Le infrastrutture stanno cambiando la geopolitica
Come l’energia fluisce dai sistemi che collegano il mondo
Di Mary Bridges
Caduta del livello dell’acqua nel lago Gatún di Panama. Un attacco informatico a una piattaforma di pagamento. Un terremoto che interrompe la produzione di chip di silicio a Taiwan. Elon Musk che decide quali Paesi hanno accesso a Internet. A prima vista, queste cose non hanno nulla in comune, se non la loro recente presenza nei titoli dei giornali. Ma una linea invisibile li collega: ognuno di essi evidenzia la dipendenza della società moderna da infrastrutture complesse per funzionare. Le interruzioni del Canale di Panama possono ritardare la consegna di spedizioni critiche in tutto il mondo. I guasti ai computer possono interrompere le cure mediche di routine fornite dalle cliniche in tutti gli Stati Uniti. Un breve arresto della produzione di semiconduttori provoca il panico. E il capriccio di un miliardario può ribaltare le sorti di una guerra.
Il complesso cablaggio e la dipendenza tecnologica della vita moderna hanno reso le persone dipendenti da un’ampia gamma di sistemi infrastrutturali, e i governi ora competono per creare e mantenere le reti che forniscono servizi essenziali, dall’elettricità all’acqua potabile alle telecomunicazioni. Il potere di un Paese dipende dalla sua capacità di influenzare e gestire questo vasto insieme di sistemi. In questo mondo dominato dalle infrastrutture, i governi e i loro funzionari non hanno più il controllo unilaterale delle relazioni internazionali. Invece, le imprese, la tecnologia e le condizioni ambientali si combinano e interagiscono con i governi per plasmare l’ordine mondiale. Anche se il panorama degli affari globali è cambiato, gli approcci statunitensi alla definizione delle politiche rimangono troppo spesso legati a concezioni obsolete di competizione bipolare e rivalità tra grandi potenze.
È ormai tempo di dare priorità alle infrastrutture come principio organizzativo della vita moderna. La svolta infrastrutturale nella geopolitica ha rivelato che il mondo ha una nuova serie di mediatori di potere, dalle banche multinazionali agli operatori satellitari, e che la soluzione dei problemi globali richiede nuovi forum e strategie per coordinare le attività di questi attori. Il ruolo centrale delle infrastrutture nel mondo di oggi spiega anche perché colli di bottiglia apparentemente piccoli, come l’attacco dei ribelli Houthi alle navi da carico del Mar Rosso o i ritardi di produzione in una singola fabbrica di elettronica, possono scatenare effetti a catena che mettono a rischio le catene di approvvigionamento internazionali e sconvolgono la geopolitica. Per adattarsi a una nuova realtà dominata dalle infrastrutture, i responsabili politici devono, in primo luogo, riorganizzare il loro pensiero per tenere conto delle complesse interconnessioni materiali e tecnologiche che sono alla base dei conflitti geopolitici e, in secondo luogo, lavorare con una nuova serie di mediatori di potere piuttosto che affidarsi ai canali tradizionali del dialogo tra governi.
Le infrastrutture non sono una novità per il XXI secolo. Il termine è diventato popolare tra gli ingegneri francesi del XIX secolo per descrivere le opere in terra che consentivano il transito regolare dei treni, come i terrapieni, i cavalletti e i ponti che sostenevano le linee ferroviarie, piuttosto che i soli binari.
Il termine infrastruttura è entrato nell’uso comune della lingua inglese all’inizio della Guerra Fredda, quando i negoziatori della NATO, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, usarono il termine infrastruttura per descrivere i sistemi di supporto necessari a garantire la preparazione militare in Europa: basi aeree, reti di comunicazione e sistemi radar, ad esempio. Nel 1950, Winston Churchill si schernì per l’uso del termine da parte di altri politici: “Sapendo bene che non esisteva una parola del genere [infrastruttura], il signor Churchill… disse che doveva riservare i suoi commenti finché non avesse consultato un dizionario”, si legge in un rapporto. Nel 1952, il Segretario di Stato americano Dean Acheson disse di trovare il termine sconcertante, secondo il New York Times. A parte queste obiezioni, il termine “infrastruttura” prese piede. Dalla fine degli anni Cinquanta, i politici statunitensi hanno usato questo termine per descrivere qualsiasi cosa, dalle autostrade interstatali alle reti del crimine organizzato ai sistemi sanitari.
