I PUNTI CHIAVE DELLE  ELEZIONI ISRAELIANE 2019, di A.J. Nolte

I PUNTI CHIAVE DELLE  ELEZIONI ISRAELIANE 2019

Democrazia | Israele | Medio Oriente e Nord Africa

Di primo impatto, i risultati delle elezioni israeliane del 2019 si allineano allo status quo che li ha preceduti. Al momento, Benjamin Netanyahu sembra probabile che riuscirà a costituire una coalizione molto simile a quella che attualmente governa Israele. Dietro la facciata, tuttavia, diversi cambiamenti sia nella sinistra che nella destra israeliana, potrebbero rivelare una mutazione radicale nel panorama politico di Israele. Più precisamente, come avevo accennato alla vigilia, vincere le elezioni potrebbe essere solo l’inizio del periodo più impegnativo di Netanyahu nella sua lunga carriera politica. All’interno di uno schema darò alcuni suggerimenti chiave sulle elezioni e analizzerò le sfide che il Primo Ministro Netanyahu potrebbe affrontare nelle settimane e nei mesi a venire.

Il crollo della sinistra

Le elezioni del 2019 rappresentano quello che possiamo definire un crollo storico della sinistra israeliana. Al momento, il venerabile partito laburista israeliano è sulla buona strada per ottenere solo un misero bottino di sei seggi nella Knesset. Meretz, il partito israeliano più a sinistra, che non si oppone apertamente al progetto sionista, riceverà quattro seggi. Per contrasto, il blocco identificato con la sinistra israeliana ha ora tanti seggi quanti quelli del ​​frammentato blocco arabo ed è probabile che possa esercitare un’influenza quasi nulla. Parte di questo collasso potrebbe essere un risultato temporaneo del voto tattico degli elettori di centro-sinistra i quali speravano di dare alla coalizione di centro-destra Bianco-Blu un numero sufficiente di seggi per renderli il naturale partito di governo. I sostenitori della sinistra israeliana possono quindi consolarsi con il pensiero di uno ricompattamento di schieramenti da parte degli elettori di sinistra nelle prossime elezioni con la speranza che i problemi di Netanyahu porteranno a nuove elezioni anticipate. Ma questa è una scommessa pericolosa, e maschera un problema più ampio per la sinistra israeliana: sono un movimento senza un messaggio e sembrano aver perso la fiducia dell’elettorato di centro israeliano.

Cosa fanno ora gli elettori arabi?

L’affluenza araba è stata dichiarata piuttosto bassa, il che ha, in una rappresentazione che potrebbe essere familiare al pubblico americano, spinto molti dei partiti arabi a dichiarare una presunta soppressione del voto arabo. Comunque sia, per i leader dei partiti politici arabo-israeliani, il calo della partecipazione è un segnale preoccupante. La lista di Hadash-Ta’al e la più radicale lista di Balad-Ra’am, si dividevano su piccolezze tecniche, con Hadash-Ta’al che accennava a una sua disponibilità a fornire un sostegno a Benny Gantz, mentre Balad-Ra’am tracciava un posizione politica alternativa, indipendente,  più militante e rigida. Il risultato? Hadash-Ta’al ha mancato di catturare seggi parlamentari e Balad-Ra’am ha superato appena la soglia per ottenere un seggio. Date queste realtà, forse vale la pena chiedersi se i partiti esclusivamente arabi siano davvero il veicolo più efficace per le aspirazioni politiche degli arabi israeliani. Questo esito segna la seconda elezione consecutiva nella quale elementi della destra israeliana hanno mobilitato i propri elettori basandosi sulla paura dei partiti arabi al governo. Dato che la realtà e il collasso della sinistra israeliana sono constatati sopra, la convergenza degli interessi di questi due gruppi sembra inevitabile, a scapito sia di Hadash-Ta’al che di Balad-Ra’am.

Che ora per Gantz?

La saggezza convenzionale è che questa elezione probabilmente segna il punto più alto della carriera politica di Benny Gantz. Quella bianco-blu, dopo tutto, è una coalizione problematica di partiti e personalità di centro-centrodestra, tenuti insieme dalla loro opposizione a Netanyahu e a molte delle sue politiche. La coalizione è un caleidoscopio di personalità incompatibili; Gantz crediamo che non avrà né la pazienza né l’interesse a interporsi con successo. Il sospetto è che per di più il partner della coalizione di Gantz, Ye’or Lapid, difficilmente rimarrà parte integrante a lungo termine della coalizione di opposizione. Eppure ci sono ragioni per essere scettici su questa analisi. In primo luogo, come verrà discusso in seguito, la vittoria elettorale di Netanyahu non significa che sia fuori dal pantano del pericolo giudiziario. Secondo, tutte queste problematiche avrebbero in ogni caso minato, a lungo termine, la coalizione di Gantz nel caso avesse vinto. In realtà, il futuro politico di Gantz rimane nelle sue mani. Sì, mantenere la sua faziosa coalizione insieme all’opposizione e dimostrarsi una presenza credibile sulla scena politica israeliana sarà una sfida difficile. Eppure, se ci riesce, Gantz potrebbe potenzialmente posizionarsi come il principale successore di Bibi. Ciò richiede pazienza, sapienza e abilità politiche; qualità che il neofita Gantz dovrà sviluppare al volo. Tuttavia, difficilmente sarebbe il primo generale israeliano a passare con successo e diventare un leader politico, o il primo politico israeliano a riprendersi da una sconfitta politica solo per tornare come primo ministro in seguito.

Giù con i movimenti secolari. Su con le parti religiose

Oltre a Netanyahu, i vincitori più chiari delle elezioni sono i partiti religiosi di destra, sia ultra-ortodossi che sionisti religiosi. Per coloro che non conoscono la nomenclatura, i partiti ultra-ortodossi hanno dato il via agli scettici del progetto sionista che si unirono alla politica negli anni ’80 e generalmente impegnati in una politica transnazionale volta a preservare lo status speciale del giudaismo ortodosso nello stato israeliano. Le parti si dividono lungo linee etniche, con Shas che rappresenta il Sephardi e l’UTJ che rappresentano le varie comunità ashkenazite. Al contrario, i partiti sionisti religiosi accettano pienamente ed entusiasticamente il progetto sionista fino al punto di partecipare attivamente all’organizzazione degli insediamenti. Sia i partiti sionisti ultra-ortodossi che quelli religiosi hanno ottenuto buoni risultati elettorali, con il blocco combinato ultra-ortodosso che ha ottenuto 16 seggi. Il blocco religioso sionista è più piccolo, con cinque seggi al momento (questo esito potrebbe cambiare in base ai voti dei militari ancora da contare).

D’altra parte, se si può affermare che qualsiasi forza a destra abbia perso le elezioni, è grazie alla nuova destra di Naftali Bennett e Aylet Shaked. Bennett e Shaked si separarono da Jewish Home, il fiore all’occhiello dei sionisti religiosi, nella speranza che mantenere le posizioni di sicurezza della Casa Ebraica con un orientamento più laico sarebbe stata una mossa elettoralmente vincente. Molti osservatori della politica israeliana sospettano che Bennett e Shaked alla fine sperassero di cementare il loro partito nel Likud e succedere a Netanyahu nei prossimi cinque o dieci anni. Al momento, tuttavia, il nuovo partito di destra di Bennett e Shaked è in bilico appena al di sotto della soglia elettorale necessaria per entrare in parlamento; una realtà che, se confermata, potrebbe avere implicazioni negative per il loro futuro politico. Anche se riescono ad elevarsi al di sopra della soglia necessaria, è comunque un drammatico scarso risultato visto anche come i sondaggi li posizionavano a  febbraio e marzo. La morale della storia è che, anche all’interno della destra, il populismo conservatore ed esplicitamente religioso è in netta ripresa in Israele, mentre quello laico e in fase tramontante.

In una certa misura, fattori prettamente legati alla realta israeliana hanno guidato questa realtà, come la situazione della sicurezza di Israele e l’elevato tasso di natalità degli ebrei ortodossi. Tuttavia può anche essere visto come parte di una tendenza più ampia di populismo religioso conservatore in tutto il mondo, dall’Ungheria alla Turchia, dall’Indonesia all’India. Chiaramente, l’assunzione generale della rilevanza decrescente della religione nel ventunesimo secolo è, nella migliore delle ipotesi, limitata a una manciata di ricchi paesi occidentali postindustriali. Nel caso di Israele, una conoscenza pratica dell’ebraismo ortodosso e del suo pensiero politico associato è probabilmente un passo avanti.

Cosa c’è di nuovo in Netanyahu?

Innegabilmente, l’elezione è un trionfo per Bibi Netanyahu. Eppure non è la conclusione delle sue sfide politiche. Per lui rimangono due compiti difficili: superare accuse e indagini e infilare l’ago da cucito tra i suoi partner della coalizione e gli Stati Uniti. Per quanto riguarda il primo, Netanyahu è quasi sicuro di far passare un disegno di legge che gli garantisca l’immunità dai procedimenti giudiziari, una pietra miliare delle sue trattative di coalizione. Tuttavia, c’è il rischio che un continuo rigurgito di scandali possa costare a Bibi una morte dai mille tagli. Per evitare ciò, dovrà gestire attentamente le aspettative e garantire la lealtà dei suoi partner di coalizione. I più critici al riguardo sono due piccoli partiti laici: Yisrael Beiteinu, il partito nazionalista laico di Avigdor Lieberman, la cui base elettorale è tra gli israeliani di origine dell’Europa orientale, e Kulanu, un partito fondato da Moshe Cahlon che si erge per ragioni economiche, sicurezza, ed è popolare tra le comunità ebraiche israeliane di Sephardic e Mizrahi. La perdita di Kulanu lascerebbe Bibi con una maggioranza molto ristretta di un solo membro nella Knesset; perdere Yisrael Beiteinu lo metterebbe sotto la soglia dei 60 posti, probabilmente facendo scattare un altro giro di elezioni.

