UN CASO INTERESSANTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN CASO INTERESSANTE

Spesso si ripete che l’Italia è un grande laboratorio politico dato che è la prima a sperimentare novità: e, con altrettanta frequenza, questo è vero.

Uno dei casi è proprio Forza Italia. Denominata partito personale, leggero anche per contrapporlo a quelli della I repubblica connotati da apparati assai più ideologizzati, professionalizzati e pervasivi.

Orsono venticinque anni mi capitò di scrivere su Berlusconi e Forza Italia, confrontandone l’allora breve esistenza politica con regole e parametri presi da Machiavelli e da un acuto giurista tedesco, Rudolf Smend. Questi è rimasto nella dottrina costituzionale come colui che ha valorizzato l’integrazione, cioè il rapporto tra vertice e base come “divenire dinamico dell’unità politica”, cioè (anche) come produzione di un idem sentire, che consolidasse e rendesse effettive unità e azione politica. Scrive Rudolf Smend “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”. E tra i gruppi sociali, quelli che più necessitano di integrazione sono quelli a carattere politico, a cominciare dai partiti fino allo Stato. Notavo che Forza Italia, data la forte personalità del capo era cospicuamente dotata di integrazione personale (anche se difettava nei dirigenti intermedi).

A distanza di oltre 5 lustri si può confermare che l’integrazione personale (tramite il leader) è stato il principale fattore d’integrazione e probabilmente quella che ha consolidato l’esistenza del partito. Lo dimostrano il numero enorme di preferenze (nelle elezioni che le consentivano) a Berlusconi, gli assai più modesti risultati nelle elezioni locali, e comunque quando il cavaliere non si candidava, l’evidente ascendente dello stesso sull’elettorato. E perfino il complotto anti-Berlusconi che ne ha portato, tramite legge Severino, alla di esso privatizzazione: la (voluta) privazione del ruolo pubblico del cavaliere dopo la condanna definitiva è stato probabilmente il fatto che ha maggiormente contribuito al sorpasso della Lega su Forza Italia alle elezioni politiche del 2018. Proprio per la preponderanza che aveva l’integrazione personale nella “tenuta” di Forza Italia la tattica preferita dal centrosinistra è stata quella di attaccare il leader avversario sul piano personale (e “privato”).

Anche perché gli altri due mezzi (tipi) d’integrazione individuati da Smend, in Forza Italia di converso erano assai deboli. Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – “prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni”. Ma da quanto risulta tale mezzo è stato sempre poco praticato: i “congressi” di Forza Italia più che un modo per realizzare la volontà comune e selezionare la dirigenza (almeno in parte), sembravano convention aziendali per promuovere i prodotti offerti (in genere sono anche questo, ma era la proporzione prevalente a minare, alla lunga, la solidità dell’insieme).

Tra l’altro i sistemi elettorali per lo più adoperati hanno ridotto la possibilità che la selezione della dirigenza politica, in modo democratico, fosse “compensata” in sede elettorale. Questo perché la collocazione in collegi e listini consente ai vertici dei partiti un potere di designare gli eletti assai superiore alla vecchia legge elettorale proporzionale con preferenza, così che si è parlato – correttamente – per lo più di un parlamento di nominati.

Quanto all’integrazione materiale, cioè attraverso la comune adesione a “tavole di valori” comuni, all’inizio si manifestava per lo più in negativo cioè contrapponendosi al centrosinistra. Presentava il limite di essere in parte nebulosa, in altra stemperata in più rivoli, ma soprattutto non ha retto il confronto con le realizzazioni dei governi Berlusconi. I quali, malgrado maggioranze parlamentari cospicue, realizzavano poco di quanto promesso. Certo meglio di quanto avrebbe fatto il centrosinistra o i governi “tecnici” o “simil-tecnici”, ma comunque modesto rispetto alle promesse ma soprattutto alle aspettative dell’elettorato. Di guisa che circa due terzi del bacino elettorale di Forza Italia si è riversato sulla Lega e Fratelli d’Italia, partiti che quindici anni fa insieme avevano consensi pari a un terzo di quelli del partito di Berlusconi.

E adesso? La risposta è tutt’altro che facile e Tajani avrà un bel da fare. Venuto meno il fattore Berlusconi, estremamente difficile a sostituirsi, non resta che puntare sugli altri fattori d’integrazione e su mezzi di selezione del personale politico meno “autocratico”.

Scriveva Michels che la democrazia non è concepibile senza organizzazione. Nel caso di Forza Italia vale anche l’inverso e l’organizzazione non è concepibile senza democrazia. E così anche con la discussione a tutti i livelli dell’organizzazione. Questa serve a selezionare i capi, come ad acquisire e diffondere idee (anche) nuove. Serve sia all’integrazione funzionale che a quella materiale. Così come alla coesione dell’insieme.

Riuscirà l’impresa? È nuova, sicuramente per l’Italia, ma non mi risulta che sia stata realizzata altrove, almeno in Europa. Non resta che fare gli auguri, ricordando che il merito nel riuscirci è pari alle difficoltà da superare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Complicità, di Andrea Zhok