Anche la dipendenza dei governi dalle infrastrutture è una storia secolare. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero britannico ha usato la sua supremazia sulle infrastrutture bancarie, sulle reti telegrafiche e sui trasporti marittimi per controllare le colonie lontane e punire i rivali. Allo stesso modo, gli Stati Uniti hanno consolidato le loro rivendicazioni su territori lontani incanalando il potere infrastrutturale per costruire la Ferrovia Transcontinentale e il Canale di Panama.
La ricerca della supremazia delle infrastrutture è una storia vecchia, ma ciò che è nuovo nelle infrastrutture di oggi è sia la nostra dipendenza da esse sia l’interconnessione e l’interdipendenza delle reti stesse. Quasi tre quarti delle merci globali – l’80% del commercio internazionale di merci in termini di volume – si muovono su reti marittime intricate. Queste reti non sono naturali, ma costruite e mantenute attraverso centinaia di intermediari, sistemi tecnologici e processi. Spedire una spedizione attraverso le frontiere – ad esempio, fiori dal Kenya ai Paesi Bassi – richiede in media 36 documenti e 240 copie.
Il mondo ha una nuova serie di mediatori di potere, dalle banche multinazionali agli operatori satellitari.
E questo è solo l’inizio. I più promettenti progressi della conoscenza e della tecnologia, dalla genomica alle energie rinnovabili, richiedono una complessità infrastrutturale ancora maggiore. L’intelligenza artificiale, ad esempio, si basa su miliardi di “parametri” alimentati da decine di migliaia di unità di elaborazione ad alta tecnologia. Questi processori sono prodotti attraverso intricate catene di approvvigionamento che coinvolgono migliaia di dottori di ricerca, minerali rari e macchinari sofisticati, come le macchine per la fotolitografia, che richiedono 800 fornitori e possono costare ciascuna quanto un Boeing 747.
Le reti energetiche, le rotte di navigazione, le reti di intelligenza artificiale e le piattaforme di pagamento digitale sono, di per sé, sistemi massicciamente complessi, ma anche interdipendenti. I medici non possono mantenere il loro carico di lavoro senza il software di fatturazione e le comunicazioni digitali. I produttori di elettronica non possono produrre smartphone senza le catene di approvvigionamento internazionali di chip di silicio e minerali strategici. La fitta stratificazione dei moderni sistemi infrastrutturali è diventata così intricata e continua da costituire il substrato dell’esistenza moderna.
Le reti e i sistemi interconnessi della vita moderna consentono una complessità sorprendente, come ottenere il permesso di attraversare un confine internazionale semplicemente passando attraverso una scansione della retina. Ma creano anche vulnerabilità enormi. Ad esempio, un singolo attacco informatico a un operatore portuale australiano ha messo a rischio il 40% del flusso di merci del Paese. Queste enormi reti di sistemi intrecciati sono diventate così vitali per il funzionamento della società statunitense che il governo federale ha designato 16 domini come “infrastrutture critiche”, il che significa che la loro distruzione avrebbe un effetto debilitante sulla sicurezza nazionale. Queste includono tutto, dai reattori nucleari ai servizi finanziari.
Chi esercita più potere, Elon Musk o la Grecia? Secondo le tradizionali classifiche finanziarie, il patrimonio netto di Musk, pari a oltre 200 miliardi di dollari, si trova a poca distanza dal PIL della Grecia, pari a circa 220 miliardi di dollari. Ma l’esame delle sole classifiche finanziarie non tiene conto dell’interdipendenza degli attori globali di oggi e dell’importanza delle infrastrutture per la formazione dell’ordine mondiale.
