INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO

Da tempo le esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono oggetto di critiche, in particolare di essere permissive, anti-legalitarie, garantiste, ecc. ecc. Per saperne di più siamo andati a intervistare il barone di Montesquieu, noto intenditore di libertà politica e di Stato di diritto il quale, ci ha benevolmente concesso l’incontro.

Caro barone, che ne pensa della dichiarazione del Ministro Nordio che “La nostra legislazione tributaria è piena di ossimori. Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo le imposte non riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono”.

Penso che il legislatore, come ho scritto, deve essere chiaro e conciso, la moltitudine delle leggi impedisce il secondo carattere e rende problematico il primo.

L’ideale della legge è quella delle XII tavole: così piana e succinta che i bambini romani la conoscevano a memoria. Provate a fare la stessa cosa con le leggi italiane, anche soltanto con quelle tributarie: non ci riuscirebbe neanche Pico della Mirandola. Ma quei caratteri sono essenziali per la certezza del diritto; cioè per un connotato fondamentale dello stesso. Senza quelle, il diritto non è altro che l’arbitrio (facile) dell’interprete.

Cosa ne pensa del fatto che Nordio ha detto che non vuole interferenze dell’ANM nella formazione delle leggi?

Che ha capito lo “spirito” del mio pensiero, anche oltre la lettera; ho scritto che “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”. Certo qui non si tratta di un’interferenza formale, prescritta dalle leggi (il che sarebbe ancora peggio). Ma certo un’interferenza di un soggetto rappresentativo di una categoria di funzionari pubblici che esercitano uno dei poteri  dello Stato è, a mio avviso, comunque da evitare per scongiurare quanto da me sostenuto. Che può essere declinato in più maniere, la prima delle quali è che, per conseguire la libertà politica, è necessario che colui che pone la norma non sia quello che la applica. Invece coloro che criticano il Ministro sembra che tengano non alla libertà o alla legge, ma al potere della burocrazia di applicarla, nel modo meno determinato e controllato possibile. Un caso di buromania e di burodipendenza.

Passando ad altro, che ne pensa della concezione, anche dell’Unione Europea, di misurare lo “Stato di diritto” (soprattutto) sulla protezione dei diritti “LGBT”?

Ho sostenuto, a proposito della libertà che “Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi…. Gli uni l’hanno presa nell’accezione di facilità di deporre colui al quale avevano conferito un potere tirannico; gli altri come la facoltà di eleggere colui al quale dovevano obbedire; altri ancora come il diritto di essere armati e di potere esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione o delle proprie leggi. Un popolo ha preso la libertà per l’uso di portare una lunga barba”. Ecco a me pare che chi condivide la concezione suddetta è assai simile a quelli che la pensano come facoltà di farsi crescere la barba. Quando tanti diritti sociali ed economici sono poco garantiti, pensare e tutelare pretese marginali (e in qualche caso non fondate sulla realtà) mi sembra un tentativo, come dite, di distrazione di massa. Si pensa al diritto di affittare gli uteri (et similia) per costruirsi un’immagine gradevole e “liberale”, senza pagare prezzo.

Allora la ringrazio sig. barone,  posso tornare ad intervistarla?

Sinceramente penso che ce ne sarà bisogno. Come ho scritto non è che il regime delle repubbliche italiane dei miei tempi fosse del tutto corrispondente alla forma di governo dispotica. Ma avverto, nel vostro modo di governare, una tendenza storica a raggiungerla. E, per quanto mi riguarda, darò mano per invertirla.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Un paese in declino, grazie a Confindustria e ai suoi servi di Pasquale Cicalese

Ho visto la prima pagina de IlSole24 ore di ieri. Titolo: allarme competitività, produttività e innovazione giù.

Premetto che a me sta bene tutto, purché sia produzione. Ma mi dite che innovazione possono avere settori portanti dell’industria italiana quali arredo, alimentare, tessile, abbigliamento, calzature ecc?

Sono settori che occupano una parte non indifferente degli occupati industriali. In questi settori puoi fare solo innovazione di processo, non di prodotti, perché i prodotti sono quelli, peraltro richiesti dal mercato mondiale.

E per fare innovazione di processo devi mettere soldi sulla struttura della propria azienda, fare cioè gli investimenti. Che non fanno da 50 anni, basandosi tutto su salari bassi. E dunque diminuendo, tramite consumi inferiori, la domanda interna.

Puoi fare innovazione digitale, di macchinari, ma sul prodotto puoi fare ben poco.

Questi sono settori – a parte la mancata meccanizzazione dell’agricoltura – dove i proprietari hanno immensi patrimoni personali ma basano tutto sull’apporto pubblico, di vari enti, da centrali a periferici, per fare qualche investimento. Poi magari, come successo negli ultimi 40 anni, delocalizzi, ma poi ritorni perché nel frattempo i salari dei paesi dove sei andato sono cresciuti ai livelli nostri.

Ecco, basano tutto su bassi salari. Non abbiamo quasi più industria automobilistica, siderurgica, chimica, qualcosa di elettronica, ma per il resto subfornitura, con l’eccezione della meccanica strumentale.

Mi dite voi quale innovazione ci può essere? Si beano che stiamo arrivando a circa il 50% dei prodotti manifatturieri esportati all’estero, non capendo che è una tragedia, alla fine, perché se gli altri paesi si fermano, come la Germania, tu coli a picco.

Marcello de Cecco lo scrisse negli anni Novanta: le produzioni italiane di questi settori dovevano andare nei paesi emergenti, non da noi, noi dovevamo tenerci l’industria pubblica innovativa e all’avanguardia. Cassandra inascoltata.

Evidentemente presso molti italiani, come vedo, c’è il mito del Made in Italy. Evidentemente bestemmio. Ma mi chiedo: è possibile che i colossi del lusso francese nel 2023 – ripeto: 2023 – scelgano il nostro Paese, magari trasferendosi dall’Asia per la produzione di pelletteria, calzature e abbigliamento?

C’è qualcosa che non va in tutto ciò. Per vari motivi: i guadagni sono tutti delle multinazionali e dei loro proprietari come Arnault. Evidentemente in Toscana, dopo secoli, si sta assistendo alla fine della produzione artigianale di eccellenza per mettere questi lavoratori in complessi industriali, cosa ben analizzata da Marx nell’Ottocento a proposito del tessile.

E’ un bene? Io non credo. Poi, se si spostano dall’Asia in Italia è per i salari, ormai, al netto del costo della vita, i nostri sono più bassi dei loro e in più c’è la vicinanza e le capacità delle maestranze. Poi non lamentiamoci dei bassi salari, perché è questo modello produttivo che li porta.

Se ci fossero più aerospaziale, chimica fine, siderurgia, produzione automobilistica, elettronica, telecomunicazioni, farmaceutica che, a differenza di adesso, non sarebbe contoterzista ma attrice primaria nel mercato mondiale; non avremmo bassi salari, perché sono modelli basati ad alta intensità di ricerca e produttività.

Li abbiamo abituati troppo bene, questi presunti padroni in nome del Made in Italy. Una volta erano produzione di nicchia, ora primeggiano perché per il resto c’è il deserto.

Per quanto riguarda lo stesso turismo, è ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, dove a guadagnarci sono pochi e anche questo modello si basa su bassi salari. Anche la Grecia ha il turismo, ma sfido qualcuno ad affermare che industrialmente sia un paese evoluto.

Confindustria, sin dal dopoguerra, voleva la fine dell’industria pubblica perché “concorreva” dando salari dignitosi rispetto ai loro. Ci sono voluti Carli, Ciampi, Draghi, Amato, Prodi e D’Alema per accontentarli.

Ed è stata la nostra fine.

Siamo in declino da decenni, quest’anno forse cresciamo dell’1,2%, ma che ce ne facciamo con un debito pubblico spaventoso, con servizi scadenti, con consumi a picco, con produttività totale dei fattori produttivi a zero da decenni?

E non si fa niente pur avendo una posizione finanziaria netta estera positiva per 105 miliardi, perché dobbiamo obbedire a Usa, Ue e Nato.

Ieri lo avevo scritto in un post, pubblicato da L’antidiplomatico  e da Contropiano. Solo adesso mi accorgo che l’editorialista Paolo Bricco de IlSole24 ore, l’unico che leggo di quel giornale, ha dedicato un pezzo ieri dal titolo “L’Italia non può vivere solo di turismo“.

Traccia un quadro allarmante dell’industria italiana, anche quella della meccanica strumentale, un tempo il nostro vanto, che ora è incapace di intercettare la domanda internazionale, a differenza di prima.

Ieri scrivevo che senza cognizione di causa nell’economia, dai vertici dello Stato ai quadri ministeriali, un Paese non può andare avanti. Ecco, lo scrive lo stesso Bricco in un passo che cito: “Quando si vuol fare qualcosa non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare ad Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e Franco Reviglio“. Gente colta, capace, consapevole.

Oggi ho letto un post che diceva il giusto: “un paese senza acciaio cessa di esistere“. Per quanto riguarda la burocrazia di valore, essa ha a che fare con due fattori storici della Seconda Repubblica: le “riforme Bassanini”, che hanno distrutto la capacità di analisi e di azione del corpo burocratico, mettendo spesso gente poco colta; ma soprattutto la campagna d’odio di Brunetta nel 2009 quando disse che i pubblici erano tutti fannulloni.

Ecco, un paese è forte quando ha una burocrazia pubblica colta, di valore, tutelata, ben retribuita e al servizio del paese e non di cordate partitocratiche o di gruppi di interessi privati, o commistioni da i due campi.

Ecco, hanno distrutto lo Stato. E ne paghiamo tutti le conseguenze.