L’abbraccio di solidarietà di Conte a Speranza, con a fianco una plaudente Elli Schlein, in occasione dell’approvazione della Commissione d’inchiesta sulla gestione pandemica, è una delle scene più ributtanti viste in parlamento da lungo tempo. Un promemoria che ogni voto a sinistra nel presente contesto è un voto non semplicemente buttato, ma a diretto sostegno dell’ipocrisia, della malafede, della peggiore umanità.
Il tema della strategia pandemica è stato soppiantato, come è giusto che sia, da altri problemi più urgenti; e Dio solo sa se di problemi non abbondiamo.
Tuttavia questi personaggi, e chi vi ha dato credito, devono sapere che il senso di ricatto e minaccia vissuto negli anni della pandemia non se ne andrà mai. Quel senso di ricatto e minaccia prodotto dalle stesse “istituzioni democratiche” che avrebbero dovuto tutelare la popolazione e che invece sono state la principale causa di un disastro sanitario senza precedenti.
Lo so che ancora molti, moltissimi, non hanno capito (né voluto capire) cosa sia successo. Se la sono cavata e tanto basta. E adesso che – come ampiamente segnalato a suo tempo – ci troviamo con un servizio sanitario nazionale tracollato e de facto privatizzato, fanno spallucce, e sperano di cavarsela ancora.
Dalla riduzione dei posti letto prima della pandemia, alla mancanza di implementazione di un piano pandemico aggiornato, alla rinuncia forzosa alle terapie domiciliari, al criminale protocollo “tachipirina + vigile attesa”, alle sanzioni ai medici che cercavano di curare, ai lockdown indiscriminati con promesse di ristori risultati ridicoli, all’imposizione indiscriminata e scriteriata di inoculazioni sperimentali, ai ricatti progressivi e crescenti, sul lavoro, sui mezzi pubblici, all’università, per l’accesso agli uffici pubblici, all’omertà indotta sugli effetti avversi, alle campagne di demonizzazione dei renitenti, ai contratti di fornitura secretati, al fiume di soldi pubblici passati direttamente nelle casse delle case farmaceutiche senza toccare il servizio pubblico, tutto questo e molto altro c’è in quell’abbraccio di solidarietà tra complici.
Qualunque sia l’esito della commissione d’inchiesta – rispetto a cui le aspettative non sono alte – sappiate che comunque non dimenticheremo e che alla giustizia, se non a quella giudiziaria almeno a quella storica, arriveremo.

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RIVOLTE FRANCESI, UNA ANALOGIA STORICA ILLUMINANTE: GUERRA D’ALGERIA, di Roberto Buffagni

RIVOLTE FRANCESI, UNA ANALOGIA STORICA ILLUMINANTE: GUERRA D’ALGERIA.
Guardando “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo si capisce subito qual è il problema: risolvibile sul piano militare, insolubile sul piano politico. In Francia si sono formati diversi ghetti, cittadelle dell’immigrazione dove la polizia non entra, che sono di fatto sottratte alla sovranità dello Stato. Prima erano soprattutto le banlieues parigine e marsigliesi, poi lo Stato francese ha cominciato a distribuire gli immigrati in tutta la nazione, appunto per mitigare questo problema, ma lo ha solo esteso. Infatti le rivolte scoppiano dappertutto, anche nelle città medie e piccole, perché lo stesso fenomeno si riproduce dovunque ci sia un numero sufficiente di immigrati che formano un ghetto a scopo difensivo e di reciproca solidarietà culturale ed etnica, espellendone i francais de souche che scappano via perché non gli va di abitare a Casablanca 2 senza la polizia marocchina che garantisce l’ordine.
In questi ghetti, ci sono due fonti di autorità e di potere: gli imam, e i trafficanti di droga. Gli imam hanno l’autorità morale (e spesso sono estremisti perché i sauditi hanno largamente finanziato l’estremismo wahabita in Europa) i trafficanti di droga hanno i soldi, le armi, il monopolio della violenza e il prestigio che il successo sociale esercita sui giovani.
Come si fa, tecnicamente, per ripristinare la legge francese e l’autorità dello Stato in questi ghetti? Il modo c’è, ed è esattamente quello rappresentato, con grande fedeltà storica, ne “La battaglia di Algeri”, bellissimo film che si guarda in tutte le Accademie militari del mondo. Lo si vede verso la metà del film, quando viene descritto come i reparti di paracadutisti rastrellano la Casbah.
Lì lo fanno per sconfiggere lo FLN (e ci riescono), ora andrebbe fatto per sconfiggere i trafficanti di droga e gli imam, e riportare la legge e l’ordine nelle banlieues.
E’ una cosa tecnicamente fattibilissima, politicamente impossibile. Un’altra somiglianza delle rivolte odierne con la vicenda algerina è proprio questa: fattibilità tecnico-militare, impossibilità politica. Quando è stato richiamato de Gaulle al governo, egli ha fatto la seguente considerazione. Se teniamo l’Algeria, dobbiamo concedere la cittadinanza francese agli algerini, non è più culturalmente possibile una apartheid imperiale con gli algerini cittadini di serie B (N.B: stessa identica situazione di Israele). Questo implica che milioni di algerini mussulmani possono entrare liberamente in Francia, e vi entreranno perché verranno chiamati come forza lavoro a basso costo, e vi potranno insediare le loro famiglie. Inaccettabile perché olio e aceto non si mescolano, perché “non voglio che Colombey-les-Deux-Eglises (dove abitava de Gaulle) diventi Colombey-les Deux Mosquèes”, perchè così creiamo le condizioni per una guerra civile su base etnica.
A questo punto de Gaulle ha bruscamente concesso l’indipendenza all’Algeria. Chi vuole tenersela dà vita all’OAS (Organisation de l’Armée Secrète, i golpisti ripresero il nome resistenziale, e molti di essi, tra i quali quasi tutti gli ufficiali che sconfissero lo FLN ad Algeri, avevano in effetti combattuto nella resistenza francese). Si noti bene che l’OAS voleva concedere la piena cittadinanza francese a tutti gli algerini. Quando de Gaulle concede, bruscamente e di sorpresa, l’indipendenza all’Algeria, l’OAS (diversi reparti dell’esercito francese con alla testa ufficiali superiori + i pied noirs + varie formazioni politiche di destra) tenta il colpo di Stato contro di lui. Fu una cosa molto seria, in confronto Prigozhin fa ridere; cerca anche di farlo fuori (attentato fallito del ten.col. Bastien-Thiry, poi fucilato. De Gaulle rifiuta la grazia perché Bastien-Thiry gli ha sparato mentre in macchina c’era anche sua moglie, Tante Yvonne: attentato non cavalleresco, vai al muro Jean-Marie, e ringrazia che ti fucilo in quanto militare e non ti ghigliottino come un criminale qualsiasi. 🙂
Per ora la rivolta francese è disorganica perché non ha (ancora) un obiettivo politico chiaro, mentre la rivolta FLN ce l’aveva eccome (indipendenza dell’Algeria).
Ma a) l’obiettivo politico chiaro potrebbe darselo, per esempio la partizione del territorio francese (Hollande ha detto, dopo la sua presidenza, “andrà a finire con una partizione” e in effetti è logico b) anche senza un obiettivo politico queste rivolte destabilizzano lo Stato e la società francesi, guerra civile a bassa intensità, porzioni di territorio sottratte alla legge.
Aggiungi le diverse dinamiche demografiche tra immigrazione e francais de souche, e vedi dove si va a finire (un brutto posto). Sintesi gli immigrati SONO TROPPI.