In termini di peso geopolitico, il potere infrastrutturale di Musk è vertiginoso. Le sue decisioni influenzano – o addirittura determinano – se le forze ucraine possono lanciare attacchi contro obiettivi russi o se le agenzie umanitarie nella Striscia di Gaza possono accedere alle reti wireless. Egli esercita questo potere perché controlla SpaceX, che fornisce connettività satellitare attraverso il servizio Starlink. È lui a decidere quando e dove la rete di satelliti in orbita bassa di Starlink fornirà l’accesso alle reti di comunicazione durante una crisi. Il potere infrastrutturale di Musk supera di gran lunga la sua ricchezza.
Inoltre, Starlink non è un sistema infrastrutturale che opera in modo isolato. Dipende e beneficia di altri sistemi, dalle università che formano i suoi ingegneri al governo degli Stati Uniti, che ha stipulato contratti con SpaceX per progetti di difesa classificati per più di due decenni, compreso un recente accordo da 1,8 miliardi di dollari. Concentrandosi sugli Stati nazionali come attori chiave degli affari globali, si trascura la stratificazione e le interconnessioni di queste nuove dinamiche di potere.
Pensare in termini di infrastrutture significa superare i binari ideologici.
Le relazioni internazionali tradizionali tendono a distinguere tra attori statali e non statali che operano in sfere diverse, ma oggi gli imprenditori, gli investitori o i consulenti sono spesso importanti quanto i funzionari politici. I finanziatori svolgono un ruolo particolarmente importante nel plasmare la politica delle infrastrutture, poiché gli investimenti in infrastrutture sono diventati centrali per la finanza internazionale e la politica globale. Nel 2018, il G-20 ha sviluppato la Roadmap to Infrastructure as an Asset Class per incoraggiare gli investitori a finanziare progetti, dai porti alle scuole alle reti di telecomunicazione, soprattutto nei mercati emergenti. Goldman Sachs e McKinsey hanno creato divisioni specializzate per concentrarsi sugli investimenti e lo sviluppo delle infrastrutture. Nel gennaio 2024, il più grande gestore patrimoniale del mondo, BlackRock, ha annunciato la sua più grande acquisizione dalla crisi finanziaria globale: Global Infrastructure Partners, la terza società di investimento in infrastrutture più grande al mondo.
Sebbene le infrastrutture costituiscano già la spina dorsale della vita quotidiana, la recente spinta a trasformarle in una classe di asset le rende anche un prodotto finanziario che può essere scambiato sui mercati secondari. Questo duplice ruolo – l’infrastruttura come realtà concreta e come costrutto finanziario – cambia il modo in cui le persone interagiscono con i progetti di grandi dimensioni e di movimento terra nelle loro comunità. Le decisioni sull’allocazione delle risorse e sulla gestione del debito di un progetto idroelettrico, ad esempio, vengono spostate a livelli decisionali più alti e distanti, dove gestori di asset e consulenti possono valutare i profili di rischio e la “bancabilità” dei progetti. La pressione degli investitori per “de-rischiare” l’infrastruttura può limitare il processo decisionale delle comunità su ciò che viene costruito e sul suo funzionamento. Il modello incentiva i governi a conformarsi agli standard stabiliti dalla Banca Mondiale o dalla Banca Asiatica di Sviluppo, ad esempio, piuttosto che concentrarsi sul fatto che i bisogni delle comunità siano meglio soddisfatti da progetti meno “bancabili”, come ospedali e scuole.
Oggi, i power broker globali non includono solo i Paesi e le aziende che costruiscono reti complesse, ma anche entità che stabiliscono gli standard, come l’Organizzazione Marittima Internazionale e l’Internet Engineering Task Force, che modellano i protocolli globali per la costruzione e il funzionamento delle infrastrutture. Questo spostamento sminuisce il potere delle comunità locali ed eleva un livello intermedio di attori internazionali: società di consulenza come EY e KPMG e studi legali multinazionali come Clifford Chance e White & Case, come ha notato lo studioso di diritto Nahuel Maisley. La spinta a standardizzare e accelerare le “infrastrutture verdi”, ad esempio, può limitare il modo in cui le città affrontano l’insicurezza abitativa e, nel processo, esacerbare la gentrificazione.