* Il recente libro dell’Autore: https://www.youcanprint.it/50-anni-di-guerra-al-salario/b/6e8935f1-bf39-5711-8dca-a22f65519444

https://contropiano.org/news/news-economia/2023/06/12/un-paese-in-declino-grazie-a-confindustria-e-ai-suoi-servi-0161372

GITA AL LAGO Maggiore, di Claudio Martinotti Doria

Prima che i “complottisti” si scatenino sull’evento del naufragio dell’imbarcazione sul lago Maggiore, intervengo esponendovi informazioni riservate di cui sono venuto in possesso per pura coincidenza.

Una ventina di amici italo-israeliani, che si erano conosciuti tramite un social network per cuori solitari, hanno deciso di incontrarsi in un albergo nell’hinterland milanese e superati brillantemente i preliminare e primi approcci, hanno poi scelto di recarsi tutti quanti al Lago Maggiore per una gita nautica, noleggiando un’imbarcazione di 16 metri vecchia di 40 anni con navigatore umano incorporato. Annoiandosi, non essendo pescatori e neppure sportivi, a un certo punto a bordo si sono divisi in due gruppi. Uno ha iniziato a fare esperimenti magico-esoterici pronunciano formule per evocare gli spiriti elementali dell’acqua, e il secondo ha avviato un gioco di società a distanza con un gruppo d’imprenditori e oligarchi russi che erano presenti in una villa sulla costa presso cui stavano navigando, mettendosi in collegamento con loro tramite cellulari. Si conoscevano tra loro perché in molti erano iscritti a un gioco di società on line nel quale i partecipanti assumono ruoli da protagonisti in una complessa spy-story a più livelli di difficoltà, molto realistica, divisi per nazione e agenzia, competenze e gerarchie.

Mentre il primo gruppo stava evocando con successo le Ondine del Lago Maggiore, che vegliano sulle sue acque da tempo immemore, il secondo gruppo al contrario stava perdendo al gioco di società intrapreso coi russi sulla costa. Le Ondine del Lago Maggiore sentendo l’esito finale del gioco di società e prendendolo troppo sul serio come fosse reale, sono intervenute provocando una tromba d’aria limitatamente al luogo esatto dove era posizionata l’imbarcazione, questo spiegherebbe come mai il fenomeno meteo non ha colpito la costa e non è stato visto da nessuno. Dimenticavo di segnalarvi che il gioco di società era la “battaglia navale” e al momento del pronunciamento finale di “affondata”, le Ondine hanno preso sul serio l’affermazione udita ed hanno provveduto all’affondamento dell’imbarcazione. I russi dalla costa non si sono neppure accorti della tragedia, pur essendo inquieti per l’improvvisa interruzione delle comunicazioni.

Se tale versione dei fatti vi sembra inverosimile provate a leggere nei prossimi giorni sui media quello che verrà scritto o fatto intendere sulla tragedia.

claudio

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Independent researcher, historiographer, critical analyst, blogger on the web since 1996

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Fuori luogo, ma nel contesto (italico), di Roberto Buffagni

Signore perdonali perché non sanno quello che fanno: io invece, come Sartana in un celebre spaghetti western degli anni Settanta, NON li perdono. Come la DC ha presieduto alla fine del cattolicesimo italiano, come il PCI ha presieduto alla fine del marxismo italiano, così il governo nazionalista di FdI presiede alla fine del nazionalismo, e temo anche del patriottismo italiano (per quel che ne resta, poco). Purtroppo, i “nazionalisti” che hanno deciso questa sciatta vassallata ci hanno sicuramente pensato su, e si sono fatti venire l’idea di chiamare Gianni Morandi perché secondo loro è “nazionalpopolare”. In questa idea c’è tutto quel che li definisce, e non è un bel vedere. C’è l’idea, stupida, abietta e supponente, che al popolo si dà il latte scaduto, le merendine muffite, le patatine fritte nell’olio lubrificante perché non può assimilare altro, perché l’autentico, il bello, il dignitoso lo intimidisce, lo mette in soggezione, è incompatibile con la canottiera e il salotto della nonna. C’è l’abissale, quasi commovente cafonaggine in conformità alla quale si celebra un luogo e un’occasione elevate, solenni, ufficiali e dignitose facendo cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, appena dopo aver cantato l’inno nazionale, una strofa del quale recita “siam pronti alla morte/l’Italia chiamò” (forse dalla finestra, per farsi portare il latte).

N.B.: non ho niente contro Gianni Morandi che mi sta anche simpatico, andava benissimo per celebrare un eventuale scudetto del Bologna, l’anniversario della Camera Alta della Repubblica italiana, no. Ma non mi sono arrabbiato, semmai mi cadono le braccia. E’ andata così ragazzi, è andata così l’Italia.

Qui si vede, in forma grottesca, la conclusione della maestosa tragedia storica italiana. Nella IIGM era certo necessario e quindi giusto, tra i due mali, scegliere il male minore, la vittoria degli Alleati e la solidarietà con essi, legittimata dalla guerra partigiana del CLN. Ma oggi si vede chiaro che avevano ragione anche i migliori tra coloro che scelsero la RSI, quando dicevano che schierarsi con il nemico del giorno prima, contrabbandare la sconfitta per vittoria, ci sarebbe costato più caro che vivere la sconfitta fino in fondo, perché vi avremmo perduto l’identità, l’anima, la fiammella spirituale che tiene in vita la patria anche nella sconfitta, nella rovina, nel terribile errore, come fu un terribile errore entrare in guerra a fianco della Germania nazista (non solo perché poi ha perduto, ma perché il nazismo faceva schifo e lo sapevamo anche allora).

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L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni, di Davide Gionco

L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni
di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)

delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

 

La fine affrettata del Superbonus 110%

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

 

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  • Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.
    E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.

 

  • L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.

Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.

 

  • Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.

 

  • Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.

Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.

  • Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

 

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel calcolo del “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

 

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

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25 APRILE (festeggiatelo. Voi.), di Daniele Lanza

