Inerzia e punti di svolta_ di Giacomo Gabellini

Nell’ottica statunitense, l’Ucraina continua a rappresentare una pedina preziosa, sistematicamente impiegata per mettere alle corde la Russia nell’attuale fase ma potenzialmente riciclabile, in un’ottica di medio-lungo periodo, come merce di scambio in nome di un riavvicinamento tra Washington e Mosca funzionale al contenimento della Cina. Prospettiva apparentemente inconcepibile, alla luce del fervore anti-russo che anima gli ambienti neoconservatori fortemente sovrarappresentati all’interno dello “Stato profondo”, ma pur sempre presente nel novero delle opzioni strategiche e proprio per questo pro-fondamente temuta dai leader russofobi e ultra-atlantisti della “nuova Europa”. I quali non perdono occasione per trascinare l’imbelle Unione Europea verso una posizione di crescente ostilità nei confronti della Russia – dai risultati catastrofici dal punto di vista sia economico che strategico – proprio perché persuasi che il rango dei loro Paesi, e i relativi dividendi di natura economica e (geo)politica che ne derivano, risulti direttamente subordinato al grado di rilevanza che gli Stati Uniti attribuiscono all’accerchiamento della Russia.
Osservata dal punto di vista strettamente geopolitico, infatti, la dottrina del rollback applicata da Washington nei confronti della Federazione Russa denota una smaccata illogicità di fondo. Prima d’ora, gli Stati Uniti non si sono mai trovati nelle condizioni di affrontare un avversario come la Repubblica Popolare Cinese, che va ogni giorno di più attrezzandosi per soverchiare gli Usa sotto il profilo economico, tecnologico e militare. Attualmente, gli sforzi della Casa Bianca e del Congresso si concentrano sulla rottura del legame di dipendenza sviluppato dalle imprese multinazionali statunitensi nei confronti della manifattura cinese, attraverso la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, la rinazionalizzazione delle industrie strategiche e l’imposizione di nuovi standard produttivi concepiti appositamente per colpire l’ex Celeste Impero.
Ammesso – e non concesso – che l’ambiziosissimo progetto giunga effettivamente a realizzazione, occorreranno comunque decenni per riconfigurare le filiere, rimpatriare gli impianti delocalizzati a partire dai primi anni ’80 e rimodellare la globalizzazione in base ai propri interessi specifici. I numeri, d’altra parte, sono largamente favorevoli alla Cina, dal punto di vista sia demografico che economico. Per cui, insistono i più illustri esponenti della corrente di pensiero realista, è tempo di abbandonare le velleità di dominio maturate durante il breve periodo unipolare e prendere atto che gli Stati Uniti non dispongono più dei mezzi né dell’autorità sufficiente per piegare il resto del mondo alle proprie direttive. All’inizio degli anni ’70, quando gli Stati Uniti erano alle prese con la dispendiosissima e fallimentare Guerra del Vietnam, fu una constatazione di questo genere a spingere Nixon e Kissinger a superare le barriere di carattere ideologico consustanziali alla Guerra Fredda per aprire alla Repubblica Popolare Cinese e condannare l’Unione Sovietica a un fatale isolamento politico ed economico.
All’epoca, Washington conseguì il risultato capitalizzando politicamente i timori e le questioni aperte tra Mosca e Pechino, a coronamento di un meticoloso lavoro preparatorio che denotava una profonda consapevolezza circa le opportunità potenzialmente costruttive offerte dallo scenario multipolare in via di costituzione. Oggi, la logica della strategia imporrebbe ai decisori statunitensi l’adozione di un approccio altrettanto pragmatico, implicante cioè la predisposizione di una manovra di avvicinamento verso il Cremlino basata sul riconoscimento degli interessi nazionali russi e la strumentalizzazione delle non inesistenti divergenze tra Mosca e Pechino. In primo luogo perché la Russia «non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma è la quantità marginale che gettando il suo peso sull’uno o sull’altro piatto della bilancia può decidere della partita fra Stati Uniti e Cina»; un’alleanza tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese raggiungerebbe la massa critica per «squilibrare il parallelogramma delle forze a danno di Washington». Un’intesa con il Cremlino, viceversa, permetterebbe a Washington di riposizionare nell’area dell’Indo-Pacifico le risorse attualmente dedicate all’accerchiamento della Federazione Russa in Europa orientale, Caucaso e Medio Oriente, e focalizzare così l’attenzione sulla questione di gran lunga più cogente, costituita dall’ascesa della Cina e dalla rapidità con cui Pechino continua implacabilmente ad erodere i residui vantaggi di cui godono ancora gli Usa.
Non è un caso che il più convinto sostenitore della linea della normalizzazione dei rapporti con Mosca sia proprio Henry Kissinger, il principale architetto dell’intesa sino-statunitense del 1972. In un’intervista rilasciata a «The Atlantic» nel 2016, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e segretario di Stato di Nixon raccomandava di guardare alla Russia «non come a un avversario, ma come a un partner con cui trovare una soluzione».
Sulla strada che conduce all’attuazione delle direttive kissingeriane si ergono una serie di ostacoli formidabili, a partire dall’impellente necessità dell’apparato dirigenziale Usa di preservare un “nemico perfetto” attraverso cui (tentare) tenere insieme i pezzi di una società domestica frustrata, impoverita e pericolosamente avviata verso la disgregazione, e legittimare allo stesso la sopravvivenza di un’organizzazione obsoleta e sempre più contestata come la Nato. La quale costituisce a sua volta la migliore garanzia per la perpetuazione dell’occupazione militar-strategica statunitense di un teatro di primaria importanza come l’Europa, che nella visione profondamente influenzata dalle teorizzazioni di Mackinder e Brzezinski tuttora imperante nel mondo degli “apparati” di Washington risulta imprescindibile per prevenire qualsiasi forma di collaborazione tra Russia ed Europa (leggi: Germania) in grado di ridimensionare la supremazia Usa. Di qui la decisione statunitense di pianificare la sovversione degli equilibri politici interni all’Ucraina per trasformarla in un cuneo da frapporre tra Mitteleuropa e Russia votato all’isolamento dell’Heartland, e intensificare al contempo la pressione militare (espansione della Nato, moltiplicazione delle esercitazioni dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale), economica (inasprimento delle sanzioni) e politica (strumentalizzazione del caso Naval’nyj e delle proteste in Bielorussia) sulla Russia.
Kissinger è stato tra i pochissimi – nell’intervista a «The Atlantic», è egli stesso a definire minoritaria” la sua scuola di pensiero – a cogliere la natura spiccatamente difensiva delle mosse compiute da Vladimir Putin a partire dal 2014, e a rendersi conto che nessun leader russo avrebbe mai potuto accettare la prospettiva, resa particolarmente concreta dal colpo di Stato di “Euro-Majdan”, di ritrovarsi la Nato saldamente impiantata in Crimea e alle porte dello stesso bassopiano sarmatico attraversato dalle armate di Napoleone ed Hitler. L’annessione della penisola, attuata con il consenso schiacciante della popolazione locale, ha preservato il controllo russo sull’importantissimo porto di Sebastopoli, mentre l’appoggio garantito alle repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k ha permesso alla Federazione Russa di frapporre un imprescindibile cuscinetto fra sé e la Nato. Le cui porte rimangono aperte non solo per l’Ucraina, ma anche per la Georgia, come dichiarato sia dal segretario di Stato Blinken che dal segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg. Ai due Paesi, la possibilità era già stata prospettata durante il vertice della Nato di Bucarest dell’aprile 2008, pochi mesi prima che Saakashvili ordinasse l’attacco contro Abkhazia e Ossezia del Sud innescando l’escalation culminata con la sconfitta militare della Georgia ad opera della Russia. A dispetto di quanto prospettato da alcuni6, le intenzioni del Cremlino non vertono sull’annessione del Donbass sulla falsariga del precedente della Crimea, ma sulla stretta osservanza degli Accordi di Minsk, implicanti la concessione di uno statuto speciale alle regioni di Luhans’k e Donec’k (dove i russi etnici sono in maggioranza) che assicuri alla Russia una “quinta colonna” interna allo Stato ucraino di cui avvalersi per influenzare il processo decisionale di Kiev – per lo stesso, identico motivo, la leadership ucraina ostacola l’applicazione dell’intesa raggiunta in Bielorussia e ne invoca la revisione.
A ennesima riprova del fatto che, ristabilito l’equilibrio strategico grazie alla messa a punto di un formidabile arsenale nucleare, la priorità odierna della Russia consiste nel sigillare i propri confini occidentali, consolidando la propria influenza entro gli ex satelliti al fine di ricostituire legami politico-economico-commerciali con il proprio “estero vicino” confluito sotto l’ombrello militar-strategico statunitense e impedire un’ulteriore espansione della Nato verso est. Una logica pressoché analoga si riscontra nella sempre più spiccata propensione del Cremlino a raggiungere compromessi tattici con la Turchia dell’ambiguo e inaffidabile Erdoğan, e ad attingere alla vasta gamma di strumenti di guerra ibrida per intervenire in scenari critici quali quello libico e, soprattutto, siriano. Dove «sul campo i proiettili russi colpiscono i nemici di Assad, ma simbolicamente sono una sorta di “fuoco di interdizione” a un intervento occidentale, per evitare uno scontro diretto tra grandi potenze. In qualche modo, i russi stanno “segnando” il proprio spazio di influenza» nel tentativo di ricavarsi aree strategiche in cui operare per far fronte alla crescente aggressività degli Stati Uniti e della Nato. La cui ostinata renitenza a riconoscere a Mosca qualsiasi legittimità nell’esercizio di influenza nel proprio “estero vicino” ha portato alla formazione di una sorta di “vallo eurasiatico” che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe «interrompere arterie secolari, in grado di assicurare la circolazione di beni materiali, culture, costumi, tradizioni, religioni, dialogo interetnico che si era sviluppata dall’antichità all’età di mezzo, dall’era moderna a quella contemporanea fino ai nostri giorni».
differenza di quella originaria, per di più, la nuova “cortina di ferro” appare strutturalmente votata a produrre frizioni anziché (relativa) stabilità, soprattutto perché priva di una collocazione geografica fissa. Essa non corre più “da Stettino a Trieste”, ma da Murmansk a Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza della Nato a ridosso dei confini russi priva il Cremlino dello spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costringendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui l’inequivocabilità con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione.
Come ha osservato Stephen Cohen, eminente russologo statunitense recentemente scomparso, «l’epicentro politico della “nuova Guerra Fredda” non si trova più nella lontana Berlino, come accadeva nei tardi anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, all’altezza dei Paesi baltici, dell’Ucraina e di un’altra ex repubblica sovietica, la Georgia. Da ciascuno di questi fronti potrebbe scaturire la scintilla in grado di scatenare una guerra […], perché il blocco sovietico che un tempo fungeva da cuscinetto tra la Nato e la Russia non esiste più», grazie all’espansione dell’Alleanza Atlantica verso est avviata nella seconda metà degli anni ’90 per iniziativa di Washington. Un processo che George Kennan, massimo architetto della dottrina del containment, aveva caldamente sconsigliato di innescare già nel 1997; a suo avviso, l’allargamento della Nato avrebbe infatti «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste in seno all’opinione pubblica russa; prodotto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; rigettato le relazioni tra est e ovest nel clima della Guerra Fredda e indirizzato la politica estera di Mosca verso direzioni a noi sfavorevoli».
I decisori di Washington hanno puntualmente ignorato il monito di Kennan, in nome di una hybris imperiale che continua ancora oggi a definire le direttrici strategiche statunitensi nonostante il palese declino politico, economico e sociale che attanaglia il Paese. Lo si evince dall’ostinazione con cui l’apparato dirigenziale Usa si prodiga per impedire che gli equilibri geopolitici mondiali assumano una configurazione multipolare, nell’ambito di una “fatica di Sisifo” intrapresa in base all’illusoria convinzione di poter invertire un processo storico ineluttabile. Anche a costo di spingere il pianeta sull’orlo del disastro.Tratto da facebook