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INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO

Da tempo le esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono oggetto di critiche, in particolare di essere permissive, anti-legalitarie, garantiste, ecc. ecc. Per saperne di più siamo andati a intervistare il barone di Montesquieu, noto intenditore di libertà politica e di Stato di diritto il quale, ci ha benevolmente concesso l’incontro.

Caro barone, che ne pensa della dichiarazione del Ministro Nordio che “La nostra legislazione tributaria è piena di ossimori. Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo le imposte non riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono”.

Penso che il legislatore, come ho scritto, deve essere chiaro e conciso, la moltitudine delle leggi impedisce il secondo carattere e rende problematico il primo.

L’ideale della legge è quella delle XII tavole: così piana e succinta che i bambini romani la conoscevano a memoria. Provate a fare la stessa cosa con le leggi italiane, anche soltanto con quelle tributarie: non ci riuscirebbe neanche Pico della Mirandola. Ma quei caratteri sono essenziali per la certezza del diritto; cioè per un connotato fondamentale dello stesso. Senza quelle, il diritto non è altro che l’arbitrio (facile) dell’interprete.

Cosa ne pensa del fatto che Nordio ha detto che non vuole interferenze dell’ANM nella formazione delle leggi?

Che ha capito lo “spirito” del mio pensiero, anche oltre la lettera; ho scritto che “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”. Certo qui non si tratta di un’interferenza formale, prescritta dalle leggi (il che sarebbe ancora peggio). Ma certo un’interferenza di un soggetto rappresentativo di una categoria di funzionari pubblici che esercitano uno dei poteri  dello Stato è, a mio avviso, comunque da evitare per scongiurare quanto da me sostenuto. Che può essere declinato in più maniere, la prima delle quali è che, per conseguire la libertà politica, è necessario che colui che pone la norma non sia quello che la applica. Invece coloro che criticano il Ministro sembra che tengano non alla libertà o alla legge, ma al potere della burocrazia di applicarla, nel modo meno determinato e controllato possibile. Un caso di buromania e di burodipendenza.

Passando ad altro, che ne pensa della concezione, anche dell’Unione Europea, di misurare lo “Stato di diritto” (soprattutto) sulla protezione dei diritti “LGBT”?

Ho sostenuto, a proposito della libertà che “Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi…. Gli uni l’hanno presa nell’accezione di facilità di deporre colui al quale avevano conferito un potere tirannico; gli altri come la facoltà di eleggere colui al quale dovevano obbedire; altri ancora come il diritto di essere armati e di potere esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione o delle proprie leggi. Un popolo ha preso la libertà per l’uso di portare una lunga barba”. Ecco a me pare che chi condivide la concezione suddetta è assai simile a quelli che la pensano come facoltà di farsi crescere la barba. Quando tanti diritti sociali ed economici sono poco garantiti, pensare e tutelare pretese marginali (e in qualche caso non fondate sulla realtà) mi sembra un tentativo, come dite, di distrazione di massa. Si pensa al diritto di affittare gli uteri (et similia) per costruirsi un’immagine gradevole e “liberale”, senza pagare prezzo.

Allora la ringrazio sig. barone,  posso tornare ad intervistarla?

Sinceramente penso che ce ne sarà bisogno. Come ho scritto non è che il regime delle repubbliche italiane dei miei tempi fosse del tutto corrispondente alla forma di governo dispotica. Ma avverto, nel vostro modo di governare, una tendenza storica a raggiungerla. E, per quanto mi riguarda, darò mano per invertirla.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Un paese in declino, grazie a Confindustria e ai suoi servi di Pasquale Cicalese

Ho visto la prima pagina de IlSole24 ore di ieri. Titolo: allarme competitività, produttività e innovazione giù.

Premetto che a me sta bene tutto, purché sia produzione. Ma mi dite che innovazione possono avere settori portanti dell’industria italiana quali arredo, alimentare, tessile, abbigliamento, calzature ecc?

Sono settori che occupano una parte non indifferente degli occupati industriali. In questi settori puoi fare solo innovazione di processo, non di prodotti, perché i prodotti sono quelli, peraltro richiesti dal mercato mondiale.

E per fare innovazione di processo devi mettere soldi sulla struttura della propria azienda, fare cioè gli investimenti. Che non fanno da 50 anni, basandosi tutto su salari bassi. E dunque diminuendo, tramite consumi inferiori, la domanda interna.

Puoi fare innovazione digitale, di macchinari, ma sul prodotto puoi fare ben poco.

Questi sono settori – a parte la mancata meccanizzazione dell’agricoltura – dove i proprietari hanno immensi patrimoni personali ma basano tutto sull’apporto pubblico, di vari enti, da centrali a periferici, per fare qualche investimento. Poi magari, come successo negli ultimi 40 anni, delocalizzi, ma poi ritorni perché nel frattempo i salari dei paesi dove sei andato sono cresciuti ai livelli nostri.

Ecco, basano tutto su bassi salari. Non abbiamo quasi più industria automobilistica, siderurgica, chimica, qualcosa di elettronica, ma per il resto subfornitura, con l’eccezione della meccanica strumentale.

Mi dite voi quale innovazione ci può essere? Si beano che stiamo arrivando a circa il 50% dei prodotti manifatturieri esportati all’estero, non capendo che è una tragedia, alla fine, perché se gli altri paesi si fermano, come la Germania, tu coli a picco.