C’è da dire, per la verità, che la Resistenza fu solo in parte un movimento di liberazione dai nazisti tedeschi e antifascista. Fu in gran parte un movimento rivoluzionario, quanto meno aspirante tale, vista la prevalente composizione delle formazioni partigiane. Esiste inoltre una appropriazione strumentale della ricorrenza ed una più genuina. La critica alla strumentalità non deve spingere a rimuovere anche quella genuina. Giuseppe Germinario
25 APRILE (festeggiatelo. Voi.) [parte 1].
Nel corso degli anni ho scritto fiumi di inchiostro (virtuale) in merito alla ricorrenza in questione: perchè me ne tengo a distanza, perchè mi trova estraneo. Le ragioni sono più di una e chi mi segue con attenzioni da molti anni lo sa.
Quest’anno il problema si complica ancora di più nella misura in cui l’evento va a sovrapporsi al contesto attuale, prendendo posizione sulla guerra in Ucraina (naturale che così sia, dal momento che è ricorrenza ufficiale delle istituzioni….quelle stesse istituzioni di uno stato che è parte integrante del conflitto in corso e che quindi non può far confliggere le sue narrative storiche con le sue scelte nel presente: il 25 APRILE è dalla parte di KIEV, quindi, per non farla lunga. Inevitabile in fondo che anche questa data prendesse una posizione in materia.
Il tutto mi amareggia, ma non per me stesso, quanto per chi si troverà in una posizione più difficile della mia: io non ho MAI celebrato il 25 aprile (per le mie ragioni) nemmeno prima e la situazione presente non va ad incidere su questo…….ma anzi rafforza la mia precedente posizione (perfetta compatibilità). Più complicato invece sarà per quanti si ritrovano profondamente nel 25 aprile ma non nel conflitto in Ucraina e questo determinerà conflitti di coscienza in alcuni.
Riporto in basso riflessioni di svariati anni orsono*
———————————-
*Una mesta carovana di auto blu a finestrini coperti – un monarca disgraziato col suo seguito altrettanto disgraziato – leva le tende dalla residenza di governo verso la mezzanotte dell’8 settembre e nel giro di 48 ore si ritrova ad iniziare una nuova vita a Brindisi dalla parte della giustizia e della democrazia, lasciandosi alle spalle quella vecchia di vita, compromessa da scorie ventennali di fascismo, coronate da un disastro bellico storico.
L’illuminazione interiore dei Savoia è talmente dirompente e celere da farli librare verso il mezzogiorno come una rondine, dimenticandosi lungo la strada 1 milione di effettivi del regio esercito, lasciati a se stessi senza direttive (questi la via per la purificazione la troveranno da soli, nei campi di lavoro del reich).
Il biennio successivo è il nulla, il caos, l’apocalisse istituzionale. Italia ANNO ZERO.
Di tutto questo molto già sappiamo. Troppo.
La riflessione che mi interessa oggi, per parlare più chiaro, non riguarda la guerra combattuta con mitra e granate, ma quella sul piano semantico protrattasi per generazioni dopo il 1945 : dopo aver combattuto e sudato per un paio di anni…..COME descrivere quanto successo ? Con quali aggettivi ? Come spiegare sui manuali ? In definitiva, che NOME dare a quella stringa cronologica
nel processo di catalogazione storiografica (…)
Eccovi serviti :
1) “Guerra di liberazione” – 1945-1985 (è la definizione classica, tutta partigiana, in voga per buona parte della prima repubblica. Nessuna concessione allo sconfitto nazifascista, tutto è limpido. Bene e male, bianco e nero. NON vi è guerra civile in quanto tra le due parti una NON era italiana nel senso etico del termine, quanto piuttosto una marmaglia collaborazionista de facto italofona, ma attorcigliata ai vessilli del reich (il cui status militare non sarà riconosciuto dalla repubblica che verrà). Quindi in questa visione non sussiste conflitto civile, ma solo una liberazione dalla svastica e dai suoi scellerati collaborazionisti nostrani che hanno rinunciato alla loro identità italiana con la propria scelta. Vi è una “rimozione del male” dalla psiche della società, condensata in questo ragionamento : “noi siamo puri, la nostra società è sana, coloro che hanno combattuto in camicia nera lo hanno fatto perché NON erano parte della società democratica, quindi NON italiani. Hanno fatto la loro scelta).
Interpretazione psicanalitica radicale.
2) “Guerra civile” – 1985-2015 [ad oggi cioè] (è la definizione attuale, frutto della società posteriore alla guerra fredda e ai conflitti ideologici : in un generale contesto di superamento della storia, si accetta che entrambe le parti erano fatte da italiani sebbene le ragioni del loro agire fossero profondamente diverse. Abolita la visione in bianco e nero (e con logica evoluta che accetta la parte oscura di se stessi), si inserisce anche la scelta repubblichina nella storia dell’identità italiana, abolendo le precedenti rimozioni psicologiche. Si invoca pertanto concordia civile a tutti i costi : la delicata mentalità liberal/rosee non ammette memorie divise e insanguinate, quindi si stabilisce di promuovere la cosiddetta “memoria condivisa”, espressione diffusa a massimo volume da 20 anni. Risultato del politically correct : i repubblichini (e i loro discendenti morali) si ritrovano, senza nemmeno averlo chiesto (!), sullo stesso piano o quasi dei loro avversari partigiani (quanto a riconoscimento militare almeno). Ironia dei paradossi : i simpatici fasci si ritrovano magicamente (quasi) riabilitati, “coccolati” da una filosofia politica a loro assai estranea, ovvero la dolce clemenza liberal/rosee ( che se io fossi fascista – segnatevelo – sputerei per terra).
———–
Orbene, abbiamo condensato sopra, in 10 righe ciascuna, due distinte definizioni da manuale di cosa accadde tra il 1943 e il 1945. I comunisti duri e puri sostennero e tuttora sostengono, in fondo, la PRIMA. Il popolo bianco e verde dei sit in, dei diritti, del “volemose bene” etc. (+ i neofascisti che mi deludono) sposeranno la SECONDA (oggi dominante).
Ed ora è il mio di turno, cari (il vero intervento inizia da qui), la mia critica è radicale, di ordine macro, toccherà i limiti della convenienza per una certa sensibilità purtroppo.
Le due versioni sopra per antitetiche che siano hanno un punto in comune, una base fondamentale : parlano degli italiani, del valore del loro agire. Di cosa abbiano fatto gli italiani, di come si siano mossi durante e dopo la guerra che ha plasmato lo stato in cui viviamo. Gli italiani col loro sacrificio han fatto il paese.
Pare che entrambe (entrambi i contendenti, partigiani garibaldini da un lato e Guardia repubblicana dall’altro) nelle loro epiche narrative contrapposte, sorvolino su un dettaglio il cui ordine di grandezza oblitera ambedue, riducendoli a maggiolini.
Il conflitto del 43-45 sul suolo italiano è stato il riflesso di una grande guerra GERMANICO-ANGLOAMERICANA : la due vere forze in campo erano la Wehrmacht da un lato e la US-ARMY dall’altro (gli italiani non contavano una virgola se non come supporto).
Abbiamo una guerra tedesco-americana svoltasi sul suolo italiano, la quale necessariamente ha coinvolto gli italiani……….ma che non coincide necessariamente, ad una “guerra italiana” , quanto piuttosto “una guerra accaduta sul territorio italiano”, che non è la medesima cosa volendo esser drammaticamente pignoli. L’equivoco semantico è dietro l’angolo).
Le titaniche macchine militari di cui disponevano Berlino e Washington han fatto, come di norma, che adattarsi al terreno, il che implica avvicinare alla propria causa la maggior parte possibile della popolazione autoctona, ossia si tenterà di arruolare e coscrivere in svariate forme la popolazione indigena che si ha a disposizione.
Logico che sia il mio punto, non significa facile da intendere.
Provo a farlo capire con un’analogia che non ha a che vedere direttamente col caso in questione (non va presa alla lettera assolutamente), ma che può dare un’idea di cosa voglio dire :
Nel nordamerica del secolo XVIII° (guerra dei 7 anni) sia britannici che francesi arruolarono contingenti di truppe indiane che poi fecero scontrare tra loro : risultato, indiani che uccidono altri indiani. Potrebbe definirsi “guerra civile” tra indiani ? No, lo sarebbe soltanto se supponessimo un’inesistente prospettiva nazionalistica pan-indiana che implica una coscienza comune da parte loro, ma scartata questa ipotesi, altro non rimane che il fatto puro : si trattava di carne da cannone sotto le rispettive bandiere (Giglio di Francia e Union Jack).
Per chi si senta offeso o preso in giro dall’infelice analogia, premetto che mi rendo conto della sua improponibilità : le truppe uroniche di Montcalm e i mohicani britannici NON costituivano un’unità politica nazionale, nonostante la comunanza linguistica, tantomeno la loro sparsa struttura tribale settecentesca si può paragonare alla società italiana della prima metà del XX° secolo, questo è chiarissimo.
Tuttavia………..un punto c’è in questo sgangherato/eccentrico accostamento. Quello della SOVRANITA’ del proprio agire, a scanso di quanto possa essere poi attribuito retroattivamente.
25 APRILE (Festeggiatelo. Voi)
[parte 2].
La finisco coi giri di parole e vado al punto, cui secondo mio stile, mi appropinquo strisciando (mi scusino per la lentezza) : sono imbarazzato di non poter condividere, dalla mia prospettiva, alcuna epica nazionale legata agli eventi del 43-45 e RESPINGO entrambe le definizioni con cui ho introdotto la questione.
A) RESPINGO la versione classica (“Guerra di liberazione”) : siamo stati “liberati”, ma da CHI ? Per quali scopi ? Non certo dai partigiani che da 4 gatti che erano, si demoltiplicano magicamente fino alle centinaia di migliaia giusto nelle settimane immediatamente antecedenti la sicura vittoria (tanto quanto un partito comunista allo stato virtuale da circa 20 anni che a partire dalla fine del 44 si ritroverebbe con quasi 500’000 tesserati di punto in bianco (…). All’estero si sorride (di scherno) quando si raccontano questi aneddoti rivelatori dell’animo italiano (senza nulla togliere a coloro che in tali idee credettero per davvero sin dal principio,sperimentando carceri fasciste, confini e quanto d’altro…ma è un’altra storia).
CHI ha sgomberato la penisola dai crucchi sono stati 200’000 yankee in possesso di armamenti ed equipaggiamenti che non ci si poteva nemmeno sognare, forti di linee rifornimenti letteralmente illimitate : liberavano un territorio in vista di una sua inclusione nel proprio ordine geopolitico atlantico in qualità di grande e irrinunciabile satellite mediterraneo . Stalin aveva pacificamente consentito mesi prima a YALTA (laddove, come sempre, si ufficializzarono sul piano diplomatico le linee di confine GIA’ tracciate dagli eserciti sul campo. Funziona così dai primordi, signori e signore : la diplomazia serve a prevenire le armi, certo, ma una volta queste messe in moto, altro non può fare che certificarne l’effetto…e ufficializzare ciò che già è avvenuto, come farebbe un bravo notaio). NON sono stati gli italiani a liberare l’Italia, ma gli stormi di bombardieri a stelle e strisce a far sloggiare l’Oberkommando Wehrmacht. VICEVERSA, se anche , ucronicamente, avessero prevalso le camicie nere….il merito non sarebbe stato loro, quanto delle migliaia di panther germanici in prima linea.
Gli ITALIANI di per sè (destra o sinistra che fossero) non hanno vinto ne liberato NULLA.
B) RESPINGO la versione buonista (“Guerra civile”) attualmente dominante, per le seguenti ragioni
Signori e signore, mi costerna dover fare da saccente dizionario eppure la trappola semantica lo richiede per forza : l’espressione “guerra civile” sta ad indicare un conflitto INTERNO ad uno stato sovrano, nel corso del quale due fazioni armate, LIBERE ed indipendenti (pur occasionalmente appoggiate da qualche potenza straniera) si scontrano sinchè non ne emerge un vincitore. Ripeto, un aiuto da mano straniera è possibile ed anzi frequente, ma non altera la natura di base del confronto in corso che vede due fazioni della medesima cittadinanza misurarsi con le armi, da una posizione di SOVRANITA’ indiscussa (questa parola ha un significato totale in questo discorso).
L’Italia dopo l’8 settembre del 1943 non ha più alcuna sovranità, nemmeno l’ombra : la sovranità la detengono forze straniere (Wehrmacht e US-ARMY) dislocate capillarmente sul territorio con mezzi enormi. Codeste forze straniere per i PROPRI interessi (gli uni far sopravvivere il proprio reich creando uno sbarramento sull’Appennino, gli altri guadagnarsi un super satellite nel cuore del Mediterraneo) combattono senza esclusione di colpi, avvalendosi della popolazione autoctona, estremamente utile per la conoscenza del territorio nonché potenzialmente coscrivibile come truppe di supporto…..e CHE supporto ! Da un lato Brigate nere, X° MAS, Guardia nazionale repubblicana a strafare per coprire le retrovie germaniche formicolanti di partigiani. Dall’altra parte….reparti superstiti del regio esercito a supporto del corpo di invasione angloamericano + profusione di divisioni partigiane tra le montagne dell’alta Italia a supportare l’avanzata alleata formicolando pertinacemente in mezzo alle retrovie germaniche (vedi sopra !).
Tutti a SUPPORTARE ! Un immenso sforzo collettivo di SUPPORTO. Oltre agli ori, gli argenti e i bronzi dovrebbero conferire in questo caso, anche il platino alla funzione di “supporto”.
Tanto partigiani quanto repubblichini si sono distinti nel supportare i rispettivi sovrani del campo, fossero crucchi o yankee.
Mi rammarica ricordare che il verbo “supportare” ha implicazioni non indifferenti. Colui che supporta, rende una grande servigio al proprio condottiero, il che però non fa di lui a sua volta un “condottiero” (!) : piuttosto ne fa un ottimo SCUDIERO. “Supportare” si associa maggiormente alla funzione di aiutante di campo, tipo portare gli speroni al signore….sellargli il cavallo…..cose del genere.
Per tagliar corto con metafore aulico-comiche, affermo che entrambe le parti in gioco difettavano di quella sovranità che è requisito essenziale per poter definire un conflitto “guerra civile”. Gli italiani, pur chiamati in massa all’azione militare, su un piano freddamente politico NON costituivano soggetto dotato di potere decisionale che travalicasse i propri superiori (occupanti germanici o americani). Gli ITALIANI, tanto quelli dalla parte giusta quanto quelli non……si ritrovavano in uno status di subalternità nei confronti delle forze straniere cui facevano capo : quando c’è una guerra civile in cui le fazioni nazionali contrapposte sono entrambe a loro volta ETERODIRETTE da potenze extra-nazionali , allora il conflitto in questione perde la sua definizione di “guerra civile” in senso proprio, in quanto tale guerra non è che un urto tra fazioni locali, a sua volta riflesso di una collisione di ordine superiore tra le due potenze globali (Terzo reich e USA, in questo caso) .
In una freddissima (gelida) logica geopolitica gli italiani che militarono da una parte o dall’altra, a prescindere dalle ragioni, giuste o sbagliate che potessero essere (non lo discuto), si ritrovarono accomunate da uno status di subalternità, ridotte a tramite, o strumento traverso il quale il burattinaio (Berlino o Washington) poteva manifestarsi meglio sul territorio.
Gli ITALIANI, quale che fosse il loro colore o inquadramento, o sincere intenzioni, NON contavano più una mazza nell’arena dei grandi giochi (se mai qualcosa avessero contato) : si industriavano semplicemente a supportare i rispettivi dominatori nella speranza che costoro nel dopoguerra concedessero loro uno status più vivibile.
Concludo : la storiografia italiana successiva al conflitto non poteva naturalmente ridurre quel tragico biennio scrivendo : “Nazisti e angloamericani si sono presi a cannonate per tutta la penisola, con mezzo milione di militari ciascuno (mezzi impressionanti gli yankee e determinazione folle i germanici) per quasi due anni : i cittadini italiani, non sapendo che fare han deciso, ognuno in coscienza propria, di servire in armi l’occupante che gradiva di più (e questo sorvolando l’immensa fascia GRIGIA di chi non si schierò proprio aspettando la conclusione degli eventi….)”
ECCO : i nostri manuali scolastici, per amore di patria e pietà legittima per i caduti, NON potevano fornire spiegazioni simili. NON rendeva senso al troppo sangue versato ; NON si poteva dire che gli italiani fossero come gli “Ewoks” della saga di guerre stellari (simpatici e pacifici esserini coinvolti in un conflitto galattico molto più grande di loro).
Insomma, ciò che era assolutamente indispensabile era dilatare il significato il senso dell’agire italiano tra il 43 e il 45, portandolo al titolo di “guerra” , come se si fosse trattato di una libera pugna tra fazioni e non il riflesso di forze più grandi in gioco cui si era asserviti. Varieranno, come ho tentato di argomentare, le definizioni contenenti il sostantivo “guerra” (di liberazione prima, e civile poi), ma senza mai toccare il perno essenziale concernente la natura del cittadino italiano in tale conflitto. Il messaggio da dare era : [ GLI ITALIANI CONTANO ! SONO ARTEFICI DEL PROPRIO DESTINO !], da incorniciare.
—————————————————————
Le 300 righe con cui vi ho angustiato si riducono a questo : gli ITALIANI hanno combattuto, sì. Hanno combattuto valorosamente, in nome di ideali in cui sinceramente credevano. Hanno sopportato il peggio, dato che tutto si svolgeva a casa loro.
Il problema è che la guerra che si combatteva, benché in casa loro, non era LORO….era di superpotenze che passavano da quelle parti.
Gli italiani non hanno fatto una “loro” guerra, bensì hanno partecipato a una guerra altrui (ma disgraziatamente ambientata proprio in Italia…….fattore quest’ultimo che ha facilitato oltremodo, alla maggiore confusione, cioè a convincere l’italiano che stava combattendo per la propria sovranità e libertà, cosa che entrambe le macchine propagandistiche nazi e Usa diffondevano a sirene spiegate.)
————–
(fine riflessione)
Possiamo tornare a noi quindi. Ecco perchè il 25 aprile è inevitabilmente filo Kiev, disgraziatamente (si cercherà di declinarlo in quel senso): perchè chi l’ha prodotto realmente, ovvero chi ha favorito il sistema partitico costituzionale che ne segue sono le forze ATLANTICHE. Semplice.
Quest’ultime 75 anni più tardi sono di nuovo in guerra….e lo stato italiano dato che ne è una diramazione deve seguirle.
Sono lieto di non essermi mai affezionato ad una mitologia costituzionale patriottica italiana, vedendo questa deriva (ma vedete, lettori miei, io tale deriva la vedevo tanti anni fa, molto prima che fosse……dato che alla “liberazione” italiana non ho mai creduto fino in fondo).
Perchè LIBERTA’ non è semplicemente essere “liberi”. Libertà è essere senza una direzione dall’alto (anche se quest’ultima fosse giusta). Libertà…..è anche sbagliare.