Al centro della competizione tra Cina e Stati Uniti c’è la lotta per il controllo delle infrastrutture odierne. Pechino sembra averlo capito. Ma gli sforzi degli Stati Uniti per contrastare le costruzioni su larga scala della Cina con i propri progetti suggeriscono che Washington non ha imparato a conoscere le sfumature dello statecraft infrastrutturale. I politici statunitensi dipingono costantemente la Cina come una sfida esistenziale all’attuale ordine mondiale. È “una battaglia tra democrazia e autocrazia”, secondo il presidente americano Joe Biden. Questa caratterizzazione raffigura due sistemi che competono per la supremazia su risorse limitate. Una vittoria della Cina, come il suo dominio nel software per la gestione delle operazioni logistiche, rappresenta una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.
Al contrario, pensare in termini di infrastrutture spinge oltre i binari ideologici per concentrarsi sul modo in cui i diversi attori modellano i termini dell’impegno e i sistemi che muovono informazioni, denaro e beni. Questo approccio richiama l’attenzione sulle reti materiali delle comunicazioni, della finanza, degli approvvigionamenti militari, delle spedizioni e della produzione, anziché concentrarsi sullo scontro tra visioni del mondo.
Il potere acquisito nella gestione delle reti ha spesso meno a che fare con i grandi disegni dei pianificatori che con le relazioni di secondo ordine, i legami a lungo termine e l’evoluzione graduale di un progetto. Dopo tutto, l’infrastruttura non è solo un investimento una tantum per gettare cemento o scavare un fosso. I progetti devono essere mantenuti, gestiti e finanziati per decenni. Spesso sono le relazioni di secondo ordine – il lavoro duraturo delle imprese di manutenzione, degli agenti finanziari e dei servizi accessori – a trasformare i contratti di appalto isolati in legami duraturi.
In termini di peso geopolitico, il potere infrastrutturale di Elon Musk è vertiginoso.
Secondo una visione tradizionale della geopolitica, le infrastrutture rappresentano solo un altro teatro di competizione tra rivali. Questo approccio, però, non è in grado di descrivere correttamente il potere delle infrastrutture. Un controllo significativo non dipende solo dalla nazionalità del proprietario, ad esempio, di una piattaforma software, ma anche dalla funzionalità di tale piattaforma, da chi la abilita e da quali attività preclude o abilita.
Un approccio più costruttivo non si limiterebbe a denunciare il software cinese o a cercare di “reshoreizzare” una produzione che non avviene negli Stati Uniti dagli anni Ottanta (ad esempio, la produzione di gru per container, un mercato ora dominato dalla Cina). Un approccio orientato alle infrastrutture prevederebbe invece un insieme di strategie volte a garantire che le reti critiche, come i sistemi di trasporto e di pagamento, siano ancorate a relazioni di mercato, norme e sistemi di regolamentazione che garantiscano trasparenza e responsabilità.
La funzionalità di un’infrastruttura dipende da come le persone la utilizzano, non solo da chi la costruisce. La storia iniziale di Internet fornisce un esempio eloquente: la sua architettura prometteva un design egualitario, end-to-end, che democratizzava l’accesso alle informazioni. Tuttavia, questo progetto è stato presto trasformato, poiché società sempre più oligarchiche hanno sfruttato il suo potenziale per accumulare profitti sbalorditivi per sé e per i propri azionisti. Il semplice atto di costruire un’infrastruttura non predetermina il modo in cui le società la adotteranno.
