendendo le piccole imprese contro le grandi imprese) e nel mercato del controllo societario (difendendo gli incumbent contro gli sfidanti). Si aspettava che i governi nazionali mediassero accordi, noti come patti sociali o politiche dei redditi, sulla distribuzione dei costi e dei benefici della politica macroeconomica e, così facendo, evitassero un conflitto distributivo distruttivo.

La socialdemocrazia è stata sempre più costretta a rinunciare a queste due pratiche – la protezione degli insider a scapito degli outsider e il patto sociale – in quanto costose e ingiuste. Soprattutto, è stata costretta a rinunciarvi perché l’industria convenzionale, o la produzione di massa fordista, base fondamentale della socialdemocrazia storica, è stata sostituita dalla pratica produttiva più avanzata di oggi, l’economia della conoscenza. Questa nuova avanguardia è sia multisettoriale, perché esiste in ogni parte del sistema produttivo, sia insulare, perché esclude la maggior parte dei lavoratori e delle imprese.

Sotto la pressione di questi cambiamenti e di queste critiche, la socialdemocrazia si è ritirata, nella sua patria europea, sulla sua ultima linea di difesa: il mantenimento di un alto livello di investimento nelle persone e nelle loro capacità, paradossalmente finanziato dalla tassazione indiretta e regressiva dei consumi attraverso l’imposta forfettaria sul valore aggiunto o un suo equivalente funzionale.

Le persone che hanno condotto l’attacco alla socialdemocrazia storica sono state chiamate neoliberali. I principali pensatori neoliberali svilupparono le loro critiche e proposte in un’opposizione generalizzata all’attivismo governativo. La forma di socialdemocrazia, ridimensionata e ridimensionata, che è risultata dagli attacchi neoliberali e dalla perdita della sua base economica e sociale nella produzione industriale di massa , ma che è rimasta impegnata nell’umanizzazione dell’ordine di mercato attraverso una certa misura di ridistribuzione correttiva e compensativa , viene spesso etichettata come liberalismo sociale. Questo liberalismo sociale ha maggiori possibilità di essere considerato l’ortodossia prevalente rispetto all’insegnamento neoliberale che ha contribuito a produrlo.

La socialdemocrazia storica, il neoliberismo e il liberalismo sociale sono legati dai presupposti istituzionali che condividono: accettano la stessa struttura di base dell’ordine del mercato e della politica democratica. Questa struttura si è dimostrata incapace di risolvere, o anche solo di affrontare, i problemi centrali delle società contemporanee: la loro incapacità di mantenere una crescita economica socialmente inclusiva e di moderare le tremende disuguaglianze radicate nella segmentazione gerarchica del sistema produttivo, di rigenerare la coesione sociale in presenza di una crescente diversità sociale e culturale, o di rinunciare alla rovina e alla guerra come condizioni abilitanti del cambiamento. In molti Paesi, il populismo di destra è entrato nel vuoto, ma ha offerto solo soluzioni inefficaci e non strutturali a problemi strutturali.

Nel resto del mondo non viene offerta alcuna alternativa, se non quella che viene spesso definita capitalismo autoritario di Stato: autocrazia politica che coesiste con ordini di mercato selvaggiamente diseguali. Questa mancanza generalizzata di opzioni, questa situazione di non uscita, è la sostanza della dittatura dell’assenza di alternative. Non possiamo rovesciare la dittatura dell’assenza di alternative semplicemente immaginando un’alternativa ad essa. Ma se non immaginiamo un’alternativa alla dittatura dell’assenza di alternative, non possiamo avere alcuna speranza di rovesciarla. E parte dell’immaginazione di tale alternativa consiste nell’evocare l’agente sociale che potrebbe sostenerla.

Ridefinire la distinzione conservatore/progressista,
destra/sinistra

In queste circostanze e date queste aspirazioni, dobbiamo reinterpretare il significato della differenza tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti. Due distinzioni sono fondamentali: la prima riguarda il metodo o la pratica della politica; la seconda, l’obiettivo.

I conservatori perseguono i loro obiettivi entro i limiti degli accordi istituzionali stabiliti. I progressisti ritengono che un cambiamento significativo debba essere strutturale: innovazione nelle istituzioni e nei presupposti ideologici da cui dipendono. Ma riconoscono che il vero cambiamento strutturale è quasi sempre frammentario. La sostituzione totale di un regime istituzionale con un altro rimane il caso limite più fantasioso.

I conservatori pensano che sia naturale che la vita umana sia piccola. Solo un’élite di innovatori e distruttori è esente da questa condanna. La fede e la speranza dei progressisti è che possiamo ascendere a una vita più grande, con capacità più forti, portata più ampia e intensità più elevata, a condizione di ascendere insieme.

Secondo questi due criteri, la maggior parte di coloro che si considerano progressisti oggi sono conservatori. Tra questi ci sono i difensori della socialdemocrazia istituzionalmente conservatrice, sia nella sua piena espressione originale sia nella forma flessibile, liberalizzata e sventrata risultante dalla sua collisione con il neoliberismo.

La teoria sociale europea classica e il suo culmine nella teoria della società e della storia di Marx hanno offerto un modo di pensare alla struttura e al cambiamento strutturale. Ma le sue intuizioni rivoluzionarie erano compromesse dai suoi presupposti necessitaristici , le illusioni della falsa necessità: che esista un elenco chiuso di regimi (che Marx chiamava modi di produzione); che ognuno di essi sia un sistema indivisibile, con il risultato che la politica deve essere o la sostituzione rivoluzionaria di uno di questi sistemi con un altro o la gestione riformista di un sistema; e che le leggi storiche governino la successione prestabilita di questi regimi, con l’implicazione che la storia ha un progetto in serbo per noi.