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA

C’è un “nocciolo duro” che collega il processo di decadenza della classe dirigente della “Seconda repubblica” e in particolare il PD, confermato dalle ultimi elezioni regionali, tutte perse dall’opposizione e l’ultima rovinosamente  (Fedriga ha riportato più del doppio dei voti del candidato PD-M5S ed altri): è la perdita di legittimità delle élite in disfacimento.

L’ironia della Storia ha fatto sì che, con le ultime elezioni politiche il primo partito e la Presidente del Consiglio della “Repubblica nata dalla resistenza” siano gli eredi di coloro che la resistenza l’avevano combattuta e dall’ “arco costituzionale” erano esclusi. Così che attualmente, contrariamente alle litanie ripetute da decenni, la volontà popolare ha rifiutato l’armamentario propagandato – fino a qualche anno fa confortato dal consenso – dal 1945. In un certo senso ha disconosciuto la paternità.

Questo, indipendentemente dal fatto che la “tavola dei valori” che  ispira la nostra costituzione, da non identificare con quella propagandata per decenni dalla sinistra (e non solo) che ne costituisce una versione parziale e ad “usum delphini”, non abbia ancora una sua legittimità, nel senso di una diffusa condivisione.

Gli è che, come scriveva Thomas Hobbes, l’essenza del rapporto politico e quindi del comando-obbedienza, è che chi pretende il comando deve dare protezione (effettiva). Con la conseguenza che se quella protezione non viene data cessa anche l’obbligo di obbedire. Questo è asserito dal filosofo di Malmesbury proprio nell’ultima pagina del Leviathan: di aver scritto il trattato “senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”.

E nelle pagine precedenti del Leviathan ci dà un saggio di ciò che non da protezione e quindi non serve a pretendere obbedienza. “Casistica” che ha più che qualche carattere di somiglianza con quanto praticato (anche) dalle élite decadenti, e ancor più con i cattivi risultati della loro azione di governo. Ad esempio quando Hobbes paragona la Chiesa cattolica al regno delle fate (e gli ecclesiastici alle fate) anche perché “Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici  invece accettano nelle loro riscossioni la moneta, che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe” e così i chierici non lavorano, ma come le fate, vivono approfittando del lavoro degli altri, banchettando con la crema del latte munto dai fedeli (o – per il potere temporale – dai sudditi).

C’è più di un’analogia con i trasferimenti di ricchezza, da tax-payers a tax-consommers operati dai governi delle élite, o ancor più con la predazione diretta (e indiretta) connessa; senza trascurare che ad ogni salasso si accompagna una enunciazione di buone intenzioni, e ancor più lo “scambio” di beni con chiacchiere.

Oppure quando Hobbes mette in guardia dall’insistere nel giustificare l’esercizio del potere col richiamo al titolo giuridico (successione, conquista, consuetudine), invece che all’effettività e risultati ottenuti. O, in senso contrario, col giustificare il proprio potere condannando le malefatte del regime precedente (invece dei risultati propri).

Il potere pubblico, assai più che ai tempi di Hobbes, ha giustificato dallo scorcio del XIX secolo il proprio intervento e così la pubblicizzazione di attività private (soprattutto nell’economia) con gli effetti in termini di sicurezza del futuro. Ma i risultati italiani nell’ultimo trentennio, quando l’influenza del PD (e predecessori) è stata determinante, sono i peggiori dell’area UE (ed euro). Onde i risultati di un’azione di governo esteso all’economia sono pessimi, e pertanto non c’è legittimità “di scambio” (protezione/obbedienza) che possa confortarla. Non resta che rivolgersi ad una legittimità fondata sulle intenzioni conformi a certi valori. Ciò ha un doppio limite: che quei valori debbano essere condivisi dalla maggioranza e, di conseguenza – e a lato – debbano essere ragionevoli.

Tuttavia condivisione ce n’è poca (v. risultati elettorali) e ragionevolezza (nel senso di obiettivi effettivamente alla portata di un’azione di governo) non di più.

Non si capisce infatti come insistere nel primario obiettivo di tutela dei c.d. “diritti umani” di esigue minoranze posponendo loro i “diritti sociali” conseguiti nel XX secolo sia produttivo di consenso, soprattutto maggioritario. Significa scambiare (con gioia?) parte dello stipendio e della pensione per promuovere le unioni tra omosessuali, l’utero in affitto, ecc. ecc. Che ci guadagna la stragrande maggioranza?

Quanto alla ragionevolezza va tenuto conto che il marxismo ha provato il carattere totalmente immaginario del proprio  esito ultimo: la società comunista, cioè il paese dei balocchi. Ma il vizio non è stato perso.

Alla natura umana e all’ordine politico sono connaturali due caratteri: la paura della morte e la preoccupazione per il futuro.