Allo stesso modo, l’origine cinese di un programma o di una piattaforma software non significa che debba essere annoverato nel registro della competizione tra grandi potenze o classificato come categoricamente antidemocratico. Al contrario, la sua adozione a livello internazionale dimostra quanto il controllo delle infrastrutture sia diventato centrale nelle rivalità geopolitiche. È il substrato – le opere di terra e gli argini – alla base della “competizione strategica”, una parola d’ordine scelta dai pianificatori della sicurezza statunitensi ed europei. Affinché gli Stati Uniti possano competere più abilmente in questi termini, i politici devono diventare attenti all’implementazione, alla gestione a lungo termine e alla supervisione del cablaggio delle società moderne.
Negli Stati Uniti, l’Inflation Reduction Act del 2022 e l’Infrastructure Investment and Jobs Act del 2021 hanno impegnato oltre 1.000 miliardi di dollari per il rinnovamento delle infrastrutture nazionali. L’Unione Europea ha risposto con investimenti nella produzione di semiconduttori, nelle energie rinnovabili e nella mitigazione del clima. Ma mentre il mondo viene ricablato, i leader globali di oggi rimangono legati a concezioni obsolete di geopolitica dominata dagli Stati. È tempo che i politici riorientino il loro pensiero su dove si trova il vero potere nel sistema globale e su come questo potere possa essere sfruttato per affrontare i problemi di oggi.
In primo luogo, i responsabili politici devono concentrarsi sulla governance più che sui governi. Le decisioni di Musk o BlackRock, ad esempio, potrebbero avere più peso di quelle degli Emirati Arabi Uniti o della Danimarca. Una volta che il governo statunitense è in grado di identificare i gatekeeper, i progettisti, i finanziatori e gli implementatori che controllano i diversi livelli di erogazione dei servizi, può capire meglio come vengono gestite le reti e quali vulnerabilità creano. In un mondo in cui un piccolo gruppo di ribelli armati può mettere a repentaglio un’arteria da cui dipende circa il 15% del commercio mondiale, non è sufficiente usare il potere duro per combattere la minaccia dei ribelli alla navigazione internazionale. Dopo tutto, la regione del Mar Rosso è anche un punto di strozzatura delle comunicazioni attraverso il quale passa il 90% della capacità dei cavi sottomarini tra Europa e Asia. Le navi abbattute rappresentano un rischio per la connettività delle comunicazioni, come il mondo ha imparato quando a marzo sono state interrotte diverse linee, interrompendo un quarto del traffico di dati tra Europa e Asia. Migliorare la resilienza significa non solo affrontare la minaccia immediata, ma anche collaborare con assicuratori, spedizionieri, operatori di cavi e altri soggetti per proteggere le infrastrutture critiche.
Nel frattempo, la complessità dei problemi di portata mondiale è cresciuta. Gestire il futuro della biomedicina – sbloccare le promesse della clonazione e dell’editing genetico, ad esempio, bilanciandone i rischi – richiederà negoziati ad alto livello e accordi complessi, e non solo tra governi. La politica spaziale e la risposta alle pandemie sono due aree in cui è stato dimostrato che, lavorando in modo isolato, i governi nazionali non hanno il potere e gli strumenti per regolamentare in modo efficace. Gli Stati svolgeranno un ruolo di primo piano in un ordine infrastrutturale, ma dovranno imparare a lavorare con nuovi partner e avversari tradizionali in modi nuovi.
I politici devono concentrarsi sulla governance più che sui governi.
Poiché i progetti infrastrutturali si collocano in una terra di mezzo quasi pubblica e quasi privata, sono spesso al riparo dalla tradizionale concorrenza di mercato e dalla responsabilità pubblica. La costruzione di reti su larga scala tende a essere costosa, lunga e dipendente da impegni e licenze pubbliche. Il processo decisionale centralizzato può ridurre i costi di transazione e gli operatori di rete tendono a beneficiare di effetti “rich-get-richer”. Queste caratteristiche non si prestano alla governance democratica o alla responsabilità pubblica. Il mondo ha bisogno di meccanismi migliori per garantire che le infrastrutture della vita moderna rispondano alle richieste delle comunità di giustizia, trasparenza ed equa distribuzione delle risorse.