DA MAYERLING A MINSK, di Antonio de Martini

DA MAYERLING A MINSK
La guerra si avvicina.
Alle minacce di “ sanzioni economiche mai viste” fatte dai portavoce dell’occidente circa l’Ucraina, la Russia ha risposto, per bocca del suo capo minacciando brutalmente “sanzioni militari”.
Pensando che l’Ucraina sarebbe stata filo russa per sempre, all’atto dello scioglimento dell’URSS, le conferirono la Crimea e un grande stock di armi nucleari pensando di scaricare dei costi.
Ora paventano l’adesione ucraina alla NATO.
La Russia di Eltsin, all’atto della stesura delle intese con gli USA , diede per assodata l’esistenza sempiterna di una serie di protettivi stati cuscinetto appartenenti all’ex patto di Varsavia e non pretese di mettere nero su bianco.
Succede quando si vuole restare nell’ombra e nei negoziati ci si fa rappresentare da un alcolista.
Gli ex paesi dell’est si stanno, ad uno a uno, facendo incantare dall’idea che aderire alla NATO sia lo stesso che aderire all’Europa e con questo si sono fatti sfuggire la possibilità di creare un blocco di stati neutrali in grado di diventare aghi della bilancia.
Pensavano anche loro che non ci sarebbe più stata una rivalità russo americana da arbitrare.
Per ovviare al grande errore di ingenuità commesso, i russi hanno fatto un colpo di mano in Crimea che ha sorpreso gli USA, provocando una crescente aggressività politico-economica ma non militare ( come deciso da Chamberlain contro la Germania nel 36 in attesa di riarmare).
Gli Stati Europei, troppo poco e troppo tardi, vogliono distinguersi dalla NATO creando in esercito europeo distinto.
I russi pensano , come Hitler con Danzica e Saddam col Kuwait, di aver avuto mano libera e progettano un colpo di mano sull’Ucraina o almeno sul Donetz.
Adesso siamo in balia del menomo errore di valutazione di un elenco sterminato di cretini chiamati “ le cancellerie” che hanno una tradizione centenaria di giudizi errati e esiti terribili.
Nessuno invoca più la “ pace in terra agli uomini di buona volontà “.
Anche il Papa divaga sul sociale e i migranti e monta il presepe senza la scritta tradizionale.
Ken Follet, nel suo ultimo best seller natalizio evoca il caso della guerra mondiale per errori che tradiscono le intenzioni, ma nessuno dice che dal 1914 in poi ogni errore fu provocato e sfruttato con abilità per distruggere un rivale ingombrante.

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

GLI EUROPEI DI FRONTE ALLA VECCHIA E NUOVA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI, di Hajnalka Vincze

Al momento dell’insediamento, l’amministrazione Biden ha approvato il cambio di paradigma nella politica americana. Dopo le deviazioni, i tentativi ed errori e gli approcci mezzo fico e mezzo chicco che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni, la nuova squadra prosegue e consolida la transizione iniziata dall’odiato predecessore: il XXI secolo sarà dominato, senza alcuna ambiguità , per confronto con la Cina. Il resto – compresi gli altri avversari, così come gli alleati europei – sarà interpretato, elaborato e, se necessario, strumentalizzato secondo questo duello.

