Valmy 2.0: Hybris & Nemesis, di Roberto Buffagni

 

Valmy 2.0: Hybris & Nemesis

 

Brutte cose e pericolose, l’arroganza e la supponenza. Ponendo il suo veto prima su Sapelli, poi su Savona, Mattarella ha spostato il centro del dibattito sulla legittimità. I ricami giuridici sulle prerogative del Presidente della Repubblica contano molto poco. Conta invece moltissimo la fonte della legittimazione di chi decide in quello che è divenuto uno “stato d’eccezione crepuscolare”. Se decide il Presidente della Repubblica, che in sostanza ha motivato i sui veti con la fedeltà alla UE, la fonte della legittimazione è la UE; se decidono i due partiti di maggioranza, la fonte della legittimazione è il popolo italiano, che esprime la sua sovranità con il voto a suffragio universale.

Ora, chi decide nello stato d’eccezione è il sovrano; e il difetto fondamentale della UE è proprio la mancanza di legittimazione in ordine all’unico principio legittimante valido nell’odierna  modernità: la sovranità popolare. Inevitabile quindi lo scontro istituzionale di principio, perché se Salvini cede, riconosce come fonte della legittimazione l’entità sovrannazionale non legittimata per via democratica della UE, e si suicida politicamente; se cede Mattarella, riconosce che la sovranità popolare espressa dal voto è sovraordinata alla UE, della quale si è sbadatamente autoeletto a rappresentante: e si suicida politicamente.

Se, come pare mentre scrivo, Salvini tien fermo sulle sue posizioni, forse Mattarella troverà una scappatoia dal vicolo cieco in cui si è infilato, e perderà soltanto mezza faccia. Per esempio, in una dichiarazione pubblica di Savona che ribadisca quanto è già perfettamente noto, e cioè che egli non vuole appiccare il fuoco a palazzo Berlaymont, ma semplicemente trattare con le istituzioni UE senza escludere in linea di principio la possibilità di rompere la trattativa, presupposto indispensabile in qualsiasi controversia, se non ci si vuole autosconfiggere ancor prima di aprire i negoziati.

Ma il danno, ormai, è fatto. Sono emerse in piena luce le tre questioni essenziali:

1) che la linea principale del conflitto politico oggi in corso verte sulla UE, e che tutti gli altri conflitti politici, sociali, economici, si subordinano ad esso

2) che la UE è un ferro di legno politico, perché rende l’omaggio ipocrita del vizio alla virtù alla legittimazione popolare, ma pretende di esservi sovraordinata senza possederla; che implementa questa pretesa con l’inganno e con il ricatto, ma non può implementarla con la forza: per riprendere un celebre detto cinese, che “la UE è una tigre di carta”

3) che le classi dirigenti proUE italiane si autocomprendono come accomandatari della UE e non del popolo italiano, e avendola passata liscia per più di vent’anni, la loro reazione irriflessa di fronte a una  sfida sul punto essenziale della legittimità è la hybris, l’arroganza supponente di chi neppure è sfiorato dal pensiero che gli si possa resistere.

Come ci insegnavano al ginnasio le nostre temibili, benemerite professoresse di greco, la hybris richiama su di sé la Nemesis. Avvenne anche, duecentotrent’anni fa, a Valmy. Un esercito di coscritti a cui la dirigenza rivoluzionaria plebea aveva appena messo in mano un fucile fronteggiò le armate di professionisti della guerra delle potenze europee dell’Ancien Régime. La battaglia, di fatto, non si combatté sul serio. Qualche scambio di artiglieria, qualche scaramuccia: niente di che, sul piano strettamente militare. Ma sul piano politico e simbolico, uno spartiacque epocale: i coscritti plebei, i falegnami, operai, avvocati, domestici che reggevano in mano un fucile senza saperlo maneggiare non erano scappati davanti agli splendidi reparti di guerrieri guidati ai principi. E chi non ha più paura, smette di essere un servo.

nb. articolo collegato http://italiaeilmondo.com/2018/05/26/mane-tekel-fares-di-antonio-de-martini/

MANE, TEKEL, FARES, di Antonio de Martini

MANE, TEKEL, FARES.

Tutti gli storici convengono come la battaglia di Valmy abbia segnato il punto di non ritorno della rivoluzione francese e tutti i critici militari ammettono che questa battaglia non c’è mai stata.

Il fatto che un esercito di coscritti fosse rimasto al proprio posto di trincea invece di fuggire al rombo delle prime cannonate, annunziò al mondo, l’esistenza di un nuovo soggetto politico attivo ( la Francia rivoluzionaria e proletaria) e un nuovo soggetto militare ( esercito non di professionisti).
Fu una battaglia passata alla storia senza bisogno di combatterla.

Analogamente, il nuovo – nascituro- governo italiano giallo-verde ha il compito di annunziare che esiste un’altra Italia rispetto a quella finora conosciuta e sottovalutata dal mondo.

Non importa il programma, non importa chi farà il ministro, non importa nemmeno se non concluderà nulla. Tutto quel che farà questo nuovo ministero, oltre ad esistere, sarà grasso che cola. È la Valmy italiana.

Berlusconi, Bersani e Meloni annegheranno abbracciati nel mare dell’oblio come gli esiliati di Coblenza ( “nulla avevano dimenticato e nulla imparato”) , il Vaticano sente avvicinarsi il momento di pagare le tasse e la metà degli italiani che ha progressivamente smesso di partecipare alla vita politica, comincia a chiedersi per chi votare la prossima volta.

Il re non è soltanto nudo. È morto e non risorgerà.

Ai camerati e ai compagnucci della parrocchietta una sola considerazione: hanno avuto ben mezzo secolo per razionalizzare il sistema senza stravolgerlo dialogando con Pacciardi, Maranini, Crisafulli, Ferri, Caboara, Cadorna, Caronia, Smith Accame e Vinciguerra.

Adesso spariscano.

Dalla mia palla di cristallo: governo Lega-5* eccetera, che accadrà?, di Roberto Buffagni

altri articoli sull’argomento:

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/05/21/il-contratto-di-governo-di-giuseppe-germinario/

Dalla mia palla di cristallo: governo Lega-5* eccetera, che accadrà?

 

Nessun piano operativo può spingersi, conservando un minimo di certezza, oltre il primo scontro con il grosso delle forze nemiche. E’ solo il profano che, mentre una campagna si sviluppa, crede di vedere la sistematica realizzazione del piano originale fino alla sua conclusione predeterminata.”

von Moltke il Vecchio, Trattato per lo Stato Maggiore Generale tedesco sulla guerra franco-prussiana del 1870/1

 

Consultata la mia Palla di Cristallo, debitamente Vi informo dei suoi responsi: tutti espressi in forma molto sintetica, perché i collegamenti con il Regno Sovratemporale costano un occhio della testa, e nel caso Ve lo foste scordati, qua si lavora gratis et amore Dei (et Italiae).

Anzitutto, ecco i responsi riguardanti il Passato, spesso non meno enigmatico del Futuro.