D’altra parte, la scienza sociale di stampo americano si libera di queste illusioni solo sopprimendo la visione strutturale. Ogni scienza sociale la sopprime a modo suo. La razionalizzazione o normalizzazione retrospettiva della vita sociale è stata il tema centrale delle scienze sociali; il loro spirito animatore è quello che nella storia della filosofia conosciamo come hegelianesimo di destra.

Il rovesciamento della dittatura dell’assenza di alternative richiede un modo diverso di pensare al cambiamento strutturale e alle alternative strutturali, soprattutto nelle discipline tecniche e specialistiche, a partire da quelle più vicine al potere, l’economia e il diritto, un modo di pensare che affermi il primato della visione strutturale ma che rifiuti le illusioni della falsa necessità.

Il rifugio e la tempesta

La socialdemocrazia istituzionalmente conservatrice o il suo successore ridimensionato, il social-liberalismo, l’ultimo grande insediamento istituzionale e ideologico nei ricchi Paesi del Nord Atlantico, vogliono assicurarsi un rifugio di dotazioni che garantiscano le capacità e le tutele contro l’oppressione pubblica e privata. Ma il valore di questo rifugio dipende, in gran parte, dalla tempesta di innovazione e cambiamento che si scatena intorno ad esso. Lo scopo del rifugio è quello di consentire al singolo lavoratore e cittadino di prosperare in mezzo ai cambiamenti e alle lotte, come il bambino a cui i genitori dicono: hai un posto incondizionato nel nostro amore; ora esci e solleva una tempesta nel mondo. La socialdemocrazia istituzionalmente conservatrice ha molto da dire sul rifugio, ma nulla da dire sulla tempesta. La tempesta non nasce spontaneamente, ma deve essere organizzata.

La natura e i presupposti di questa tempesta, il suo significato per gli assetti istituzionali dell’economia di mercato, della politica democratica e della società civile indipendente, e le sue conseguenze per il patrimonio di tutele e diritti che la socialdemocrazia ha lottato per sviluppare e garantire, sono un modo per definire la posta in gioco nel rovesciare e sostituire la dittatura dell’assenza di alternative.

Il cuore di una posizione progressista oggi risiede nella ricostruzione dell’ordine del mercato. Questa ricostruzione, piuttosto che l’approfondimento della democrazia, è il punto di partenza normale: nessun Paese riforma la propria politica per poi decidere cosa farne. Riforma la sua politica quando ne ha bisogno, nel bel mezzo della lotta per il cambiamento della sua direzione economica e sociale.

In un’economia politica progressista, il compito principale è quello di passare da un’economia della conoscenza per pochi a un’economia della conoscenza per molti. In ogni settore della produzione, l’attuale avanguardia economica, l’insulare economia della conoscenza, esclude la grande maggioranza delle imprese e dei lavoratori. Questa insularità contribuisce a spiegare sia la stagnazione economica (derivante dalla negazione alla maggioranza dell’accesso alle pratiche produttive più avanzate) sia l’aggravarsi della disuguaglianza economica (ancorata alla segmentazione gerarchica del sistema produttivo).

Si pone quindi il dilemma centrale della crescita o dello sviluppo economico in tutto il mondo: la scorciatoia della crescita offerta dall’industria convenzionale ha smesso di funzionare. L’alternativa di un’economia della conoscenza socialmente inclusiva, tuttavia, rimane irraggiungibile.

Immaginate tre fasi nell’approfondimento e nella diffusione di questa economia della conoscenza per i molti. Nella prima fase, l’attenzione si concentra sull’elevazione delle piccole e medie imprese dell’economia arretrata, sulla trasformazione dei fornitori di servizi autonomi in artigiani tecnologicamente attrezzati e sulla scoperta e la diffusione delle pratiche produttive più fertili , un equivalente del ventunesimo secolo dell’estensione agricola del diciannovesimo secolo. In una seconda fase, dallo sforzo di elevazione inizia a emergere un assetto istituzionale peculiare: una forma di partnership o di coordinamento strategico tra imprese o singoli agenti economici e governi nazionali o locali, decentrata, pluralistica, partecipativa e sperimentale, che avanza di pari passo con la competizione cooperativa tra le imprese o gli agenti. In una terza fase speculativa, molto lontana nel tempo, i beni produttivi della società verrebbero conferiti a fondi sociali non controllati né dal governo né da investitori privati. Questi fondi gestirebbero un’asta di capitali a rotazione, mettendo all’asta i beni produttivi della società, per periodi limitati, a chiunque possa offrire ai fondi che li detengono il più alto tasso di rendimento. Potremmo descrivere questo regime come “capitalismo senza capitalisti”. Il suo scopo sarebbe quello di garantire che la finanza serva l’agenda produttiva della società piuttosto che servire se stessa e che la sua responsabilità più importante, la creazione di nuovi beni in modi nuovi, non rimanga, come oggi, solo una piccola parte dell’attività dei mercati dei capitali.

Questa idea potrebbe essere liquidata come utopica da alcuni e come familiare da altri. In un mercato dei capitali competitivo, potrebbero sostenere questi ultimi, tale asta continua ha già luogo sotto un altro nome. Il ruolo della concezione dell’asta continua di capitali in questa argomentazione, tuttavia, è quello di indicare un dibattito non su un maggiore o minore ordine di mercato, ma su quale ordine di mercato.