Ambedue strumenti di governo (e di accettazione – consenso) del potere politico. Quanto al primo c’è stato il tentativo di sfruttare come instrumentum regni il Covid, e poi la guerra russo-ucraina. Quest’ultima, contraddittoriamente (per la sinistra) quale lesione alla libertà e sovranità di popolo.

Ma quale beneficio ne abbia tratto il PD (e soci) non si vede.

Quanto all’ansia per il futuro: ossia (anche) della sicurezza economica (propria e di tutti): ma non si capisce quanta tranquillità agli italiani impoveriti possa venire (sia dai risultati che) dalle intenzioni dichiarate di un partito preoccupato di tutt’altro (LGTB et similia).

Hobbes scriveva che concepire il futuro presuppone l’esperienza del passato “Un concetto del futuro è solo una supposizione circa il medesimo derivante dal ricordo di ciò che è passato; e noi, in tanto concepiamo che qualcosa avverrà di qui in avanti, in quanto sappiamo che c’è qualcosa al presente che ha il potere di produrla. E che qualche cosa abbia al presente il potere di produrre in avvenire un’altra cosa, non possiamo concepirlo, se non grazie al ricordo che esso abbia prodotto la stessa cosa già altra volta”. Ricordo che non è dei migliori.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Un’americana di sinistra eletta in Italia, di Carlo Lancellotti

https://www.ncregister.com/commentaries/an-american-leftist-gets-elected-in-italy

 

Un’americana di sinistra eletta in Italia

COMMENTO: Cosa dice l’ascesa di Elly Schlein sul nostro attuale momento politico.

di Carlo Lancellotti[1]

La stampa americana mainstream non presta generalmente molta attenzione alla politica italiana, se non, forse, per ridicolizzare le buffonate dell’ex premier Silvio Berlusconi o per temere il ritorno del “fascismo”. Per questo, qualche settimana fa, ero curioso di vedere come avrebbero trattato l’elezione di Elly Schlein alla guida del Partito Democratico, la principale formazione politica italiana di sinistra. Dopo tutto, Schlein è la prima americana a guidare un importante partito politico italiano e ad essere un possibile futuro primo ministro.

 

Anche questo non è bastato ad attirare l’interesse dei media statunitensi, ma mi è sembrato significativo.

 

Quando descrivo la Schlein come “americana”, non mi riferisco solo al fatto che è cittadina statunitense e che suo padre è di New York (è un politologo che ha sposato un’italiana e ha cresciuto la sua famiglia in Svizzera). Intendo anche dire che la sua politica è americana: Ha imparato a fare politica come attivista nelle campagne presidenziali di Obama e le sue idee corrispondono perfettamente agli standard della sinistra sociale americana di oggi.

 

Le cause “sacre”, quelle che non possono essere messe in discussione e che segnano la divisione definitiva tra amici e nemici, sono quelle che riguardano i “diritti” individuali. Poi ci sono il riscaldamento globale e altre questioni ambientali e la condizione degli immigrati. Infine, vuole istituire un salario minimo e regolamentare la “gig economy” italiana.

 

Tuttavia, anche gli assi economici della sua piattaforma non sembrano pensati per proteggere la “vecchia” classe operaia, il tradizionale bacino di utenza della sinistra. Piuttosto, sono stati pensati per soddisfare le esigenze di quella che definirei la “classe professionale aspirante”, ovvero le persone più giovani, tipicamente urbane e ben istruite come lei, che non riescono a trovare un numero sufficiente di posti di lavoro a tempo pieno nel settore dei servizi.

 

Anche il personaggio di Schlein sarà familiare ai lettori americani. È una donna relativamente giovane (37 anni), una stereotipata “millennial”. Appartiene alla classe media professionale benestante (entrambi i genitori sono professori universitari), ha frequentato buone scuole, ha vissuto in più Paesi (possiede tre passaporti), è aconfessionale e bisessuale (attualmente vive con un’altra donna). Schlein si descrive come una progressista-femminista-ambientalista “intersezionale”. Sembra vivere in un mondo di assoluta chiarezza morale, in cui è dalla parte degli angeli e lotta per la “giustizia sociale e ambientale”.

In breve, appartiene a un “tipo” che si trova in tutto il mondo occidentale, ma che ha raggiunto la sua “perfezione platonica” negli Stati Uniti. Si potrebbe quindi dire che la sua ascesa conclude l'”americanizzazione” della sinistra italiana, un processo che probabilmente è iniziato negli anni Settanta, quando il Partito Comunista Italiano ha rinunciato alla rivoluzione marxista e ha accettato di far parte dell'”Occidente” – intendendo la nuova politica laica e neocapitalista che si era sviluppata in Nord America e in Europa durante la Guerra Fredda.

 

L’elezione di Schlein ha spinto molti editorialisti italiani a citare il defunto pensatore cattolico Augusto Del Noce, il quale aveva notoriamente previsto che la sinistra post-comunista sarebbe diventata un “partito radicale di massa”, cioè un partito liberale di stampo americano investito nei diritti individuali e nella politica culturale. Del Noce, ovviamente, non poteva prevedere che un giorno il leader stesso della “nuova” sinistra italiana sarebbe stato di origine americana, ma certamente lo avrebbe trovato simbolico.

 

Se dovessi scegliere una parola per descrivere Schlein e la cultura che rappresenta (che è, essenzialmente, la cultura “liberale” dominante dell’Occidente), sceglierei borghese. Decenni fa, quando il mondo di oggi stava prendendo forma, pensatori come Jacques Ellul e lo stesso Del Noce usavano questa parola per indicare una visione dell’umanità incentrata su un’idea individualistica e mondana di felicità. Il borghese è l’uomo (o la donna) che acquista e utilizza sistematicamente beni materiali, ma anche esperienze e relazioni, per raggiungere il “benessere”. Per lui/lei l'”altro” deve essere in definitiva uno strumento, perché la sua identità è per così dire autosufficiente. Può “aver amato molti uomini e donne” (come ha detto Elly Schlein di se stessa in un’intervista), ma in definitiva c’è una distanza tra le persone che non può essere colmata perché ognuno è un “cercatore di felicità” atomico.

 

Questa visione del mondo dovrebbe essere contrapposta a quella cristiana, in cui gli esseri umani portano un’immagine della Trinità e, quindi, la felicità è intrinsecamente relazionale: Siamo letteralmente costituiti dalle nostre relazioni con altre persone (ad esempio, i nostri genitori) e raggiungiamo la nostra realizzazione finale nella relazione con Dio. Questa è l’idea di beatitudine, che è in un certo senso l’opposto dell’idea borghese di felicità. Come dice Del Noce nel suo libro L’età della secolarizzazione, “se l’uomo non partecipa affatto a qualche forma di ragione o di valore assoluto, se non si trova unito agli altri uomini da un legame ideale, allora non può vedere nella natura o negli altri uomini altro che ostacoli o strumenti per la propria realizzazione”. Basta ricordare l’antica idea che l’amore umano è infinito e non può essere saziato da alcun bene finito”.

Del Noce aggiunge:

 

“Ora, l’idea di benessere […] non è altro che la trasposizione della beatitudine agostiniana dalla dimensione verticale al piano orizzontale. L’ascesa a Dio è sostituita dall’idea della conquista del mondo, del diritto del singolo soggetto a [possedere] il mondo. Questo diritto non ha limiti perché, essendo stato chiamato nel mondo senza la sua volontà, il soggetto sente di avere diritto a una soddisfazione infinita nel mondo stesso, quasi come una compensazione per questa chiamata. Ma, naturalmente, un singolo uomo non può realizzare interamente questa conquista. Può fare degli altri i suoi strumenti, ma facendosi a sua volta strumento; e questa strumentalizzazione reciproca, questa collaborazione senza fini ideali, è ciò che oggi si chiama “socialità”. […] L’uomo del benessere sperimenta un surrogato di libertà, non più nella liberazione dai bisogni e dagli interessi inferiori e percepibili, ma nella reciprocità del processo erotico”.

 

La differenza tra le due visioni può essere facilmente individuata in ambito politico.

 

Schlein, ad esempio, è favorevole al monopolio pubblico dell’istruzione, perché è chiaro che lo Stato dovrebbe “proteggere” i bambini (in quanto individui borghesi in erba non ancora pienamente in grado di scegliere la propria religione, il proprio sesso e così via) dall’invasione della propria famiglia. L’esempio più emblematico, naturalmente, è l’aborto, su cui Schlein ha posizioni estreme e “americane”. La mente borghese non può letteralmente elaborare una situazione in cui due vite umane sono così radicalmente intrecciate che una dipende interamente dall’altra. Subisce quindi una sorta di “cortocircuito” e per affermare il diritto alla felicità di un individuo è costretta a negare il diritto stesso all’esistenza dell’altro.

 

Schlein è, a mio avviso, un esempio perfetto di un fenomeno cruciale della politica contemporanea: Negli ultimi decenni, lo spirito borghese ha trovato la sua casa politica a sinistra più che a destra. Ha persino cooptato il tradizionale linguaggio marxista della liberazione rivoluzionaria, salvo usarlo prevalentemente per combattere “guerre culturali” e difendere gli interessi di gruppi non economici (definiti da razza, sessualità, identità di genere, ecc.). Anche se in Italia persone come la signora Schlein hanno spesso nonni comunisti e hanno ereditato da loro molte idee marxiste, non sono marxisti in senso classico. La loro utopia è strettamente individualista e borghese.

 

In conclusione, resta da vedere se Schlein sarà in grado di risollevare le sorti elettorali della sinistra e di formare un governo qualche anno dopo. Analogamente a quanto accade negli Stati Uniti, i cattolici italiani hanno risposto alla sua elezione dividendosi lungo linee ideologiche, esprimendo opposizione o cercando di trovare un terreno comune, scegliendo le “questioni” che sostengono la loro preferenza.