  1. Il contenuto del “contratto di governo”, formulazione infelicissima che la mia Palla di Cristallo, una parruccona cruscante, depreca, ha importanza strategica molto vicina allo zero, v. la citazione in exergo del Feldmaresciallo conte von Moltke il Vecchio.
  2. Il contenuto strategico del piano sta invece tutto nell’alleanza politica Lega-5*, una manovra di grande audacia che può dare risultati proporzionali ai suoi rischi, entrambi molto grandi.
  • Il problema che si poneva allo Stato Maggiore dell’unica forza politica italiana coerentemente antiUE (la nuova Lega) all’indomani delle elezioni era infatti il seguente: come sfruttare al meglio il perentorio successo elettorale, che le garantiva sì l’egemonia nel centrodestra, ma non l’automatica designazione a formare un governo (insufficienza di seggi vinti dalla coalizione)?
  1. La soluzione del problema era complicata da un’incognita: l’incerta lealtà di Silvio Berlusconi, che prigioniero delle sue sconfitte politiche e dei suoi vizi personali – anzitutto la viltà – accarezzava da tempo il piano B di un’alleanza neomacroniana insieme a Renzi.
  2. La soluzione più semplice e prudente sarebbe stata la seguente: lasciare che si formasse un governo tecnico che traghettasse la nazione sino alle elezioni politiche ed europee del 2019, fargli una vivace opposizione, consolidarsi, e lucrare un allargamento dei consensi l’anno venturo. Questa scelta, però, da un canto dava tempo all’incerto alleato di preparare la sua defezione, e dall’altro “There is a tide in the affairs of men, / Which, taken at the flood, leads on to fortune; / Omitted, all the voyage of their life/ Is bound in shallows and in miseries[1].
  3. Lo Stato Maggiore della Lega ha dunque scelto l’audace manovra “alleanza con i 5*”, contando sui seguenti fattori favorevoli: a) l’ambiguità costitutiva e la carente strutturazione del Movimento 5* ne hanno fatto, secondo le intenzioni dei suoi promotori occulti, il principale fattore di paralisi del sistema politico italiano, e il principale collettore incapacitante del dissenso rispetto alla UE. Ma lo straordinario successo elettorale, e la collocazione sociale dei suoi votanti, il “popolo degli abissi” secondo l’icastica definizione che Giulio Sapelli mutua da Il tallone di ferro di Jack London, gli imponevano di scegliere pro o contro la UE, perché il posizionamento rispetto alla UE, essendo la linea principale del conflitto politico attuale, è ineludibile per qualsiasi forza acceda al governo della nazione. Il M5* ha lungamente oscillato, ma l’indisponibilità del PD renziano a un’alleanza ha deciso per esso. Il M5* doveva, o rinunciare al governo e scontare una grave delusione e progressiva perdita di fiducia del suo elettorato, o cercare l’unica forza politica disponibile a correre il grave rischio di allearsi con un socio politicamente indecifrabile ed elettoralmente molto più forte b) La Lega dunque ha corso il rischio. Elementi a suo favore: la maggiore strutturazione del partito, la maggiore esperienza del suo personale, e soprattutto la coerenza della sua strategia politica, che chiaramente designava il proprio avversario nella UE e nei suoi rappresentanti italiani (anzitutto il PD). In termini militari, la Lega ha scommesso sulla superiorità di una compagine meno numerosa ma di miglior qualità che conduce una guerra di manovra (colpire i centri di comando e controllo con rapide manovre) contro un avversario più numeroso e più scadente che sa condurre soltanto una guerra d’attrito (logorare gli avversari prendendo più voti, fino all’utopico 51%)
  • L’audace manovra ha avuto, sinora, un grande successo. Le reazioni negative degli alleati del centrodestra dimostrano a posteriori quanto incerta e pericolosa fosse l’alleanza, e dunque quanto poco prudente fosse, in realtà, la manovra “prudenziale” descritta al punto V. Sono stati loro a prendersi la responsabilità di rompere l’alleanza, così perdendo il “moral high ground” , la “superiorità morale”; e se appena il governo Lega – 5* riuscirà a tenersi in vita senza commettere errori strategici gravi, all’interno di Forza Italia e Fratelli d’Italia il dissenso già presente rispetto alla linea di opposizione al governo si allargherà e alzerà la voce, costringendo anche queste forze politiche a scegliere dove collocarsi rispetto alla linea del conflitto principale, eventualmente spaccandosi.
  • Perché l’evento più importante, che la mia Palla di Cristallo non esita a definire “storico”, segnato dalla nascita di questo governo, è proprio l’emersione in luce della linea di conflitto politico principale, sinora sommersa nella nebbia, che verte sulla UE. Questo evento di capitale importanza ridisegnerà, in tempi molto più brevi del previsto (da me), tutte le posizioni culturali, politiche e partitiche, italiane e non solo italiane.
  1. La Lega, insomma, punta a egemonizzare politicamente l’alleato 5* sfruttando il suo punto debole: l’assenza di una chiara designazione del nemico, e dunque l’ impoliticità. Punto debole politico e strategico che è anche, si noti bene, il suo punto forte elettorale, perché gli ha consentito di raccogliere consensi provenienti da culture e posizioni politiche anche opposte e affatto incompatibili. La pura e semplice alleanza con la Lega, che designando come proprio nemico principale la UE ha invece una chiara strategia politica, costringe di fatto il M5* a schierarsi, e a schierarsi sulla strategia dell’alleato minore: certo, a patto che la Lega mantenga ferma la bussola strategica. Il riposizionamento strategico che il M5* è costretto a fare provocherà certo molte reazioni al suo interno: pressioni, dissensi, eventuali spaccature, abbandono di una parte dell’elettorato; sommovimenti tutti vantaggiosi per l’alleato minore, che così aumenterà il proprio peso relativo nell’alleanza e vedrà aprirsi nuove possibilità di radicamento nel Meridione, bacino elettorale principale del M5* e terreno che per la Lega è indispensabile conquistare, per trasformarsi in forza politica autenticamente nazionale.
  2. E veniamo al Futuro (prossimo). La mia Palla di Cristallo afferma che il governo Lega-5* si insedierà, perché i “paletti” che il Presidente della Repubblica vorrebbe mettergli sono paletti di gomma. Molto semplicemente, Mattarella non ha spazio di manovra. Il piano B neomacroniano di un’alleanza Renzi-Berlusconi è molto acerbo, i suoi leader sono sconfitti, logorati, nel caso di Berlusconi affatto impresentabili all’elettorato. Una sua probabile riedizione con nuovi leader richiede un tempo di maturazione che Mattarella non ha. Un “governo neutro”, secondo l’impagabile formulazione mattarelliana, che ripetesse i nefasti montiani, passerebbe una palla gol elettorale alla Lega e ai 5* (ammesso che trovasse una maggioranza in parlamento). Un rifiuto ostinato da parte del Presidente della Repubblica di nominare i ministri meno graditi perché meno ubbidienti alla UE, in primo luogo il prof. Savona, provocherebbe una crisi istituzionale di prima grandezza e consegnerebbe un’altra, macroscopica palla gol elettorale a Lega e 5* (l’odierna dichiarazione dell’indisponibilità di Giorgetti a sostituire Savona al Ministero dell’Economia suffraga il responso della mia Palla di Cristallo).
  3. Dunque il governo si insedierà. Come andrà, in Futuro? La mia Palla di Cristallo mi e ci ricorda che anche visto dal Regno Sovratemporale, il Tempo è fluido e gravido di possibilità: solo l’Onniscienza divina scioglie il mistero dell’intreccio tra libertà umana e predestinazione. Essa dunque si limita a indicarci alcune linee di tendenza, e a rivolgerci alcune raccomandazioni.
  • Linea di tendenza principale: l’opposizione delle forze proUE al nuovo governo italiano, per quanto unanime e accanita, non potrà essere risolutiva e travolgente, perché uno scontro campale decisivo tra il governo italiano e la UE rappresenta un rischio esistenziale per entrambi. L’opposizione proUE punterà invece a usurare il governo, a sfruttare i suoi errori, e alla costruzione di un nuovo schieramento politico proUE.
  • Raccomandazione al nuovo governo della mia Palla di Cristallo: evitare lo scontro campale decisivo. Non è ancora giunta l’ora di una Valmy. Non cercare grandi vittorie ma piuttosto scongiurare grandi sconfitte. Anzitutto, perché la nuova alleanza e l’alleato minoritario che la guida non hanno ancora avuto il battesimo del fuoco, cioè del conflitto diretto, nazionale e internazionale, con il proprio nemico principale: e in una guerra, niente può sostituire l’esperienza personale del conflitto. Poi, stabilire rapporti con i settori dell’amministrazione statale senza i quali nessun governo può veder eseguite le proprie direttive (amministrazione, FFOO e in particolare l’Arma dei Carabinieri, servizi di informazione). Infine, prendere iniziative simboliche e dare esempi, per far capire con chiarezza a tutti gli italiani quel che è già manifesto sul piano politico, vale a dire dov’è la linea del conflitto principale, e dove si situano i campi contrapposti. In conclusione: sapere che in questa fase, non perdere è già vincere. Il resto si vedrà, perché:
  • Nessun piano operativo può spingersi, conservando un minimo di certezza, oltre il primo scontro con il grosso delle forze nemiche. E’ solo il profano che, mentre una campagna si sviluppa, crede di vedere la sistematica realizzazione del piano originale fino alla sua conclusione predeterminata.”

Terminato il 24 maggio 2018, ore 13

 

 

 

 

[1]C’è una marea nelle faccende degli uomini che, colta al suo apice, conduce alla fortuna; una volta persa, tutto il viaggio della vita è destinato a miserie e avversità.” Julius Caesar, Atto IV, Scena III

IL CONTRATTO DI GOVERNO, di Giuseppe Germinario

altri articoli sull’argomento:

http://italiaeilmondo.com/2018/05/24/dalla-mia-palla-di-cristallo-governo-lega-5-eccetera-che-accadra-di-roberto-buffagni/

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

 

In due settimane il cerchio di fuoco tracciato dal Presidente della Repubblica, iniziato con il suo discorso alla Badia di Fiesole si chiude al momento con l’incarico di governo. Al centro le fiere impegnate al grande salto: il duo Salvini-Di Maio con il contratto di governo appena firmato, il PD in piena fibrillazione, il riabilitato Berlusconi.