La seconda sfida di Bibi sarà la mediazione tra i suoi partner della coalizione e gli Stati Uniti. Come accennato nella mia anteprima delle elezioni, la questione dell’annessione della West Bank rappresenta un potenziale spinoso per Bibi, nelle modalità che i suoi alleati sionisti religiosi sono intenti a perseguire. La sua espressione di sostegno alla politica poco prima delle elezioni ha quasi certamente contribuito a garantire la lealtà dei partner della coalizione alla sua destra. Ora, tuttavia, Bibi affronta il guanto del ciclo elettorale degli Stati Uniti. Senza mezzi termini, lo scenario migliore per Netanyahu sarebbe la rinuncia del Presidente Trump a rilasciare un piano di pace prima delle elezioni del 2020, lasciando il suo vago impegno a un “incredibile affare che tutti ameranno” per un ipotetico secondo mandato. Per Bibi, la vittoria di Trump nel 2020 potrebbe essere quasi altrettanto importante della sua nel 2019, dal momento che il Partito Democratico appare, dal punto di vista israeliano, preoccupantemente traballante nel suo sostegno allo stato ebraico. Quindi Bibi vorrà fare tutto il possibile per rafforzare la posizione di Trump. D’altra parte, qualsiasi accordo di pace dovesse presentare Trump, l’offerta avrà probabilmente anche l’input dell’altro alleato chiave del presidente, il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed Bin-Salman. E qualsiasi piano proposto da MBS è molto improbabile che incontri il sostegno dei nuovi membri della coalizione Knesset sul fianco destro di Bibi. Per Bibi, quindi, la sfida consisterà nel convincere Trump che ora non è il momento di un nuovo piano di pace; con la promessa però che, una volta stabilizzata la posizione di Netanyahu, potrebbe avere più spazio per negoziare. Ironia della sorte, se non fosse stato per il bisogno di Bibi di un accordo di immunità e per la loro implacabile campagna basata sugli errori e peccheati di Bibi, Blue e White avrebbero probabilmente fornito a Bibi una coalizione stabile, dalla quale avrebbe potuto negoziare efficacemente con Trump e, probabilmente, con i sauditi. Ma Bibi ha bisogno di una legge sull’immunità; Blue e White non gliene daranno una; la coalizione di cui ha bisogno per la sopravvivenza politica non è una compagine quindi che possa accogliere qualsiasi iniziativa di pace di Trump.

L’anno che verra`, quindi, sarà probabilmente impegnativo per il primo ministro Netanyahu. Ma se l’elezione di martedì ci hanno insegnato qualcosa: Bibi non bisogna mai  considerarlo politicamente finito, finché non e` lui stesso a ritirarsi dalla politica, e forse nemmeno in quel caso. Bibi deve essere riconosciuto come un impareggiabile operatore politico all’interno del mondo, a volte sconcertante e sempre affascinante, della politica israeliana. Quindi, anche se il prossimo anno sarà difficile, è una scommessa vincente puntare, in qualche modo, su un Bibi trionfante su tutte le sfide che lo attendono.

A.J. Nolte è un assistente professore di politica presso la Robertson School of Government della Regent University. Nel 2017 ha conseguito un dottorato di ricerca presso la Catholic University of America. Precedentemente, ha lavorato per il Religious Freedom Project presso la Georgetown University e il Center for Complex Operations presso la National Defence University, è stato professore aggiunto di politica al Messiah College e ha insegnato alla George Washington University, alla Catholic University e alla National Defence University. Gli interessi di ricerca di Nolte includono religione e politica, pensiero politico cristiano e islamico, minoranze cristiane, politica comparata, tribalismo e globalizzazione. Vive a Virginia Beach con sua moglie Tisa e la figlia Reagan.

 

https://providencemag.com/2019/04/aftermath-takeaways-2019-israeli-elections/

 

 

 

NUOVE INFLUENZE, di Antonio de Martini

Ormai imminenti le elezioni in Israele e tutti sembrano collaborare affinché Netanyahu mantenga la sua posizione alla testa del governo.

L’Egitto, che accetta di acquistare sottomarini da Israele e addirittura dal solo Netanyahu, in maniera da sistemare una pericolosa inchiesta poliziesca a carico del Premier.

Trump, che interviene con la dichiarazione unilaterale che attribuisce le alture del Golan a Israele, in contrasto con le risoluzioni delle Nazioni Unite del 1967 .

l’Iran, contribuisce mettendo la sordina alle periodiche dichiarazioni apocalittiche anti Israele. Si è letteralmente azzittato e sta ritirandosi dalle zone della frontiera tra Siria e Israele.

Hamas che lancia un petardo ( “sette feriti”) che consente al Premier di assumere misure militari atte a oscurare la fama bellica del concorrente Ganz.

Più notevole ed efficace, Putin che si impegna in prima persona assieme al capo di SM russo Guérassimov, nella ricerca e ritrovamento delle spoglie del capo carro Zachary Baumel, caduto nella pianura della Bekaa ( territorio libanese controllato da Hezbollah) il 10 giugno del 1982 .

Questa operazione – che Netanyahu ha definito “ storica” non si sarebbe potuta concludere senza la collaborazione attiva di Hezbollah ( che ha rinunziato a contropartite e restituito le spoglie e gli effetti personali), dell’Esercito siriano (che ha recuperato il corpo ), dei militari russi ( che hanno consegnato le spoglie avvolte nella bandiera nazionale agli israeliani attraversando la frontiera).

Tanto coordinamento , in una zona in cui si sono sbranati tra loro fino a poche settimane fa, non è frutto di un improvviso attacco di umanità, ma rivela che sono in corso negoziati fruttiferi per tutti e che nessuno vuole cambiamenti tra gli interlocutori.

Anche i media hanno contribuito attirando l’attenzione sulla crisi di Libia dove nulla si è in realtà mosso.

Positivo, con ogni evidenza, il ruolo a tutti Azimuth della Russia in questa mediazione con tutte le parti in causa e che ha saputo mettere a frutto anche la massiccia presenza dei propri emigrati in Israele.

Intelligente la scelta di Assad che ha evidentemente deciso di dimenticare le oltre cento incursioni aeree sulla Siria
durante il recente conflitto ( opzione possibile solo grazie al fatto che non deve affrontare elezioni ne a breve ne a lungo termine).

Attendista la posizione turca che ha congelato il contenzioso coi curdi alla frontiera siriana ( e non ha preso la solita difesa di Gaza) rinunziando a irrigidimenti soldateschi che gli avrebbero potuto fruttare qualche votarello alle elezioni della scorsa domenica.

Un periodo di tregua politico e militare così corale in tutta l’area nel vicino Oriente non si registrava da decenni.

Resta a vedere se le speranze pre elettorali saranno onorate o faranno la fine di quelle che vengono solitamente fatte intravvedere a noi poveri mortali.

Nullo il ruolo dei sauditi, dell’Europa e degli inglesi in tutt’altre faccende affaccendati.

Saltati a piè pari il nostro contingente ( attorno al quale tutto si è svolto) e il Vaticano.
Eppure il traffico di spoglie mortali sarebbe una tradizionale specialità della casa.

Ridislocamenti nel Vicino Oriente_traduzione di Roberto Buffagni

I documenti mostrano che gli  Stati Uniti stanno espandendo in modo massiccio la loro presenza presso la base aerea della Giordania tra screzi Turchia e Iraq

 

Era stato annunciato un ritiro, in realtà è una ridislocazione dello schieramento militare americano nel Vicino Oriente. Non riguarda solo la Siria, ma l’insieme delle relazioni con i paesi di quell’area, in particolare la Turchia e l’Iraq. Se poi si aggiunge che per la prima volta una portaerei a propulsione nucleare di prima classe, con tutta la sua squadra, si è avventurata nel Golfo Persico, nelle immediate vicinanze dell’Iran il quadro comincia a definirsi meglio. Ancora una volta gli alti e bassi nello scontro politico interno alla classe dirigente americana determinano involontariamente il solco profondo entro il quale si muove la politica estera americana_Giuseppe Germinario

http://www.thedrive.com/the-war-zone/25955/docs-show-us-to-massively-expand-footprint-at-jordanian-air-base-amid-spats-with-turkey-iraq?fbclid=IwAR3zI3kGt38ssi7CDAA-gW7OsGq_vouy7lXathP3CV-743SSvz7Zr4V–3w

Decine di milioni di dollari trasformeranno questa base in Giordania in un nuovo importante hub regionale per jet da combattimento, droni, aerei cargo e altro.

di Joseph Trevithick, gennaio 14, 2019

Le forze armate statunitensi stanno portando avanti piani per espandere notevolmente la propria presenza nella base aerea di Muwaffaq Salti in Giordania, per ospitare meglio un ampio mix di aerei da combattimento, aerei da attacco al suolo, droni armati, aerei da carico e altro ancora. Il progetto di costruzione da svariati milioni di dollari arriva quando l’amministrazione del presidente Donald Trump sta per ritirare le forze americane dalla vicina Siria. Ma mentre le nuove strutture della base giordana potrebbero aiutare a sostenere le operazioni siriane in via indiretta, serviranno uno scopo ben più importante nel fornire un’alternativa ad altre importanti sedi operative nella regione, specialmente in Turchia, dove dissidi politici potrebbero ostacolare l’accesso degli Stati Uniti in nel mezzo di una crisi.

 

Il Corpo dei Genieri dell’Esercito degli Stati Uniti, che sta supervisionando il lavoro a Muwaffaq Salti, ha rilasciato specifiche e disegni relativi ai nuovi piazzali, alle vie di rullaggio e ad altre strutture associate su FedBizOpps, il sito web principale delle opere pubbliche federali degli Stati Uniti, l’11 gennaio 2019. I documenti stessi risalgono all’autunno del 2018. Il bilancio della difesa per l’anno fiscale 2018 includeva più di $ 140 milioni per gli ammodernamenti alla base della Royal Jordanian Air Force, che gli Stati Uniti hanno utilizzato attivamente per le operazioni regionali almeno dal 2013.