 

A prescindere da chi abbia ragione (personalmente penso che sarebbe un pessimo primo ministro), vorrei che tutti fossero più consapevoli della visione del mondo che rappresenta, perché tale consapevolezza è il presupposto per un’opposizione intelligente e per qualsiasi tipo di dialogo.

[1] Carlo Lancellotti è professore di matematica presso il College of Staten Island e membro del programma di fisica del CUNY Graduate Center. Oltre alla sua attività di studioso di fisica, ha tradotto in inglese e pubblicato tre volumi di opere del defunto filosofo italiano Augusto Del Noce. Lancellotti ha scritto anche saggi su Del Noce e su altri argomenti, apparsi su Communio, Public Discourse e Church Life Journal. V. anche http://delnoceinenglish.org .

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L’atomica italiana, di inimicizie

L’atomica italiana

E’ il 1968: USA, URSS, Regno Unito e molti altri paesi firmano il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Un negoziato durato anni, iniziato nel ’63 dopo la firma del Trattato per la Messa al Bando Parziale dei Test Nucleari. Una delle tappe più significative di quel processo di “razionalizzazione imperiale” in cui si imbarcarono le due superpotenze una volta che l’URSS riuscì faticosamente a raggiungere la parità nucleare e la dottrina della “Massive Retaliation” americana cessò definitivamente di essere credibile, un processo noto comunemente come “detente” o distensione che vide Washington e Mosca fissare i propri confini – oltre i quali non sarebbe stato saggio avventurarsi – ma anche dietro i quali sarebbe stato necessario un ferreo controllo. Una stabilizzazione del sistema internazionale in preparazione ad una nuova era di confronto, che inizierà alla fine degli anni ’70.

Ciò che pochi oggi sanno – e che Leopoldo Nuti, considerato il massimo esperto italiano sulla vicenda, ci racconta nel suo “La Sfida Nucleare” – è che l’Italia, a dispetto della sua moderna immagine di potenza multilateralista e promotrice di qualsiasi iniziativa internazionale, quel trattato non lo voleva firmare. E non lo firmò fino a 6 mesi dopo, con ben 12 dodici riserve, per poi non ratificarlo in parlamento – e quindi non aderirvi – fino al 1975. Accompagnata dalla Germania.

UN PAESE SCONFITTO PUO’ AVERE L’ATOMICA?

Quella di Italia e Germania è una storia camminata mano nella mano. Si unificano insieme, anche combattendo su fronti diversi contro Francia e Austria, entrambe vedono nella prima guerra mondiale il completamento del loro Risorgimento (questa volta dai lati opposti della barricata) entrambe successivamente vivono il fascismo e la seconda guerra mondiale, perdendola, e subendone le conseguenze.

Entrambe dopo la guerra si rimettono in piedi piuttosto velocemente nella cornice dell’Europa Occidentale a guida americana (per quanto riguarda la Germania Ovest) delle prime iniziative di integrazione europea – anch’esse collegate all’integrazione atlantica – della ricostruzione post-bellica ma anche (soprattutto l’Italia) delle opportunità offerte dall’avere (giocoforza) “le mani nette” sul fronte coloniale, opportunità che istituzioni come l’ENI di Enrico Mattei, in sinergia con la politica, sfrutteranno pienamente.
Con gli anni ’60 diventano attori economici di tutto rispetto nell’arena dei paesi industrializzati, ma questo rinnovato slancio non si traduce in un rinnovato status strategico. Dunque, la ricchezza di questi due paesi rimane di fatto in balia dei detentori dell’hard power, dietro e oltre cortina. Quand’anche si parla di riarmo in funzione antisovietica – peraltro non sempre visto di buon grado a casa, per ragioni questa volta del tutto interne – l’ambito di discussione è se subordinarlo ad una struttura a guida americana, ad una a guida francese (CED) o se evitarlo del tutto. La NATO rimarrà – fino ad oggi – ancora un’organizzazione dedita a tenere i “tedeschi sotto” (certamente i più temibili della coppia).

E dove può manifestarsi nel modo più chiaro questo “fattore sconfitta”, se non nelle questioni riguardanti il sacro graal della potenza militare e della sovranità nazionale, l’arma atomica?
Il nostro paese proverà in ogni modo – scoprendo i limiti imposti dall’esterno alla sua azione, talvolta lambendoli pericolosamente – ad avvicinarsi all’arma atomica.

Un missile a medio raggio "Alfa", sviluppato interamente in Italia dalla fine degli anni '60 alla metà degli anni '70.
Un missile a medio raggio “Alfa”, sviluppato interamente in Italia dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70.

Le ragioni sono principalmente due, e sono entrambe condivise con la Germania. Una riguarda la possibilità di un’invasione del Patto di Varsavia: l’Italia è un paese di frontiera nella guerra fredda, e non può essere sicura – soprattutto dopo la fine della Massive Retaliation – che gli Stati Uniti rischieranno una guerra (convenzionale o nucleare) con l’URSS per difenderla, ma non può neanche sperare di difendersi da sola con le sue esigue forze convenzionali. Washington ha da sempre un problema di credibilità strutturale, causato dall’estrema sicurezza di cui gode il suo territorio, difeso da due grandi oceani e ricco di risorse in grado di consentire l’autarchia. In sostanza, sconta il vantaggio di potersi ritirare dai suoi impegni senza subire conseguenze irreversibili.
La seconda invece, derivante dalla prima, una questione di bilanciamento all’interno dell’alleanza: se sono solo le armi – convenzionali e nucleari – statunitensi a poter garantire la sicurezza dell’Italia, il paese rimane di fatto in uno status di protettorato permanente, incapace di adottare una politica estera indipendente, se necessario in rottura con Washington. Non è assolutamente un caso che durante la crisi del sistema valutario di Bretton Woods alla fine degli anni ’60 l’unico paese a pretendere le sue spedizioni di oro dalla Fed – nonostante le forti pressioni americane per convertire i propri dollari in titoli, come tutte le altre banche centrali – sia la Francia. Non è un caso che nel ’73 – in occasione della crisi transatlantica scatenata dalla Guerra del Kippur – sia la Francia l’unico paese a voler andare fino in fondo, rigettando la costituzione dell’IEA e spingendo sul dialogo euro-arabo nonostante la minaccia americana di ritirare le truppe dal continente: Parigi, forte del proprio deterrente nucleare, è l’unica capitale pronta a dire “fate pure”.

Perciò tentiamo di avvicinarci all’arma nucleare da 4 diverse angolazioni, tutte quelle possibili: tramite il rapporto bilaterale con gli USA, tramite la NATO, tramite l’integrazione europea… e infine tramite l’estremamente controversa “opzione nazionale“.

SLBM classe M51 della Forza Oceanica Strategica francese, considerato da molti esperti il migliore missile intercontinentale balistico al mondo
SLBM classe M51 della Forza Oceanica Strategica francese, considerato da molti esperti il migliore missile intercontinentale balistico al mondo

L’OPZIONE BILATERALE: TATTICHE E MISSILI JUPITER

Consigli di lettura di Inimicizie

Nel 1959, accettammo di buon grado lo schieramento di missili nucleari a medio raggio americani Jupiter in due siti a Gioia del Colle, in Puglia. Con una gittata di oltre 3000km, il momento in cui l’Italia si sia più avvicinata a possedere un’arma atomica strategica in tutta la sua storia.

Sì, perché i missili Jupiter erano quasi più italiani di quanto non fossero americani: spiega Nuti – citando il generale Graziani – che le testate nucleari (che secondo il sistema della doppia chiave, sarebbero dovute essere custodite dagli USA, mentre all’Italia spettava il controllo del vettore) fossero permanentemente montate sui missili in posizione da combattimento, pronti ad essere lanciati in soli 15 minuti.
Inoltre, la loro collocazione in una base interamente gestita dall’aeronautica italiana ne avrebbe concretamente reso possibile l’uso anche contro il parere americano, in caso di estrema emergenza. Lo spiega Holifield, segretario del comitato congressuale americano responsabile delle armi atomiche, dopo un’ispezione in un’altra base Jupiter in Europa nel 1960, causando uno scandalo politico: “La cosa più simile a quello che dovrebbe essere il loro possesso da parte degli Stati Uniti, è il fatto che là fuori ci sono 7 uomini e un carrello collegato elettricamente con quel coso. Sei di loro sono di un’altra nazionalità, e il settimo, che ha la chiave, è americano. Tutto quello che devono fare per prendersi la chiave è dargli una botta in testa con uno sfollagente“. Una scelta deliberata secondo Nuti, orientata verso la condivisione nucleare con gli alleati NATO, aggirando la legge statunitense.

L’amministrazione Heisenhower – agendo nella cornice della supremazia nucleare sull’URSS – puntava molto sulla condivisione nucleare con gli alleati, nel suo “minimalismo strategico”: un contenimento dell’Unione Sovietica improntato quasi esclusivamente sull’arma nucleare; anche condivisa con gli alleati – per rendere più credibile la deterrenza – risultava preferibile rispetto ai costi esorbitanti che avrebbe implicato una difesa convenzionale dei nuovi territori dove l’impero americano aveva estesa la sua influenza. Sarà però un’impostazione strategica destinata a finire con l’amministrazione Kennedy, resa impraticabile dall’ascesa dell’URSS come potenza nucleare a pieno titolo.

Il programma Jupiter dunque durerà poco, e nel 1963 i missili nucleari “italiani” – operativi da fine 1960 – saranno sacrificati sull’altare della crisi dei missili di Cuba – insieme a quelli turchi – per essere sostituiti da missili Polaris nel Mediterraneo – ad esclusivo controllo statunitense – causando sia malumori che velati sospiri di sollievo a Roma. Contemporaneamente, Washington a Nassau decide di fornire i Polaris esclusivamente al Regno Unito, una mossa male accolta sia in Francia che nel resto d’Europa, che contribuì all’uscita di Parigi dalla NATO e all’indurimento del veto nei confronti dell’integrazione europea di Londra. Sintomatica di una nuova era nucleare, in cui l’arma atomica – soprattutto strategica – non sarebbe più stata condivisa con facilità.