IL DOMATORE

Il domatore Mattarella ha iniziato a sollevare la barriera utilizzando la strumentazione che conosce da tempo, appresa tale e quale dai suoi padri. L’ha esibita come un automa a Fiesole, con una retorica senza pathos. http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Video&key=2751&vKey=2475&fVideo=7

  • Ha rievocato le gesta intrepide e gli ideali dei padri fondatori della Unione Europea, omettendo la loro condizione di grave sudditanza politica rispetto al vincitore di campo dell’ultimo conflitto mondiale.
  • Ha rintuzzato le critiche sulla natura oligarchica, burocratica, autoritaria dei centri di potere comunitari sottolineando che le decisioni erano prese democraticamente dai capi di governi europei in concerto tra loro. Ha smontato così almeno parzialmente le ragioni e il bersaglio di una critica ricorrente, prestando però il fianco a due argomenti ancora più dirimenti e ostici da contestare, specie per bocca di un uomo di legge. Intanto le decisioni comunitarie, in quanto frutto di trattative tra capi di governo, non possono avere natura democratica ma sono il frutto di decisioni diplomatiche. Democratica può essere tutt’al più l’elezione dei vari capi di governo. È il riconoscimento implicito che la UE è un consesso frutto di trattati tra stati nazionali piuttosto che una istituzione sovrana. È una affermazione che sposta quindi l’attenzione sull’aspetto cruciale e dolente, ma regolarmente eluso, delle vicende comunitarie viste da un punto di vista nazionale: l’esistenza di una classe dirigente nazionale nella quasi totalità progressivamente senza ambizione di autonomia decisionale, senza capacità operativa e con una smaccata propensione alla sudditanza esterofila.
  • Prosegue ostinatamente nel rappresentare l’attuale processo comunitario come ineludibile nelle forme e nei tempi secondo l’impostazione funzionalista di Monnet. Con questo rimuove le diverse opzioni e punti di vista nelle relazioni tra stati europei presenti sin dall’immediato dopoguerra e che hanno attraversato il processo di costruzione comunitario; soprattutto, di fronte alle crepe sempre più evidenti nella costruzione, rischia di lasciare il paese ancora una volta spiazzato e in balia di scelte altrui

Mattarella merita per altro un filo di comprensione umana. L’arena era stata predisposta per un duetto Renzi-Berlusconi con eventuali altre comparse. La seconda opzione, scaturita dall’esito elettorale imprevisto nelle dimensioni, prevedeva di assecondare le pulsioni europeiste più conformiste presenti nel M5S con un accordo con il PD. Un tentativo reso vano dalla presa ferrea di Renzi su un partito smarrito e dalla sua convinzione di poter sgominare rapidamente i pentastellati stando alla finestra e giocando sulle leve di cui dispone e dalle quali è mosso. Non gli resta che tentare di porre un argine, forzando le proprie stesse prerogative e provare ad incanalarlo sulla retta via sia pure a costo di qualche pesante concessione redistributiva. Della perla rilasciata riguardante il varo di un “Governo Neutrale” non serve dilungarsi. Da pensionato Mattarella dovrà spiegare il nesso profondo tra il concetto di neutralità e quello di politico; una impresa particolarmente ardua anche per il più fervido sostenitore del governo mondiale e dell’ecumenismo. È l’espressione di una classe dirigente dimessa, smarrita e senza argomenti in grado di raccogliere un blocco sociale coeso e un popolo.

LE FIERE AL CENTRO DELL’ARENA

A giudicare dalle enunciazioni di principio del “contratto di governo” sottoscritto da Salvini e Di Maio, Mattarella sembra riuscire nella terza opzione. https://www.quotidiano.net/polopoly_fs/1.3919629.1526651257!/menu/standard/file/contratto_governo.pdf Le modifiche apportate in corso d’opera nelle tre edizioni del documento lasciano intuire l’enormità delle pressioni subite dalla coppia di governo. Il giuramento di fedeltà alla NATO, la rivendicazione del rispetto integrale del Trattato di Maastricht e di Lisbona sarebbero lì a certificare la ortodossa professione di fede dei neofiti, la pesantezza e la compromissione delle cambiali firmate da Di Maio nel suo giro preelettorale in Europa e negli Stati Uniti in cerca di investiture e la spavalda remissività di Salvini.

I più navigati, però, sanno che tanto più vige l’ostentazione pubblica delle virtù quanto più occorre indagare sui vizi privati dei paladini.

E in effetti i termini sui quali si dovranno condurre le future trattative in ambito comunitario, annunciate nel documento, se portati avanti con coerenza e determinazione, lasciano presagire una lacerazione piuttosto che una solida ricomposizione della costruzione europea. La riduzione dei surplus commerciali, il riconoscimento del carattere sociale del legame europeo, lo sfondamento dei tetti di spesa, le garanzie comunitarie su crediti e debiti sono tutti cunei in grado di scardinare l’attuale costruzione alemanno-statunitense del continente.

Gli elementi che evidenziano i limiti del documento e quindi delle forze politiche che lo esprimono si annidano prosaicamente in altre parti del testo. Sono limiti che rivelano l’impostazione culturale e strategica dei due gruppi dirigenti, soprattutto quello del M5S, molto più difficile da correggere.

Li si scova tra vari punti particolari del documento:

  • Nell’auspicio dello sviluppo delle politiche regionali europee senza la mediazione, il controllo e l’indirizzo degli stati nazionali. Politiche che, perseguite con coerenza, hanno condotto scientemente all’indebolimento di alcuni stati nazionali, meno di quelli dell’Europa Orientale, dove il decentramento amministrativo è più che altro nominale, soprattutto di Spagna e in particolar modo di Italia, le vere prede designate nel gioco europeo
  • Nella richiesta generica di investimenti pubblici europei le cui modalità e regole di utilizzo sono attualmente in realtà propedeutiche alle politiche di squilibrio e di dipendenza piuttosto che di sviluppo autoctono
  • Nella affermazione di una fantomatica identità europea tale da legittimare l’efficacia unitaria delle istituzioni rappresentative europee eventualmente da potenziare a scapito degli organi non elettivi. Una impostazione che rischia di celare sotto il mantello europeista una diversa modalità del confronto fra nazioni traslato nelle sedi rappresentative piuttosto che negli apparati.

Ma anche in alcune sue impostazioni di fondo, quindi:

  • Nell’enfasi retorica, pressoché univoca, attribuita alle magnifiche sorti e progressive dell’economia circolare e delle tecnologie verdi e alle capacità di sviluppo della piccola impresa. Non è un caso che il ruolo della grande impresa e della grande industria sia del tutto disconosciuto e quello dell’introduzione e soprattutto del controllo delle nuove tecnologie omesso. È l’indizio che si tratta di un gruppo dirigente attento alla complementarietà e alla diffusione di un sistema economico-sociale, sensibile quindi più al consenso elettoralistico, piuttosto che alla creazione di sistema di potenza indispensabile e necessario a sostenere il confronto geopolitico e garantire la coesione e il progresso sociale. Le righe riservate all’ILVA e alle grandi opere pubbliche sono forse la spia più inquietante di questa debolezza. La chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe un colpo mortale all’industria di base necessaria alla riconversione industriale del paese e alla fornitura dei mezzi necessari all’esercizio della propria sovranità. Senza dimenticare che come la chiusura di Bagnoli ha consentito il potenziamento del comando della VI flotta americana a Napoli, la chiusura dell’ILVA a Taranto consentirà il potenziamento del porto militare e della logistica NATO e americana in tutta la Puglia. Una scelta economica, quindi, dalle profonde implicazioni geopolitiche http://italiaeilmondo.com/2018/05/22/taranto-da-polo-siderurgico-a-polo-strategico-della-nato-di-luigi-longo/  .
  • Nella frettolosità con la quale viene liquidato il tema della riorganizzazione istituzionale e burocratica dello Stato. Le indicazioni più concrete di risolvono nella normativa sui referendum, nella istituzione del ministero del turismo e soprattutto nella devoluzione controllata di competenze alle regioni, su loro richiesta. Proposte che se non sostenute da un chiara ed efficace definizione delle competenze dello Stato Centrale sia nei confronti delle amministrazioni locali che dell’Unione Europea rischiano di alimentare la frammentazione e la sovrapposizione di competenze. Una condizione di per sé precaria e fluttuante, ma estremamente pericoloso nel caso in cui, come ultima risorsa, il vecchio establishment nazionale e soprattutto internazionale decida di utilizzare la carta della frammentazione politica del paese. Il revival dei fasti borbonici del re Nasone periodicamente in auge nel Regno delle Due Sicilie, il controllo territoriale delle varie mafie e il basso rango dei centri di potere regionali potrebbero trovare un terreno favorevole di coltura nell’enfasi della democrazia dal basso e di prossimità, nel regionalismo e nella retorica “dell’Italia dei Popoli”, cavalli di battaglia delle due formazioni politiche contraenti