Marcello de Cecco lo scrisse negli anni Novanta: le produzioni italiane di questi settori dovevano andare nei paesi emergenti, non da noi, noi dovevamo tenerci l’industria pubblica innovativa e all’avanguardia. Cassandra inascoltata.

Evidentemente presso molti italiani, come vedo, c’è il mito del Made in Italy. Evidentemente bestemmio. Ma mi chiedo: è possibile che i colossi del lusso francese nel 2023 – ripeto: 2023 – scelgano il nostro Paese, magari trasferendosi dall’Asia per la produzione di pelletteria, calzature e abbigliamento?

C’è qualcosa che non va in tutto ciò. Per vari motivi: i guadagni sono tutti delle multinazionali e dei loro proprietari come Arnault. Evidentemente in Toscana, dopo secoli, si sta assistendo alla fine della produzione artigianale di eccellenza per mettere questi lavoratori in complessi industriali, cosa ben analizzata da Marx nell’Ottocento a proposito del tessile.

E’ un bene? Io non credo. Poi, se si spostano dall’Asia in Italia è per i salari, ormai, al netto del costo della vita, i nostri sono più bassi dei loro e in più c’è la vicinanza e le capacità delle maestranze. Poi non lamentiamoci dei bassi salari, perché è questo modello produttivo che li porta.

Se ci fossero più aerospaziale, chimica fine, siderurgia, produzione automobilistica, elettronica, telecomunicazioni, farmaceutica che, a differenza di adesso, non sarebbe contoterzista ma attrice primaria nel mercato mondiale; non avremmo bassi salari, perché sono modelli basati ad alta intensità di ricerca e produttività.

Li abbiamo abituati troppo bene, questi presunti padroni in nome del Made in Italy. Una volta erano produzione di nicchia, ora primeggiano perché per il resto c’è il deserto.

Per quanto riguarda lo stesso turismo, è ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, dove a guadagnarci sono pochi e anche questo modello si basa su bassi salari. Anche la Grecia ha il turismo, ma sfido qualcuno ad affermare che industrialmente sia un paese evoluto.

Confindustria, sin dal dopoguerra, voleva la fine dell’industria pubblica perché “concorreva” dando salari dignitosi rispetto ai loro. Ci sono voluti Carli, Ciampi, Draghi, Amato, Prodi e D’Alema per accontentarli.

Ed è stata la nostra fine.

Siamo in declino da decenni, quest’anno forse cresciamo dell’1,2%, ma che ce ne facciamo con un debito pubblico spaventoso, con servizi scadenti, con consumi a picco, con produttività totale dei fattori produttivi a zero da decenni?

E non si fa niente pur avendo una posizione finanziaria netta estera positiva per 105 miliardi, perché dobbiamo obbedire a Usa, Ue e Nato.

Ieri lo avevo scritto in un post, pubblicato da L’antidiplomatico  e da Contropiano. Solo adesso mi accorgo che l’editorialista Paolo Bricco de IlSole24 ore, l’unico che leggo di quel giornale, ha dedicato un pezzo ieri dal titolo “L’Italia non può vivere solo di turismo“.

Traccia un quadro allarmante dell’industria italiana, anche quella della meccanica strumentale, un tempo il nostro vanto, che ora è incapace di intercettare la domanda internazionale, a differenza di prima.

Ieri scrivevo che senza cognizione di causa nell’economia, dai vertici dello Stato ai quadri ministeriali, un Paese non può andare avanti. Ecco, lo scrive lo stesso Bricco in un passo che cito: “Quando si vuol fare qualcosa non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare ad Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e Franco Reviglio“. Gente colta, capace, consapevole.

Oggi ho letto un post che diceva il giusto: “un paese senza acciaio cessa di esistere“. Per quanto riguarda la burocrazia di valore, essa ha a che fare con due fattori storici della Seconda Repubblica: le “riforme Bassanini”, che hanno distrutto la capacità di analisi e di azione del corpo burocratico, mettendo spesso gente poco colta; ma soprattutto la campagna d’odio di Brunetta nel 2009 quando disse che i pubblici erano tutti fannulloni.

Ecco, un paese è forte quando ha una burocrazia pubblica colta, di valore, tutelata, ben retribuita e al servizio del paese e non di cordate partitocratiche o di gruppi di interessi privati, o commistioni da i due campi.

Ecco, hanno distrutto lo Stato. E ne paghiamo tutti le conseguenze.

* Il recente libro dell’Autore: https://www.youcanprint.it/50-anni-di-guerra-al-salario/b/6e8935f1-bf39-5711-8dca-a22f65519444

https://contropiano.org/news/news-economia/2023/06/12/un-paese-in-declino-grazie-a-confindustria-e-ai-suoi-servi-0161372

GITA AL LAGO Maggiore, di Claudio Martinotti Doria

Prima che i “complottisti” si scatenino sull’evento del naufragio dell’imbarcazione sul lago Maggiore, intervengo esponendovi informazioni riservate di cui sono venuto in possesso per pura coincidenza.

Una ventina di amici italo-israeliani, che si erano conosciuti tramite un social network per cuori solitari, hanno deciso di incontrarsi in un albergo nell’hinterland milanese e superati brillantemente i preliminare e primi approcci, hanno poi scelto di recarsi tutti quanti al Lago Maggiore per una gita nautica, noleggiando un’imbarcazione di 16 metri vecchia di 40 anni con navigatore umano incorporato. Annoiandosi, non essendo pescatori e neppure sportivi, a un certo punto a bordo si sono divisi in due gruppi. Uno ha iniziato a fare esperimenti magico-esoterici pronunciano formule per evocare gli spiriti elementali dell’acqua, e il secondo ha avviato un gioco di società a distanza con un gruppo d’imprenditori e oligarchi russi che erano presenti in una villa sulla costa presso cui stavano navigando, mettendosi in collegamento con loro tramite cellulari. Si conoscevano tra loro perché in molti erano iscritti a un gioco di società on line nel quale i partecipanti assumono ruoli da protagonisti in una complessa spy-story a più livelli di difficoltà, molto realistica, divisi per nazione e agenzia, competenze e gerarchie.