Cina, Cina, Cina…

Già sotto l’amministrazione Obama, Cina e Russia sono state identificate come le due potenze “revisioniste” che cercano di “sfidare alcuni elementi dell’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti”. I documenti della presidenza Trump, e ancor più la Strategia nazionale ad interim della nuova squadra di Biden, mettono i riflettori principalmente sulla Cina: “l’unico concorrente potenzialmente in grado di coniugare le sue attività economiche, diplomatiche, militari e la sua potenza tecnologica per porre un sfida duratura a un sistema internazionale stabile e aperto”.[1] Non sorprende che l’Alleanza Atlantica sia esortata ad adeguarsi il prima possibile. Lo farà al vertice di Londra di dicembre 2019, con un timido primo riferimento: la Cina presenta “sia opportunità che sfide,

Alla Conferenza di Monaco del febbraio 2021, il Segretario generale della NATO ha formalmente nominato la Cina prima nelle sfide. Gli alleati europei sono d’accordo ma sono comunque preoccupati per la credibilità delle garanzie americane: è da tempo che gli Stati Uniti abbandonano la dottrina che prevedeva di condurre due guerre contemporaneamente. Lo ha recentemente confermato il presidente democratico della Commissione delle forze armate al Congresso: dobbiamo «ammettere che non possiamo dominare ovunque, soprattutto nei conflitti simultanei».[2] Ma tutti hanno a cuore questo avvertimento dell’eccellente Stephen M. Walt: “Per salvare la NATO, gli europei devono diventare nemici della Cina”.[3] Il presidente dell’Assemblea parlamentare della NATO, il deputato democratico Gerald Connolly, afferma lo stesso,

La Russia come spaventapasseri

I documenti strategici americani operano una sottile distinzione: la Cina viene presentata come il principale “rivale strategico”, la Russia come un “disgregatore”, colui che “destabilizza”. Che li menzionino sempre, però, non è affatto banale. L’essenziale, per gli Stati Uniti, è la loro politica di contenimento della Cina, e l’attivazione della leva europea è fondamentale per raggiungere questo obiettivo. Tuttavia, maggiore è la minaccia russa, più facile è arruolare gli europei in questa “grande strategia”. Washington può assicurarsi la lealtà dei suoi alleati europei, a loro volta divisi, in due modi: o come protettore affidabile per coloro che sono più esposti alle inclinazioni russe; o rendendo impossibile la cooperazione tra Mosca e gli alleati occidentali che potrebbero essere tentati di farlo,

Da qui la fermezza dell’amministrazione Biden di fronte alle mobilitazioni russe al confine ucraino nell’aprile 2021 da un lato, e le sue pressioni accompagnate da minacce sul gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 dall’altro. In entrambi i casi, l’obiettivo è garantire che, secondo le parole di Jens Stoltenberg, “la solidarietà strategica nella NATO abbia la precedenza sull’autonomia strategica europea”.[5] Il terzo pezzo del puzzle è l’accesso americano alla politica di difesa dell’UE. Appena lì, la nuova squadra ha ottenuto la partecipazione al progetto “mobilità militare”, parte di un pacchetto di iniziative volte, in linea di principio, a rafforzare l’autonomia europea. Come ha affermato l’ex consigliere del Pentagono Robert D. Kaplan: “La NATO e la difesa europea autosufficiente non possono entrambe prosperare. Solo uno dei due può, e il nostro interesse è che sia la NATO. L’Europa sarà quindi per noi una risorsa e non un handicap quando affronteremo la Cina”.[6]

La disintegrazione dell’Europa

Per gli osservatori esterni abbastanza lontani, la diagnosi è ovvia: più che Cina o Russia, che comunque non sono banali, è l’immigrazione in massa – con i cambiamenti demografici e le problematiche culturali che essa comporta – che è, per i decenni a venire, la sfida predominante per il nostro continente. Il diplomatico universitario di Singapore Kishore Mahbubani lo descrive molto chiaramente nel suo recente libro, molto notato oltreoceano, “Ha vinto la Cina?” “. [7] Secondo lui: a causa della sua “sfortunata geografia”, per l’Europa, “è molto plausibile la prospettiva di essere invasi da milioni di migranti che arrivano su piccole imbarcazioni”. Se le condizioni politiche ed economiche non migliorano rapidamente nel continente africano, l’Europa può aspettarsi, prosegue,

Data la portata e la complessità del pericolo, gli europei avranno bisogno di tutti i possibili alleati. Nella lotta al terrorismo islamista propriamente detto, gli Stati Uniti continuano ad essere un prezioso alleato, sia operativamente che nell’intelligence. Tuttavia, si trovano in una situazione demografica e geografica completamente diversa: possono certo essere minacciati da alcuni attentati sanguinosi, ma non nella loro coesione sociale, nella loro cultura, nella loro esistenza. Non solo quindi concentreranno la maggior parte delle loro energie su qualcos’altro, la Cina, ma non appena uno si occuperà delle altre dimensioni della sfida, Washington potrà persino trovarsi in contrapposizione ideologica.

Come il presidente Obama che, nel 2009 nel suo famoso discorso al Cairo, tese la mano al mondo musulmano diffamando, senza nominarla, la Francia: “È importante che i paesi occidentali evitino di impedire ai musulmani di praticare la loro religione come desiderano. per esempio, dettando cosa dovrebbe indossare una donna musulmana. Non possiamo mascherare l’ostilità nei confronti della religione sotto le spoglie del liberalismo”. Al contrario, dice, “il governo degli Stati Uniti usa i tribunali per proteggere il diritto delle donne e delle ragazze di indossare l’hijab e per punire coloro che le contestano”.[8] A causa del totale fraintendimento in America circa la nozione stessa di laicità che riducono alla sola libertà religiosa, il presidente Biden e il suo entourage rimarranno su questa linea, se non di più.

Di fronte alla doppia sfida dell’immigrazione di massa e dell’Islam politico, l’Europa avrebbe altri alleati naturali, ma non unanimi in Europa e visti con un occhio molto negativo in America: Cina e Russia. Pechino potrebbe essere un partner particolarmente utile per la stabilizzazione e lo sviluppo dell’Africa. Quanto a Mosca, Jean-Pierre Chevènement, rappresentante speciale del presidente Macron per la Russia, osserva: “Fondamentalmente abbiamo gli stessi avversari, le stesse preoccupazioni, le stesse preoccupazioni nell’ordine internazionale. È un Paese molto grande, cento nazionalità, venti milioni di musulmani. Il terrorismo, lo sanno, lo hanno dovuto sopportare a Mosca, a Beslan in Cecenia. Pertanto, abbiamo ancora degli interessi comuni”.

Un recente rapporto del Congressional Research Service degli Stati Uniti osserva: “I funzionari europei si lamentano regolarmente del fatto che gli Stati Uniti si aspettano un supporto automatico da loro”.[10] In effetti, quando gli europei sentono il presidente Biden dire che l’America “guiderà il mondo” ancora una volta e “unirà l’Alleanza”, sanno che sarà loro chiesto di allinearsi con il loro più potente alleato. In ogni caso, qualunque sia l’amministrazione americana, la reazione degli europei è la stessa. La loro “eccessiva deferenza nei confronti degli Stati Uniti”, definita come tale da un ex consigliere del Dipartimento di Stato ed ex direttore britannico dell’Agenzia europea per la difesa, si verifica ogni volta, inevitabilmente.[11] Sotto Donald Trump, le concessioni venivano fatte per paura,

L’asimmetria fondamentale della relazione non cambia. All’epoca, il generale de Gaulle criticò Washington per aver sostituito la semplice consultazione all’ideale della codecisione. Da allora, anche le consultazioni sono rare. Gli alleati hanno dovuto affrontare un fatto compiuto per la decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan (anche se i soldati americani fornivano solo un quarto della forza della forza internazionale). Hanno assistito, stupiti, alle proteste dell’amministrazione Biden che nel giro di pochi giorni ha qualificato Vladimir Poutine di “killer” e la Cina di “genocida” di fronte agli uiguri e “la più grande minaccia alla stabilità internazionale”. Paralizzati dall’idea che la minima deviazione non potesse mettere a repentaglio la partnership con l’America, gli europei si rassegnarono ad essa.

Il Segretario di Stato Anthony Blinken partecipa in videoconferenza al Consiglio Affari Esteri di fine febbraio 2021, che decide sull’attuazione di nuove sanzioni contro la Russia. Un mese dopo, l’Ue impone le prime sanzioni in 30 anni contro la Cina, per il trattamento degli uiguri, in coordinamento con Washington. Il tutto sotto la costante minaccia di rappresaglie americane contro le imprese europee, grazie al regime di sanzioni extraterritoriali. Il ministro della Difesa tedesco non aveva forse avvertito alla vigilia delle elezioni americane che «le illusioni dell’autonomia strategica devono finire»?[12] Gli altri leader europei si sono affrettati a raggiungerla e Parigi resta, come sempre, solo per ripetere: 

***

L’ambasciatore cinese a Bruxelles aveva riso, sulla rinuncia a revocare l’embargo sulle armi alla Cina, sulla “patetica sottomissione” degli europei “incapaci di prendere le proprie decisioni senza farsi influenzare da altri poteri”.[14] Oggi, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Herbert McMaster li avverte: o si schierano con Washington contro la Cina, o scelgono la “schiavitù” a Pechino.[15] Le due visioni si completano e si rafforzano a vicenda. Confermano l’osservazione fatta dal presidente francese: a meno che non assumano pienamente un’ambizione di autonomia, gli europei “avranno la scelta tra due domini” in un mondo “strutturato attorno a due grandi poli: gli Stati Uniti d’America. e la Cina”. [ 16] Il ministro degli Esteri Ue Josep Borrell sostiene valorosamente che “Non dobbiamo scegliere tra i due. Dovrà suonare come la canzone di Sinatra ‘My Way’.[17] Dimentica che la suddetta canzone è solo un adattamento di quella di Claude François, il cui titolo è molto più in linea con l’avversione pavloviana degli europei per qualsiasi idea di emancipazione: “Come al solito”.