I COMPRIMARI NELL’ARENA

Il PD e Forza Italia sono i due responsabili del naufragio delle aspettative di continuità degli indirizzi politici. Lo spettacolo offerto dall’Assemblea Nazionale del PD di sabato 19 vale da solo a spiegare lo stato di fibrillazione. Un consesso composto da un migliaio di rappresentanti, tenuto da circa settecento partecipanti, con un ordine del giorno modificato al momento, un esodo a metà svolgimento di oltre la metà dei partecipanti ed una conferma a termine del neosegretario Martina con una maggioranza assoluta di duecentottanta persone. Una sinistra, in sostanza, fautrice di un fantomatico nuovo centrosinistra, indisponibile almeno per il momento ad un governo di salvezza nazionale, detentrice di un controllo approssimativo delle redini del partito, la quale fronteggia un Renzi sornione, detentore delle redini parlamentari e del consenso maggioritario di una formazione del tutto trasformata in questi ultimi quattro anni, pronto a riesumare una politica di collaborazione e fagogitazione di parte dei prossimi resti di Forza Italia.

Quanto a Berlusconi, la sua riesumazione e riabilitazione, appare la mossa disperata di una élite ormai incapace di offrire strategie e alternative valide, neppure di breve termine come in Francia. L’estromissione dei francesi da Tim-Telecom e il contestuale sodalizio sottoscritto con Mediaset e la sua produzione mediatica, rappresentano il parziale obolo necessario a rinvigorire l’azione dell’ex cavaliere. Un simulacro che però per il bene del paese dovrebbe ormai essere al più presto accantonato.

IL CONTESTO e LE CONDIZIONI

La sola analisi del documento del “contratto” può indurre però a conclusioni fuorvianti. Alla pubblicità e solennità del testo corrispondono regolarmente strategie e tattiche condotte nella maniera più riservata in un contesto che porta a modificare se non addirittura a stravolgere i programmi e le aspirazioni.

La creazione delle condizioni interne certificheranno la capacità e la serietà delle aspirazioni delle nuove élites in via di formazione.

Il ripristino del controllo della gestione del risparmio nazionale, riportare in casa propria il controllo del debito pubblico, l’istituzione di un sistema finanziario e bancario in grado di garantire lo sviluppo e la ricostruzione industriale, l’interruzione dei processi di integrazione militare e politica ed il ripristino delle condizioni di fedeltà all’interesse nazionale dell’azione delle leve di potere politico e burocratico saranno la cartina di tornasole della serietà delle intenzioni e delle capacità operative.

Altrettanta importanza avranno le condizioni esterne. Il processo di costruzione europea attuale vive una condizione di stallo che prelude ad una crisi sempre più conclamata. La formazione di più sfere di influenza per il momento tutte sotto controllo americano e la frammentazione politica ormai predominante anche nei principali paesi europei non fa che accentuare questo processo e ne è parte integrante.

Il bilateralismo imposto dall’avvento di Trump alla Casa Bianca sta registrando i primi significativi successi con la Cina, la Corea e potrebbe incoraggiare a spingere ulteriormente the Donald a perseguire tali modalità anche in Europa. A quel punto lo scotto da pagare per la Germania, in cambio della permanenza del proprio ruolo in Europa, potrebbe essere particolarmente pesante e compromettere la coesione sociale interna e la solidità del suo cerchio di alleanze più solido ed esclusivo in Europa Centro-Orientale. Tutte condizioni che potrebbero agevolare l’azione della nuova coppia in auge soprattutto in presenza di vecchie élites europee attardate a considerare l’avvento di Trump ancora un semplice incidente. Qualche contatto è stato avviato, ma non si conoscono ancora gli esiti.

Molto diranno le personalità selezionate per costituire il nuovo governo, la loro storia e soprattutto la forza e la determinazione dei loro propositi.

Su questo, il gruppo in formazione, almeno quella parte più sensibile ad un recupero delle prerogative dello stato nazionale, più che essere consapevole delle necessità ed implicazioni appare destinato a scoprire al momento le necessità e a sbattere duramente con la realtà. In tal modo il tempo per trarne lezioni sufficienti è risicato; come in ogni conflitto dall’esito apparentemente improbabile.

Si vedrà già dai prossimi giorni. In quel documento l’impegno insolito ad una condotta controllata del confronto politico tra le due formazioni prelude evidentemente ad altri obbiettivi di più lunga scadenza. Quel che appare certo è che assisteremo ad uno sconvolgimento del quadro politico e a un chiarimento delle varie opzioni. Tutti varchi necessari alla costruzione di un movimento politico più attrezzato alle necessità. L’onda ha iniziato a formarsi. Si vedrà l’energia che riuscirà ad accumulare e la forza con la quale andrà a frangersi

Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?, di Roberto Buffagni

Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?

 

Ci vuole una bella faccia di tolla per fare previsioni su come andrà a finire una cosa che ancora non è iniziata, ma per Vs. fortuna io ce l’ho. Ecco quanto ho divinato.

1) Prima valutazione, in ordine di verisimiglianza secondo il Manuale del Piccolo Politico, pagina 1, capitolo I. Per la Lega, questa è un’abile manovra tattica e un grave errore strategico. Abile manovra tattica, perché batte lo stratagemma (oltre il limite del lecito) di Mattarella, volto a instaurare un nuovo “governo tecnico” (= UE) sotto il nome ossimorico, offensivo per il vocabolario e l’intelligenza, di “governo neutro”. Grave errore strategico perché a) spacca il fronte del centrodestra b) libera le mani a Silvio che non ne vedeva l’ora, fornendogli il pretesto per il voltafaccia c) stende un tappeto rosso a Renzi e al suo progetto neomacroniano di “governo della nazione” d) e ovviamente, di solito formare un governo con un alleato che ha il doppio dei tuoi voti nuoce gravemente alla salute.

2) Seconda valutazione, in ordine di importanza e verisimiglianza secondo il MdPP, pagina 732, capitolo LVI. Se l’operazione governo con i 5* è volta a un rapido ritorno alle urne (= entro un anno, in coincidenza con le europee 2019), dopo il varo di provvedimenti magari epidermici ma propagandisticamente efficaci e graditi all’elettorato, in particolare del Sud, ed eventualmente di una nuova legge elettorale che garantisca la governabilità al vincente, è possibile che l’errore strategico venga evitato, e anzi l’abile manovra tattica si raddoppi in audacissima manovra operativa, perché: a) si evita il governo neutro b) si costringono FI e PD ad affrontare il giudizio elettorale in condizioni di grave difficoltà, senza aver avuto il tempo di consolidare il progetto “Partito della Nazione” neomacroniano. Continua il travaso di voti da FI a Lega, il PD continua a perdere elettori c) gli elettori 5* che provengono da sinistra si allontanano dal Movimento e disperdono molti voti (difficile rientrino in casa PD) d) gli elettori 5* che provengono da destra sono tentati di spostarsi verso la Lega che interpreta più schiettamente le loro propensioni, e qualcuno (non so quanti) lo farà. e) La coincidenza delle elezioni politiche con le elezioni europee avvantaggia chi ha una posizione molto chiara sulla UE, cioè la Lega.

E’ più verisimile che si verifichi quanto al punto 1, abile manovra tattica, grave errore strategico. Però Salvini è un politico che sa il fatto suo, e quindi non ritengo affatto inverosimile che stia tentando l’ipotesi 2, abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa. Se la manovra gli riesce, dal Cielo il feldmaresciallo Erich von Manstein gli manderà a dire “Ben fatto”. Do 70% all’ipotesi 1, 30% all’ipotesi 2.

That’s all, folks.

 

 

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo, di Alessandro Visalli

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo.

Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.

Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.

Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon (come in Inghilterra in Corbyn e in USA in Sanders), separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente arretrate.

Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di là.

 
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S

Commentando questi eventi Carlo Formenti parla dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos, 2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull’assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell’investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.

È questo che alla fine impedisce qualunque progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso.

Ma improvvisamente il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole (risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’, ‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei,

Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra pericolosa.

Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento, di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.

Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per ora identificabile come un ‘momento Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria ‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo. Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.

Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.

Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia parte del problema, che come scrive il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano, nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini (17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice, e considerata tale, di LeU (3%).

Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:

  • la nuova ‘piattaforma tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro e la distribuzione,
  • l’accelerazione dei processi di disarticolazione che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di recente letto Sahra Wagenknecht),
  • l’Europa nel contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo chiamato “la grande partita”),
  • lo smottamento della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.

Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il necessario suggello a questa molteplice frana.

Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.

Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S, che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.

Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono, a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come “Lo Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.

Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato, da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.

Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi, propriamente politica (che anzi ne è il proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale nella rappresentazione politica.

La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’. Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica rimando a questo testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la responsabilità verso i Parlamenti, ma la verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento, perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone, cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono “indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.

La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).

Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito davvero è che la questione del populismo democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.

Quando si conferma l’abbandono delle politiche ‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di “ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei saperi tecnici che le rappresentano).

Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi stupefatti sia il M5S sia Salvini.

Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera se stessa e impara.

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO, di Massimo Morigi

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018: BREVI RIFLESSIONI ATTORNO A  PACCO-ITALIA: ALTO/BASSO, FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA DI ROBERTO BUFFAGNI E A SI APRANO LE DANZE DI GIUSEPPE GERMINARIO

 

Di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/03/06/pacco-italia-alto-basso-fragile-maneggiare-con-cura-di-roberto-buffagni/

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

 

Pur senza consapevolezza della posta in gioco e delle eventuali conseguenze da parte del corpo elettorale, le elezioni politiche italiane del marzo 2018 hanno decretato la morte delle vecchie classi dirigenti e delle loro ideologie (liberalismo ed antifascismo) che avevano legittimato di fronte ai vincitori la ricostruzione di una nazione uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. Si tratta di un evento epocale di fronte al quale, in questo momento, appare onestamente del tutto secondario che la forza uscita vincitrice al nord del paese, pur espressione della sua parte più produttiva, non abbia alcuna consapevolezza teorica della posta in gioco e che la forza egemone al sud sia espressione di profonde e radicate pulsioni assistenzialistiche, senza rendersi conto gli elettori di questa parte politica che la realizzazione di un piena cittadinanza può essere realizzata solamente liberandosi dei lacci mentali dell’ideologia liberale ed antifascista che rende l’Italia una colonia economica, politica e culturale, una condizione liberatasi dalla quale solo allora sarà possibile innestare in Italia una autentica rivoluzione attraverso la quale anche le vecchie forme assistenzialistiche (prima democristiano-comuniste ed ora di appannaggio esclusivo dei pentastellati) possono tramutarsi in una autentica occasione di profondo e reale sviluppo (cioè di rivoluzione) per il sud e quindi per il resto del paese. Ma anche la forza ora politicamente egemone al nord, la Lega, non riesce ancora ad esprimere la consapevolezza che i suoi ambiziosi ed ampiamente condivisibili obiettivi (drastico abbattimento fiscale, difesa culturale dell’identità italiana e tutela economica dell’Italia e dei suoi operatori contro la peste delle globalizzazione)  sono possibili solo gettando a mare gli idola tribus ideologici di cui si è detto prima riguardo ai cinque stelle. Il processo iniziato con le elezioni del 4 marzo 2018 non è ancora completato. Da parte della Lega manca ancora il completo inglobamento di quell’equivoco chiamato Forza Italia; e da parte del movimento pentastellato non è ancora del tutto riuscito l’annientamento di quell’altro grande equivoco che va sotto il nome di partito democratico. Quando (e se) questo processo sarà completato, se ciò non sarà accompagnato da una migliore consapevolezza teorica della posta in gioco, cioè l’abbandono degli idola tribus chiamati liberalismo ed antifascismo con le conseguenze di servaggio dalle potenze straniere che sono il loro logico corollario, l’Italia, come acutamente paventa l’amico Roberto Buffagni in Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura,  ritornerà veramente ad essere una metternichiana espressione geografica. Se invece questo processo di ribellione dalle attuali élite sarà parallelamente accompagnato da un’analoga maturazione e liberazione politico-culturale, si può veramente sperare che le due direttrici della protesta possano veramente mutare natura e divenire le due formidabili braccia di una rivoluzionaria manovra a tenaglia che spezzerà le catene che tengono legata l’Italia da più di settant’anni. Se ciò non sarà, il movimento cinque stelle riconfermerà la sua natura intimamente servile di guardia bianca controrivoluzionaria al servizio delle potenze straniere che hanno vinto il secondo conflitto mondiale, e la Lega non potrà certo pretendere (e non vorrà assolutamente intraprendere) quella legittima azione di liberazione economica dalle tecnoburocrazie italiane ed europee e dalle rimanenti bardature economico-clientelari del morente PD del nord. Insomma, in questa che Germinario chiama “apertura delle danze” siamo ancora al minuetto. Penso che non dovremo attendere molto per vedere se il minuetto si trasformerà in una luttuosa marcia funebre per l’Italia oppure in un energico boogie-woogie, che, come si sarà capito, non è qui metafora di un idilliaco stato di quiete ma l’augurio di una rinnovata consapevolezza strategica perennemente   in statu nascenti, il cui cardine è la comprensione della natura intimamente creatrice del conflitto qualora questo si svolga in forme razionali e socialmente condivise. Una epifania strategica che sarebbe veramente singolare – e triste – che non si manifestasse in una nazione che ha dato i natali a Niccolò Machiavelli, Giuseppe Mazzini ed Antonio Gramsci.

Massimo Morigi – 8 marzo 2018

Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura, di Roberto Buffagni

Pacco-Italia: Alto/Basso.

Fragile. Maneggiare con cura

 

Com’è il pacco-Italia che ci hanno recapitato le elezioni politiche 2018?

Be’, anzitutto è rovesciato: presenta il lato Basso in alto. Però sconsiglierei di raddrizzarlo bruscamente, perché il pacco è molto Fragile: basta guardarlo un momento, e si vede che presenta una netta linea di frattura proprio a metà, fra Nord e Sud. Insomma: maneggiare con cura.

Non stupisce, che il Basso (Lega al Nord, Movimento 5 Stelle al Sud) abbia rovesciato l’ Alto. Il centro di gravità dell’Alto che sinora ha governato l’Italia (il PD) era situato troppo, troppo in alto: geograficamente, oltre la cintura alpina, a Bruxelles e a Francoforte; socialmente, nei ceti che, a torto o a ragione, identificano il loro interesse con l’Unione Europea; geopoliticamente, lungo la direttrice nordeuropea, che rovescia la naturale direttrice mediterranea dell’interesse nazionale italiano. Con la testa nelle nuvole, l’Alto ha lasciato che il Basso si allargasse, si appesantisse, si depositasse sempre più in basso, ed ecco il risultato: Basso continuo, dalle Alpi a Capo Passero.

Il risultato è un enigma, perché non può esistere un Basso senza un Alto. Chi formerà il nuovo Alto di questo Basso, e come? Il quesito da risolvere è questo.

Una prima analisi del Basso italiano distingue tra un Basso nordista che sventola la bandiera del Lavoro e, ancora timidamente, la bandiera della Nazione; e un Basso sudista che sventola la bandiera del Soccorso e, ancora timidamente, la bandiera dell’Unione Europea. Il Basso nordista cerca di diventare Popolo liberandosi dal suo servaggio con lo strumento tradizionale del suo riscatto, la laboriosità; il Basso sudista si presenta per quel che è, Plebe; e se da un canto se ne inorgoglisce sfacciatamente (“uno vale uno” vuol dire “non siete meglio di noi”) dall’altro mendica da “Franza o Spagna” l’urgente soccorso di cui ha vero bisogno, il “reddito di cittadinanza”, il “purché se magna”.

Si ridisegnano, insomma, a centosettant’anni di distanza, le linee di frattura sociali e geografiche che non riuscì a saldare l’ “eroico sopruso” dell’unificazione nazionale italiana, e ci impongono un urgente esame di realtà, senza il quale non potrà sorgere un Alto che guidi questo Basso.