Restano le armi nucleari tattiche, una componente più fumosa della deterrenza nucleare, meno documentata e poco coinvolta nella contesa politica. Tattiche che sono ancora presenti nelle basi italiane.
All’inizio degli anni ’60, in Italia sono presenti (con vari gradi di controllo statunitense, da quello operativo fino a quello della sola custodia formale delle testate) due battaglioni di lanciarazzi nucleari Honest John – gittata massima 50km – due battaglioni di lanciarazzi nucleari Corporal, mine nucleari da utilizzare nel Gorizia Gap, 24 obici M-115 dotati di proiettili nucleari, e persino un centinaio di missili anti-aerei nucleari Nike-Hercules, pensati per colpire concentrazioni di bombardieri ma spendibili anche in funzione terra-terra con un raggio massimo di circa 170km. Tutte armi utilizzabili in un teatro di operazioni locale, alcune forse – come i Jupiter – senza approvazione statunitense.

Sistema d'arma Nike Hercules installato in Italia. Oggi non esistono più missili da contraerea nucleari, essendo venute a mancare le concentrazioni di bombardieri dell'epoca della seconda guerra mondiale, con l'avvento dell'era dei missili.
Sistema d’arma Nike Hercules installato in Italia. Oggi non esistono più missili da contraerea nucleari, essendo venute a mancare le concentrazioni di bombardieri dell’epoca della seconda guerra mondiale, con l’avvento dell’era dei missili.

LA FORZA MULTINAZIONALE

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Con la fine del programma Jupiter e lo spostamento della deterrenza nucleare americana in mare – con i Polaris – l’Italia comunque non si arrenderà ad essere esclusa da ogni tipo di controllo sulle armi atomiche strategiche necessarie alla sua difesa.

La nuova idea è quella di creare una forza nucleare NATO – a carattere però multinazionale e non sovranazionale, dato importante, con unità controllate dai singoli paesi membri – armata di missili Polaris, basata nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico. A Roma questa iniziativa è presa estremamente sul serio, con la riconversione dell’Incrociatore (ereditato dalla Regia Marina) Giuseppe Garibaldi in una delle prima navi lanciamissili al mondo, la prima che avrebbe ospitato delle testate nucleari. Il progetto era quello di creare altre unità simili, e di imbarcarvi missili Polaris armati con testate nucleari, con equipaggi interamente italiani – solo una minima presenza formale americana – nell’ambito di una forza nucleare a comando NATO.

E’ una prospettiva che Washington intrattiene – o fa finta di intrattenere – ma superata dai tempi: l’era della condivisione nucleare è giunta al capolinea con la crisi dei missili di Cuba e il primo ban sui test nucleari, inizia l’era della razionalizzazione delle due sfere d’influenza. Questo significa un più ferreo controllo da parte di Washington (e Parigi, Londra) sul proprio arsenale nucleare: il sogno della “forza nucleare NATO” svanirà, sostituito dall’annacquato Nuclear Planning Group, dotato del solo compito di studiare i possibili bersagli di armi nucleari strategiche saldamente in mano a Washington. E’ qui che l’Italia inizia a guardare ad alternative più radicali.

L'Incrociatore Giuseppe Garibaldi lancia un Polaris UGM-27 durante i suoi test
L’Incrociatore Giuseppe Garibaldi lancia un Polaris UGM-27 durante i suoi test

LA FIRMA DEL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE E L’OPZIONE EUROPEA

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Morte le opzioni di condivisione bilaterale – o multilaterale – dell’arsenale atomico americano, salvo le sempre presenti armi nucleari tattiche, Italia e Germania si avviano ai negoziati che porteranno al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) con atteggiamento estremamente guardingo.

Due nazioni ormai cardinali nel sistema economico delle nazioni industrializzate, vedono (giustamente) il TNP come l’istituzionalizzazione del loro status di potenze sconfitte, la ratifica permanente della loro condizione di minorità rispetto non solo a USA e URSS, ma anche (argomento forse ancora più sentito) rispetto a Francia e Regno Unito. L’Ambasciatore Roberto Ducci riassumerà le perplessità italiane con una formula succinta ed elegante, definendo il TNP “Il trattato col quale si pretende che coloro che hanno fatto voto di castità si evirino“.

Convinte però di non poter fare molto altre (sicuramente consce delle possibili conseguenze di una vera e propria opposizione) Roma e Berlino tentano di apportare modifiche al trattato, in mancanza delle quali la firma – secondo l’ambasciatore a Berlino, Luciolli – sarebbe stata “Una capitolazione totale“: una durata non illimitata (25 anni, diventerà illimitata nel 1995) maggiori obblighi di disarmo per i paesi nucleari (ignorata) minori restrizioni per l’uso civile (parzialmente accolta) e infine l’importante (accolta, col tempo) sostituzione dell’agenzia europea EURATOM all’IAEA per i paesi membri. Con quest’ultima modifica al trattato, è evidente che Italia e Germania vogliano tenere la porta aperta all’opzione nucleare strategica che sembra più realistica: un’atomica tinteggiata – come scrive Caracciolo in “La pace è finita“, rimarcando l’attualità di questo proposito – “con qualche mano di vernice gialla e blu“. L’integrazione europea è sempre stato il veicolo delle ambizioni italiane e tedesche di tornare potenza – un’ambizione, va detto, non condivisa da quasi nessun altro paese membro – ma la prospettiva è senz’altro lontana e incerta. Lo è oggi, lo era a maggior ragione negli anni ’60.

Roma e Berlino infatti non si rassegneranno, e fino al ’75 non ratificheranno il TNP. A casa nostra, si accarezzerà anche l’ipotesi più controversa e inconfessabile: quella nazionale.

Già nel 1967 – prima della firma del TNP – a porte chiuse i toni si fanno accesi, scrive Nuti:

Quando il 20 febbraio si riunì il Consiglio Supremo di Difesa per discutere sul problema della non-proliferazione e di un’eventuale scelta nucleare nazionale, Fanfani [allora Ministro degli Esteri N.d.R.] constatò una radicata e diffusa ostilità nei confronti del trattato da parte di quasi tutti i principali esponenti del governo, in particolare per quanto riguardava la ‘discriminazione illimitata proposta dal TNP tra non-nucleari e nucleari’. Saragat [PDR N.d.R.] in particolare, sembrò anche in quell’occasione assumere una posizione dai connotati fortemente nazionalistici, quasi favorevole a un’opzione nucleare nazionale, ma anche gli altri partecipanti alla riunione non nascosero le loro riserve.

E in effetti, il Capo di Stato Maggiore – Generale Aldo Rossi – aveva dato il via libera nel 1964 allo studio in gran segreto di un deterrente nucleare italiano.

VERSO LA RATIFICA: LO SPORCO DIBATTITO

Il dibattito si farà molto più acceso – e sporco – in Italia nei 6 e rotti anni che separeranno la firma dalla ratifica.

Un lungo periodo di attesa giunge al termine quando finalmente – nel 1973 – viene completata la tanto voluta intesa tra EURATOM e IAEA: adesso ogni “scusa” cade, ed è il momento di decidere o meno per la ratifica. I paesi del Benelux – che fino a questo punto avevano agito di concerto con Italia e Germania, essendo in una situazione simile dal punto di vista della deterrenza nucleare – ratificheranno immediatamente, lasciando fuori solo Roma e Berlino.

La contesa non investe – perlomeno inizialmente – l’opinione pubblica, ma si consuma nel nostro paese tramite una serie di dichiarazioni, riunioni coperte dal segreto di stato, articoli scritti sotto pseudonimo, campagne di disinformazione.

Con il primo test nucleare dell’India – paese non firmatario del TNP – la fronda dello stato profondo italiano contraria alla ratifica del trattato prende coraggio, denotando un evidente fallimento del regime di non proliferazione: apre le danze Roberto Gaja – Segretario Generale del Ministero degli Esteri – scrivendo un articolo sotto pseudonimo, in cui esorterà Roma a non ratificare il trattato a meno che all’Italia (come ad altri paesi) non venisse riconosciuto il ruolo di “paese soglia” che effettivamente ricopriva, sotto il regime del trattato. Sì, perché l’Italia, ai (bei) tempi era il terzo produttore di energia nucleare civile della NATO (dopo USA e Regno Unito, più della Francia) e aveva la capacità di produrre materiale fissile adatto a far partire un programma nucleare militare nel giro di pochi mesi, grazie all’impianto EUREX I di Saluggia, che dagli anni ’80 sarebbe stato coadiuvato dall’impianto EUREX II in grado di produrre abbastanza materiale fissile da sostenere un programma nucleare in piena regola. Come evidenziavano Aldo Moro e altri membri di spicco della Democrazia Cristiana, l’Italia non partecipava alla “contesa nucleare” solo perché non voleva, non perché non poteva. Molti in Italia (tra gli addetti ai lavori) ritenevano che questa capacità dovesse essere mantenuta, per esercitarla nel caso di mutate condizioni internazionali.
Addirittura – a TNP già firmato – l’Italia svilupperà un suo missile a medio raggio indigeno al 100%, l’Alfa – con gittata di 1600km – abbandonandolo, dopo 3 test avvenuti con successo, solo dopo la ratifica.

Proseguirà il pezzo grosso del CNEN (Centro Nazionale per l’Energia Nucleare) Achille Albonetti su La Discussione – organo stampa della DC – evidenziando il fatto che l’Italia si stesse mettendo in condizione di minorità nel suo teatro geopolitico prioritario – il Mediterraneo – ratificando il TNP senza che lo facessero anche Albania, Algeria, Francia, Egitto, Libia, Spagna, Turchia e Israele (che nel ’74 aveva già l’arma nucleare, anche se forse Albonetti non lo sapeva).