Un’economia politica progressiva: Lavoro e capitale

Una dinamica di innovazione socialmente inclusiva, che si manifesta in un’economia della conoscenza approfondita e diffusa, richiede un’inclinazione verso l’alto dei rendimenti del lavoro. Non può essere conciliata con l’economicità del lavoro e con una radicale insicurezza del posto di lavoro. Un principio comune dell’economia pratica è che il salario reale non può aumentare in modo sostenibile al di sopra della crescita della produttività. Un aumento legislativo del salario nominale rischia di essere vanificato dalle sue conseguenze inflazionistiche. Tuttavia, se confrontiamo economie a livelli di sviluppo comparabili e controlliamo le differenze nelle dotazioni di fattori, troviamo disparità sorprendenti nella partecipazione del lavoro al reddito nazionale. Le fonti principali di tali disparità sono le differenze istituzionali e legali che rafforzano o indeboliscono il potere e la posizione del lavoro nei confronti del capitale.

In gioco c’è molto di più del salario. Marx e Keynes credevano che stessimo per superare la scarsità e che il suo superamento ci avrebbe permesso di liberarci dell’odioso peso del lavoro. Si sbagliavano su entrambi i fronti. Il superamento della scarsità non è a portata di mano, ma possiamo sperare di conquistare la libertà nell’economia, non solo dall’economia.

Dobbiamo innanzitutto distinguere la parte organizzata e quella disorganizzata del mercato del lavoro. Oggi nel mondo prevale la parte disorganizzata: l’economia informale nei principali Paesi in via di sviluppo e l’occupazione precaria nell’economia formale sia nei Paesi ricchi che in quelli in via di sviluppo.

Per la parte organizzata, il rimedio è la sindacalizzazione. Ma quale tipo di sindacato potrebbe avere una possibilità di ridurre la drammatica contrazione dei sindacati, che ora sopravvivono soprattutto nel settore pubblico? L’ideale sarebbe un regime ibrido, che combini il principio della sindacalizzazione automatica di tutti i lavoratori, ripreso dai regimi giuslavoristici corporativisti dell’America Latina, con il principio dell’indipendenza dei sindacati dallo Stato, che caratterizza i regimi contrattualisti e di contrattazione collettiva predominanti nei Paesi ricchi. Tuttavia, potrebbe essere troppo tardi per utilizzare una versione adattata di una soluzione del XX secolo per risolvere un problema del XXI secolo.

Nell’affrontare la parte disorganizzata-informale o precaria del mercato del lavoro, non abbiamo altra alternativa che innovare. Ciò significa rifiutare le due narrazioni sul lavoro che oggi prevalgono in tutto il mondo: il discorso sindacalista sul lavoro che vuole decretare l’illegalità delle nuove pratiche di produzione, servendo gli interessi della minoranza organizzata dei lavoratori, a scapito degli interessi della maggioranza disorganizzata, e il discorso neoliberista che, sotto lo slogan della flessibilità, abbandona la maggior parte dei lavoratori all’insicurezza economica e riduce il salario.

In una prima fase, la priorità deve essere quella di sviluppare un nuovo corpo di idee e regole giuridiche in grado di padroneggiare la realtà di un’economia che ha nell’economia della conoscenza la sua avanguardia. Un obiettivo centrale deve essere quello di distinguere l’inevitabile e legittima flessibilità economica dalla distruttiva insicurezza economica che riduce i salari.

Si applica una scala mobile. Dovremmo cercare di organizzare e rappresentare il precariato con tutto l’aiuto che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono fornire. Nella misura in cui non ci riusciamo, dovremmo cercare un intervento legale diretto nel rapporto di lavoro per rimodellare i termini del contratto di lavoro secondo un principio di neutralità dei prezzi: il lavoro svolto in condizioni di precarietà dovrebbe essere compensato in modo comparabile al lavoro analogo svolto in condizioni di occupazione stabile.

A medio termine, la questione centrale diventa la direzione e le conseguenze del cambiamento tecnologico. La tecnologia si evolve secondo la logica che le diamo. Manca una logica intrinseca di evoluzione. Possiamo pensare alla tecnologia come a un canale tra i nostri esperimenti di mobilitazione delle forze naturali a nostro vantaggio e i nostri esperimenti di cooperazione sul lavoro. In alternativa, possiamo considerarla come l’incarnazione meccanica di formule o algoritmi che descrivono un lavoro che abbiamo imparato a ripetere; essa segna la frontiera mobile tra il ripetibile e il non ancora ripetibile, la provincia dell’immaginazione.

La tecnologia sostituirà sempre il lavoro. Il nostro interesse è quello di influenzare il suo sviluppo in modo che migliori il lavoro oltre a sostituirlo e trasformi la macchina in un dispositivo per potenziare l’anti-macchina con l’immaginazione, l’essere umano. Il governo può iniziare a lavorare a questo scopo in modo più limitato, attraverso incentivi e disincentivi fiscali. Può anche, più direttamente, prendere iniziative che sponsorizzino varianti delle tecnologie contemporanee, come quelle raggruppate sotto l’etichetta di intelligenza artificiale, robotica o manifattura additiva, con il potenziale di potenziare il lavoro oltre che di sostituirlo. Può rimodellare queste tecnologie per renderle utilizzabili dalle piccole e medie imprese e dai singoli agenti economici che rimangono lontani dall’avanguardia della produzione. In definitiva, nessuno dovrebbe essere condannato a svolgere un lavoro che può essere svolto da una macchina.

Nel lungo periodo, il miglioramento della posizione del lavoro nei confronti del capitale richiede che le forme più elevate di lavoro libero – il lavoro autonomo e la cooperazione – prevalgano su quella che sia i liberali che i socialisti consideravano una forma difettosa e transitoria di lavoro libero: il lavoro salariato economicamente necessario. Il problema che i liberali e i socialisti del XIX secolo non sono riusciti a risolvere è come conciliare queste forme più elevate di lavoro libero con l’imperativo irremovibile delle economie di scala in un’economia contemporanea complessa. Risolvere questo problema oggi richiede innovazioni nei termini legali e istituzionali dell’accesso decentralizzato alle risorse e alle opportunità della produzione.