Mentre il primo gruppo stava evocando con successo le Ondine del Lago Maggiore, che vegliano sulle sue acque da tempo immemore, il secondo gruppo al contrario stava perdendo al gioco di società intrapreso coi russi sulla costa. Le Ondine del Lago Maggiore sentendo l’esito finale del gioco di società e prendendolo troppo sul serio come fosse reale, sono intervenute provocando una tromba d’aria limitatamente al luogo esatto dove era posizionata l’imbarcazione, questo spiegherebbe come mai il fenomeno meteo non ha colpito la costa e non è stato visto da nessuno. Dimenticavo di segnalarvi che il gioco di società era la “battaglia navale” e al momento del pronunciamento finale di “affondata”, le Ondine hanno preso sul serio l’affermazione udita ed hanno provveduto all’affondamento dell’imbarcazione. I russi dalla costa non si sono neppure accorti della tragedia, pur essendo inquieti per l’improvvisa interruzione delle comunicazioni.

Se tale versione dei fatti vi sembra inverosimile provate a leggere nei prossimi giorni sui media quello che verrà scritto o fatto intendere sulla tragedia.

claudio

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Independent researcher, historiographer, critical analyst, blogger on the web since 1996

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Fuori luogo, ma nel contesto (italico), di Roberto Buffagni

Signore perdonali perché non sanno quello che fanno: io invece, come Sartana in un celebre spaghetti western degli anni Settanta, NON li perdono. Come la DC ha presieduto alla fine del cattolicesimo italiano, come il PCI ha presieduto alla fine del marxismo italiano, così il governo nazionalista di FdI presiede alla fine del nazionalismo, e temo anche del patriottismo italiano (per quel che ne resta, poco). Purtroppo, i “nazionalisti” che hanno deciso questa sciatta vassallata ci hanno sicuramente pensato su, e si sono fatti venire l’idea di chiamare Gianni Morandi perché secondo loro è “nazionalpopolare”. In questa idea c’è tutto quel che li definisce, e non è un bel vedere. C’è l’idea, stupida, abietta e supponente, che al popolo si dà il latte scaduto, le merendine muffite, le patatine fritte nell’olio lubrificante perché non può assimilare altro, perché l’autentico, il bello, il dignitoso lo intimidisce, lo mette in soggezione, è incompatibile con la canottiera e il salotto della nonna. C’è l’abissale, quasi commovente cafonaggine in conformità alla quale si celebra un luogo e un’occasione elevate, solenni, ufficiali e dignitose facendo cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, appena dopo aver cantato l’inno nazionale, una strofa del quale recita “siam pronti alla morte/l’Italia chiamò” (forse dalla finestra, per farsi portare il latte).

N.B.: non ho niente contro Gianni Morandi che mi sta anche simpatico, andava benissimo per celebrare un eventuale scudetto del Bologna, l’anniversario della Camera Alta della Repubblica italiana, no. Ma non mi sono arrabbiato, semmai mi cadono le braccia. E’ andata così ragazzi, è andata così l’Italia.

Qui si vede, in forma grottesca, la conclusione della maestosa tragedia storica italiana. Nella IIGM era certo necessario e quindi giusto, tra i due mali, scegliere il male minore, la vittoria degli Alleati e la solidarietà con essi, legittimata dalla guerra partigiana del CLN. Ma oggi si vede chiaro che avevano ragione anche i migliori tra coloro che scelsero la RSI, quando dicevano che schierarsi con il nemico del giorno prima, contrabbandare la sconfitta per vittoria, ci sarebbe costato più caro che vivere la sconfitta fino in fondo, perché vi avremmo perduto l’identità, l’anima, la fiammella spirituale che tiene in vita la patria anche nella sconfitta, nella rovina, nel terribile errore, come fu un terribile errore entrare in guerra a fianco della Germania nazista (non solo perché poi ha perduto, ma perché il nazismo faceva schifo e lo sapevamo anche allora).

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L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni, di Davide Gionco

L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni
di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)

delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

 

La fine affrettata del Superbonus 110%

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

 

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  • Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.
    E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.

 

  • L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.

Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.

 

  • Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.

 

  • Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.

Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.

  • Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

 

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel calcolo del “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

 

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

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25 APRILE (festeggiatelo. Voi.), di Daniele Lanza