Note:
[1] Interim National Security Strategic Guidance, White House, marzo 2021.
[2] Conversazione con Adam Smith, presidente della House Armed Services Committee, “Priorities for the fiscal year 2022 defence budget”, American Enterprise Institute, 22 aprile , 2021.
[3] Stephen M. Walt, “Il futuro dell’Europa è come il nemico della Cina”, Foreign Policy, 22 gennaio 2019.
[4] Gerald E. Connolly, “The Rise of China: Implicazioni per la sicurezza globale ed euro-atlantica “, Rapporto, Assemblea parlamentare della NATO, 20 novembre 2020.
[5] “L’UE non può difendere l’Europa”: capo della NATO, AFP, marzo 2021
[6] Robert D. Kaplan, “Come combatteremo la Cina”, l’Atlantico, giugno 2005.
[7] Kishore Mahbubani, ha vinto la Cina? – The Chinese Challenge to American Primacy, PublicAffairs 2020.
[8] “A new start”, discorso del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, all’Università del Cairo, 4 giugno 2009.
[9] Commento di Jean- Pierre Chevènement sul programma Les Incorrectibles di Sud Radio, 5 gennaio 2020.
[10] Relazioni transatlantiche: interessi e questioni chiave degli Stati Uniti, rapporto CRS, 27 aprile 2020.
[11] Jeremy Shapiro – Nick Witney, “Verso un’Europa post-americana : A Power Audit of EU-US Relations ”, European Council on Foreign Relations, 2 novembre 2009.
[12] Annegret Kramp-Karrenbauer, “L’Europa ha ancora bisogno dell’America”, Politico, 2 novembre 2020.
[13] La dottrina Macron : una conversazione con il presidente francese, Le Grand Continent, 16 novembre 2020.
[14] Ambasciatore cinese: il servilismo dell’UE è ‘patetico’, EUObserver, 16 dicembre 2010.
[15] HR McMaster, «Perché Trump è andato duro con la Cina e Biden seguirà», Politico, 15 aprile 2021.
[16] Discours du presidente Emmanuel Macron à la Conférence des ambassadeurs, 27 agosto 2019.
[17] Borrell: L’UE non deve scegliere tra Stati Uniti e Cina, EUObserver, 2 giugno 2020.

Hajnalka Vincze, Gli europei di fronte alla vecchia-nuova politica estera americana, Impegno n° 131 (estate 2021) , ASAF ( Associazione per il sostegno dell’esercito francese ).

https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/599-les_europeens_face_a_lanciennenouvelle_politique_etrangere_americaine

La chimera delle forze armate comuni europee_con Gianandrea Gaiani

Il tema delle forze armate comuni europee ricorre periodicamente nei propositi dichiarati della dirigenza europea. Per un paradosso solo apparente il tentativo più serio e promettente lo avviarono negli anni ’50 gli statunitensi. Fallì nel momento in cui inglesi e francesi compresero di non detenere più il pallino delle dinamiche geopolitiche e che la Germania, per grazia americana ricevuta, avrebbe assunto un ruolo importante nel gioco europeo. Oggi il tema si ripropone come sempre per costrizione e contingenza esterna piuttosto che per consapevolezza e determinazione. Il tema di una forza comune è tuttavia troppo ambiguo e sottende ruolo geopolitico e sistemi di relazioni diverse se non antitetiche. Il rischio è che nella ricerca di una forza comune si nascondano sotto diverse spoglie le subordinazioni scaturite dall’esito della seconda guerra mondiale piuttosto che la ricerca di una autonomia politica che non può prescindere da una forza militare realmente autosufficiente. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vmo9ab-la-chimera-delle-forze-armate-europee-con-gianandrea-gaiani.html

 

È sul “cadavere” della NATO che si deve costruire una difesa dell’Europa, a cura di Theatrum Belli

Proseguiamo con la pubblicazione di saggi ed articoli di militari francesi a proposito di difesa europea_Giuseppe Germinario

È sul “cadavere” della NATO che si deve costruire una difesa dell’Europa secondo GA (2S) Jean COT, che la vede come una federazione degli Stati Uniti nella loro diversità.
Ci chiede di darci finalmente i mezzi di questa difesa altrimenti siamo condannati a cancellarci.
Europa e Difesa – Fascicolo G2S n° 24 – Luglio 2019 28

La difesa dell’Europa, del suo territorio e delle sue popolazioni, questo è il bene più evidente comune ai cittadini dell’Unione Europea (UE). Quella avrebbe quindi dovuto essere uno dei temi principali della campagna elettorale europea di maggio 2019.
Problema, non è l’UE come istituzione che ha la responsabilità della sua propria difesa, ma l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) in cui predominano gli Stati Uniti.
Un po’ di storia.

Fuori dalla seconda guerra mondiale, i paesi dell’Europa occidentale non potevano che mettersi sotto la protezione degli Stati Uniti, di fronte alla formidabile minaccia sovietica. Lo hanno fatto attraverso la NATO fondata nel 1949. Dobbiamo essere grati agli Stati Uniti per aver molto largamente contribuito a vincere la Guerra Fredda, senza sparare un colpo di cannone.
Ma siamo nel 2019. A settant’anni dal 1949, i rischi e le minacce si sono diversificate, globalizzate. Gli Stati Uniti hanno disegnato le conseguenze ritirando quasi tutte le loro forze dal suolo europeo,
dando priorità strategica all’Asia, la loro nuova sfida.
D’altra parte, l’UE è risorta dalle sue rovine. La sua ricchezza complessiva – il suo PIL – è ora equivalente a quello degli Stati Uniti. Non è quindi plausibile di 500 milioni di europei nell’UE, compresi di nuovo i nostri amici britannici!
– dipendono ancora a questo punto, per la loro difesa, da 325 milioni di americani. Mr. TRUMP dice lo stesso, senza mezzi termini, che gli Stati Uniti danno troppo per la difesa degli europei.
La NATO è un’organizzazione obsoleta e, altrettanto, l’articolo 5 del suo statuto che sancisce un reciproco impegno militare in caso di aggressione.
Sarebbe un grosso errore pensare che dopo TRUMP tutto rientrerà nell’ordine. TRUMP sta solo dicendo ad alta voce quello che molti negli Stati Uniti pensano sottovoce. Potrei dare molte testimonianze. Io ricorderò uno, da MM. SHAPIRO e WITNEY, degli eminenti membri di un importante Think Tank americano, riportato su Le Monde il 5 novembre 2009:
Gli europei hanno un rapporto infantile con gli Stati Uniti e feticista, nutrito di illusioni, tra cui:
Che gli interessi degli americani e gli interessi degli europei siano sostanzialmente identici,
 Quello secondo cui la sicurezza dell’Europa dipende ancora dalla protezione americana.
Bisogna ammettere che noi europei siamo abbastanza sordi e ciechi da non ammettere questa verità e trarne le conseguenze? È vero che dal Trattato di Maastricht del 1992, si costruisce lentamente una politica di sicurezza e un sistema di difesa comune (PSDC), i cui risultati non sono
trascurabili:
 Documento strategico europeo in materia di sicurezza e difesa (ESDS);
 Agenzia Europea per la Difesa (EDA) per gli armamenti;
 Embrione di staff per crisi civili e generazione di forze;
 Cooperazione strutturata permanente (CSP);
Fondo europeo per la difesa (FES).
Per limitarmi all’essenziale.