 

I documenti contrattuali non menzionano Muwaffaq Salti per nome, che le forze armate statunitensi descrivono generalmente come una “posizione segreta”, ma includono immagini satellitari annotate che mostrano chiaramente che si tratta della base in questione. Precedenti annunci contrattuali hanno indicato che il 407th Air Expeditionary Air della US Air Force attualmente supervisiona le operazioni di ordinaria amministrazione nella base.

 

Il nuovo incremento delle forze armate statunitensi sembra focalizzato sulla crescita della presenza dell’Air Force specificamente nella base; e la maggior parte dei miglioramenti sarà effettuata sulla pista meridionale della base. Questi includono un piazzale attrezzato per gli aerovelivoli, un piazzale attrezzato per l’addestramento delle forze speciali e la preparazione delle operazioni speciali, un piazzale attrezzato per l’appoggio aereo al suolo (CAS) per le operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR).

Google Earth

A satellite image of Muwaffaq Salti Air Base as of May 2017.

USACE

An annotated satellite image of Muwaffaq Salti Air Base, showing the locations of the various planned upgrades.

Il piazzale attrezzato per gli aerovelivoli di quasi 28.000 mq. con annesso spazio di carico e scarico di 3700 mq., sarà abbastanza grande da ospitare fino a due aerei da carico C-17 Globemaster III e uno C-5 Galaxy contemporaneamente. Ciò consentirà il movimento di grandi quantità di personale, munizioni, carburante e altri materiali all’interno e all’esterno della base, il che sarebbe fondamentale per le operazioni aeree di lunga durata.

 

Muwaffaq Salti potrebbe anche fungere da punto di trasbordo, con squadre che trasferiscono il carico su aeromobili più piccoli, come il C-130 Hercules, per spostarsi verso altre sedi operative in altre parti della regione. I C-17 hanno anche la capacità di operare da piste di atterraggio non rinforzate. Il piano di costruzione degli Stati Uniti a Muwaffaq Salt comprende anche un “hot point” di carico  di quasi 26.000 mq. sul lato nord della base per lo scarico rapido e il caricamento di materiale da aerei in transito.

USAF

C-17s at an undisclosed location supporting US operations against ISIS in Iraq and Syria in 2018.

Nella parte meridionale della base, gli Stati Uniti prevedono anche di aggiungere un piazzale attrezzato 41.000 mq. per il recupero del personale e le operazioni speciali. Questo avrà spazi di parcheggio dimensionati per l’airlifter C-130J-30 di della misura maggiore, ma molto probabilmente sarà la sede di distaccamenti di operazioni speciali MC-130. Ci sarà anche spazio per quattro rotori inclinabili Osprey CV-22B.

 

Gli MC-130 dell’Air Force possono fungere da navi cisterna per i CV-22, contribuendo a estendere la loro portata e dando alle forze operative speciali la capacità di spostare rapidamente piccole unità e carichi da e verso i siti dispersi nella regione, o di appoggiare attacchi aerei su specifici obiettivi . Inoltre, gli Ospreys hanno un vantaggio di velocità rispetto agli elicotteri tradizionali, nonché varie contromisure elettroniche e altri sistemi di autodifesa e capacità di volo a bassissima quota (NOE), che consentono all’aereo di raggiungere rapidamente l’area obiettivo e ridurre la sua vulnerabilità alle difese ostili.

 

Come tali, i CV-22 in Giordania potrebbero essere chiamati per inserire rinforzi, esfiltrare i feriti o le forze sotto il fuoco, eseguire missioni di ricerca e soccorso (CSAR) e altre funzioni di recupero del personale. Il CASR è una considerazione particolarmente importante per le operazioni aeree sostenute e una in cui gli Stati Uniti hanno opzioni storicamente limitate nella regione. Ad esempio, al momento, le forze armate statunitensi hanno reparti in Kuwait, Iraq e Turchia per fornire quel tipo di capacità in Iraq e in Siria.

USACE

A more detailed breakdown of the personnel recovery/special operations forces apron, showing the C-130J-30- and CV-22-sized parking spaces.

Il cosiddetto grembiule “CAS / ISR” sarà di gran lunga la più grande aggiunta singola, coprendo quasi 125.000 mq. Ciò consentirà agli Stati Uniti di costruire tre dozzine di spot con rivestimenti protettivi e tettoie, tutti dimensionati per caccia F-15 o F-16, nonché pere gli aerei d’ attacco terrestre A-10. Ci sarà un altro piazzale con quattro spot per MQ-9 Reapers, oltre a più shelter chiusi, ciascuno in grado di ospitare due dei droni, anch’essi collegati a quest’area.

Sebbene descritto come CAS / ISR focalizzato per scopi di pianificazione edilizia, ciò darebbe agli Stati Uniti la possibilità di utilizzare Muwaffaq Salti per estese operazioni di combattimento aereo. L’aereo che questo piazzale  può ospitare può eseguire pattugliamenti aerei di combattimento, interdizione e varie altre missioni.

USACE

A closer look at the CAS/ISR apron with the MQ-9 shelters at the top and additional parking spaces for those drones to the right.

Il dimensionamento degli spazi di parcheggio potrebbe consentire lo spiegamento di altri jet da combattimento, anche da servizi diversi dall’aeronautica militare statunitense, a seconda delle necessità. Nel settembre 2018, l’Air Force ha condotto uno schieramento temporaneo di caccia stealth Raptor F-22 dalla base aerea di Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti a Muwaffaq Salti, insieme al personale di supporto in un aereo cisterna KC-10 Extender.

Questo è qualcosa che potrebbe diventare più comune e richiedere meno supporto esterno, con gli aggiornamenti dell’infrastruttura. Il Corpo dei Marines degli Stati Uniti gestisce anche una forza di risposta alle crisi terrestri con calabroni F / A-18C / D, tra gli altri velivoli, che potrebbero utilizzare le strutture ampliate.

The video below shows the F-22s from the Air Force’s 380th Air Expeditionary Wing deploying to an “undisclosed location” September 2018.

Il video qui sopra mostra gli F-22 della 380a Air Expeditionary Wing dell’Air Force che si sta dispiegando in una “località sconosciuta” nel settembre 2018.

 

Oltre ai vari piazzali, le forze armate statunitensi costruiranno nuove piste di rullaggio, strade di accesso, aree di supporto vitale e altre infrastrutture per sostenere la più ampia presenza americana a Muwaffaq Salti. Il Corpo dei Genieri dell’Esercito stima che il lavoro avrà un costo tra $ 25 e $ 100 milioni, lasciando anche dei fondi significativi per altre aggiunte. La data di scadenza per  presentare le offerte su questo contratto è il 19 febbraio 2019, ma non è prevista una data per la conclusione dei lavori.

 

Il piano chiarisce che gli Stati Uniti stanno cercando di accrescere la propria presenza sul sito e trasformarlo in una base strategica più permanente. Questo potrebbe essere importante, considerando gli sforzi dell’amministrazione Trump per sradicare le forze americane dalla Siria.

 

La tempistica esatta per il ritiro non è chiara. Resta inoltre da vedere in che modo si evolverà la politica degli Stati Uniti in merito alla lotta in corso contro ISIS in Siria e in Iraq, nonché al più ampio conflitto in Siria.

 

Sono stati segnalati casi in cui è probabile che le forze statunitensi si trasferiscano in strutture in altri paesi limitrofi. Da lì, potrebbero rimanere vicini per appoggiare le forze locali sostenute dagli americani e altri partner statunitensi che ancora combattono in Siria, se necessario.

USAF

A US Air Force F-16C Viper taxies at Muwaffaq Salti during the multi-national Falcon Air Meet in 2011.

Il video qui sopra mostra gli F-22 della 380a Air Expeditionary Wing dell’Air Force che si sta dispiegando in una “località sconosciuta” nel settembre 2018.

 

Oltre ai vari piazzali, le forze armate statunitensi costruiranno nuove piste di rullaggio, strade di accesso, aree di supporto vitale e altre infrastrutture per sostenere la più ampia presenza americana a Muwaffaq Salti. Il Corpo dei Genieri dell’Esercito stima che il lavoro avrà un costo tra $ 25 e $ 100 milioni, lasciando anche dei fondi significativi per altre aggiunte. La data di scadenza per  presentare le offerte su questo contratto è il 19 febbraio 2019, ma non è prevista una data per la conclusione dei lavori.

 

Il piano chiarisce che gli Stati Uniti stanno cercando di accrescere la propria presenza sul sito e trasformarlo in una base strategica più permanente. Questo potrebbe essere importante, considerando gli sforzi dell’amministrazione Trump per sradicare le forze americane dalla Siria.

 

La tempistica esatta per il ritiro non è chiara. Resta inoltre da vedere in che modo si evolverà la politica degli Stati Uniti in merito alla lotta in corso contro ISIS in Siria e in Iraq, nonché al più ampio conflitto in Siria.

 

Sono stati segnalati casi in cui è probabile che le forze statunitensi si trasferiscano in strutture in altri paesi limitrofi. Da lì, potrebbero rimanere vicini per appoggiare le forze locali sostenute dagli americani e altri partner statunitensi che ancora combattono in Siria, se necessario.

Sebbene l’Iraq sia stato citato come il paese più probabile per accogliere le unità che si ritirano dalla Siria, la Giordania potrebbe facilmente essere un’altra opzione, e già ospita una significativa presenza militare americana. Oltre a ciò, alcuni membri del parlamento iracheno erano irritati dal fatto che Donald Trump non si fosse incontrato personalmente con il primo ministro Adil Abdul-Mahdi durante la sua visita a sorpresa nel paese nel dicembre 2018.