C’è da dire, per la verità, che la Resistenza fu solo in parte un movimento di liberazione dai nazisti tedeschi e antifascista. Fu in gran parte un movimento rivoluzionario, quanto meno aspirante tale, vista la prevalente composizione delle formazioni partigiane. Esiste inoltre una appropriazione strumentale della ricorrenza ed una più genuina. La critica alla strumentalità non deve spingere a rimuovere anche quella genuina. Giuseppe Germinario
25 APRILE (festeggiatelo. Voi.) [parte 1].
Nel corso degli anni ho scritto fiumi di inchiostro (virtuale) in merito alla ricorrenza in questione: perchè me ne tengo a distanza, perchè mi trova estraneo. Le ragioni sono più di una e chi mi segue con attenzioni da molti anni lo sa.
Quest’anno il problema si complica ancora di più nella misura in cui l’evento va a sovrapporsi al contesto attuale, prendendo posizione sulla guerra in Ucraina (naturale che così sia, dal momento che è ricorrenza ufficiale delle istituzioni….quelle stesse istituzioni di uno stato che è parte integrante del conflitto in corso e che quindi non può far confliggere le sue narrative storiche con le sue scelte nel presente: il 25 APRILE è dalla parte di KIEV, quindi, per non farla lunga. Inevitabile in fondo che anche questa data prendesse una posizione in materia.
Il tutto mi amareggia, ma non per me stesso, quanto per chi si troverà in una posizione più difficile della mia: io non ho MAI celebrato il 25 aprile (per le mie ragioni) nemmeno prima e la situazione presente non va ad incidere su questo…….ma anzi rafforza la mia precedente posizione (perfetta compatibilità). Più complicato invece sarà per quanti si ritrovano profondamente nel 25 aprile ma non nel conflitto in Ucraina e questo determinerà conflitti di coscienza in alcuni.
Riporto in basso riflessioni di svariati anni orsono*
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*Una mesta carovana di auto blu a finestrini coperti – un monarca disgraziato col suo seguito altrettanto disgraziato – leva le tende dalla residenza di governo verso la mezzanotte dell’8 settembre e nel giro di 48 ore si ritrova ad iniziare una nuova vita a Brindisi dalla parte della giustizia e della democrazia, lasciandosi alle spalle quella vecchia di vita, compromessa da scorie ventennali di fascismo, coronate da un disastro bellico storico.
L’illuminazione interiore dei Savoia è talmente dirompente e celere da farli librare verso il mezzogiorno come una rondine, dimenticandosi lungo la strada 1 milione di effettivi del regio esercito, lasciati a se stessi senza direttive (questi la via per la purificazione la troveranno da soli, nei campi di lavoro del reich).
Il biennio successivo è il nulla, il caos, l’apocalisse istituzionale. Italia ANNO ZERO.
Di tutto questo molto già sappiamo. Troppo.
La riflessione che mi interessa oggi, per parlare più chiaro, non riguarda la guerra combattuta con mitra e granate, ma quella sul piano semantico protrattasi per generazioni dopo il 1945 : dopo aver combattuto e sudato per un paio di anni…..COME descrivere quanto successo ? Con quali aggettivi ? Come spiegare sui manuali ? In definitiva, che NOME dare a quella stringa cronologica
nel processo di catalogazione storiografica (…)
Eccovi serviti :
1) “Guerra di liberazione” – 1945-1985 (è la definizione classica, tutta partigiana, in voga per buona parte della prima repubblica. Nessuna concessione allo sconfitto nazifascista, tutto è limpido. Bene e male, bianco e nero. NON vi è guerra civile in quanto tra le due parti una NON era italiana nel senso etico del termine, quanto piuttosto una marmaglia collaborazionista de facto italofona, ma attorcigliata ai vessilli del reich (il cui status militare non sarà riconosciuto dalla repubblica che verrà). Quindi in questa visione non sussiste conflitto civile, ma solo una liberazione dalla svastica e dai suoi scellerati collaborazionisti nostrani che hanno rinunciato alla loro identità italiana con la propria scelta. Vi è una “rimozione del male” dalla psiche della società, condensata in questo ragionamento : “noi siamo puri, la nostra società è sana, coloro che hanno combattuto in camicia nera lo hanno fatto perché NON erano parte della società democratica, quindi NON italiani. Hanno fatto la loro scelta).
Interpretazione psicanalitica radicale.
2) “Guerra civile” – 1985-2015 [ad oggi cioè] (è la definizione attuale, frutto della società posteriore alla guerra fredda e ai conflitti ideologici : in un generale contesto di superamento della storia, si accetta che entrambe le parti erano fatte da italiani sebbene le ragioni del loro agire fossero profondamente diverse. Abolita la visione in bianco e nero (e con logica evoluta che accetta la parte oscura di se stessi), si inserisce anche la scelta repubblichina nella storia dell’identità italiana, abolendo le precedenti rimozioni psicologiche. Si invoca pertanto concordia civile a tutti i costi : la delicata mentalità liberal/rosee non ammette memorie divise e insanguinate, quindi si stabilisce di promuovere la cosiddetta “memoria condivisa”, espressione diffusa a massimo volume da 20 anni. Risultato del politically correct : i repubblichini (e i loro discendenti morali) si ritrovano, senza nemmeno averlo chiesto (!), sullo stesso piano o quasi dei loro avversari partigiani (quanto a riconoscimento militare almeno). Ironia dei paradossi : i simpatici fasci si ritrovano magicamente (quasi) riabilitati, “coccolati” da una filosofia politica a loro assai estranea, ovvero la dolce clemenza liberal/rosee ( che se io fossi fascista – segnatevelo – sputerei per terra).
———–
Orbene, abbiamo condensato sopra, in 10 righe ciascuna, due distinte definizioni da manuale di cosa accadde tra il 1943 e il 1945. I comunisti duri e puri sostennero e tuttora sostengono, in fondo, la PRIMA. Il popolo bianco e verde dei sit in, dei diritti, del “volemose bene” etc. (+ i neofascisti che mi deludono) sposeranno la SECONDA (oggi dominante).
Ed ora è il mio di turno, cari (il vero intervento inizia da qui), la mia critica è radicale, di ordine macro, toccherà i limiti della convenienza per una certa sensibilità purtroppo.
Le due versioni sopra per antitetiche che siano hanno un punto in comune, una base fondamentale : parlano degli italiani, del valore del loro agire. Di cosa abbiano fatto gli italiani, di come si siano mossi durante e dopo la guerra che ha plasmato lo stato in cui viviamo. Gli italiani col loro sacrificio han fatto il paese.