Il problema – capitale – è che questa difesa europea in gestazione non ha nulla a che vedere con la difesa dell’Europa sopra definita. È limitato all’effetto delle cosiddette missioni Petersberg, sotto l’egida dell’ONU:
 Mantenimento e applicazione della pace;
 Evacuazione di cittadini UE;
 Aiuti umanitari, disarmo, cooperazione.
Quindi ecco, in sintesi, l’incredibile paradosso:
 La NATO ha diritti esclusivi per difendere l’Europa mentre la credibilità degli Stati Uniti, che la dominano su testa e spalle, sono sempre di più incerti.
 L’UE si limita a esotici interventi di Petersberg senza nemmeno darsi uno staff operativo permanente per guidarli.
Questo paradosso non sembra preoccupare le autorità politiche e militari dell’UE, che lo ha mascherato dietro il comodo concetto di complementarietà, condivisione dei compiti tra NATO e UE. In realtà nessuno si lascia ingannare: la NATO è un buon alibi per limitare il loro sforzo di difesa. Perché pagare di più per la nostra difesa, anche se, attraverso la NATO, dipendiamo da
Stati Uniti ? Questa cultura della sottomissione agli Stati Uniti è inaccettabile.
Lo dico e lo scrivo da venticinque anni, un po’ meno solo oggi: la NATO è il principale ostacolo alla costruzione di una difesa dell’Europa indipendente. Ecco perché dobbiamo uccidere la NATO. Il meglio sarebbe che Mr TRUMP decida da solo.
Con la NATO morta, le potenze europee saranno costrette ad assumere prima le proprie responsabilità sovrane, la difesa del territorio e delle popolazioni e ne pagano il prezzo.
Questa potrebbe essere la mia conclusione. Aggiungo due osservazioni:
1. Ho letto il libro del generale de Villiers “Cos’è uno chef? ” Del proprio
Dei suoi propositi, ne estrapolerò due:
 “L’esercito europeo amalgamato è un sogno che potrebbe essere trasformarsi in un incubo. Credo nelle sovranità nazionali, non alla sovranità europea. ”
 “Se l’esercito europeo è composto da forze giustapposte, fondersi, trasformandosi in unità di combattimento agli ordini di una ipotetica sede a Bruxelles, lo ritengo IMPOSSIBILE. ” (le lettere maiuscole provengono da lui).
Queste osservazioni sono piuttosto illustrative della riluttanza che potrebbe rimanere anche nei nostri ranghi. Chiedono qualche risposta…
Cos’è allora la NATO se non un quartier generale – SHAPE –
a Bruxelles, quartier generale di corpi d’armata multinazionali, di cui uno corpo tedesco-polacco, l’altro corpo tedesco-olandese, un corpo della Unione Europea a Strasburgo con quattro nazionalità, un organismo di Reazione rapida francese (CRR) a Lille che può ospitare una mezza dozzina
contingenti stranieri?

Ciò che è giusto nella NATO sarebbe insopportabile in un quadro Europeo? L’esercito europeo non sarebbe altro, tanto per cominciare, che la NATO senza gli americani. Non che non li amiamo più,
ma semplicemente perché non possiamo più, non dobbiamo più contare su di essi. Lo dicono loro stessi. Devo ricordarti che avremmo avuto un Esercito europeo dal 1954 se DE GAULLE, all’opposizione, non avesse affondato il progetto, portato avanti dalla Francia? Allora ero a Saint-CyrCoëtquidan. Ero molto triste, come molti dei miei compagni.
Infine, allargherò il dibattito al di là della questione della difesa di Europa. La scelta da fare, come ce l’hanno le recenti elezioni europee ricordato, è quella tra due visioni inconciliabili dell’Europa di metà di questo secolo. O la visione esclusiva, sovranista, nazionalista, appoggiata al sacro stato-nazione: America First – Deutschland über alles – Francia prima. O una visione inclusiva, aperta, umanista, che non considera lo stato-nazione come il fiore all’occhiello dell’organizzazione
politica dell’Europa.
Credo di essere un buon patriota ma sono anche un fervente europeo, un cittadino dell’Europa. Nessuna contraddizione in questo! La mia Europa è quella del suo motto:
“Unità nella diversità”. Gli Stati Uniti d’Europa non sono un parolone! Questa è la condizione necessaria perché l’Europa conti domani nel contesto delle grandi potenze del pianeta.
UNITI o CANCELLATI – Gli Stati Uniti d’Europa Oppure i Balcani del mondo. Non c’è
bisogno di particolare passione per iscriversi a questo. Un piccolo motivo dovrebbe essere sufficiente.

https://theatrum-belli.com/wp-content/uploads/2019/06/G2S-Dossier-24-Europe-et-D%C3%A9fense-Juin-2019.pdf

A proposito di difesa comune europea_ a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo il dibattito avviato con i due articoli su NATO e Unione Europea http://italiaeilmondo.com/2021/08/17/la-nato-riprende-il-vantaggio-nel-suo-braccio-di-ferro-con-lue-di-hajnalkavincze/ e http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/prendendo spunto dall’ennesima riproposizione, ricorrente nei settanta anni trascorsi, della costituzione di un esercito europeo. E’ opportuno ricordare che la proposta partì in primo luogo e non a caso dagli Stati Uniti, negli anni ’50, con il tentativo di costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) in fase di costituzione della NATO, antecedente alla costituzione del Patto di Varsavia. Trovò l’opposizione diffusa di numerosi ambienti militari europei, in particolare della Francia; fu ridimensionato una volta compreso dagli ambienti francesi e britannici che il pallino era passato ormai definitivamente in mano americana, non ostante le velleità franco-britanniche naufragate definitivamente con il fallimento dell’intervento congiunto sa Suez nel ’56 e che il potenziamento industriale della Germania Federale era di supporto al successo delle mire egemoniche statunitensi e al contenimento delle ambizioni anglo-transalpine. Anche in questa occasione, come pure nel congresso di Le Havre, la rumorosa ma poco significativa opzione federalista europea, intrisa di lirismo e liturgie, si rivelò uno strumento, sino ad un certo punto inconsapevole, della costruzione egemonica americana. La CED, in realtà, non si limitava ad un progetto di mera alleanza militare. Prevedeva oltre  ad un livello spinto di integrazione delle strutture militari, un analogo livello spinto di integrazione del complesso industriale legato agli interessi della difesa atlantica. Il piano Marshall era essenzialmente propedeutico a questo progetto. L’esito del confronto portò alla fine all’accordo parziale sulla NATO e sulla CECA; come noto, non si fermò nel prosieguo a quello stadio.

L’equivoco, del tutto connaturato alla prosecuzione degli attuali legami, prosegue ancora oggi confondendo in un unico calderone i propositi di autonomia con quelli di rafforzamento del legame atlantico.

Sulla falsariga di un dibattito, per altro in Italia del tutto superficiale e parolaio, sia pure con le dovute eccezioni, proponiamo alcuni interessanti articoli di militari francesi apparsi sul sito www.theatrum-belli.com. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Far convergere le esigenze dei militari in un sistema di forze.
Per il GCA (2S) Jean-Tristan VERNA, l’acquisizione di attrezzature comuni può urtare con la necessaria conservazione di una parte essenziale della sovranità in difesa. Oltre i produttori, sta ai militari riunirsi per far convergere le proprie esigenze in un sistema di forze.

Esercito europeo: la via della sovranità attraverso i
materiali?

“Difesa europea”, “difesa dell’Europa” o ancora più “esercito europeo”: qualunque sia l’ampiezza e la profondità, dibattiti, opinioni e commenti portano sempre prima o poi alla questione dell’equipaggiamento delle forze e dell’organizzazione della difesa.