 

I membri dell’attuale governo di coalizione in Iraq, che sta anche cercando di migliorare le relazioni con l’Iran, hanno richiesto un ritiro completo delle forze americane dal paese. Qualunque sia l’esito di questo particolare contrasto, esso potrebbe limitare la capacità delle forze armate statunitensi di utilizzare le basi in quel paese in futuro.

 

L’espansione di Muwaffaq Salti potrebbe ridurre la necessità di altre sedi operative regionali, che sono diventate negli ultimi anni sempre più politicamente insostenibili, in generale. Quando il piano generale divenne pubblico per la prima volta nel 2017, arrivò in un momento in cui c’erano anche preoccupazioni significative sulla continuità della base aerea di Al Udeid in Qatar, che è la più grande base aerea americana del Medio Oriente ed è stato un hub centrale per le operazioni nella regione e oltre per decenni. Puoi leggere di più su quanto sia vitale questa base per l’esercito americano qui.

Sfortunatamente, il Qatar rimane invischiato in un importante dissidio politico con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, tra gli altri, che hanno interrotto le relazioni diplomatiche e bloccato il paese economicamente. Tuttavia, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha firmato un memorandum d’intesa con i funzionari del Qatar per avviare piani per espandere significativamente Al Udeid, anche durante una visita nel paese il 13 gennaio 2019.

US Department of State

US Secretary of State Mike Pompeo, at center in suit, arrives in Qatar on Jan. 13, 2019.

“Siamo tutti piùforti quando lavoriamo insieme”, ha detto Pompeo in una conferenza stampa, in cui ha anche affermato che la disputa di quasi 20 mesi tra il Qatar e altri paesi della regione si è “trascinata troppo a lungo”. L’alto diplomatico è ora in Arabia Saudita e, tra le altre cose, probabilmente continuerà a sostenere una risoluzione della situazione.

 

Oltre a ciò, Muwaffaq Salti si trova a circa 1.000 miglia da Al Udeid, rendendolo mal posizionato per essere un sostituto di quella base. Sembra più probabile che la principale forza trainante dell’espansione in Giordania sia le tensioni a lungo latenti tra Stati Uniti e Turchia. Nonostante entrambi siano membri della NATO, entrambi i paesi si sono allontanati a causa di una serie di dispute, tra cui la decisione della Turchia di acquistare missili S-400 dalla Russia, i crescenti legami di Ankara con Mosca in generale, e il sostegno degli Stati Uniti ai gruppi curdi in Siria, che le autorità turche considerano terroristi.

USAF

A-10 Warthog ground attack aircraft arrive at Incirlik Air Base in Turkey to support operations against ISIS in 2015.

 La Turchia e gli Stati Uniti sono anche coinvolti in una disputa su Fethullah Gülen, un ex alleato politico del sempre più dittatoriale presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ora vive in esilio auto-imposto negli Stati Uniti. Le autorità turche accusano Gülen di aver architettato un tentato colpo di stato del 2016 contro Erdoğan, ma gli Stati Uniti hanno finora negato, adducendo l’insufficienza di prove.

 

La questione del sostegno americano ai curdi, in particolare, è stato un fattore importante nella decisione iniziale di Trump di ritirare le forze statunitensi dalla Siria e la sicurezza dei civili curdi in tutte le aree in cui le forze turche o turche potrebbero prendere il controllo della situazione. . Da allora le autorità statunitensi hanno chiesto assicurazioni dalla Turchia che non tenterà di attaccare i curdi e Trump stesso ha minacciato di “devastare economicamente la Turchia” se Ankara non è d’accordo con queste condizioni.

 

Inizia il lungo ritiro della Siria colpendo duramente il poco rimanente califfato territoriale ISIS, e da molte direzioni. Attaccherà di nuovo dalla base vicina esistente se riformerà. Distruggerà economicamente la Turchia se colpiscono i curdi. Crea una zona sicura di 20 miglia ….

– Donald J. Trump (@realDonaldTrump), 13 gennaio 2019

 

 

 

Il presidente ha anche insistito sul fatto che non voleva che i curdi “provocassero” la Turchia. Non è del tutto chiaro se i “curdi” in questo caso si riferisce a civili curdi, il gruppo di forze democratiche siriane a maggioranza curda appoggiato dagli Stati Uniti che sta combattendo contro l’ISIS, o entrambi. La Turchia ha ripetutamente dichiarato l’intenzione di schiacciare i combattenti curdi, anche se sono allineati con l’SDF, attraverso la Siria settentrionale.

 

Vale anche la pena notare che gli Stati Uniti forniscono intelligence e altro supporto alle operazioni militari turche contro altri gruppi militanti curdi attivi in ​​Turchia. Quindi, come il governo turco potrebbe interpretare eventuali richieste da parte delle loro controparti americane e quanto gli Stati Uniti potrebbero essere disposti a rispondere a qualsiasi apparente violazione di tali clausole resta da vedere.

 

…. Allo stesso modo, non voglio che i curdi provocino la Turchia. La Russia, l’Iran e la Siria sono stati i maggiori beneficiari della politica a lungo termine degli Stati Uniti di distruggere l’ISIS in Siria: nemici naturali. Ne beneficiamo anche noi, ma è ora di riportare a casa le nostre truppe. Fermate le GUERRE INFINITE!

– Donald J. Trump (@realDonaldTrump), 13 gennaio 2019

 

Tutto ciò rappresenta un rischio permanente per l’accesso alla base aerea di Incirlik, un importante hub regionale per l’esercito americano che funge da base per i jet da combattimento che operano nella regione, un sito di stoccaggio di armi nucleari tattico e un importante punto di trasbordo , potrebbe finire in un momento critico. Muwaffaq Salti, a meno di 400 miglia a sud, è ben posizionato per soppiantare Incirlik, così come altre località operative in Turchia, per operazioni convenzionali se il governo turco dovesse fermare le operazioni americane da quelle basi.

 

Tutto sommato, gli aggiornamenti a Muwaffaq Salti aumenteranno la capacità dell’America di operare in quella parte del Medio Oriente al di fuori di qualsiasi operazione attualmente in corso, in Siria o altrove, per gli anni a venire e cementeranno ulteriormente le relazioni USA-Giordania. Con questo in mente, potremmo iniziare a vedere lavori in altri siti in Giordania oltre a Muwaffaq Salti nei prossimi anni. Se le stime del Corpo dei Genieri  sono accurate, ci saranno decine di milioni di dollari per progetti di costruzione nel paese.

 

 

GLI STATI UNITI NEL VICINO ORIENTE. ORDINI E CONTRORDINI_intervista ad Antonio de Martini

Trump ha annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria e dall’Afghanistan. Putin ha sostenuto la scelta dell’amico Donald “sempre che riesca a darvi corso”. Un annuncio che ha innescato un ulteriore conflitto all’interno dello staff presidenziale, con le dimissioni del generale Mattis e certamente accelererà le dinamiche già convulse nel Vicino Oriente. Al provvedimento, sempre che abbia seguito, farà certamente da contrappeso qualche compensazione alle vittime designate di questa scelta: parte dei curdi sul campo di battaglia, l’Arabia Saudita di Ben Salman nel contesto geopolitico di quell’area. Non di meno la scelta assume un carattere dirompente. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://www.youtube.com/watch?v=-BUnvgcHFR4&feature=youtu.be

 

RIEDUCAZIONE, di Antonio de Martini

ASSASSINIO PREMEDITATO IN PIENO SOLE A FINI EDUCATIVI

Nessun media del mondo ha pubblicato ( o ripubblicato) gli articoli ( e nemmeno singole frasi) del “ giornalista” Khassoghi che, in realtà abbiamo saputo essere stato il segretario del principe Turki (ex capo dei servizi segreti sauditi e ex ambasciatore negli USA fino a che non si è provato un finanziamento a uno degli attentatori dell’11 settembre da parte della moglie).

La ragione del mancato “scoop” giornalistico è che leggendo gli scritti si capirebbe che le “accuse” fatte sul Washington post ( giornale di Jeff Bezos, padrone di Amazon e amico di Mohammed mani di forbice) sono note dalla fondazione del regno, insignificanti e ignote alla stragrande maggioranza dei sauditi che sono in gran parte analfabeti anche nella loro lingua.

Nessun giornale occidentale ha mai citato testi o notizie scritte da questo signore, reso cauto anche dal fatto che il divieto di espatrio al figlio rimasto a Ryad lo aveva in pratica reso un ostaggio a garanzia di eventuali intemperanze giornalistiche.

Un poliziotto direbbe che a questo delitto non c’è movente.
Non si tratta certamente di in tentativo di conculcare la libertà di stampa o del “ cervello che deve essere messo a tacere” come disse Mussolini di Gramsci.

Trovare il movente – dato che il colpevole è certo e ormai confesso – richiede conoscere il segreto meglio custodito del momento: perché mai Khassoghi abbia messo la testa nella bocca della belva.

La spiegazione della richiesta di un certificato è risibile.

L’Arabia saudita non ha una anagrafe degna di menzione.
Per matrimonio e divorzio sono ancora più spicci: al maschio per divorziare basta pronunciare tre volte la parola “ ti ripudio” e per sposarsi basta tirar fuori l’attrezzo.

Se davvero avesser avuto bisogno di un certificato , gli sarebbe bastato chiedere al figlio che viveva in loco e una mancia a un impiegato per ottenere qualsiasi pezzo di carta timbrato e firmato.

Scoprire cosa, e chi, lo ha convinto a entrare nel consolato significherebbe fare un grande passo avanti nella ricerca della ragione vera dell’omicidio e dello scempio.

Tutte le pene che vengono inflitte in Arabia Saudita hanno intento esemplare.