Ci hanno fornito le coordinate essenziali di questo esame di realtà tre dei maggiori interpreti della storia e dell’identità italiana, che tutti conosciamo dai tempi della scuola: Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Giovanni Verga. Il conte Manzoni dedica la sua opera maggiore alle vicende di un’operaia tessile e di un operaio qualificato che diventa piccolo imprenditore. Il conte Leopardi, in una delle sue poesie più luminose, si fa pastore errante, un marginale così isolato che gli tocca di parlare con la luna. Il rentier Giovanni Verga, nel suo romanzo migliore, ci racconta la storia di una famiglia di poveri pescatori e di un carico di lupini. Ciascuno a suo modo, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi e Giovanni Verga ci dicono una verità che noi italiani già sappiamo tutti, se appena ci riflettiamo e siamo onesti con noi stessi: che il modo di essere naturale, archetipico, dell’Italia e degli italiani è la povertà. Siamo stati la quinta potenza industriale del mondo, tuttora possediamo, neonati compresi, un paio di telefoni cellulari a testa, ma la povertà resta, nel bene e nel male, la nostra casa: finché ne avremo una. Povertà e ricchezza hanno ciascuna le sue virtù e i suoi vizi. Virtù e vizi della ricchezza – amore della gloria e della sfida, fiducia in se stessi, alterigia, distacco – non ci riescono bene. Siamo decisamente più a nostro agio con virtù e vizi della povertà. Le principali virtù della povertà sono: sapere, fin dentro le ossa e il midollo, che la sciagura esiste sul serio, nella vita quotidiana di tutti e non solo nei libri; la modestia del realismo; la dignità che ne consegue; e la laboriosità. I principali difetti della povertà sono: il sogno della ricchezza che divora tutto; la millanteria della grandezza; il vittimismo; e la tentazione ricorrente del melodramma, cioè a dire la tentazione di credere e agire come se i poveri e i deboli, solo perché poveri e deboli, fossero buoni e incolpevoli: come se la responsabilità di errori colpe e mali fosse sempre dei ricchi e forti, e soprattutto degli altri.

Per noi italiani la tentazione del melodramma – la tentazione di dare la colpa (e con la colpa, la responsabilità) agli altri – è oggi la più forte e la più pericolosa: e il Movimento Cinque Stelle ne è l’espressione politica schiettamente servile. Non è un caso fortuito che a fondarlo sia stato un comico. La posizione del comico è la posizione del servo, che nella zona franca della scena, dove gli spari non uccidono e le decisioni non impegnano, può salire in Alto e dire le sue ragioni. In condizioni normali, cioè se il centro simbolico, politico e sociale tiene, quando cala il sipario il servo riprende il suo posto nel mondo e torna in Basso. Oggi il centro non tiene, e il Servo si ritrova in primo piano sulla grande scena del mondo, dove le scelte hanno conseguenze, le decisioni impegnano, gli spari uccidono: e spaurito, incredulo, se ne esalta e sogna.

Che cosa sogna, il Servo-Movimento Cinque Stelle? Be’: continua a sognare, in forma semplificata, ingenua, caricaturale, il sogno che gli ha insegnato a sognare il suo padrone, il PD: il sogno dell’Europa “dove lavoreremo un giorno di meno e guadagneremo un giorno di stipendio in più”, secondo la gesuitica profezia di Romano Prodi; e lo riformula sognando che da Lassù, Qualcuno ci recapiterà lo stipendio senza che ci diamo la briga di lavorare neanche un’ora. Insensato? Certo che è insensato. E allora? A tanti italiani, specie al Sud, appare insensata l’ambizione di lavorare, crescere una famiglia, mettersi un tetto sulla testa e una lapide sulla tomba, insomma: appare insensata la vita. Perché non preferirle un sogno, altrettanto insensato ma lieto?

La Plebe del Sud che vuole sognare e il suo partito, il Movimento Cinque Stelle, sono dunque l’avversario politico naturale del Popolo del Nord, che vuole destarsi.  Se il Nord saprà proporre al Sud una via praticabile e una prospettiva sensata, vivibile anche da svegli, dal Basso del Nord e del Sud potrà sorgere un nuovo Alto, capace di ricomporre e guidare l’Italia intera. Se non ci riuscirà, l’Italia ne uscirà balcanizzata, e tornerà ad essere un’ “espressione geografica”, come la definì la celebre formula del principe Clemens von Metternich.

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

Siamo all’apertura delle danze. L’esito degli esami corrisponde all’incirca ai voti di ammissione assegnati.

I resti di una classe dirigente che, rimossa senza troppe riflessioni la propria appartenenza di origine, ha governato senza gloria e imprimendo ferite indelebili al paese il dopo Tangentopoli senza trovar di meglio che rifugiarsi nella ridotta di Liberi e Uguali assieme ai paladini del diritto umanitario e della soluzione giudiziaria del conflitto politico, devono ormai riporre mestamente i remi in barca. D’Alema, Bersani avranno il privilegio di disporre di un caminetto e di poter punzecchiare qui e là, con le loro fondazioni e circoli, senza infastidire più di tanto e dopo aver strumentalizzato da par loro i resti di un movimento. Di Grasso e Boldrini ogni commento è superfluo, come superflua è stata la loro presenza politica in questi ultimi cinque anni ridotti come sono, specie l’ex terza carica, ad una caricatura.

I polli allevati in quella batteria, in particolare nel vivaio di Francesco Rutelli, li hanno scalzati appoggiandosi al Rottamatore, confidando in tal modo nella propria sopravvivenza. Un sodalizio, piuttosto una tregua concordata, durato appena tre anni. Ai primi segni di eccessivo carico di una nave in tempesta è stata la prima zavorra ad essere eliminata per salvare il comandante e la ciurma più fedele. La ripartizione dei posti nelle circoscrizioni elettorali è stato lo strumento di questa selezione con buona pace dei Franceschini e dei Cuperlo. Un modo, anche, per rendere ancora più impervia una successione non concordata con il monarca traballante.

E il monarca traballante, Renzi, pur dimissionario non ha alcuna intenzione di rinunciare alla partecipazione della tessitura. Pur di esistere è disposto a rimaneggiare ulteriormente la ridotta entro cui arroccarsi. Annuncia un nuovo congresso dove si chiariscano definitivamente rapporti di forza e linee politiche, quasi che il precedente appena celebrato non avesse già assolto ferocemente al compito. Fa il muso duro agli avversari interni ed esterni, soprattutto al M5S; nella sua determinazione, però, si riserva di “scandire i no ma anche i sì”, segno che le trattative prima o poi dovranno partire. Potrà, alla bisogna, nascondersi dietro la foglia di fico di un nuovo segretario prestanome, ma il solco comincia ad essere tracciato senza alcuna distrazione sul rispetto delle linee fondamentali portate avanti sino ad ora a dispetto delle batoste “democratiche”. Nelle more ci ha pensato l’insignificante risultato di Casapound a certificare la pretestuosità delle emergenze fasciste e razziste in agguato. Il nostro, ormai, rimane aggrappato ad una sola speranza: logorare il M5S e approfittare di una parte delle spoglie di Forza Italia. Il ventaglio delle opzioni e i margini di manovra si restringono ormai sempre più; l’ultimo appuntamento fruibile potranno essere le elezioni europee del ’19 sempre che la situazione non precipiti. Le sponde europee, a cominciare da Macron, non mancano. Un ipotesi quindi tutt’altro che peregrina. Allo stato, vista l’attuale composizione del gruppo dirigente, Renzi non ha rivali. Il pericolo potrebbe arrivare da chi ha scelto di non partecipare alla battaglia elettorale e di rimanere in attesa ai margini pur partecipando attivamente al dibattito. Una tattica della quale Renzi si è rivelato maestro. Si sa però che prima o poi un discepolo superiore in astuzia potrà superarlo. Da lì a riuscire a risollevare le sorti disperate di un partito però ce ne corre.

Nella guerra di posizione appena iniziata ci ha pensato una ragazza di trent’anni a seno nudo a sbattere in faccia a Berlusconi il suo futuro. “SEI SCADUTO” recitava l’epitaffio beffardo sui seni taglia due, giusto perché fosse più nitido e leggibile, della Femen. Un gruppo, quello delle Femen che non agisce mai di propria iniziativa; che obbedisce direttamente agli ordini del filantropo Soros; che è riuscito stranamente a violare, ancora una volta, il servizio di vigilanza personale dell’ex cavaliere. Tutta l’aria insomma di un oscuro e minaccioso avvertimento a mettersi da parte, vista l’inutilità del suo impegno.

L’avvento di Trump, infatti, ha contribuito in maniera determinante ad accelerare processi già in corso. Ha quantomeno indebolito e disarticolato l’azione dei potenti mentori americani dei personaggi politici europei ed italiani attualmente sulla via del tramonto; ha mostrato che non sono onnipotenti ed inattaccabili e di conseguenza incoraggiato movimenti alternativi; sta soprattutto articolando una diversa politica estera meno propensa a sostenere senza alternative istituzioni sovranazionali come la Unione Europea.