Quante volte abbiamo sentito critiche ai massimi livelli, l’aberrazione
rappresentata dalla quantità dei diversi tipi di veicoli corazzati, aeroplani di combattimento, di fregate che equipaggiano gli eserciti del continente. E le ingiunzioni per creare “Airbus” per veicoli navali e blindati, ecc. seguono di conseguenza.
È da dimenticare che questa situazione è il risultato di diversi secoli di guerre intra-europee, conclusasi solo da due generazioni di decisori politici! Le basi industriali della difesa nazionale sono l’impronta lasciata dalla necessità che la maggior parte degli stati europei ha avuto per garantire la propria autonomia industriale, per preservare la lpropria integrità territoriale, realizzare le proprie ambizioni, addirittura garantire la propria neutralità, su tutto la sovranità.
Questo articolo si propone di dare un contributo alla definizione dei contorni della sovranità sull’equipaggiamento delle forze armate. Questa definizione può anche consentire un vero inventario delle sovranità; leggi nazionali che tracciano il percorso che un giorno potrebbe permetterci di mostrare questa sovranità a livello sovranazionale.
In questo campo, il primo fondamento della sovranità è la libertà di progettazione dell’attrezzatura 50. Nasce dalla libertà di sviluppo partendo da esigenze militari e di capacità.
Nei nostri giorni felici di “Pax Europea”, prima ancora della dispersione industriale, è spesso la mancata condivisione di questa esigenza che porta alla grande diversità di materiali da un paese all’altro. Quello che qualcuno considera una semplice questione di abitudine o conservatorismo
riflette piuttosto il carattere fortemente culturale che attribuisce agli eserciti nazionale a causa del loro ruolo nella strategia nazionale, la storia della loro guerre, la natura del loro reclutamento, a volte molto antico e ancorato alla cultura nazionale.
Ci ritroviamo così con linee di forza la cui inflessione non è facile: popoli del mare e antiche tribù dell’entroterra, nazioni centrate sull’Europa e conquistatori di imperi dimenticati, non tutti si ritrovano spontaneamente sulla stessa concezione dei loro bisogni militari, nonostante sette decenni
di standardizzazione della NATO. Uno metterà i suoi elicotteri da trasporto nelle forze aeree, l’altro nelle forze di terra, con notevoli differenze nell’implementazione, si prenderà di mira l’aereo da caccia versatile mentre altri costituiranno sempre flotte diversificate; una giurerà per il cingolato quando la ruota avrà il favore del vicino. Non bisogna dimenticare gli interminabili dibattiti tra fanti intorno al numero dei combattenti del cellula di combattimento di base, che alla fine determina l’architettura del veicolo che li porta a bordo!
Questa necessità di padroneggiare la progettazione iniziale dei materiali è accompagnata dal problema di poterli far evolvere secondo gli insegnamenti operativi, adottati per l’integrazione di nuove tecnologie, ecc.
Rapidamente, un pezzo di attrezzatura può prendere una configurazione molto lontana da
quello originale. Un buon esempio è la progressiva divergenza di configurazione di TRANSALL francesi e tedeschi, il cui impiego a lungo termine era molto diverso.
Infine, un materiale non può essere progettato senza il suo sistema di supporto, vale a dire come sarà realizzato il suo mantenimento in condizioni operative. La visione del supporto ha un forte impatto sulla progettazione iniziale dell’attrezzatura: il motore di un veicolo blindato deve essere sostituibile rapidamente sul campo, oppure si sceglierà un supporto di tipo industriale su base logistica, con soluzioni tecniche più vicine a quelle utilizzate per le apparecchiature ad uso civile? Se i sensori integrati verranno utilizzati o meno per tutti i tipi di materiali? Anche in questo caso, le culture militari europee sono spesso incompatibili. Alcuni eserciti favoriscono ancora il supporto più vicino alla zona di combattimento, mentre altri ritengono che questo approccio non corrisponde più alle realtà operative e tecniche.
Mantenere il controllo sulla scelta delle funzionalità operative delle apparecchiature e soluzioni tecniche che consentano di raggiungerle, avendo la libertà di evolvere, decidere come sostenerlo durante il periodo d’uso, questa è la prima base di sovranità in materia di equipaggiamento militare.
Un secondo fondamento di sovranità, sul quale non è utile indugiare a lungo come è ovvio, è la libertà di utilizzo dei materiali.
Un insieme politico sovrano, nazionale o sovranazionale, deve poter dispiegare e utilizzare liberamente i propri mezzi militari ovunque se ne presenti la necessità fatto sentire, e senza altre restrizioni che quelle imposte dalla legge internazionale. Siamo ben consapevoli dei limiti posti alla distribuzione e all’uso operativo di materiali acquistati dagli Stati Uniti in adozione della procedura FMS51. Anche la Francia li ha sperimentati con il lancia missili JAVELIN; sta acquistando, e presto armerà, i droni REAPER nonostante questi ostacoli alla sua libertà di azione.
Dovremmo fare della libertà di esportare un altro fondamento di sovranità?

C’è un dibattito sulla realtà dell’imperativo economico dell’esportazione che consentirebbe di contenere i costi di acquisizione delle attrezzature e di compensare il basso volume di serie “nazionali”. L’armonizzazione dei bisogni a livello sovranazionale sarebbe forse un argomento imperativoper superarlo.
Ma esportare non è solo una leva economica. È uno strumento di politica estera, di influenza sulla scena geopolitica, un consolidamento dei legami con gli alleati. Essere in grado di esportare o distribuire l’equipaggiamento militare secondo gli interessi strategici è quindi legato alla nozione di sovranità, ed è rilevante porre sistematicamente la questione della sua “esportabilità” quando un materiale entra nel design, quindi in produzione.
Libertà di progettazione, supporto ed evoluzione, libertà di utilizzo operativo, libertà di esportare, queste sono le basi che possono essere considerate nel definire la sovranità applicata all’equipaggiamento di un esercito, nazionale o sovranazionale che sia.
Ovviamente, ogni tipo di materiale apre sfide e difficoltà specifiche che sarebbe tedioso sviluppare: per non parlare dei mezzi di deterrenza nucleare, i materiali convenzionali innumerevoli che non presentano gli stessi problemi dei sistemi di comando e dei sistemi informativi integrati, o anche complessi sistemi di sistemi, molto in voga nel ristretto club delle nazioni tecno-connesse.
Ma ci sono abilità successive comuni a tutti i tipi di materiali: competenze umane, politiche e risorse per la ricerca e tecnologia, ormai strettamente legata alla R&T nel mondo civile, il controllo
dei diritti di proprietà intellettuale, autonomia di regolamentazione e fissazione di standard tecnici e ambientali, la decisione sulla politica di investimento e sulle procedure amministrative per allocazione dei budget e gestione del progetto di armamento, ecc.; tutte aree in cui lo sforzo complessivo è stato messo in atto in qualche decennio per costruire i mezzi di deterrenza francese
autonoma è un buon esempio storico. Cambiamento culturale di strategia che fu imposta agli eserciti francesi in quel momento oltre la celebrazione.
L’accettazione di questi fondamenti porta, in linea di principio, a tenerne conto e considerazione nella definizione della politica per l’acquisizione e la fabbricazione di materiale, se questa politica è completa o si applica a una famiglia di attrezzature, o anche ad attrezzature personalizzate.