Faccio un esempio noto alla mia famiglia: durante la seconda guerra mondiale, mio padre Francesco, mentre era a colloquio con uno sceicco, si trovò ad assistere all’arrivo di un giovanotto trafelato che disse al capo villaggio di aver visto, abbandonati, cinque sacchi di caffè all’entrata del villaggio.
“ come sai che è caffè?” Chiese il vecchio. “ ho aperto uno dei sacchi”.

Quando il capo villaggio ordinò di tagliare la mano allo sventurato, mio padre chiese come mai questa pena visto che nulla era stato rubato.

“ non ha rubato perché era caffè, se fosse stato oro se lo sarebbe tenuto” disse il vecchio sheikh respingendo l’appello, “avrebbe dovuto informarmi senza informarsi del contenuto”.

Ho maturato il convincimento che il delitto con annesso scempio ha tutte le caratteristiche della esecuzione esemplare: nulla è stato fatto per nasconderlo.

Il luogo, la squadra di killer giunta con due jet privati invece che alla spicciolata come da prassi, l’aver lasciata viva la fidanzata- testimone, la noncuranza per il “ cover up” , l’immediata dichiarazione americana che le forniture USA non sarebbero state interrotte, il disinteresse per le conseguenze internazionali e, in pratica , la candida ammissione, la partecipazione all’esecuzione di intimi servitori del crownprince, tutto mostra che è una pubblica esecuzione.

Il fiume di denaro che ha distratto in Occidente la pubblica opinione non è stato speso nel mondo arabo che oscilla tra l’orrore e l’ammirazione, tutto induceva pensare che nessuno voleva nascondere il delitto, anzi.

La sequela di errori politici con Yemen, Siria e Katar e l’omicidio di due familiari concorrenti al trono, hanno certamente creato una corrente contraria a Mohammed mani di forbice. In seno al Consiglio di famiglia che deve eleggere il successore di re Salman ormai con entrambi i piedi nella tomba.

Le orribili torture inflitte a un agente, che gli USA hanno deciso essere sacrificabile” sconsiglieranno molti membri della famiglia reale dal cercare un altro candidato ed un eventuale candidato dall’accettare la candidatura.

Un piano di questa complessità prevede assicurarsi la complicità USA (110 miliardi di forniture più altre dall’anno prossimo) per la copertura media e il non boicottaggio ; la complicità dei padroni del luogo ( vedrete che investimenti giungeranno in Turchia) e l’immediato permesso alla polizia a perquisire locali coperti da immunità diplomatica completano il panorama.
Per non uccidere i suoi fidi esecutori Mohammed ha pagato il prezzo del sangue ( liberando il figlio e i beni di Khassoghi e li lascerà processare in Turchia.

LA CRISI LIBANESE SARA’ LA TOMBA DELLA DINASTIA SAUDITA? IN OGNI CASO E’ UN ALTRO SCHIAFFO AGLI USA. di Antonio de Martini, scritto il 13 nov 2017

Immaginatevi che il Primo ministro Paolo Gentiloni vada in America,  all’arrivo invece del benvenuto di prammatica si veda sequestrato il telefonino, venga catapultato davanti a una telecamera a leggere una lettera di dimissioni e a chi lo contattasse per sapere quando torna in Italia, risponda ” a Dio piacendo” e avrete la fotografia di quel che è accaduto tra Libano e Arabia Saudita in questi giorni.

La motivazione del perché avviene è più complessa e andrebbe spiegata con la psicoanalisi prima che con l’analisi politica. Proviamo a dipanare questa intricata matassa di lana di cammello.Procediamo in ordine cronologico distinguendo tra interno ed estero..

Da quando il nuovo principe ereditario ( MOHAMMED BEN SALMAN) ha ottenuto dal re suo padre,( SALMAN BEN ABDULAZIZ)  approfittando della sua infermità, i pieni poteri, la situazione interna ed estera saudita ha iniziato a muoversi con un moto progressivamente accelerato. Impossibile oggi  capire se verso i vertici del mondo o verso il baratro.

SUL PIANO INTERNO

, col solito pretesto della ” lotta alla corruzione” il nuovo aspirante re ha fatto uccidere due tra i figli di  predecessori del re suo padre che avevano la caratura per contendergli il trono ( il figlio di Abdallah e quello di Fahd; ha messo agli arresto nella sua residenza il cugino ministro dell’interno Mohammed Ben Nayaf suo predecessore nel ruolo, arrestato cinque altri cugini figli di re predecessori del padre  e dieci principi minori più undici ex ministri e le tre fortune più importanti del regno.

E’ di stanotte la notizia che avrebbe arrestato l’ex capo dei servizi segreti Bandar ” Busch” Sultan che fu l’iniziatore della guerra alla Siria,  amico intimo dell’ex Presidente USA George W. Bush ( di qui il suo nomignolo) ed è stato lunghi anni ambasciatore saudita a Washington. Per metterci un po di pepe nel minestrone , sua moglie è stata notata dalla commissione di inchiesta come generosa contribuente di un pio conterraneo il cui nome figura tra quelli dei caduti sauditi che hanno condotto l’attentato alle due torri del World Trade Center.

Mohammed Ben Salman , ormai l Crownprince , è figlio dell’attuale re Salman ben Abdulaziz ,ultimo dei sette fratelli di stessa madre ( Hassa , la preferita del fondatore della dinastia) che si sono trasmessi il trono, per via adelfica, dal 1945.                                                                                                                                                                                               Prima d’essere vittima dell’Alzeimer, Salman era reputato come il più rigido della famiglia reale e il solo che nel 1991 si oppose  – nel Consiglio di famiglia composto da 150 persone – alla concessione di basi militari USA sul territorio saudita, con la motivazione che una volta installati non se ne sarebbero più andati. E’ stato facile profeta. Essndo l’ultimo figlio di Abdelaziz,  otttantenne e malato, si pensò che non avrebbe creato problemi , anzi che avrebbe dato tempo per pensare alla successione e al passaggio generazionale.

Appena salito al trono invece, Salman ha nominato – come da attese-  Crownprince Mohammed Ben Nayaf che da quattro anni era succeduto al defunto suo padre nella conduzione del ministero dell’interno. Dopo qualche tempo, però, il re creò una nuova carica: vice principe ereditario, mettendoci suo figlio Mohammed Ben Salman ( ministro della Difesa e capo della polizia religiosa).

I due Mohammed, in perfetto accordo giubilarono Bandar Bush ( creando per un breve periodo una sorta di Consiglio per la sicurezza nazionale con dentro il figlio), misero da parte il principe Muqrin che aspirava a fare da ago della bilancia tra i due  e poi iniziarono il confronto culminato nella nomina a principe ereditario ( che ha unicamente funzioni di primo ministro dato che il re viene nominato dal Consiglio di famiglia) del trentaduenne  figlio prediletto  Mohammed  il quale non ha esitato a sbarazzarsi del più anziano cugino , accoppare i due principi-cugini  più quotati alla successione e terrorizzare i membri più anziani del clan arrestando in totale quindici principi di varia caratura, oggi ospiti del Royal Carlton Hotel  trasformato in una fastosa prigione e ” fully booked” . L’inchiesta sulla corruzione prosegue senza fretta. Sono ostaggi nella più genuina tradizione beduina. E’ stato proibito in tutto il regno, il decollo di jet privati.

Posto che il piano riesca e il Crownprince prevalga, gli resterà da sciogliere il nodo della modernizzazione ( es la patente alle donne) con il fatto che egli ( e il padre) rappresenta l’ala conservatrice wahabita e si è appoggiato alla polizia religiosa nella sua scalata….

SUL PIANO ESTERO

 Come ministro della Difesa , Mohammed Ben Salman avrebbe dovuto passare per il tramite del Ministero degli Esteri per guerreggiare nello Yemen, ma come figlio del re non si attardò in quisquilie e mosse all’attacco, creandosi così una buona rete di amicizie USA tra i fornitori di materiale bellico.

Per la prima volta nella storia della dinastia il ministro degli esteri fu scelto NON tra i membri della famiglia reale e questo fu un primo segnale che sarebbe stata una partita a due.

Come nemico fu scelta la tribù degli Houti confinanti con l’Arabia Saudita a sud . Il pretesto era che stavano diventando una spina nel fianco alleata con l’Iran.        Inaspettatamente, gli Houti – privi di aeronautica-  resistettero, contrattaccarono, occuparono la capitale Sanaa e il giovane principe ebbe il suo primo “scacco al regno”.  Ossessionato dalla onnipresenza iraniana , il saudita si lanciò sulla scia USA nelle vicende irachene  che hanno visto trionfare l’Irak ufficiale ormai in mano agli sciiti per decreto ( 2003)  del proconsole USA Bremer. I Curdi rientrarono nell’ordine e l’Arabia Saudita si trovò confinante con un Irak ricostruito e diventato potenza sciita invece che sunnita come era sempre stato. Potenzialmente soggetto a influenze iraniane.

Sempre in cerca di successi napoleonici che lo legittimassero agli occhi dei sudditi, specie dopo le prime pessime figure, Mohammed Ben Salman decise di egemonizzare il Consiglio del Golfo ( una sorta di UE degli Emirati) fino ad allora gestito assieme al Katar della famiglia Al Thani. La politica del Katar è sempre consistita nel far fluire i denari in tutte le direzioni e supplire alla dimensione minima del paese ( 300.000 abitanti) con partecipazioni e sponsorizzazioni sportive di caratura mondiale.

Invitato a rompere i contatti con l’Iran ,  Tamim al Thani ,  emiro del katar, finse di non sentire. La reazione smodata fu l’accusa ufficiale  di sostenere nascostamente  il terrorismo e la sanzione lampo fu l’embargo.