L’ordine del mercato non deve essere legato a un’unica versione dogmatica di se stesso. A volte può estendere il decentramento qualificando la qualità assoluta e perpetua del controllo che ciascuno degli agenti economici decentrati esercita sulle risorse a sua disposizione. Alla fine di questa strada si trova la concezione dell’asta a rotazione del capitale che prima ho definito capitalismo senza capitalisti. All’estremo opposto si trova il diritto di proprietà unificato del XIX secolo, che conferisce al proprietario assoluto tutti i poteri che lo compongono.

Nella storia delle principali tradizioni giuridiche del mondo, i poteri componenti della proprietà sono stati normalmente disaggregati e conferiti a diversi livelli di rivendicazioni di pretendenti parziali sulle risorse produttive. Il diritto di proprietà assoluto e unificato dovrebbe continuare ad avere un posto come una delle forme, non l’unica, di uno sperimentalismo economico decentralizzato. Il suo vantaggio è quello di permettere al proprietario di fare, a proprio rischio, qualcosa in cui nessun altro crede, senza dover superare le obiezioni di chi ha il potere di fermarlo.

Democrazia ad alta energia

La controparte della democratizzazione dell’ordine di mercato e dello sviluppo di un’economia della conoscenza per i molti è l’approfondimento della democrazia. Il risultato desiderato è la creazione di una democrazia ad alta energia. Tale democrazia mette l’autodeterminazione collettiva al controllo della struttura della società, indebolisce la dipendenza del cambiamento dalla crisi come condizione abilitante e, di conseguenza, rovescia il dominio dei vivi da parte dei morti.

Cinque serie di innovazioni istituzionali definiscono il programma istituzionale di una democrazia ad alta energia. Ciascuna serie inizia con iniziative modeste e frammentarie e porta a un cambiamento conseguente del carattere della politica democratica. Tutte hanno come antecedenti dibattiti ed esperimenti già in corso in tutto il mondo. Non sono auto-motivanti: la loro motivazione deve derivare dalla lotta per cambiare direzione sociale ed economica senza dover aspettare la guerra o la rovina come condizioni di cambiamento.

Una prima serie di innovazioni istituzionali aumenta la temperatura della politica: il livello di impegno popolare organizzato nella vita politica. Una premessa della scienza politica e della statistica conservatrice è che la politica deve essere o fredda e istituzionale o calda ed extra- o addirittura anti-istituzionale. In fin dei conti, secondo questa premessa, dobbiamo scegliere tra Madison e Mussolini. Ciò che questa premessa esclude è un’idea centrale per una politica progressista: che la politica possa essere sia istituzionale che calda, in grado di mantenere un alto livello di mobilitazione e impegno civico.

I mezzi per raggiungere questo scopo sono le norme che regolano il voto (obbligatorio piuttosto che facoltativo), i regimi elettorali (dipendenti da effetti circostanziali), il denaro e la politica, la politica e i mezzi di comunicazione di massa.

Una seconda serie di innovazioni istituzionali accelera il ritmo della politica. Impegna l’elettorato e le istituzioni rappresentative nella rottura rapida e decisiva dell’impasse tra le parti dello Stato. Il caso più evidente è quello degli accordi americani di governo diviso, imitati in Sud e Centro America.

Due principi informano queste disposizioni: un principio liberale di frammentazione del potere nel governo e un principio conservatore di rallentamento della politica. Essi sono legati dall’intenzione e dal disegno, piuttosto che dalla necessità pratica o logica, di inibire gli usi trasformativi della politica democratica. L’interesse dei progressisti è affermare il principio liberale e ripudiare quello conservatore.

Possiamo raggiungere questo obiettivo con diversi espedienti pratici. Ad esempio, in base agli accordi presidenziali americani o latinoamericani, possiamo consentire sia al Presidente che al Congresso di sciogliere un’impasse convocando elezioni anticipate. Le elezioni anticipate dovrebbero sempre essere bilaterali: il ramo che esercita la prerogativa costituzionale condividerebbe il rischio elettorale.

Una terza serie di innovazioni istituzionali cerca di combinare una facilità di azione decisiva da parte del governo centrale con una devoluzione radicale al servizio dello sperimentalismo democratico. Quando un Paese imbocca una certa strada, copre le sue scommesse permettendo a parti di sé di divergere e di generare contro-modelli del futuro nazionale. Può farlo grazie a innovazioni istituzionali che si sviluppano in due fasi. In una prima fase, l’accento è posto sul federalismo cooperativo, sia a livello verticale tra i livelli della federazione sia a livello orizzontale tra gli Stati e tra i Comuni. La cooperazione funge da prima linea dello sperimentalismo, basandosi su accordi che prevedono poteri sia divisi che concorrenti all’interno di un sistema federale.

In un secondo momento, la logica del federalismo cooperativo lascia il posto a una più ampia libertà di sperimentazione. Alcune parti di un Paese possono richiedere un diritto eccezionale di ampia divergenza dalle politiche e dagli accordi nazionali prevalenti. Per evitare abusi, l’esercizio di tale privilegio deve essere vagliato sia dai rami rappresentativi del governo sia dai tribunali. È pregiudizio comune che gli Stati federali possano accettare più facilmente tale divergenza sperimentale rispetto agli Stati unitari. In questo caso, tuttavia, gli Stati unitari hanno un vantaggio: non hanno bisogno di agire secondo la presunzione che tutte le parti di un Paese debbano godere contemporaneamente e in egual misura della stessa prerogativa di divergere.