La Francia ha provato questo esercizio con la teoria dei tre cerchi, ripresa nei suoi libri bianchi del 2008 e del 2013.
Ad un primo cerchio chiamato “della sovranità”, definendo le capacità critiche da padroneggiare a livello nazionale, si aggiunge un circolo di “interdipendenza”europeo” che presuppone una convergenza di specifiche tecniche e operative e una equilibrata condivisione industriale. Finalmente arriva il cerchio di “Ricorso al mercato mondiale”, per i mezzi la cui fornitura può essere garantita senza rotture o restrizioni.
Conosciamo le difficoltà sollevate da questa categorizzazione delle acquisizioni.
L’ambizione di sovranità portata dal “primo cerchio” passa attraverso la capacità di liberare le risorse umane ed economiche necessarie alla sua messa in opera. Se consideriamo che queste capacità di sovranità includono piattaforme complesse nucleari e le correlate spazio,
sistemi di intelligence, il dominio “cyber” e alcune altre molto sofisticate come i missili, le capacità tecnologiche per coordinare e i bilanci da mobilitare saturano abbastanza rapidamente le capacità nazionali.
Al di là delle disposizioni procedurali che esso presuppone (ad esempio, specifiche procedure di acquisizione), interdipendenza (europea) definita attraverso il secondo cerchio, è tanto più critico
rendersi conto che si tratta di attaccare due posizioni in cui è difficile irrompere: le culture degli
interessi militari e industriali, con la loro componente sociale. È da notare la forza che queste realtà impongono sul desiderio di armonizzazione e cooperazione, passata e presente.
Per quanto riguarda l’uso del mercato globale, attenzione a considerarlo come garanzia assoluta. Lo sfortunato episodio delle munizioni di piccolo calibro conosciuto dalla Francia qualche anno fa non va dimenticato. Cosa succede quando una crisi generalizzata fa precipitare tutti i poveri clienti
verso un numero limitato di produttori? La rapida saturazione di trasporto strategico durante l’ascesa o la fine delle grandi operazioni è un esempio di questi potenziali colli di bottiglia.
Tradurre il desiderio di costruire punti di forza in materiali comuni sovranazionali efficaci dal punto di vista operativo e alla portata delle capacità richiede quindi il superamento di queste difficoltà in termini di acquisizione: verso quale ambizione strategica e sovrana dobbiamo guidare la definizione delle capacità critiche? Che corpus condiviso di dottrine militari funge da riferimento per la definizione tecnica di hardware, gestione della configurazione e sistema di supporto?
Come organizzare la produzione industriale e le attività di supporto in servizio? Su quali basi politiche possiamo costruire flussi con il resto del mondo, sia per la fornitura che per l’esportazione?
Avvertimento !

La mancanza di una politica estera e di una catena di Comando europeo che si impone ai paesi membri, l’appetito per alcuni di questi verso le principali apparecchiature di origine americana, le difficoltà ricorrenti nell’organizzare un’industria delle armi a livello continentale in gran parte private e in parte di proprietà di fondi americani, sono tutti temi da trattare a livello politico in via preliminare ad ogni lancio di grandi idee relative al campo militare ben detto !
Per quanto riguarda i militari, cosa possono fare?
In primo luogo, richiamare l’imperativo del realismo: a livello nazionale, garantire che non lasciamo andare la preda delle capacità sovrane esistenti per l’ombra della costituzione delle capacità comuni dai contorni e dai metodi di attuazione mal definiti o mal concepiti. Allora, nella misura in cui il
processo politico sarebbe impegnato a condurre verso questo “esercito europeo”che periodicamente torna all’ordine del giorno, rivendicare un posto importante da far valere alle precauzioni da prendere sul campo della tecnica e dell’attrezzatura; un argomento che è facilmente assente dalle preoccupazioni dei diplomatici.
Seconda azione possibile, concentrarsi sulla proposta di soluzioni tecniche transitorie e affidabili, partendo dall’esistente. Questa azione può essere basata su una pratica antica; quella della convivenza di eserciti nazionali all’interno della NATO, anche quando la loro integrazione non è completa, come è stato il caso degli eserciti francesi per quarant’anni. Ed esistono già esempi in Europa, come il trasporto aereo europeo Comando (EATC) creato nel 2010.
Infine, senza negare le forti radici culturali di ogni esercito nazionale e senza sottovalutare l’impatto degli specifici interessi strategici di certe nazioni, i militari avranno interesse a sviluppare la condivisione dei loro approcci tecnici, tattici e logistici.
Ogni nazione imprime un marchio specifico sul proprio esercito, a seconda che si sia scelto di costruire un modello di esercito completo e autonomo, o ci si accontenti di alcune “nicchie di eccellenza”; a seconda che si chieda loro di preservare o non una capacità di “nazione quadro”.

La cultura di un esercito è ispirata con la stessa forza dalle scadenze di impegno fissate dalle
decisioni politiche, dal suo approccio nei rapporti con le popolazioni presenti in lontani teatri operativi, dalla sua capacità di comprendere le operazioni a lungo termine, il livello di integrazione di fattori umani nello sviluppo e nell’uso dei suoi materiali.
Avere una visione realistica e condivisa di questi aspetti culturali è l’unico modo per arrivare a specifiche tecnico-operative convergenti.
Occorre quindi un forum ufficiale di discussione e riflessione su questi temi, che possa apparire tecnico e militare-centrico. Infatti, se i militari hanno il loro posto nei dibattiti europei a livello politico-militare e strategico, sarà altrettanto importante fornire loro un quadro formale per
riflettere e discutere sulla preparazione di sistemi di forze condivisi tra nazioni.

50 Il termine “materiali” è comodo da usare ma è riduttivo. Tieni presente che copre anche
molti materiali numerabili, di varia complessità, sistemi d’arma la cui efficacia non può essere
solo attraverso le loro connessioni con il loro ambiente, i sistemi informativi, ecc.

https://theatrum-belli.com/wp-content/uploads/2019/06/G2S-Dossier-24-Europe-et-D%C3%A9fense-Juin-2019.pdf

Occorre rifondare l’Europa delle nazioni per parlare di autonomia e autodeterminazione. Appunti di riflessione_di Luigi Longo

Occorre rifondare l’Europa delle nazioni per parlare di autonomia e autodeterminazione. Appunti di riflessione.

di Luigi Longo

Sul blog Italiaeilmondo è stato pubblicato, in data 12 agosto 2021, lo scritto Stati Uniti, Nato e Unione europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia di Giuseppe Germinario.

http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/

Avanzerò in merito quattro riflessioni che saranno approfondite successivamente.

La prima. L’Unione europea è stata creata dagli Stati Uniti per le loro strategie di potenza: contrapposizione all’ex URSS, continua ricerca di coordinamento mondiale quale potenza egemone (obiettivo fallito, dopo dieci anni dall’implosione dell’ex URSS, per l’importanza assunta dalle potenze in ascesa, Cina e Russia). L’Unione europea, pertanto, non è un soggetto politico capace di una propria idea di sviluppo, o autonomia politica, né, tantomeno, una propria autodeterminazione in relazione mondiale, o un proprio ruolo nella relazione tra Occidente e Oriente, o una propria idea per contrastare il declino della civiltà occidentale. E’ occupata militarmente da basi Nato-Usa che incidono negativamente sullo sviluppo delle sue nazioni in tutte le sfere sociali (politiche, economiche, istituzionali, culturali, territoriali, eccetera). L’Europa occupata da basi Nato-Usa non è un territorio libero!

La seconda. L’Unione europea è funzionale alle strategie statunitensi fondamentalmente come strumento di contrasto alle due potenze mondiali in ascesa (con le loro dinamiche aree di influenza), ma soprattutto è funzionale al ruolo che può avere per contrastare il coordinamento, assai temuto dagli USA, tra Cina e Russia (coordinamento sempre più intenso in questa fase); per questo la UE sarà ancora mantenuta come istituzione di un grande spazio a servitù volontaria ma coordinata dalla Nato che agisce a livello mondiale nelle aree strategiche per il conflitto egemonico (Europa orientale, Mediterranei, Medio Oriente, Asia centrale, Pacifico). Diventa, a questo punto, relativamente importante la tattica (maggiordomo-governante-valletto-cameriere o vassallo-valvassore-valvassino per usare le metafore più utilizzate) degli Stati Uniti perché comunque sarà sempre finalizzata alla strategia di dominio sull’Europa. Quindi il problema reale è il dominio statunitense sull’Europa.

La terza. E’ velleitario sperare, vista l’attuale situazione oggettiva dei Paesi europei (partiti, governi, istituzioni, società), nella possibilità di creare una Europa con una minima autonomia. L’Unione Europea- occupata, gestita e governata dai cotonieri lagrassiani con peculiari caratteristiche nazionali storicamente date- seguirà le strategie statunitensi per frenare l’ascesa delle potenze (che invece mettono in discussione il loro dominio monocentrico per un dominio multicentrico del sistema mondo) e rilanciare la sfida, sia per tentare di fermare il loro declino (a mio avviso irreversibile), sia per l’egemonia mondiale. Per dirla con Carl Schmitt, l’alternativa è tra un mondo pluralista e multipolare, formato da grandi spazi autonomi e autocentrati, o un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza.