Man mano che i blocchi infrastrutturali si frammentano in domini orientati verso gli Stati Uniti e la Cina, località intermedie come il Qatar, Singapore, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti acquisteranno importanza e gli intermediari neutrali diventeranno sempre più importanti, secondo Alexander Geisler dell’Associazione tedesca degli agenti marittimi. Il sospetto reciproco con cui i politici cinesi e statunitensi guardano alle rispettive infrastrutture aumenta la probabilità che emergano specifiche diverse e modelli di lock-in. La piattaforma di pagamento di un blocco potrebbe essere organizzata intorno al dollaro americano, mentre un’architettura alternativa consente la circolazione del renminbi cinese e di altre valute.
Allo stesso modo, una rete di imprese di logistica e spedizione potrebbe facilitare il commercio tra gli Stati Uniti e i suoi alleati, mentre le tecnologie e l’hardware sostenuti dalla Cina potrebbero consentire la connettività tra altri centri marittimi. La competizione sulle infrastrutture significa che le battaglie sugli standard probabilmente si intensificheranno nei prossimi anni, e i luoghi e le entità che possono lavorare come intermediari di fiducia diventeranno sempre più essenziali.
Poiché le sfide globali si interconnettono e si amplificano l’una con l’altra, i leader mondiali perderanno delle opportunità se non vedranno più chiaramente come funzionano oggi le infrastrutture. Il potere globale non si definisce più accumulando munizioni nei bunker, dominando una singola catena di approvvigionamento o esercitando il dominio su una sola tecnologia. Le reti ad alta tecnologia sono fondamentali per il funzionamento di base delle società moderne, ma le infrastrutture di oggi sono troppo sfaccettate, stratificate e interconnesse perché un solo Stato possa controllarle veramente. Nell’era delle infrastrutture, la formazione dell’ordine mondiale richiede che i leader politici trovino nuovi modi per collaborare con gli imprenditori, i costruttori, i banchieri e gli operatori che gestiscono i sistemi interdipendenti che sostengono la vita del XXI secolo.
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È ampiamente riconosciuto che la capacità di difesa del nostro Paese va ben oltre gli armamenti militari come cannoni, missili, carri armati e droni. I progressi della tecnologia e dell’innovazione, così come la collaborazione con i nostri alleati, sono allo stesso titolo parte integrante della nostra difesa nazionale. In tutta franchezza, la nostra sicurezza nazionale dipende dalla nostra sicurezza economica. Una nazione non può essere considerata potente in materia di difesa se non possiede l’economia più competitiva del mondo e se non è leader in termini di innovazione.
Non è solo in patria che la nostra presenza è desiderata, ma anche all’estero. I nostri alleati di tutto il mondo ci cercano per scopi militari e di impiego in regioni come l’Indo-Pacifico e il Sud America. Ho avuto il piacere di unirmi al generale Richardson in una recente visita a Panama e l’anno prossimo mi recherò nelle Filippine con il comandante Aquilino. Nel frattempo, i nostri concorrenti, in particolare la Cina, continuano a fornire sostegno finanziario, infrastrutture e opportunità di lavoro. E se vogliamo vincere, dobbiamo farci vedere. Infatti, sono stato felice di andare a Panama con il generale Richardson qualche mese fa. L’anno prossimo andrò nelle Filippine con il comandante Aquilino. La competizione sulla prosperità economica e sulle opportunità è importante tanto quanto la pura potenza militare, per proteggere la nostra sicurezza nazionale e mantenere il nostro posto nel mondo.