I progressisti spesso vogliono che i cambiamenti costituzionali inizino con le innovazioni destinate ad aumentare la temperatura della politica democratica, in particolare le norme che regolano il rapporto tra denaro e politica. Ma in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti, il punto di partenza più promettente può essere la rivitalizzazione del rapporto tra governo centrale e locale, che gode di un ampio appeal al di là delle tradizionali divisioni tra destra e sinistra.

Una quarta serie di innovazioni ha un carattere diverso dalle tre precedenti. Cerca di indebolire direttamente la contraddizione tra società di classe e politica democratica. Stabilisce nel governo un potere di cambiamento che è sia strutturale che localizzato e quindi non è adatto, per motivi di legittimità o capacità, a nessuna parte degli Stati democratici così come sono ora organizzati. I due dispositivi preferiti del XX secolo per moderare il conflitto tra democrazia e società di classe – il corporativismo nella prima metà del secolo e il consolidamento costituzionale dei diritti sociali ed economici nella seconda – sono entrambi falliti; i diritti hanno fallito in modo ancora più decisivo del corporativismo. Le promesse di diritti nelle costituzioni del XX secolo sono rimaste in gran parte prive di meccanismi istituzionali o procedurali che ne garantiscano il mantenimento.

Consideriamo la situazione di un gruppo che si trova in una situazione di svantaggio o di sottomissione dalla quale non riesce a uscire con le forme di azione politica ed economica collettiva a sua disposizione. Una parte del governo dovrebbe essere attrezzata e autorizzata a venire in soccorso di questo gruppo e a iniziare a ricostruire le organizzazioni o le pratiche più direttamente responsabili dei suoi svantaggi. Oggi non esiste questa possibilità.

Negli Stati Uniti, il ramo giudiziario  almeno per un certo periodo – ha intrap reso questo compito attraverso lo sviluppo di un nuovo dispositivo procedurale: l’esecuzione complessa o ingiunzioni strutturali. I riformatori giudiziari si sono rivolti a organizzazioni relativamente periferiche  sistemi scolastici, carcerari, ospedali psichiatrici – fino a quando non hanno esaurito il loro potere.

Dovremmo volere un nuovo potere nello Stato, finanziato, dotato di personale e legittimato a fare, senza limitazioni aleatorie e arbitrarie, ciò che gli architetti giudiziari di queste procedure ricostruttive hanno tentato di fare nei limiti del loro ruolo istituzionale. La premessa dell’applicazione complessa era l’esistenza di una contraddizione tra un grande ideale attribuito a un corpo di leggi – il più delle volte un ideale anti-sottomissione – e una qualche combinazione di pratiche e disposizioni in una particolare parte della vita sociale che portava, ad esempio, alla segregazione scolastica o abitativa per razza e quindi (negli Stati Uniti) anche per classe. Il male era uno scontro tra un pezzo di struttura sociale o economica e un impegno trasformativo imposto dalla legge. Le parti o gli agenti interessati erano collettivi – segmenti di classi e razze – piuttosto che singoli titolari di diritti. Il rimedio consisteva nell’invadere e rimodellare una parte dello sfondo causale della vita sociale per superare o attenuare il conflitto tra la realtà sociale e la legge che la contraddiceva.

I giudici si sono trovati di fronte a una scelta tra due principi. Secondo un principio, un ideale stabilito dalla legge dovrebbe essere attuato indipendentemente dal fatto che esista o meno un agente istituzionale idoneo ad attuarlo. Secondo l’altro principio, dovrebbe essere attuato solo quando esiste un agente istituzionale adatto per attuarlo. Negli Stati Uniti sono stati i giudici (piuttosto che i politici e gli amministratori) a scegliere di sviluppare questa pratica di rimodellamento localizzato ma strutturale della vita sociale. Lo hanno fatto perché volevano farlo. Per farlo, hanno arbitrariamente diviso la differenza tra i due principi che ho appena descritto: non hanno permesso alla correttezza istituzionale di limitare l’iniziativa trasformativa né l’hanno respinta come irrilevante. Il risultato è stato quello di coinvolgere lo Stato in un’attività intellettualmente incoerente e politicamente vulnerabile.

Per indebolire il conflitto tra democrazia e società di classe è necessario sviluppare e generalizzare questa pratica di ricostruzione che è al tempo stesso localizzata e strutturale: più in profondità nello sfondo causale della vita sociale (ma fino a che punto?) per raggiungere gli strumenti centrali della produzione e della qualificazione piuttosto che solo le istituzioni relativamente periferiche (come le prigioni e gli ospedali psichiatrici) di cui si sono occupati i giudici americani. Questa versione estesa della pratica potrebbe, ad esempio, esplorare, sfidare e iniziare a rimodellare gli accordi, come i contratti di lavoro a zero ore (contratti che non prevedono un tempo minimo garantito di lavoro retribuito), che sostengono più direttamente la divisione tra il mercato del lavoro primario e quello secondario nelle società contemporanee , tra un nucleo relativamente privilegiato di lavoratori stabili e una periferia in espansione di salariati precari.

Di conseguenza, dobbiamo istituire una parte o un ramo dello Stato attrezzato, finanziato e legittimato a servire come agente di un tale esercizio del potere governativo: per intraprendere un cambiamento che sia localizzato e strutturale. Questo agente sarebbe eletto direttamente dal popolo o co-eletto dalle altre parti del governo.

La quinta serie di innovazioni istituzionali è l’arricchimento della democrazia rappresentativa con elementi di democrazia diretta o partecipativa, a livello locale attraverso una rete di associazioni di quartiere come controllo del governo municipale, e a livello nazionale attraverso referendum programmatici e plebisciti come ulteriore modo per superare l’impasse del governo. Questa appropriazione dei tratti della democrazia diretta non va confusa con la fantasia perenne di una certa sinistra: un governo di consigli popolari che faccia a meno delle istituzioni rappresentative e dei suoi quadri di politici professionisti.