Occorrerebbe un nuovo soggetto politico (che non sia zavorrato ancora dalla struttura storica del ‘900) capace, nel breve-medio periodo, di agire con una rivoluzione dentro il capitale per la ri-fondazione di una nuova idea dell’Europa espressione di una libera scelta delle nazioni e per la smilitarizzazione del territorio europeo con conseguente uscita dalla Nato. Occorrerebbe, cioè, lasciare perdere “l’unico popolo indispensabile nel mondo” come sosteneva il porco (traditore macchiavelliano del popolo) Bill Clinton e guardare a Oriente; tale soggetto politico potrebbe, nel lungo periodo, pensare ad una rivoluzione sessuata fuori dal capitale. E’ dalla rivoluzione sessuata fuori dal capitale che si può aprire realmente un nuovo continente storia e pensare la strada per contrastare il declino sempre più evidente della civiltà occidentale.

La quarta. La fase multicentrica si fa sempre più intensa: la guerra batteriologica della cosiddetta pandemia da covid-19 (di origine artificiale e statunitense, le ricerche su queste questioni sono sempre più rivelatrici) segna una frattura tra un prima e un dopo questo evento che ha poco a che fare con la salute, nel senso che la malattia è una influenza particolare, per dirla con Giulio Tarro, curabile tranquillamente con medicinali disponibili così come è stato dimostrato praticamente e scientificamente dai medici (che hanno ricordato con il loro operato che la scienza non è neutrale, grande insegnamento di Giulio Maccacaro) che sono andati oltre la legge e hanno salvato vite umane, tranquillamente, nonostante la marginalizzazione e l’ostilità governativa che aveva bisogno di creare paure e terrore con l’intasamento degli ospedali e la relativa riconversione in ospedali covid-19 con danni, anche mortali, per i malati con gravi patologie (qui la statistica nulla dice, vero?!). La vaccinazione in atto, fatta in via sperimentale, con protocolli pseudoscientifici, sulla pelle delle popolazioni e nascondendone gli effetti collaterali, è un delitto (Per Luc Montagnier non si tratta di vaccini, di fatto li definisce “miscele di composti di biologia molecolare che possono essere dei veri e propri veleni. Sono inutili, pericolosi e anche inefficaci: non impediscono la trasmissione del virus e non evitano i casi più gravi come invece dicono. Negli ospedali ci sono persone vaccinate che sono state infettate e contagiate dalle varianti, contro le quali, questi vaccini non sono efficaci”). E’ assurdo produrre vaccini quando una malattia è curabile normalmente; è assurdo prendere a campione della sperimentazione la quasi totalità della popolazione mondiale; è assurdo vaccinare in piena pandemia mentre il virus continua a sviluppare nuove e sconosciute varianti. Questo modo di procedere favorirà il prolungamento dello stato di emergenza e giustificherà qualsiasi decisione caotica quale, ad esempio, quella di vaccinare la popolazione giovanile con l’effetto di abbassamento delle difese immunitarie proprio nel momento in cui gli esperti denunciano l’aumento, tra i giovani, di crisi depressive dovute alle stupide pratiche di isolamento, per non parlare della didattica a distanza, deprivante del confronto e dello scambio in presenza, l’unico capace di produrre l’apprendimento efficace, che passa nella interazione dei corpi e promuove la conoscenza di sè e dell’altro; gli effetti negativi di questa pratica didattica supertecnologica (non garantita a tutti!) si vedranno a breve nella scuola di ogni ordine e grado.

In questa fase multicentrica, ora è evidente, l’obiettivo non è la tutela della salute delle popolazioni, ma l’accelerazione verso un nuovo modello che accentra sempre più il potere decisionale per il controllo capillare, sociale e territoriale, grazie alla rivoluzione informatica e digitale (la Cina è molto avanti in questa direzione!) che rimodellerà la vita nelle relazioni individuali e sociali, nell’uso degli spazi, dei territori, delle città e coinvolgerà la ristrutturazione, la riconversione e la trasformazione di tutte le sfere della produzione e della riproduzione sociale. Un rimodellamento della vita basato sulla mancanza di relazioni individuali e sociali è una rivoluzione antropologica già in atto, con l’aggravante che il sistema immunitario umano è sempre più debole. Si va verso un nuovo paradigma sociale che porta dritto al nichilismo, che è il massimo pericolo per l’umanità, se non si creeranno la necessità e la possibilità di frenare questa discesa nel baratro.

E’ la fase multicentrica che impone a) l’accentramento della filiera del comando, b) un nuovo modello di relazioni individuali e sociali, di sviluppo e di rapporti sociali, c) il dinamico posizionamento delle nazioni nei nascenti centri di potenza.

Dietro la pseudo pandemia da covid-19, che in superficie presenta problemi reali come la malattia (curabile con normali cure), gli interessi di Big Pharma (che inventa vaccini sperimentali sulla pelle della popolazione mondiale), la ristrutturazione della sanità (riducendone la garanzia sociale a favore di quella privata, di fatto l’americanizzazione della salute), c’è il conflitto strategico all’interno delle singole potenze e tra le potenze mondiali in ascesa e in relativo declino.

USA/AFPAK: SECONDO TEMPO, di Antonio de Martini

USA/AFPAK: SECONDO TEMPO

CONTRATTACCO FINANZIARIO USA. PARTE IL SOFFOCAMENTO FINANZIARIO. PROVOCHERÀ RITORSIONI TERRORISTICHE?

L’ex capo della CIA Leon Panetta collega il Pakistan con i recenti avvenimenti ( ai suoi tempi crearono la soglia AFPAK per dire che i due paesi erano un tutt’uno, si profila una nuova fase della guerra in Asia.

li Stati Uniti hanno il controllo su tutte le riserve di cambio dei paesi più o meno satelliti e con l’Afganistan non hanno fatto eccezione: hanno appena bloccato nove miliardi di dollari – in contanti e buoni del tesoro USA – depositati a garanzia in banche americane.
Il pretesto adottato é che attualmente non esiste attualmente un governo riconosciuto dell’Afganistan.

Sono entrati venti anni fa infischiandosene della legalità internazionale e adesso escono facendo i legalitari ad oltranza.

Anche l’ FMI ha annunziato che lunedì non liquiderà un fondo speciale di prelievo già concesso senza garanzie all’Afganistan.
Queste notizie sono state date dal governatore della Banca centrale tempestivamente fuggito domenica sera.

Da notare e sottolineare il fatto che questo provvedimento iugulatorio, adottato anche contro il Venezuela, nel 2014, gli USA non lo presero a carico del DAESCH che si impossessò di circa un miliardo di dollari dei fondi del governo regionale curdo di Mossul e li spese per finanziare le sue attività.

Viene da chiedersi con chi stianno realmente questi indecifrabili bugiardi o se non sia meglio rimpatriare il nostro oro per metterlo in sicurezza.

Viene anche da chiedersi se non si rendano conto che il blocco finanziario potrebbe affrettare l’arrivo della influenza cinese. O lo hanno fatto perché preferiscono i cinesi ai russi. Non hanno ancora capito che ora si confrontano col blocco Russia-Cina?

Prevedo che i Talebani potrebbero reagire autonomamente a questa misura bloccando gli espatri da Kabul e collegando i visti di uscita ( anche di americani, o di occidentali) con lo sblocco dei loro fondi; oppure seguire l’esempio iraniano coi francesi, lanciando attacchi terroristici – ovviamente anonimi- a strutture governative o finanziarie americane ovunque si trovino. Ad esempio a Londra o Amsterdam.

https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/

IL DEMOCRATICO SORRIDENTE ( nella foto)
Il presidente afgano testé uscito, Ashraf Ghani, qui ritratto con al fianco la moglie libanese Rula, secondo fonti russe avrebbe lasciato il paese “ con un elicottero, giungendo in aeroporto con 4 autovetture contenenti 169 milioni di dollari.”
Sempre secondo gli stessi testimoni, non essendo riusciti a stipare tutto sull’aeromobile, una parte é stata abbandonata sulla pista.
Dopo una sosta in Tagikistan , e la notifica di “persona non grata” delle autorità di Dushanbé, é partito alla volta di Dubai dove gli é stato accordato l’asilo “per motivi umanitari”.
L’ex presidente era in carica dal 2014. Un settennio. Come Mattarella.
1 69 70 71 72 73 77