Gli americani, per mostrare equidistanza autorizzarono comunque una significativa vendita di armi all’emirato. La famiglia al Thani, approfittando che il padre dell’emiro, Ahmad ben Khalifa al Thani,   ( defenestrato su richiesta USA quando iniziarono a girare le voci sui finanziamenti al Daesch) utilizzò il padre installato negli USA, per una intervista televisiva bomba: nella sua veste di ex primo ministro, dichiarò davanti alle telecamere di aver in effetti finanziato il Daesch, e di averlo fatto suprecisa, insistente  richiesta del re Abdallahben Abdulaziz , predecessore dell’attuale, e d’intesa con il governo americano e la Turchia che si sono occupati della distribuzione dei finanziamenti, delle armi, e della selezione dei mercenari. Il gruppo era destinato a ” una partita di caccia alla volpe” siriana. A conclusione della intervista, il vecchio sceicco ha anche posto la pietra tombale al progetto, dichiarandolo fallito.

Come e dove colpire l’odiato Iran? Come recuperare prestigio alla corona? Sconfitto in Siria, scornato in Yemen e ridicolizzato a Doha, restava il Libano.

Mohammed Ben Salman, convoca il primo ministro libanese Saad Hariri ( figlio dell’ex premier, arricchitosi in Arabia Saudita e  saltato in aria nel 2009) e dopo una accoglienza fredda ( nessuno all’aeroporto ad accoglierlo) e quattro ore di anticamera l’indomani, gli ingiunge di muovere guerra all’Hezbollah. Sarebbe come chiedere alla Romania di muovere guerra alla Russia.

Giudiziosamente Saad Hariri gli deve aver risposto che ci ha già provato nel 2006, subendo una sconfitta netta – come sconfitto fu l’esercito israeliano che aveva sottovalutato il problema –  Oggi l’Hezbollah fa parte del governo, alle elezioni ottiene il 50% dei voti ed è armato fino ai denti con in più la campagna di Siria in cui ha acquisito esperienza  operativa di manovra anche a livello di brigata, cosa che l’esercito regolare non ha. Hezbollah è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche in USA, ma un movimento che ha dietro di se metà del paese, è un problema politico , non di ordine pubblico.

Altra reazione furente: Mohammed ingiunge a Saad di dimettersi da primo ministro e lo vuole sostituire col fratello maggiore Bahaa che, guarda caso è in Arabia anche lui.  Il Libano insorge in favore del suo giovanotto in pericolo, i dirigenti del partito di Hariri ( il 14 marzo) rifiutano di andare a Ryad a prestare giuramento di fedeltà a Bahaa come richiesto,  spiegando sprezzantemente che in Libano i dirigenti dei partiti li sceglie il partito in un congresso. Pietosa bugia che rivela la paura di non tornare a casa.

il presidente  della Repubblica, generale Aoun ( i cui volontari cristiani hanno combattuto assieme all’Hezbollah in Siria) si rivolge agli USA e alla Francia per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Il dipartimento di Stato USA rilascia una dichiarazione di solidarietà e rispetto per Hariri, mentre il presidente francese Macron va in Arabia Saudita a parlare col focoso giovanotto. Esce dichiarando di non essere d’accordo con la politica iraniana del Crownprince e di ritenere che Hariri è trattenuto. Gli americani cerchiobbottisti avventizi, dichiarano che studieranno delle sanzioni a Hezbollah e la Camera dei rappresentanti autorizza eventuali spese in questo senso.

Consapevoli della gravità del momento, Israele e Hezbollah hanno tenuto un profilo basso e insolitamente silenzioso. Il quotidiano Haartez commenta che l’Arabia Saudita vuole far fare a Israele ” il lavoro sporco”.  In sede di analisi, spiega che non vuole intralciare il processo in corso di accordo tra Hamas e Fatah al Cairo e abbisogna di almeno un anno per completare le sistemazioni difensive del Sinai.

Credo che il silenzioso Hezbollah stia cercando tra i familiari del Crownprince la persona adatta a sbarazzarci del matto, mentre Saad Hariri , rintracciato da un giornalista che voleva sapere quando sarebbe tornato in Patria,  avrebbe risposto ” tra giorni”. Inchallah.

Gli USA adesso non sanno che pesci pigliare. Se seguire il rampollo reale nella sua spericolata discesa e inimicarsi anche il Libano, oppure guardare alla dinastia giordana che potrebbe sostituire i sauditi ( wahabiti) nella custodia dei luoghi santi dell’Islam, visto che ormai i wahabiti vengono sempre più considerati come estranei all’Islam. E guidati da due matti. Sono quasi certo che prenderanno la decisione sbagliata.

Khashoggi, il buono e il cattivo_di Giuseppe Germinario

La sparizione e la probabile morte del saudita Jamal Khashoggi a Istanbul ha provocato una vera e propria indignata sollevazione di scudi. La Turchia in questi mesi ha conosciuto altri eventi drammatici che hanno riguardato diplomatici, nella fattispecie l’uccisione dell’ambasciatore russo; ha vissuto tragici attentati, un tentativo di golpe e una drastica conseguente epurazione di decine di migliaia di funzionari pubblici e giornalisti che hanno rafforzato il pieno controllo politico di Erdogan sul paese. In Arabia Saudita, d’altro canto, paese componente e sino a pochi mesi fa posto senza remore alla presidenza del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il confronto politico prevede da sempre, nella gamma delle modalità, la liquidazione fisica degli avversari ed altre amene trivialità; in un paese dove la pena di morte, le punizioni corporali e il controllo capillare sono connaturati al regime integralista sin dalla nascita. A conferma che queste pratiche non risparmiano nessuno il recente attacco sanguinoso con fucili di assalto nel palazzo del Principe Selmani prontamente censurato.

Da questa plumbea normalità il caso Khashoggi è emerso con grande clamore rimbalzando in tutto il mondo.

Il paladino della democrazia, il giornalista militante della libera informazione vittima della crudeltà triviale del Principe Saudita oscurantista e paranoico. In un mondo così confuso finalmente un chiaro discrimine tra il buono e il cattivo così in voga nella narrazione cinematografica.

Una nobile indignazione colta ed alimentata da quella grande stampa che negli ultimi anni pare aver spento ogni spirito critico e ogni precauzione alla manipolazione dei fatti.

Ma siamo proprio sicuri di trovarci ad un atto di redenzione sia pure tardivo?

Proviamo a porci e porre qualche domanda.

Come mai Erdogan, sino a pochi giorni fa presentato come il grande affossatore della libertà di stampa, il fustigatore di decine di giornalisti, l’epuratore per antonomasia assurge improvvisamente agli stessi occhi dei fustigatori di un tempo al ruolo di dispensatore della verità e di giudice della barbarie saudita? Eppure sono stati i turchi ad avvertire i sauditi del prossimo arrivo di Khashoggi a Istanbul; dicono di avere prove schiaccianti e filmati del barbaro assassinio, ma tardano ad esibirle. La stessa presenza di filmati, se confermata, confermerebbe piuttosto l’esistenza di una quinta colonna nel drappello saudita incaricato della missione. In operazioni analoghe i sauditi hanno per altro dimostrato ben altra perizia con il trasbordo forzato in madrepatria della vittima designata.

Come mai la testa dello schieramento dei partigiani della verità e della democrazia è fermamente e tempestivamente presidiata, tra gli altri del medesimo campo, da John Brennan, ex capo della CIA ai tempi di Obama, grande artefice delle primavere non solo arabe e del grande caos in Medio Oriente e dal Washington Post, giornale ormai ridotto a mera cassa di risonanza partigiana dell’establishment sconfitto alle elezioni presidenziali americane. Figure ormai poco attendibili e credibili per questo genere di proclami e di campagne.

Come mai il martire Khashoggi è stato unanimemente presentato come fine giornalista e scrittore e come paladino della democrazia liberale quando il suo curriculum è ben più nutrito e abbraccia un campo di interessi e di interventi ben più vasto e rilevante. La figura del giornalista, purtroppo non è più così ben definita. Il confine tra il ruolo di giornalista, quello di informatore e di agente sta diventando labile. La scena indecoroso fferta a Tripoli da buona parte degli addetti nel 2011 è rivelatrice di una insana commistione. Nel caso di Khashoggi per altro sembrano esserci pochi dubbi. Negli anni ’80 lo vediamo impegnato a buoni livelli nella resistenza jihadista in Afghanistan; successivamente lo si vede in contatto stretto con Al Qaida e con Bin Laden al punto da essere indicato dai sauditi come mediatore di una possibile riconciliazione del capo qadista con la famiglia saudita; ancora dopo lo si vede tra i sostenitori e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, notoriamente sostenuti e finanziati dall’emiro del Qatar e dai Turchi e ormai da tempo scaricati dai sauditi, dopo le fallimentari prove offerte in Egitto e in Libia. Obama e il suo cerchio magico aveva notoriamente riposto in essi le maggiori speranze di successo di un ribaltamento dei regimi in Medio Oriente. Da qui il suo impegno in Siria a favore dei “ribelli moderati”, almeno nelle sigle. La democrazia rivendicata da essi e dallo stesso Khashoggi, a leggere con attenzione i suoi testi, non era altro che un tentativo di imporre un diverso regime, alternativo al modello wahabita dei Saud, ma pur sempre nettamente integralista. Quanto alla sua visione geopolitica è sufficiente sottolineare la sua conclamata omologazione del Principe Selman alla figura altrettanto nefasta di Putin. Per ultimo Khashoggi è stato per anni segretario del capo dei servizi segreti sauditi, Principe Suleiman, acerrimo avversario del Principe Selman, attualmente capo di fatto della casa saudita. Negli ultimi tempi il giornalista, entrato nelle grazie di Obama, è apparso sempre più distante ed estraneo ai giochi interni alla casa saudita e sempre più legato alle trame dei servizi angloamericani. Lo stesso era addirittura in predicato di diventare uno dei capi all’estero di una eventuale rivoluzione d’Arabia che prevedeva il controllo diretto da parte americana dei pozzi di petrolio e l’instaurazione di un nuovo regime che spodestasse i Saud. Un progetto per il momento naufragato con lo stallo in Siria e l’elezione di Trump alla Casa Bianca.