L’auto-organizzazione della società civile al di fuori dello Stato

Una società disorganizzata non può generare alternative o agire su di esse. Lo sforzo di democratizzazione del mercato e di approfondimento della democrazia deve essere integrato dall’auto-organizzazione della società civile al di fuori del mercato e dello Stato.

L’accumulo di capitale sociale – cioè di densità associativa e delle capacità collettive che essa sostiene – non è un tratto della cultura nazionale al di fuori della portata dell’iniziativa trasformativa. È una variabile che risponde all’innovazione istituzionale. Molte di queste innovazioni riguardano gli accordi economici o politici che hanno a che fare con altre parti di questo programma. Un’economia della conoscenza prospera grazie all’aumento della fiducia reciproca e dell’iniziativa discrezionale. Una democrazia ad alta energia aiuta ad aumentare il livello di impegno popolare organizzato nella politica democratica. Alcune di queste innovazioni, tuttavia, hanno a che fare con la società civile stessa piuttosto che con l’economia o la politica. Tre meritano di essere sottolineate.

(1) Partnership tra governo e società civile nella fornitura di servizi pubblici. La forma prevalente di fornitura di servizi pubblici è un fordismo amministrativo: l’offerta di servizi standardizzati e di bassa qualità (di qualità inferiore rispetto ai servizi comparabili che le persone con denaro possono acquistare) da parte dell’apparato burocratico dello Stato. L’unica alternativa apparente sembra essere la privatizzazione dei servizi pubblici a favore di imprese orientate al profitto. Non esiste una controparte amministrativa sviluppata alle pratiche sperimentali dell’economia della conoscenza.

Lo Stato dovrebbe fornire una base di servizi pubblici universali. Dovrebbe anche operare al massimo nello sviluppo dei servizi pubblici più complessi e costosi. Ma nell’ampia zona intermedia tra il pavimento e il soffitto, dovrebbe collaborare con la società civile indipendente che agisce senza scopo di lucro: attraverso cooperative di insegnanti o di personale medico, per esempio, nella fornitura sperimentale e competitiva di servizi pubblici. Lo Stato può aiutare a equipaggiare, finanziare, formare e monitorare la società civile, mettendola in condizione di partecipare alla costruzione del proprio futuro. Questa partnership può essere il modo migliore per migliorare la qualità dei servizi pubblici. Può anche essere l’incentivo più efficace all’auto-organizzazione della società civile.

(2) Servizio sociale. Ogni cittadino e lavoratore abile dovrebbe avere due ruoli: uno nel sistema di produzione e qualificazione, l’altro condividendo la responsabilità comune di prendersi cura degli altri oltre alla propria famiglia. In un mondo di Stati armati che si minacciano a vicenda, la prima responsabilità condivisa deve essere la difesa. In una repubblica, le forze armate non devono mai diventare una forza mercenaria, una parte della nazione pagata dalle altre parti per difenderla. L’esercito deve essere la nazione in armi.

Gli uomini e le donne esonerati dal servizio militare (il più delle volte perché il Paese ha bisogno di un numero di soldati in armi inferiore a quello soggetto alla coscrizione), dovrebbero essere chiamati al servizio sociale obbligatorio, in base ai loro interessi e alla loro istruzione. Dovrebbero prestare tale servizio in una regione del Paese e in un settore della società diverso dalla regione o dal settore da cui provengono. In questo servizio sociale, dovrebbero ricevere l’addestramento militare di base che li qualifichi per far parte di una forza di riserva nazionale che possa essere mobilitata in caso di emergenza di difesa nazionale.

(3) Educazione alla cooperazione. La scuola dovrebbe offrire un ulteriore stimolo alla formazione della capacità sociale: non tanto perché esalta le virtù della cooperazione, quanto perché le esemplifica nelle sue pratiche di insegnamento e apprendimento. L’istruzione è una parte importante della riserva di dotazioni che assicurano la capacità. Ma contribuisce anche a suscitare la tempesta di innovazione perpetua che il paradiso rende possibile.

In democrazia, la scuola non dovrebbe essere lo strumento dello Stato o della famiglia. Non dovrebbe nemmeno servire come mezzo con cui l’università può trasformare i programmi di studio nazionali del mondo in versioni infantili delle ortodossie della cultura universitaria. La scuola deve parlare con la voce del futuro e riconoscere in ogni giovane un profeta senza peli sulla lingua.

La progettazione e l’attuazione di un’educazione che possa formare gli agenti di una società civile auto-organizzata, di una democrazia ad alta energia e di un’economia della conoscenza per i molti non può essere il risultato di una cricca al potere e dei suoi consulenti tecnici. Il suo compito educativo deve essere di competenza di un movimento nazionale di liberazione, che coinvolga centinaia di scuole e migliaia di insegnanti. In un Paese grande, diseguale, federale o comunque decentralizzato, questo movimento deve sviluppare accordi che concilino la gestione locale delle scuole con gli standard nazionali di investimento e qualità. Dovrebbe lottare per rendere la qualità dell’istruzione che ogni studente riceve il più possibile indipendente dalla circostanza di dove o da chi è nato.

Le pratiche di insegnamento e di apprendimento verso cui lavora un tale movimento dovrebbero avere i seguenti attributi. In primo luogo, devono avere come obiettivo l’intuizione trasformativa: capire qualcosa significa cogliere ciò che può diventare nel dominio del possibile adiacente. Le capacità analitiche e sintetiche dell’immaginazione forniscono l’equipaggiamento di base di tale intuizione. In secondo luogo, queste capacità non possono essere acquisite in un vuoto di contenuti. Nel trattare i contenuti, tuttavia, la profondità selettiva conta più della copertura enciclopedica.