L’onda di rinnovamento è potente e profonda, cavalcarla è difficile, ma non ha ancora trovato una direzione precisa.

Il ricambio che si sta verificando in Italia, sia negli aspetti positivi appena abbozzati, sia in quelli trasformistici ancora del tutto prevalenti, sono quindi un aspetto di un contesto ben più ampio.

Nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord d’Italia ha assunto connotati diversi, ma va indirizzato.

Nel Nord c’è una spinta fortissima dei ceti produttivi. Una autocontemplazione delle aspirazioni, legata alla frammentazione imprenditoriale e a un fuorviante approccio tra pubblico e privato sono una barriera alla individuazione delle priorità, ivi compresi la difesa e lo sviluppo delle grandi imprese.

Nel Sud il deserto economico e sociale e la casualità delle isole di sviluppo pur presenti ha generato un movimento ancora più potente che per la fragilità e permeabilità della guida rischia di essere ricondotto rapidamente nel gioco classico del notabilato.

Una ragione in più per la costruzione di una solida e determinata guida politica.

L’avvertimento a Berlusconi sembra indicare che i portatori di questo trasformismo sono ormai altri, incompatibili con la sua persona e presenti in tutte le formazioni, alcuni nelle posizioni di comando altri momentaneamente in quiete ma pronti ad emergere alla bisogna.

Il M5S sembra essere il luogo e uno dei candidati principali a questa operazione gattopardesca anche a costo di un progressivo sacrificio degli attuali livello di consenso in tempi nemmeno così dilatati, visto lo sviluppo convulsivo degli eventi. I segnali di questa investitura cominciano ad essere numerosi. I fondamenti culturali ed ideologici del suo mutevole programma, la sua permeabilità e le prime preoccupanti indicazioni dei criteri di selezione della nuova classe dirigente sono lì ad inquietare e far vacillare le più genuine aspettative.

La cartina di tornasole sarà la propensione al cedimento delle sirene di una qualche forma di governo di larghe intese, connaturato per di più a questa legge elettorale.

Nel frattempo apprezziamo quanto meno gli spazi e i varchi che si apriranno, vista la maggiore difficoltà di perseguimento di tali mire e mettiamo a nudo la forza e le debolezze dei possibili attori e portatori di nuovi indirizzi. Le finestre di opportunità non durano all’infinito e il più delle volte non sono gli attori alternativi ad aprirle; per lo più essi devono essere pronti a coglierle.

L’importante è che il ballo cominci.

LE PAGELLE DI UNA CAMPAGNA ELETTORALE, di Giuseppe Germinario

Tempo di pagelle alla vigilia dell’esame e del verdetto!

Due mesi di campagna elettorale serrata seguita ad oltre un anno di guerra di posizione e di campagna elettorale strisciante hanno rivelato molto sulla condizione dei partiti, sulle loro mutazioni e sulla qualità dei loro gruppi dirigenti. C’è chi riesce a brillare nelle piazze. Meno il M5S rispetto agli anni scorsi, di più la Lega e Fratelli d’Italia rispetto al recente passato. I più avveduti sanno da tempo ormai che non esiste necessariamente corrispondenza diretta tra piazze piene e pienone di voti. La partecipazione ad esse infatti non comporta adesione automatica della stessa folla nelle urne; il voto di interesse e di opinione segue inoltre infiniti altri canali di espressione e subisce numerose altre modalità di influenza. Dopo questo breve preambolo qui di seguito un giudizio sui principali partiti con una precisazione: il voto non deve indurre ad una previsione del responso elettorale ad esso corrispondente. Sono due livelli di analisi diversi.

MOVIMENTO 5 STELLE: voto 8

Il suo gruppo dirigente è stato il protagonista di un ragguardevole miracolo al limite del funambolismo. È riuscito a mimetizzare quasi completamente una radicale operazione trasformistica del proprio programma e del proprio sistema di relazioni cercando di intaccare il meno possibile il totem costitutivo della propria forza persuasiva: la formulazione dal basso nelle decisioni e nell’elaborazione della piattaforma politica. A partire dal referendum sulle riforme istituzionali del dicembre 2016 è partita la caccia al grande sconfitto: il PD renziano. Da quel momento è partita la campagna di costruzione del personaggio Di Maio-uomo di governo. Una campagna per nulla estemporanea; costruita sapientemente passo dopo passo, con un dispendio di mezzi considerevole e con una inedita capacità, rispetto agli altri contendenti, di utilizzo dei sistemi mediatici tradizionali e più innovativi. È stato certamente agevolato dall’esistenza di un alter ego, Alessandro Di Battista, tutto intento a rassicurare e vellicare le pulsioni dell’anima movimentista del M5S. Ha potuto altresì godere dell’assenza di interlocuzione e di confronti diretti con i propri avversari. Un primo banco di prova che avrebbe potuto mettere a nudo le sue effettive capacità di sostenere uno scontro politico. Ha approfittato dello scarso spessore degli attacchi tutti incentrati sull’onerosità del programma economico, paragonabile a quella degli altri partiti e sulla scarsa moralità e sull’incompetenza del gruppo dirigente, quasi a voler trascinare tutti pretestuosamente nello stesso girone infernale. Un atteggiamento distruttivo, quello degli avversari, in realtà autolesionistico e incapace di offrire una prospettiva positiva al paese. Sta di fatto che il successo mediatico e la capacità di imporre i temi e di rovesciare la posizione di difesa dagli attacchi sono inequivocabili. Di Maio, soprattutto lo staff che ha sapientemente organizzato la campagna, è riuscito sin da subito a smontare i possibili argomenti di critica e di attacco più insidiosi. Recandosi negli Stati Uniti ha cercato sostegni e investiture nei circoli che indirizzano e condizionano la politica italiana. Un pellegrinaggio ostentato e evenemenziale da parte sua, assiduo e discreto da parte del suo staff, soprattutto il suo mentore Casaleggio. Portandosi, successivamente, nelle sedi dei “poteri forti” finanziari e istituzionali europei con un intento rassicurante riguardo alle proprie intenzioni. Costruendosi, in televisione, nei suoi numerosi viaggi mirati nelle realtà produttive del paese, persino nei rari comizi, l’aplomb di “uomo delle istituzioni”, sino al vero e proprio colpo di teatro della presentazione dell’eventuale governo in caso di vittoria elettorale. Una costruzione dell’immagine alla quale ha corrisposto un progressivo e per quanto possibile discreto spostamento degli originari indirizzi politici radicali in materia di politica estera, riguardo all’atteggiamento verso l’Unione Europea, la NATO, la Russia e di politica economica, sempre più di stampo meramente keynesiano, velleitaria rispetto agli attuali vincoli sottoscritti, ma compatibili col dogma del sedicente libero mercato sul quale si fonda l’attuale edificio europeista. È stato il modo quasi geniale con il quale si sono smontati sul nascere gli argomenti di critica degli avversari; sia di quelli ortodossi rispetto alla vulgata europeista e occidentalista sia di quella eretica, ma paralizzata dalla scelta di appartenenza allo schieramento di centrodestra. Si vedrà se tale modo di conduzione porterà al partito i frutti sperati. Di certo questi frutti si riveleranno ancora una volta avvelenati per il paese e rimanderanno ancora una volta la possibilità di costruzione di una classe dirigente capace di tirare fuori la nazione dalle sabbie mobili nelle quali è sempre più impantanata. Non si può nemmeno dire che si tratti di una vera e propria operazione trasformistica; consiste, piuttosto, in un adeguamento pressoché fisiologico degli indirizzi e obbiettivi politici alla visione di fondo del movimento legata alla illusione partecipativa predominante dal basso, al decentramento esasperato, alla sopravvalutazione delle tematiche dell’economia circolare e dell’ecologia, ad una visione dello sviluppo tecnologico slegato dal ruolo delle grandi imprese e delle strategie politiche dei centri di potere, per non parlare della questione dell’immigrazione. Tutti approcci perfettamente compatibili, anche nel loro velleitarismo, con gli attuali assetti istituzionali in Europa e nel mondo occidentale. Una strategia che ha condotto fisiologicamente il confronto elettorale verso i temi più congeniali, ma anche fuorvianti, al movimento: la moralità, l’onestà. La composizione del governo proposta da Di Maio è tutta lì ad attestare questo assestamento. Personaggi di seconda linea, scelta pressoché obbligata, visto il rischio personale di tale esposizione così azzardata. Personalità in parte legate al mondo della cooperazione internazionale; alcune con legami espliciti con le fondazioni di Soros e dei centri finanziari più potenti, altre con i centri culturali di emanazione europeista, altre ancora di centri universitari di seconda linea ma con legami internazionali e orientamenti spesso espliciti. Figure che danno una impronta di governo tecnico gestibile efficacemente solo grazie all’autorità assoluta del capo politico del Governo, pena l’eterodirezione della compagine. Una qualità tutta da dimostrare e sinora rimasta quanto meno in ombra nel leader emergente. Il voto è limitato ad otto per un motivo semplice quanto essenziale. Il completo successo di immagine avrebbe dovuto comportare la trasformazione di Di Maio e del Movimento in un soggetto capace di “dominare” autorevolmente le masse piuttosto che di esserne o fingerne di essere imbevuto dalle masse. “Le phisique du role” del personaggio è tutto lì a svelarne i limiti. Le conseguenze di queste impronte sono prevedibili. Un movimento sempre più terra di conquista di interessi particolaristici e di piccoli potentati locali; una direzione sempre più bisognosa di investiture esterne, piuttosto che di capacità egemoniche proprie. Il progressivo disvelamento dell’anima sinistrorsa più deleteria della dirigenza di quel movimento, legata all’antiberlusconismo moralistico, più volte segnalata negli anni da questo sito, è tutta lì a tracciare la direzione delle future scelte politiche del movimento. Taluni assimilano questa ascesa all’esperienza di Macron in Francia. L’opacità dei centri ispiratori, l’assenza di forti centri di potere endogeni promotori sono lì invece ad attestarne limiti e diversità.