Pare che entrambe (entrambi i contendenti, partigiani garibaldini da un lato e Guardia repubblicana dall’altro) nelle loro epiche narrative contrapposte, sorvolino su un dettaglio il cui ordine di grandezza oblitera ambedue, riducendoli a maggiolini.
Il conflitto del 43-45 sul suolo italiano è stato il riflesso di una grande guerra GERMANICO-ANGLOAMERICANA : la due vere forze in campo erano la Wehrmacht da un lato e la US-ARMY dall’altro (gli italiani non contavano una virgola se non come supporto).
Abbiamo una guerra tedesco-americana svoltasi sul suolo italiano, la quale necessariamente ha coinvolto gli italiani……….ma che non coincide necessariamente, ad una “guerra italiana” , quanto piuttosto “una guerra accaduta sul territorio italiano”, che non è la medesima cosa volendo esser drammaticamente pignoli. L’equivoco semantico è dietro l’angolo).
Le titaniche macchine militari di cui disponevano Berlino e Washington han fatto, come di norma, che adattarsi al terreno, il che implica avvicinare alla propria causa la maggior parte possibile della popolazione autoctona, ossia si tenterà di arruolare e coscrivere in svariate forme la popolazione indigena che si ha a disposizione.
Logico che sia il mio punto, non significa facile da intendere.
Provo a farlo capire con un’analogia che non ha a che vedere direttamente col caso in questione (non va presa alla lettera assolutamente), ma che può dare un’idea di cosa voglio dire :
Nel nordamerica del secolo XVIII° (guerra dei 7 anni) sia britannici che francesi arruolarono contingenti di truppe indiane che poi fecero scontrare tra loro : risultato, indiani che uccidono altri indiani. Potrebbe definirsi “guerra civile” tra indiani ? No, lo sarebbe soltanto se supponessimo un’inesistente prospettiva nazionalistica pan-indiana che implica una coscienza comune da parte loro, ma scartata questa ipotesi, altro non rimane che il fatto puro : si trattava di carne da cannone sotto le rispettive bandiere (Giglio di Francia e Union Jack).
Per chi si senta offeso o preso in giro dall’infelice analogia, premetto che mi rendo conto della sua improponibilità : le truppe uroniche di Montcalm e i mohicani britannici NON costituivano un’unità politica nazionale, nonostante la comunanza linguistica, tantomeno la loro sparsa struttura tribale settecentesca si può paragonare alla società italiana della prima metà del XX° secolo, questo è chiarissimo.
Tuttavia………..un punto c’è in questo sgangherato/eccentrico accostamento. Quello della SOVRANITA’ del proprio agire, a scanso di quanto possa essere poi attribuito retroattivamente.
25 APRILE (Festeggiatelo. Voi)
[parte 2].
La finisco coi giri di parole e vado al punto, cui secondo mio stile, mi appropinquo strisciando (mi scusino per la lentezza) : sono imbarazzato di non poter condividere, dalla mia prospettiva, alcuna epica nazionale legata agli eventi del 43-45 e RESPINGO entrambe le definizioni con cui ho introdotto la questione.
A) RESPINGO la versione classica (“Guerra di liberazione”) : siamo stati “liberati”, ma da CHI ? Per quali scopi ? Non certo dai partigiani che da 4 gatti che erano, si demoltiplicano magicamente fino alle centinaia di migliaia giusto nelle settimane immediatamente antecedenti la sicura vittoria (tanto quanto un partito comunista allo stato virtuale da circa 20 anni che a partire dalla fine del 44 si ritroverebbe con quasi 500’000 tesserati di punto in bianco (…). All’estero si sorride (di scherno) quando si raccontano questi aneddoti rivelatori dell’animo italiano (senza nulla togliere a coloro che in tali idee credettero per davvero sin dal principio,sperimentando carceri fasciste, confini e quanto d’altro…ma è un’altra storia).
CHI ha sgomberato la penisola dai crucchi sono stati 200’000 yankee in possesso di armamenti ed equipaggiamenti che non ci si poteva nemmeno sognare, forti di linee rifornimenti letteralmente illimitate : liberavano un territorio in vista di una sua inclusione nel proprio ordine geopolitico atlantico in qualità di grande e irrinunciabile satellite mediterraneo . Stalin aveva pacificamente consentito mesi prima a YALTA (laddove, come sempre, si ufficializzarono sul piano diplomatico le linee di confine GIA’ tracciate dagli eserciti sul campo. Funziona così dai primordi, signori e signore : la diplomazia serve a prevenire le armi, certo, ma una volta queste messe in moto, altro non può fare che certificarne l’effetto…e ufficializzare ciò che già è avvenuto, come farebbe un bravo notaio). NON sono stati gli italiani a liberare l’Italia, ma gli stormi di bombardieri a stelle e strisce a far sloggiare l’Oberkommando Wehrmacht. VICEVERSA, se anche , ucronicamente, avessero prevalso le camicie nere….il merito non sarebbe stato loro, quanto delle migliaia di panther germanici in prima linea.
Gli ITALIANI di per sè (destra o sinistra che fossero) non hanno vinto ne liberato NULLA.
B) RESPINGO la versione buonista (“Guerra civile”) attualmente dominante, per le seguenti ragioni
Signori e signore, mi costerna dover fare da saccente dizionario eppure la trappola semantica lo richiede per forza : l’espressione “guerra civile” sta ad indicare un conflitto INTERNO ad uno stato sovrano, nel corso del quale due fazioni armate, LIBERE ed indipendenti (pur occasionalmente appoggiate da qualche potenza straniera) si scontrano sinchè non ne emerge un vincitore. Ripeto, un aiuto da mano straniera è possibile ed anzi frequente, ma non altera la natura di base del confronto in corso che vede due fazioni della medesima cittadinanza misurarsi con le armi, da una posizione di SOVRANITA’ indiscussa (questa parola ha un significato totale in questo discorso).
L’Italia dopo l’8 settembre del 1943 non ha più alcuna sovranità, nemmeno l’ombra : la sovranità la detengono forze straniere (Wehrmacht e US-ARMY) dislocate capillarmente sul territorio con mezzi enormi. Codeste forze straniere per i PROPRI interessi (gli uni far sopravvivere il proprio reich creando uno sbarramento sull’Appennino, gli altri guadagnarsi un super satellite nel cuore del Mediterraneo) combattono senza esclusione di colpi, avvalendosi della popolazione autoctona, estremamente utile per la conoscenza del territorio nonché potenzialmente coscrivibile come truppe di supporto…..e CHE supporto ! Da un lato Brigate nere, X° MAS, Guardia nazionale repubblicana a strafare per coprire le retrovie germaniche formicolanti di partigiani. Dall’altra parte….reparti superstiti del regio esercito a supporto del corpo di invasione angloamericano + profusione di divisioni partigiane tra le montagne dell’alta Italia a supportare l’avanzata alleata formicolando pertinacemente in mezzo alle retrovie germaniche (vedi sopra !).