In terzo luogo, l’ideale di una “educazione classica” deve essere riaffermato e reinventato. Il suo scopo era quello di dare allo studente una seconda visione, dotandolo di occhi per vedere con gli occhi dei suoi contemporanei ma anche con gli occhi di un’altra civiltà: Remota nel tempo, la civiltà del secondo sguardo aveva una relazione genealogica con la cultura del presente. Questo secondo sguardo veniva dai greci e dai romani per gli europei e dai classici confuciani per i cinesi. Il canone deve essere radicalmente diversificato, pur mantenendo il principio.

In quarto luogo, il contesto sociale dell’educazione deve essere cooperativo – cooperazione tra gli studenti, tra gli insegnanti e tra le scuole – in contrasto con la giustapposizione di individualismo e autoritarismo della scuola tradizionale.

In quinto luogo, l’approccio alla conoscenza ricevuta deve essere dialettico. Tutto deve essere insegnato almeno due volte, da punti di vista contrastanti. L’insegnamento dialettico immunizza i giovani dalle ortodossie della cultura universitaria. Queste ortodossie si traducono in matrimoni forzati di metodi e materie. E prosperano grazie all’associazione di presupposti metafisici controversi con risultati empirici difficili, che, in assenza di tali presupposti, assumerebbero significati diversi.

L’istruzione tecnica si collocherebbe su un continuum con questa forma di istruzione generale e non sarebbe più intesa come formazione pratica per i lavoratori in contrasto con la formazione simbolica per le élite. Il suo obiettivo non sarebbe più quello di sviluppare le competenze specifiche del lavoro e della macchina richieste dai mestieri convenzionali. Al contrario, il suo lavoro si evolverà per sviluppare le competenze concettuali e manuali di ordine superiore e flessibili richieste dalle pratiche e dalle tecnologie dell’economia della conoscenza.

Una base per vincere: la contro-élite produttivista e nazionalista
e la piccola borghesia soggettiva

Ogni potente programma di trasformazione costruisce la propria base. Deve costruire questa base con i materiali che la storia gli fornisce: i modi in cui ogni classe intende la propria identità e i propri interessi. Ci sono sempre due serie di modi in cui una classe può comprendere e difendere questi interessi: una istituzionalmente conservatrice e socialmente esclusiva e un’altra istituzionalmente trasformativa e aperta a trattare come alleati i gruppi che prima considerava rivali.

La base necessaria e possibile per l’alternativa alla dittatura dell’assenza di alternative che ho delineato qui ha due elementi. Il primo elemento è un protagonista familiare della storia moderna. Il secondo elemento parla di una nuova realtà.

Come parte della sua constituency, una tale agenda deve poter contare su una contro-élite: una fazione dissidente delle élite nazionali. Questa contro-élite è stata la principale artefice di ogni “miracolo di crescita” messo in scena nella storia moderna degli ultimi 250 anni circa, compresi, ovviamente, gli Stati Uniti nel periodo che va dalla fondazione alla guerra civile. Mossa da questo impulso, deve opporsi alla parte dell’élite nazionale che cerca la rendita. Deve associare il produttivismo al nazionalismo.

La contro-élite deve avere un piano per ottenere un aumento sostenibile e a lungo termine della produttività e un’espansione della produzione (la componente produttivista). Le pratiche di produzione che promuove possono non essere, al momento della loro comparsa, le più efficienti: quelle che fanno il massimo con il minimo. Ma saranno quelle con il maggior potenziale di raggiungere la frontiera della produttività e di rimanervi, ispirando e informando l’innovazione permanente in ogni parte del sistema produttivo.

Un tale piano richiederà una riforma dell’architettura legale e istituzionale dell’ordine di mercato, non solo la volontà di dare più o meno spazio al mercato così come è ora inteso e organizzato. E dovrà coinvolgere gran parte della forza lavoro nel suo programma di creazione della versione contemporanea di un avanguardismo produttivo socialmente inclusivo, che è ciò che rappresenterebbe oggi un’economia della conoscenza per i molti.

La contro-élite deve volere che l’economia nazionale si impegni nell’economia mondiale a condizioni utili a questo piano produttivista e che permettano allo Stato di affermare ed esercitare la propria sovranità, sia attraverso la sfida agli interessi e alle idee sostenute da altre potenze o che sono influenti nel mondo (colonialismo mentale), sia attraverso la cooperazione con Stati stranieri per risolvere problemi che nessuno Stato può risolvere da solo (componente nazionalista). In nome del matrimonio tra produttivismo e nazionalismo deve fare appello al sostegno della maggioranza operaia del popolo.

La seconda parte della base necessaria e possibile è la maggioranza nazionale nei principali Paesi del mondo. Questa maggioranza è composta da persone che rimangono povere, se non proprio povere, ma relativamente povere. Non appartengono, per circostanze oggettive, alla classe dei piccoli imprenditori. Tuttavia, aspirano a una modesta prosperità e indipendenza.

Per difetto, in mancanza di altri modi per realizzare le loro aspirazioni, cercano le espressioni caratteristiche della vita piccolo-borghese: un negozio, una bottega, una piccola fattoria: attività familiari arcaiche e retrograde, tradizionalmente finanziate dal risparmio familiare e dall’autosfruttamento. Gli equivalenti spirituali di questo orizzonte economico sono stati l’individualismo, il materialismo e il consumismo e, in un vocabolario religioso, la teologia della prosperità. La sinistra europea ha commesso il suo errore più fatale nel XX secolo quando ha demonizzato queste persone e le ha spinte nelle braccia della destra fascista.