La rivista su cui "Roberto Guidi" esprime sotto pseudonimo le sue perplessità sul Trattato di Non Proliferazione
La rivista su cui “Roberto Guidi” esprime sotto pseudonimo le sue perplessità sul Trattato di Non Proliferazione

Poi la vicenda diventerà ulteriormente fumosa, coinvolgendo questa volta anche i media mainstream.

La rivista Politica e Strategia, edita dall’Istituto per gli Studi Strategici e della Difesa (ISSED) del Generale dell’Aeronautica Dullio Fanali – che appena 2 anni dopo diventerà una delle principali persone d’interesse nello scandalo Lockheed – pubblicherà nel settembre 1974 un’edizione speciale tutta dedita alla proliferazione nucleare italiana, contenente articoli che spazieranno da posizioni di pacata critica al TNP ad ardite ipotesi di deterrente nucleare nazionale.

Immediatamente, partirà una vera e propria macchina del fango mediatica contro il milieu contrario alla ratifica del trattato – da parte di testate di area comunista e socialista – ricca di riferimenti all’eversione nera che da pochi anni aveva iniziato a scuotere il paese: il quotidiano di area comunista Paese Sera titolerà “Tattica e nera. L’H sognata dai golpisti“, il settimanale di area socialista L’Europeo scriverà “I Mau-Mau delle ambasciate” – alludendo al movimento di guerrigliero/terroristico in Kenya – Il Manifesto invece “La ‘diplomazia nera‘ preme per l’atomica italiana“. In particolare il dito venne puntato contro Albonetti, considerato il “capofila” di una cordata di diplomatici, politici, industriali e militari favorevoli all’atomica italiana e collegati (secondo questa campagna) con trame eversive. Il direttore del CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare), l’Ammiraglio Avogadro di Valdengo, rassegna le sue dimissioni: tra le speculazioni che circolano, l’opzione che sia venuta alla luce la pianificazione segreta di un test nucleare dimostrativo come quello indiano, utilizzando uranio arricchito ottenuto dalla Francia un decennio prima per un progetto di nave a propulsione nucleare, o processato all’impianto EUREX di Saluggia.

Esponenti della sinistra presentarono interrogazioni parlamentari al governo. Infine, una petizione per la ratifica immediata del TNP da parte di 142 scienziati guidati dal “ragazzo di Via Panisperna” Ugo Amaldi, contribuì a scandalizzare l’opinione pubblica.

Cosa succede dietro le quinte? E’ impossibile dirlo, un altro grande mistero italiano. Che esistesse in quegli anni un milieu eversivo legato sia a settori delle istituzioni sia ai movimenti neofascisti è un dato di fatto. Ma estremamente chiari sono anche i suoi rapporti – o meglio dire la sua simbiosi, ormai diventata innegabile, da Borghese a Fiore, passando per Edgardo Sogno – con Londra e Washington, due capitali estremamente contrarie ad ogni ipotesi nucleare nazionale. D’altro canto, un’altra potenza fermamente contraria – ancor più di Londra e Washington – all’atomica italiana era l’Unione Sovietica, con cui il PCI (ed i media intorno ad esso gravitanti) mantenevano ancora stretti rapporti, nonostante la conversione all’atlantismo in fieri sotto la direzione di Berlinguer, che con Mosca romperà al punto da diventare (forse) vittima di un attentato dei servizi segreti bulgari.

E comunque, il milieu contrario alla ratifica del TNP era davvero sovrapponibile a quello dell’eversione nera/golpista/angloamericana? Su questo punto è facile oggi rispondere di no. Alcuni suoi esponenti – come Fanali – saranno lambiti dalle inchieste sull’area golpista, altri – ambasciatori come Gaja, Ducci, Quaroni, burocrati come Albonetti – ne rimarranno del tutto estranei.

La campagna di pressione da parte della sinistra fu promossa da Mosca? Londra e Washington furono coinvolte, in una convergenza d’interessi con l’URSS nel belpaese – volta a mantenere intatto l’assetto di Yalta/Helsinki – che avrà occasione di manifestarsi anche altre volte durante la distensione? Domande a cui invece non è possibile dare risposta. Forse si trattò solo della reazione isterica di un paese spaventato, sia dagli eventi degli anni precedenti, sia dalle armi in generale, sia dall’idea stessa di ritornare potenza. Anche questo è possibile.

Fattostà che al governo e alla coalizione parlamentare non rimane altra scelta: dietro la pressione dell’opinione pubblica “benpensante” ma anche dei governi alleati (come Nuti scriverà di aver appreso in una discussione riservata con un diplomatico britannico) l’Italia ratifica il TNP nel maggio 1975. Insieme alla Germania.

1953, primo test del sistema d'artiglieria nucleare M65. Sistemi d'arma simili erano presenti in Italia durante tutta la guerra fredda
1953, primo test del sistema d’artiglieria nucleare M65. Sistemi d’arma simili erano presenti in Italia durante tutta la guerra fredda

GLI EUROMISSILI E IL TRAMONTO DELL’OPZIONE NAZIONALE

Consigli di lettura di Inimicizie

Armi nucleari strategiche verranno schierate nuovamente in Italia – i cosiddetti “euromissiliPershing e Cruise – nel 1983, nel contesto di un confronto bipolare ripartito a pieno regime dopo la razionalizzazione, tra guerre per procura in Afghanistan e Angola, superamento senza precedenti dei “confini di Yalta” con il supporto a Solidarnosc in Polonia, guerra commerciale, fine della stabilità strategica nucleare e incidenti estremamente pericolosi.
Questa volta però con delle differenze: non solo i missili americani sono meno ben accetti in Europa rispetto agli anni ’60 – un’Europa che si è imbarcata nelle sue “Ostpolitik” e arriva vicina ad una guerra commerciale con gli USA per partecipare alla costruzione del gasdotto Yamal – ma sono anche privi del lasco sistema a “doppia chiave” che rendeva i Jupiter degli anni ’60 un sistema d’arma quasi più italiano che americano, racconta Nuti:

Gli americani […] non si mossero dalle loro posizioni iniziali, dal momento che ritenevano impossibile installare fisicamente sui missili una doppia chiave, e non desiderabile la partecipazione italiana alla catena di comando” […] “L’ex ministro della Difesa Lagorio conferma l’esistenza di questo negoziato e racconta di essersi adoperato a più riprese durante il suo mandato perché i missili fossero gestiti congiuntamente secondo il meccanismo della doppia chiave, sul modello proprio di quanto era accaduto con i missili Jupiter […] La disponibilità americana a negoziare sarebbe continuata fin quando il presidente Raegan non manifestò in proposito la sua netta ostilità in una lettera al Presidente del Consiglio Fanfani […] aggiunge nelle sue memorie che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Santini, gli avrebbe suggerito di risolvere il problema, nel caso in cui non si fosse riusciti a trovare una soluzione concordata e si fosse davvero verificato un disaccordo con gli americani circa l’impiego dei missili, bloccandoli nei loro rifugi con il ricorso alla forza

In sostanza, se prima ci si chiedeva se gli americani sarebbero riusciti a fermare un lancio di missili Jupiter da parte di un’Italia “uscita dal seminato” ora ci si chiedeva se l’Italia sarebbe riuscita a fermare un lancio di missili Cruise – controllati interamente dal 487th Tactical Missile Wing americano di stanza a Comiso, in Sicilia – nel caso in cui gli americani avessero deciso di procedere contro il parere di Roma. Un completo ribaltamento dei rapporti di forza – per quanto concerneva la catena di comando – che di fatto sobbarcava sull’Italia tutti i costi dell’ospitare armi nucleari sul suo territorio (essere un bersaglio per le armi nucleari sovietiche o di altri avversari degli Stati Uniti) senza però conferirgliene i benefici (disporre in qualche misura di un proprio deterrente nucleare strategico). Sintomatico dei nuovi rapporti di forza – più sbilanciati verso Washington – che si instaureranno tra Italia e Stati Uniti con la fine della guerra fredda, e con il (conseguente) cambio di regime che avverrà sull’onda di tangentopoli, dello sgretolamento del PCI e dell’MSI.

Gli “euromissili”, comunque, verranno rimossi già nel 1987.

Anni '80, un aviere della 485th Tactical Missile Wing mantiene la sua posizione durante un test di lancio del sistema d'arma GBM-109G (Cruise), Europa
Anni ’80, un aviere della 485th Tactical Missile Wing mantiene la sua posizione durante un test di lancio del sistema d’arma GBM-109G (Cruise), Europa

Per quanto riguarda le altre “opzioni nucleari” nella disponibilità di Roma – anche dopo la ratifica del TNP – l’Italia rimarrà di fatto un “paese soglia” – dotato di un’avanzata industria nucleare civile e di strutture convertibili in breve tempo ad uso militare – per altri 15 anni, fino a quando il referendum dell’87 – promosso da radicali, socialisti e ambientalisti sull’onda del disastro di Chernobyl, sostenuto poi anche da DC e PCI – non renderà di fatto impossibile la costruzione di nuove centrali (e addirittura impedirà ad ENEL di partecipare in progetti di nucleare all’estero, come a voler spargere sale sulle rovine del programma nucleare italiano) e il governo nel 1990 deciderà di chiudere tutti e 4 gli impianti già esistenti.
Tramontata ogni ipotesi di atomica nazionale, ad oggi rimangono aperte come strade soltanto la futuribile – quanto incerta – opzione europea, e l’eventuale utilizzo di armi nucleari tattiche americane a corto raggio, ad ora presenti nella sola variante di bombe gravitazionali B-61 sganciabili da jet Tornado o F-35A di stanza a Ghedi ed Aviano.

L’Italia è certamente più lontana dall’atomica oggi rispetto agli anni ’60, ’70, ’80. Questo dato, unito a quello di forze convenzionali tenute al minimo (e forse al di sotto, se si esclude la marina) livello di guardia, dice già tutto sulle reali possibilità di autonomia strategica del paese, al netto dei (per quanto auspicabili) sogni europei.

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