Tutti a SUPPORTARE ! Un immenso sforzo collettivo di SUPPORTO. Oltre agli ori, gli argenti e i bronzi dovrebbero conferire in questo caso, anche il platino alla funzione di “supporto”.
Tanto partigiani quanto repubblichini si sono distinti nel supportare i rispettivi sovrani del campo, fossero crucchi o yankee.
Mi rammarica ricordare che il verbo “supportare” ha implicazioni non indifferenti. Colui che supporta, rende una grande servigio al proprio condottiero, il che però non fa di lui a sua volta un “condottiero” (!) : piuttosto ne fa un ottimo SCUDIERO. “Supportare” si associa maggiormente alla funzione di aiutante di campo, tipo portare gli speroni al signore….sellargli il cavallo…..cose del genere.
Per tagliar corto con metafore aulico-comiche, affermo che entrambe le parti in gioco difettavano di quella sovranità che è requisito essenziale per poter definire un conflitto “guerra civile”. Gli italiani, pur chiamati in massa all’azione militare, su un piano freddamente politico NON costituivano soggetto dotato di potere decisionale che travalicasse i propri superiori (occupanti germanici o americani). Gli ITALIANI, tanto quelli dalla parte giusta quanto quelli non……si ritrovavano in uno status di subalternità nei confronti delle forze straniere cui facevano capo : quando c’è una guerra civile in cui le fazioni nazionali contrapposte sono entrambe a loro volta ETERODIRETTE da potenze extra-nazionali , allora il conflitto in questione perde la sua definizione di “guerra civile” in senso proprio, in quanto tale guerra non è che un urto tra fazioni locali, a sua volta riflesso di una collisione di ordine superiore tra le due potenze globali (Terzo reich e USA, in questo caso) .
In una freddissima (gelida) logica geopolitica gli italiani che militarono da una parte o dall’altra, a prescindere dalle ragioni, giuste o sbagliate che potessero essere (non lo discuto), si ritrovarono accomunate da uno status di subalternità, ridotte a tramite, o strumento traverso il quale il burattinaio (Berlino o Washington) poteva manifestarsi meglio sul territorio.
Gli ITALIANI, quale che fosse il loro colore o inquadramento, o sincere intenzioni, NON contavano più una mazza nell’arena dei grandi giochi (se mai qualcosa avessero contato) : si industriavano semplicemente a supportare i rispettivi dominatori nella speranza che costoro nel dopoguerra concedessero loro uno status più vivibile.
Concludo : la storiografia italiana successiva al conflitto non poteva naturalmente ridurre quel tragico biennio scrivendo : “Nazisti e angloamericani si sono presi a cannonate per tutta la penisola, con mezzo milione di militari ciascuno (mezzi impressionanti gli yankee e determinazione folle i germanici) per quasi due anni : i cittadini italiani, non sapendo che fare han deciso, ognuno in coscienza propria, di servire in armi l’occupante che gradiva di più (e questo sorvolando l’immensa fascia GRIGIA di chi non si schierò proprio aspettando la conclusione degli eventi….)”
ECCO : i nostri manuali scolastici, per amore di patria e pietà legittima per i caduti, NON potevano fornire spiegazioni simili. NON rendeva senso al troppo sangue versato ; NON si poteva dire che gli italiani fossero come gli “Ewoks” della saga di guerre stellari (simpatici e pacifici esserini coinvolti in un conflitto galattico molto più grande di loro).
Insomma, ciò che era assolutamente indispensabile era dilatare il significato il senso dell’agire italiano tra il 43 e il 45, portandolo al titolo di “guerra” , come se si fosse trattato di una libera pugna tra fazioni e non il riflesso di forze più grandi in gioco cui si era asserviti. Varieranno, come ho tentato di argomentare, le definizioni contenenti il sostantivo “guerra” (di liberazione prima, e civile poi), ma senza mai toccare il perno essenziale concernente la natura del cittadino italiano in tale conflitto. Il messaggio da dare era : [ GLI ITALIANI CONTANO ! SONO ARTEFICI DEL PROPRIO DESTINO !], da incorniciare.
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Le 300 righe con cui vi ho angustiato si riducono a questo : gli ITALIANI hanno combattuto, sì. Hanno combattuto valorosamente, in nome di ideali in cui sinceramente credevano. Hanno sopportato il peggio, dato che tutto si svolgeva a casa loro.
Il problema è che la guerra che si combatteva, benché in casa loro, non era LORO….era di superpotenze che passavano da quelle parti.
Gli italiani non hanno fatto una “loro” guerra, bensì hanno partecipato a una guerra altrui (ma disgraziatamente ambientata proprio in Italia…….fattore quest’ultimo che ha facilitato oltremodo, alla maggiore confusione, cioè a convincere l’italiano che stava combattendo per la propria sovranità e libertà, cosa che entrambe le macchine propagandistiche nazi e Usa diffondevano a sirene spiegate.)
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(fine riflessione)
Possiamo tornare a noi quindi. Ecco perchè il 25 aprile è inevitabilmente filo Kiev, disgraziatamente (si cercherà di declinarlo in quel senso): perchè chi l’ha prodotto realmente, ovvero chi ha favorito il sistema partitico costituzionale che ne segue sono le forze ATLANTICHE. Semplice.
Quest’ultime 75 anni più tardi sono di nuovo in guerra….e lo stato italiano dato che ne è una diramazione deve seguirle.
Sono lieto di non essermi mai affezionato ad una mitologia costituzionale patriottica italiana, vedendo questa deriva (ma vedete, lettori miei, io tale deriva la vedevo tanti anni fa, molto prima che fosse……dato che alla “liberazione” italiana non ho mai creduto fino in fondo).
Perchè LIBERTA’ non è semplicemente essere “liberi”. Libertà è essere senza una direzione dall’alto (anche se quest’ultima fosse giusta). Libertà…..è anche sbagliare.

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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