Chiamiamo questo gruppo di elettori la piccola borghesia soggettiva. Oggi è molto più grande del “proletariato industriale”, la forza lavoro organizzata e relativamente privilegiata, insediata nei settori ad alta intensità di capitale del sistema produttivo, che i partiti e i movimenti di sinistra hanno considerato in passato come il loro nucleo centrale. Il futuro della maggior parte delle società contemporanee dipende dalla direzione di questa piccola borghesia soggettiva e dalla sua alleanza con una contro-élite produttivista e nazionalista.

Un compito dei progressisti è quello di raggiungere la piccola borghesia soggettiva dove si trova, di incontrarla alle sue condizioni e di offrirle alternative pratiche ai modi autolesionisti in cui è stata abituata a comprendere e a realizzare i suoi obiettivi economici e spirituali. Devono persuadere i piccoli borghesi soggettivi a distinguere i loro obiettivi più ampi  raggiungere una modesta prosperità e indipendenza e consolidare una forma di vita in cui possano accrescere la loro esperienza di agenzia effettiva – dalla forma regressiva e predefinita che questo obiettivo ha solitamente assunto nel loro immaginario: la piccola impresa familiare. I piccoli borghesi soggettivi devono imparare a collegare le loro aspirazioni con progetti che possano produrre maggiore prosperità e libertà collettiva, nella direzione di un’economia della conoscenza per i molti e di una democrazia ad alta energia.

Questi progetti non devono apparire ai piccoli borghesi soggettivi come miraggi lontani. Per credere, devono poter toccare la ferita: vedere e sperimentare i primi passi del cammino da qui a lì. A tal fine, i progressisti devono trovare il modo di fornire acconti su alternative come quelle qui suggerite alla dittatura dell’assenza di alternative. Inoltre, tali alternative, e i passi che vi conducono, devono essere associati in modo tangibile alle agende di sviluppo nazionali e al rafforzamento dello Stato-nazione, dato che gli Stati-nazione rimangono gli scudi dietro i quali i popoli del mondo possono intraprendere questi esperimenti di rifacimento della società.

Ovunque la piccola classe imprenditoriale, la piccola borghesia oggettiva, rimane una minoranza assediata. Ma la piccola borghesia soggettiva – in paesi come l’India e la Cina, il Brasile e l’Indonesia, la Turchia e la Nigeria – costituisce la maggioranza del popolo. Sono sfuggiti alla povertà più assoluta, tanto da poter sognare il sogno della piccola borghesia. Sognando quel sogno, hanno continuato ad associare i suoi desideri intangibili di possesso di sé con l’armamentario convenzionale della piccola impresa, della piccola proprietà terriera e della fornitura di servizi semi-specializzati, in cambio di un salario o di un compenso.

In che misura e in che senso questa realtà si estende ai ricchi Paesi del Nord Atlantico e ai loro avamposti nel mondo? Le somiglianze sono più che superficiali. Nelle società ricche, la maggioranza si trova esclusa dai settori più avanzati e produttivi dell’economia e dalle scuole che vi danno accesso. La maggior parte delle persone non è impiegata nelle grandi imprese, e molti preferirebbero non esserlo. Un numero crescente si rivolge, per una combinazione di disperazione e speranza, a qualche forma di lavoro autonomo e di piccola proprietà come male minore. In politica, fluttuano tra destra e sinistra. In religione, coltivano una spiritualità che si basa molto sull’auto-aiuto e poco sulle narrazioni secolari di redenzione.

Non sono forse, insieme alle loro controparti nei paesi in via di sviluppo, il sale della terra? La loro esistenza e la loro resistenza non dimostrano forse che la piccola borghesia soggettiva è in tutto il mondo la classe con la migliore pretesa di rappresentare oggi – meglio del proletariato industriale di Marx – gli interessi universali dell’umanità?

Eppure, tutto nella storia del pensiero e della politica cospira contro di loro. L’impegno dogmatico nei confronti dell’architettura ereditata del mercato, organizzata attorno al diritto di proprietà unificato, nega loro gli strumenti giuridici con cui conciliare il decentramento dell’iniziativa economica con l’aggregazione delle risorse su scala. Idee e atteggiamenti simili minano la base istituzionale e giuridica su cui potremmo dare nuovo significato e forza alla vecchia convinzione liberale e socialista che il lavoro autonomo e la cooperazione, piuttosto che il lavoro salariato, siano le espressioni più vere dell’idea di lavoro libero. Queste stesse convinzioni si oppongono all’unica forma di vita politica che permetterebbe alla piccola borghesia soggettiva di trasformare la società: una democrazia sperimentale ad alta energia che non ha più bisogno di guerre e rovine per consentire il cambiamento e che pone fine al dominio dei vivi da parte dei morti.

Nella religione, la loro abitudine più comune è stata quella di adottare l’idea della partecipazione dell’individuo all’infinità di Dio. Tuttavia, hanno permesso che questa fede venisse doppiamente corrotta: dal mancato riconoscimento del posto della solidarietà nell’autocostruzione e dall’acquiescenza idolatrica alla sufficienza e alla finalità degli assetti economici e politici che sono stati loro insegnati a venerare.

La piccola borghesia soggettiva non può diventare una piccola borghesia oggettiva conformandosi alle formule che i suoi amici reazionari politici e ideologici le hanno imposto. Ma se si liberano di tali guide e rifiutano le loro dottrine, non diventeranno nemmeno una piccola borghesia oggettiva. Al contrario, si saranno avvicinati un po’ di più all’essere uomini e donne liberi. Avranno conquistato la loro maggiore libertà ribellandosi alla dittatura dell’assenza di alternative.

Questo articolo è apparso originariamente in American Affairs, volume VIII, numero 1 (primavera 2024): 123-40.
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