LEGA DI SALVINI: voto 7

Le capacità tribunizie sono indubbie, come pure quella di trascinare il partito verso la costruzione di una immagine “nazionale”. La Lega infatti ha riscoperto, almeno nel Centro-Nord del paese, una capacità di mobilitazione ormai riservata ai ricordi della vecchia dirigenza. Il limite, però, è visibile nell’atteggiamento compiaciuto di “buon padre di famiglia” assunto, in realtà probabilmente connaturato al leader. Una veste che rende per il momento poco credibile la sua rivendicazione di uomo di governo, se non addirittura di Stato, portatore di una svolta radicale praticabile. Il retaggio della Lega Nord, con le sue impronte identitarie localistiche, antinazionali e spesso razziste, è ancora particolarmente pesante all’interno e presente nella memoria del paese. Il ripiego di fondare il partito nazionale sulla base di una alleanza dei “popoli italici” è di una tale ambiguità da compromettere ancora la solidità del nuovo edificio e da far rientrare dalla finestra i demoni accompagnati alla porta del nuovo partito. Un percorso analogo a quello che sta percorrendo il Fronte Nazionale francese. L’accordo elettorale nel centrodestra, un passo probabilmente obbligato dalla condizione interna del partito, si sta rivelando un capestro che ha impedito di mettere a frutto la diversità e l’alternatività di buona parte dei punti presenti nel programma elettorale rispetto agli avversari dichiarati del PD ed occulti interni del centrodestra e rispetto ai competitori del M5S. Le occasioni per smarcarsi e qualificarsi, anche in questa campagna elettorale, non sono mancate, a cominciare dai fatti di Macerata, della ritirata ingloriosa della nave dell’ENI dalle coste di Cipro, dalle pesanti intromissioni dei vertici della UE; ma non sono state colte se non parzialmente e in maniera inadeguata rispetto alla postura che Salvini vorrebbe assumere. Le oscillazioni, si vedrà se tattiche o strategiche, ma comunque tendenti alla normalizzazione, rispetto alla politica estera, alle politiche comunitarie, a quella industriale, come pure l’impronta data alle politiche di riforma istituzionale ne minano la credibilità. Denotano ancora una volta una colpevole sottovalutazione, comune per altro a tutte le forze di opposizione organizzate, del fatto che conquistare voti, prendere la maggioranza elettorale, assumere le redini del governo non significa conseguentemente avere la possibilità di esercitare effettivamente il potere e mettere in opera i programmi, per quanto ben intenzionati e costruiti. A controbilanciare parzialmente questi limiti e questa deriva rimangono alcune candidature significative come quella di Bagnai, ma ad una condizione: l’acquisizione di credibilità attraverso la rottura postelettorale della coalizione con Forza Italia e l’assorbimento di una parte delle sue spoglie. È probabilmente questo il motivo per il quale Salvini spera in una dèbacle solo parziale del PD e nella formazione di un governo di unità nazionale a lui estraneo, ma comprensivo di Berlusconi o del M5S. In alternativa si assisterà al rapido declino dell’ennesima promessa del firmamento politico italiano non proprio esaltante

FRATELLI d’ITALIA: voto 6

Valgono in buona parte le stesse valutazioni su Salvini ma con un margine più positivo rispetto alla coerenza politica ed autonomia di giudizio rispetto a Berlusconi ed uno più negativo rispetto al carattere un po’ casereccio della conduzione e dell’immagine, solo in parte compensato da figure come Crosetto, ma gravemente compromesse da quelle come Larussa.

FORZA ITALIA e PARTITO DEMOCRATICO: voto 5

La prima paga il segno evidente del declino irreversibile fisico, morale e di credibilità del leader Berlusconi. Un tramonto non legato alla moralità e alle vicende giudiziarie, spesso di carattere persecutorio, del personaggio. Collegato soprattutto alle scelte opportunistiche, di vera e propria sottomissione e trasformismo, sfociato in collusione, delle sue scelte di politica estera, comunitaria ed interna specie a partire dal 2010. Sta coronando il senso della sua esistenza, ormai al limite dell’inverecondia e un po’ penosa, viste le condizioni della persona, con l’estremo tentativo di bloccare l’affermazione di forze, ancora troppo premature da definire sovraniste, ma quantomeno più autonome e reattive nelle scelte politiche di conduzione del paese. Ormai si avvicina sempre più alla funzione del nobile decaduto ormai impegnato ad orientare, eterodiretto, la suddivisione delle proprie spoglie politiche in cambio di una probabile parziale salvaguardia di quelle economico-finanziarie. Da qui la conduzione di una campagna incapace di imporre i temi, un filo conduttore unitario e con lunghe pause di lucidità.

La sopravvivenza della dirigenza del PD e il suo possibile procrastinarsi al responso elettorale è ormai legata alla suddivisione di queste spoglie. Il tandem ipotizzato tra la forza tranquilla espressa da Gentiloni e Minniti e l’atteggiamento d’assalto e ultraottimistico di Matteo Renzi si è rivelato in realtà una corsa in parallelo tra due atleti. Tanto più che la riconduzione alla passiva ortodossia europeista e la rapida constatazione della inconsistenza della forza dei pugni battuti da Renzi al tavolo di Bruxelles ha privato il leader, ormai opaco e debilitato, della prospettiva di cui è stato capace Macron in Francia. Quelo che pareva un destino parallelo con il leader francese, appare ormai come un surrogato caricaturale che non porterà niente di buono al paese. La campagna elettorale è apparsa motivata più da ragioni pretestuose nei confronti degli avversari, che dall’offerta di una prospettiva credibile al paese, comprensiva dei successi e dei tanti insuccessi e risultati nefasti. Si tratta di una lotta ormai per la vita o la morte. C’è l’ambizione di rigenerarsi parzialmente raccogliendo le spoglie di chi sta ancora peggio; c’è però il rischio evidente di diventare esso stesso una preda, sia nelle parti nobili che in quelle in via di putrefazione. I travasi che si stanno verificando, specie nel Mezzogiorno, come pure le alleanze elettorali, come con la Bonino prodiga di finanziamenti e di impegno specie nei collegi esteri, segnalano ben poco di buono.

LIBERI e UGUALI: voto 4

La realtà politica ha rivelato rapidamente la sua natura. Una sommatoria di sigle in declino ed incerte sugli indirizzi concreti. Hanno nascosto la condizione dietro una sommatoria di rivendicazioni sindacali e redistributive con il cappello dei diritti umani, del legalismo giudiziario e della fantomatica lotta ai poteri forti finanziari dietro i quali giustificare le solite alleanze politiche sia internazionali, in specie con il Partito Democratico americano, che interne. Un manifesto pretestuoso utile a mascherare l’intenzione di logorare il PD renziano e di riproporsi tra i commensali dell’arco costituzionale. Una ambiguità che sta impedendo loro di recuperare la gran parte del popolo sinistrorso e di offrire una rappresentazione scialba e spesso infantile della propria identità a beneficio esclusivo, nemmeno certo, delle carriere al tramonto e pittoresche di personaggi come Boldrini o malinconiche e nostalgiche, quali quelle di d’Alema e Bersani. Il resto è pura appendice.

Questi sono i voti, del tutto personali. A presto l’esito degli esami, quello più oggettivo.

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