Il caso Khashoggi in realtà si sta trasformando in un’occasione e uno strumento da brandire da parte dei vari attori dello scacchiere geopolitico mediorientale e delle due fazioni in lotta negli Stati Uniti. Può servire ad Erdogan per ottenere un qualche salvacondotto nella politica di sanzioni all’Iran, visto il suo vitale interscambio commerciale con esso. Può servire a ridurre a patti e a ridimensionare il peso geopolitico del Principe Selman ed indebolire quindi il suo patto di ferro con Trump ed Israele e di conseguenza a ricucire il rapporti di Erdogan con i due schieramenti negli USA. Sarebbe in proposito interessante analizzare le linee di condotta Russa e Cinese nell’eventualità di un nuovo giro di valzer turco. Per la prima volta Trump appare stretto in un cul di sac, obbligato a due scelte alternative altrettanto costose: sostenere il maldestro Bin Selman e con questo rendersi complice di un comportamento efferato; scaricarlo e con questo mettere in discussione la triplice alleanza con i sauditi e Israele; il perno della attuale politica americana in Medio Oriente.

In realtà la componente wahabita più integralista, quella stessa osteggiata dal Principe Selman, potrebbe essere quell’avversario ancora più spietato e determinato, interessato a liquidare il “giornalista” troppo vicino ai Fratelli Musulmani e agli americani. Il temporaneo sodalizio di questa con il sultano turco e la sua simbiosi con la componente democratica-neocon americana potrebbe essere il trio diabolico più interessato a liquidare e sacrificare “il paladino della democrazia” addebitandone la responsabilità al Principe saudita di fatto reggente. L’improvvisa prudenza con la quale Erdogan in queste ore sta affrontando l’affaire lascia margini alla fantapolitica. Potrebbe essere la scappatoia che consentirebbe a Trump di uscire dalla trappola e di ribaltare sulle spalle altrui il dilemma; in questo, ancora una volta, sarà importante il lavoro sotterraneo di Israele, ben presente nei tre paesi principali di quell’area.

Intanto l’Arabia Saudita ha improvvisamente aumentato i volumi di produzione del petrolio; ci sarà da attendersi una pressione dei prezzi al ribasso. Russia e Stati Uniti sono avvertiti.

Ci attende un mondo sempre più complicato e dalle apparenze ingannevoli dove i buoni, in realtà, possono rivelarsi ben peggiori dei cattivi.

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE, di Antonio de Martini

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE.

Il professor Jeffrey Sachs della Columbia University ha rotto il fronte dei Think Tank americani rilasciando una pacata intervista alla MSNBC in cui dichiara di aver ben spiegato, sette anni fa, al Presidente Obama che la situazione siriaana era tale da non permettere la riuscita di un ” regime change” in Siria.

Adesso, ” dopo mezzo milione di morti e dieci milioni di profughi” il professore ribadisce il concetto e invita Trump a fare quel che ” istintivamente aveva capito” cioé a ritirare dalla Siria i 2.200 uomini che si trovano ” nel terzo orientale” del paese e rinunziare al cambio di regime voluto da Obama e Clinton.

Il ritiro é inevitabile, specie non appena sarà caduto, senza l’ecatombe prospettata dalla stampa, IDLIB, l’ultimo bastione su cui sventola la bandiera della ribellione. La Siria avrà truppe sufficienti per riprendere il controllo di tutte le sue frontiere.

L’accordo per creare un ” buffer zone ” ( zona cuscinetto) tra Putin e Erdogan è stato il primo passo per diminuire la pressione ed evitare scontri su iniziativa di comandanti minori. IDLIB non può resistere al prossimo inverno e questo lo sanno tutti. Siamo dunque agli sgoccioli.

Lo si evince anche dai comunicati sempre più stizziti dei “media da combattimento” USA impegnati a descrivere una utilità delle truppe americane che nessun altro nota.

Il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton ha presentato le condizioni della resa: parlando a un uditorio di iraniani residenti negli USA, ha detto che le truppe americane resteranno in Siria ” fintanto che in quel territorio ci saranno truppe e milizie iraniane”. In pratica propone un ritiro bilanciato dei contendenti dal campo di battaglia.

Rouhani, anche lui negli USA per partecipare all’Assemblea dell’ONU, ha fatto rispondere a denti stretti che ” L’Iran non si farà condizionare da terze parti nel suo appoggio alla Siria”.

Nel linguaggio orientale, significa che è disponibile a trattare, ma non direttamente con gli USA. Cercasi mediatore accettabile da tutte le parti in causa.

La reazione israeliana non si è fatta attendere e sta cercando di accreditare un Rouhani in avvicinamento al Presidente iraniano Ali Kamenei, mostrato come l’estremista da cui gli USA devono guardarsi. E’ falso.

Difficile per Putin offrirsi come mediatore dato che è parte in causa, ma indispensabile che la Russia accetti e colabori con una figura di mediazione gradita.
Una coppia , uno per parte, sarebbe una buona soluzione, dato che ha già fatto le sue prove disinnescando la bomba di Idlib.

Forse è per questo che Erdogan, dopo l’assemblea ONU – alla quale partecipa – domenica volerà a Berlino per incontrare la Cancelliera Merkel.

Lui cerca di rassicurare i mercati, gli alleati NATO e gli investitori esteri tentennanti ( tedeschi?) e lei cerca di rinverdire il blasone appannato da anni di governo pacioso in un mondo turbolento e porre autorevolmente la sua candidatura alla presidenza della Commissione UE, liberando al contempo Trump dal sospetto di un accordo diretto con la Russia.
Tra un mese gli USA hanno le elezioni di mezzo termine.

MORIRE PER IDLIB?, di Antonio de Martini

MORIRE PER IDLIB?

Idlib é un paesotto – censimento del 2004- inferiore a centomila abitanti a cinquecento metri di altezza e a meno di 60 km a sud di Aleppo.

Diciamo che con il tempo e i rifugiati sia salita a centosessantamila ed ora è raddoppiata.

Già , ricordate il can can per Aleppo ?
Il servizio di propaganda israelo-americano insiste nella ripetizione del ritornello già usato per Aleppo, ricordate? sembrava la Danzica del nuovo secolo.

Alti lai, minacce ripetute, timore di stragi di innocenti bambini, con il coro di tutte le ONG felici di poter distrarre i sovventori dalle inchieste per abusi sessuali ed uso dei fondi a fini di prostituzione in cui sono invischiate.

Anche per Aleppo si sono inventati i numeri e li hanno strombazzati ai quattro venti. La gente non si commuove più per gli adulti? Si citano i bambini che sulle mamme fanno sempre effetto.
Sono stufi di morti e non seguono più? Minacciamoli con tre milioni di nuovi profughi.

Quattro milioni di rifugiati in sette anni da tutta la Siria e tre milioni in un anno concentrati in una cittadina grande quanto Bologna ? La geografia non la studiano più nemmeno in USA o Israele…

In questi giorni Israele , sta osando più di tutti e ha effettuato due incursioni aere ravvicinate colpendo due depositi di munizioni. Tutto, pur di impedire o ritardare il più possibile una azione militare governativa di successo .

I motivi di tanto accanimento propagandistico e politico sono tre. Due importanti e uno importantissimo.

a) se viene liberata Idlib , finisce la guerra e finisce il salasso di uomini e mezzi sia degli iraniani che dei russi, mentre l’idea è di condurre la guerra in parallelo con quella Afgana che è entrata nel diciassettesimo anno e che i russi riforniscono.

b) Fino a che Idlib resta in bilico, resta in bilico anche la delicata posizione politica turca cui fu fatto balenare il miraggio di un incremento territoriale sulla direttrice Alessandretta- Mossul. Finito anche quello, ci sarebbe un ancor più deciso irrigidimento di Erdogan verso gli USA.

c) Più i siriani sono impegnati nel Nord, alla frontiera turca, più restano – così sperano a Tel Aviv – lontani dalla frontiera israeliana che è la vera, comprensibile , preoccupazione degli israeliani e anche degli USA. Hanno fatto un sito ” southfront” che inonda di notizie guerresche che fissano l’attenzione su qualsiasi movimento NON si svolga alla frontiera israeliana.

Con un esercito siriano ( ed Hezbollah) collaudati da una campagna lunga e difficile e una intera frontiera siriana e libanese da sorvegliare ( senza contare Gaza e il sempre possibile contagio giordano) devono essere mobilitate almeno due brigate e i civili israeliani danno segni crescenti di stanchezza per i continui richiami, per l’incertezza di vita nelle zone di frontiera e per i rallentamenti economici procurati dai riservisti di terra e di cielo.

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA, di Antonio de Martini

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA

Le reazioni al bagno di sangue che ha inaugurato l’apertura della nuova ambasciata americana ha avuto una serie di conseguenze che possono valere quanto una battaglia vinta per molti dei protagonisti.

HA VINTO HAMAS che si è vista implorata per fermare il massacro. Cosa abbia ottenuto in cambio al momento non è noto, ma certamente non ha cessato il suo attacco senza contropartite.

HA VINTO ABU ABBAS che ha mostrato di poter gestire la nuova situazione di contenzioso anche in assenza dell’arbitrato USA, rappresentando tutti i palestinesi, anche Hamas, nei media mondiali.

HA VINTO LA NON VIOLENZA dimostrando che nel villaggio globale le truppe più imbattibili sono quelle disarmate. L’impatto è stato tanto più forte proprio perché tra le truppe armate non c’è stato nemmeno un ferito lieve.

HA VINTO ERDOGAN corteggiato a Londra come un principe reale che ha ritirato gli ambasciatori da Israele e dagli USA ( questo la TV non l’ha detto) proprio nel momento in cui gli americani credevano di averlo obbligato , in piena campagna elettorale, a prendere posizione tra loro e la Russia. Può rimandare la risposta a dopo le elezioni.

HA VINTO L’IRAN che vede l’attenzione del mondo sviata dal tema delle sanzioni e della minacciata guerra americana e israeliana. Missili e bombe hanno perso importanza di fronte alle moltitudini disarmate che vanno all’assalto cantando.

HA VINTO NETANYAHU che nessuno più associa alle indagini di polizia sui trenta milioni di dollari incassati per l’acquisto di otto sottomarini dai cantieri tedeschi. La polizia deve attendere per riprendere l’inchiesta.

HA VINTO PUTIN che adesso rimane unico possibile mediatore del conflitto israelo-palestinese. Gli americani, squalificati dalla scelta di spostare l’ambasciata, ora devono colmare con un fiume di dollari, il fiume di sangue.

PERDE LO STATO DI ISRAELE che, costretto a rappresaglie permanenti, sta subendo la strategia che Churchill applicò alla Germania con le incursioni e i sabotaggi del SOE.

Quando l’intelligence Service di Stewart Menzies protestò perché l’attività di intelligence ne soffriva, rispose che “queste azioni di sabotaggio erano utili perché avevano trasformato i tedeschi nella razza (sic) più odiata del mondo.”

Con ” soli” sessantadue morti e 1360 feriti è una battaglia che ha portato i suoi frutti e per i militari una vittoria di Pirro.
Con truppe armate il costo in vite umane, da entrambe le parti, sarebbe stato molto più pesante.

SPIGOLATURE MEDIORIENTALI, di Antonio de Martini_ a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due significative spigolature di Antonio de Martini apparse sui social network. La notizia più clamorosa è la vittoria relativa di Moktada Al Sadr in Iraq. Si tratta del leader che con più accanimento ha combattuto l’occupazione americana e contemporaneamente la crescente influenza iraniana nel paese. Non a caso il suo movimento ha progressivamente affievolito l’impronta confessionale ed accentuato il proprio carattere nazionale e nazionalista.

La sua ascesa ci segnala la fragilità di molti stereotipi che hanno guidato l’interpretazione dei fatti nella polveriera mediorientale:

  • la divisione confessionale tra sunniti e sciiti spiega solo in parte, ed in misura decrescente e indiretta, il conflitto e il gioco politico delle fazioni e delle formazioni politiche
  • controllata la sbornia dell’ISIS e del suo tentativo truculento di coniugare l’aspirazione universalistica con l’esigenza di radicamento territoriale, con tutto il corollario di strumentalizzazioni e manipolazioni degli agenti geopolitici più importanti, in particolare degli Stati Uniti, inizia a riprender piede un movimento nazionale dalle sembianze diverse da quelle conosciute negli anni ’70
  • la situazione in Siria e in Iraq, in apparenza del tutto favorevole alla Russia e all’Iran, sta forse rivelando il grande limite della classe dirigente predominante in Iran: l’incapacità di fermarsi al momento giusto e il rischio di compiere un passo più lungo della propria gamba. Ha certamente il grande merito di aver contribuito ad evitare la caduta del regime di Assad e il conseguente genocidio delle minoranze di quel paese. La tentazione di fare della Siria il terreno di confronto con Israele è però sempre più forte e su questo sta incontrando la ritrosia sempre più manifesta dello stesso Assad, sostenuto in questo probabilmente dagli stessi russi. Il viaggio e l’accoglienza riservata a Netanyhau a Mosca non deve essere certo stata dettata dalle sole regole di galateo diplomatico. L’azione dell’Iran si sta spingendo ormai verso l’Atlantico. Di recente ha concesso la fornitura di grosse quantità di armi al Fronte Polisario, una organizzazione ormai dedita più che altro al contrabbando. Con questa mossa ha stuzzicato il Marocco, un paese alleato dei Saud e degli Stati Uniti; ma ha irretito anche l’Algeria, sino ad ora unico contendente del Marocco in quell’area. Anche l’Azerbaijan, paese sciita al confine con l’Iran, non gode ormai dei migliori rapporti con il paese degli ayatollah. La classe dirigente iraniana fatica a dissociare la propaganda oltranzista dalla diplomazia; è il segno della porosità di quel regime alle infiltrazioni e della radicalità del conflitto presente in essa.

Nelle more godiamoci, attraverso la sequenza fotografica di questi giorni colta da un giornalista americano presente “casualmente” all’Hotel Prince de Galles di Parigi; un’anteprima, un trailer dello spettacolo prossimo venturo del quale potremo godere

Ritraggono rispettivamente Seyed Hossein Mousavian, negoziatore iraniano sul nucleare nel 2005, Kamal Kharazi, ex ministro degli esteri iraniano, Abolghassem Delfi, attuale ambasciatore iraniano a Parigi, di spalle John Kerry all’uscita dall’hotel. In un precedente articolo http://italiaeilmondo.com/2018/05/06/diplomazie-parallele-di-giuseppe-germinario/ avevamo segnalato il corso di diplomazie parallele implicate nell’affaire Iran-USA. Queste foto ci segnalano probabilmente l’avvio di una campagna politica decisamente meno “nobile”. Il vecchio establishment americano, al momento di scatenare la campagna denigratoria verso Trump pensava di disporre del monopolio delle informazioni più riservate e private degli avversari politici. Un vantaggio indiscutibile in una contesa dai colpi bassi sempre più sconcertanti. Hanno scoperchiato invece un vaso di Pandora. Gli iraniani non devono aver preso molto bene il fallimento dell’accordo recentemente disconosciuto da Trump e l’inutilità dei loro eventuali atti di generosità. In pratica si profila uno scandalo simile a quello che sta travolgendo Sarkozy, con i suoi benefici finanziari ricevuti da  Gheddafi. E’ il segno che l’afflato pacifista, al pari di quello guerrafondaio, è il più delle volte corroborato e svilito da interessi molto più prosaici e particolaristici sui quali è facile scivolare. Una debolezza che spiegherebbe almeno parzialmente tanta insulsaggine, tante paralisi e tanti immobilismi, compresi quelli dei paesi europei, giustamente sottolineati da de Martini. Buona lettura_Giuseppe Germinario

IRAK: ALTRO BRILLANTE SUCCESSO DI AISE & CIA

Si potrebbe fare un gemellaggio tra Roma e Bagdad o almeno tra il PD e il partito di Abadi, il premier sconfitto alle urne.

Le elezioni sono ancora nella fase di spoglio, ma MOKTADA EL SADR, il mullah contrario all’Iran, come agli americani, è il vincitore col 54% dei voti espressi, mentre il servetto della CIA, Abadi, primo ministro uscente, si è classificato terzo dopo Allawi, l’ex cocco degli USA che li ha mandati a quel paese tre anni fa e ha fatto un partito suo.

MOKTADA EL SADR rappresenta la parte più bisognosa e sana della popolazione, ha istigato due rivolte armate contro le truppe occupanti ed è sospettato di essere dietro l’attentato di Nassirya.

Lusinghe e minacce non lo hanno mai piegato e non ha simpatizzato nemmeno con Teheran.

Il patriottismo di El SADR è fuori discussione e questo avrebbe potuto essere utile agli USA se solo avessero voluto veramente liberare l’Irak e instaurare un regime democratico.

Cercavano un servo. Lo hanno trovato che era vice presidente della Camera. Tutti sappiamo cosa vale un vice presidente. Lo hanno fatto premier e finanziato.
Si è classificato terzo su tre.

Complimenti anche all’AISE che presidiava la zona in cui EL SADR era più forte ed avrebbero potuto scovarlo e coltivarne il talento politico.

Peccato che abbiano mandato come capo centro un ufficiale che parlava solo lo spagnolo.
Magari con un po di inglese sarebbe riuscito almeno a non farsi sparare ai posti di blocco.

TRUMP SCONFESSA L’EUROPA. L’IRAN NON C’ENTRA.

Nessuno ha fatto notare la differenza di trattamento USA a Iran e Corea del Nord.

L’Iran , ha accettato di trattare con l’ONU ( tutti i membri permanenti del Consiglio piu la Germania) e di limitare il proprio sviluppo nucleare, sotto controllo AIEA, viene ad essere oggetto di nuove sanzioni ( e chi commercia con esso, di minacce sgangherate), mentre la Corea del Nord che ha completato il suo arsenale nucleare, è stata promossa da ” Stato canaglia” a cocco di papà Trump nel giro di tre mesi.

Abbiamo tutti constatato cosa sia accaduto a Saddam Hussein, Gheddafi e Assad per aver rinunziato ai WMD “mezzi di sterminio di massa”.

Disarmarsi non è dunque una opzione valida per sopravvivere. Anzi.

Proseguiamo la meditazione con due constatazioni destinate a condizionarci l’esistenza futura:

a) nessun paese dotato di armi nucleari è mai stato oggetto di invasioni, proxy guerre e rivoluzioni pseudo democratiche. Anche solo disporre di un ordigno senza vettore da usare come mina, garantisce dalle invasioni. Nemmeno il Pakistan.

b) chi esce con le ossa rotte da questa vicenda sono i paesi membri del consiglio di sicurezza più la Germania e meno gli Stati Uniti.

Credo proprio che l’intera operazione serva a dimostrare al mondo che chi conta sia soltanto il governo USA e che l’Europa, la Russia, la Cina, anche messi assieme, non contino granché, quindi ogni accordo con loro è caduco.

Basta un qualsiasi Trump per ridurre a zero la loro credibilità.
Mondo multipolare un corno.

Dall’accordo sul clima alla Corea del Nord, se non hai il bollino qualità degli USA non hai alcuna garanzia di essere dalla parte della legalità internazionale.

L’unico rischio che corrono gli USA è che la frequentazione di Russia e Cina ( e India?) potrebbe piacerci.

La solitudine in casa e fuori non fece bene a Macbeth, non farà bene a Trump.

1 4 5 6 7 8