È una domanda importante. Credo che la sicurezza nazionale si sia sempre basata sulla sicurezza economica. Detto questo, la tecnologia è più importante che mai per la nostra sicurezza nazionale e il dipartimento del Commercio è al centro della politica dell’amministrazione in materia di tecnologia e innovazione. Man mano che le forze armate statunitensi fanno sempre più affidamento sulla tecnologia – in settori quali intelligenza artificiale, spectrum strategy, supercomputing, cybersicurezza e semiconduttori – cresce l’importanza della tecnologia per la nostra sicurezza nazionale. Il dipartimento del Commercio, che gestisce la politica governativa sull’intelligenza artificiale, controlla le esportazioni e impedisce alla Cina e ad altri avversari di accedere alle tecnologie più avanzate del Paese. Inoltre, siamo a capo della politica governativa sulle tecnologie spectrum. Poiché la tecnologia si intreccia sempre più con la difesa nazionale, è fondamentale investire nella capacità dei semiconduttori e impedire alla Cina l’accesso alla tecnologia. Il dipartimento del Commercio guida questi sforzi: questo è più importante che mai perché la tecnologia è oggi più importante di quanto sia mai stata.
Potrei essere il primo segretario al Commercio in questa posizione, ma di certo non sarò l’ultimo. Credo che il nostro approccio ai controlli sulle esportazioni non sia una tendenza passeggera. Abbiamo attuato una strategia innovativa e assertiva su questo tema. Nell’ottobre dello scorso anno, il Bureau of Industry and Security, guidato dal Sottosegretario Estevez, ha stabilito un regolamento senza precedenti: per la prima volta abbiamo negato alla Cina l’accesso a una serie di semiconduttori e apparecchiature.
Continueremo a procedere in questa direzione: stiamo costruendo un team. Ora lavorano per me persone che non lavoravano nel dipartimento del Commercio e che si occupavano semplicemente di semiconduttori. Stiamo aumentando la nostra capacità tecnica presso il BIS per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. Penso quindi che stiamo rafforzando il dipartimento del Commercio per affrontare queste sfide, e penso che questo sforzo sia destinato a rimanere.
La visione di Raimondo porta nel concreto dell’attività di policy le riflessioni sull’allargamento della sicurezza nazionale sviluppate tra l’altro da Jake Sullivan e riprese da Le Grand Continent nella riflessione sulle fratture della guerra estesa. Va nel concreto perché mostra il ruolo che deve avere una burocrazia statale per perseguire obiettivi di politica industriale e sicurezza nazionale. Il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti si trova da tempo al centro delle tensioni con la Cina, con una enorme produzione di attività regolatoria relativa in particolare ai controlli sulle esportazioni e con la sperimentazione di politica industriale del Chips and Science Act in particolare, ma in futuro anche con le attività sugli standard e su altri temi richiesti dalle politiche sull’intelligenza artificiale. Si tratta di compiti molto ampi e che richiedono competenze tecniche profonde. Qui Raimondo fa un’operazione allo stesso tempo di trasparenza e di debolezza. Trasparenza perché dice chiaramente che per avere questo nuovo ruolo, lo Stato deve avere più risorse e più soldi. Debolezza perché la rivendicazione di 100 persone che lavorano sui semiconduttori non sembra poi granché rispetto all’entità della sfida. E perché chiedere più risorse in questo modo genera un forte rischio: che agli annunci non seguano i fatti. Da un lato, è vero che forse l’unico punto di vero consenso della politica statunitense, al Congresso, è il contrasto con la Cina. Dall’altro lato, una cosa è andare contro la Cina negli annunci roboanti dei politici, un’altra è alimentare una burocrazia statale, fatto che in particolare tra i Repubblicani genera sempre resistenze. Non a caso Global Times, nel suo commento alle parole di Raimondo, ha notato il punto dei fondi federali.
Per i membri del Congresso che sono qui presenti, dirò che il BIS ha lo stesso budget di dieci anni fa. Abbiamo il doppio delle richieste di licenza. Ricevo continuamente telefonate da membri del Congresso, democratici e repubblicani: perché non fate di più? Perché non state vigilando di più sull’intelligenza artificiale? Perché non controllate di più i semiconduttori? Sono d’accordo con voi. Ho un budget di 200 milioni di dollari, che è paragonabile al costo di qualche jet da combattimento. Se vogliamo seriamente proteggere gli Stati Uniti, dobbiamo finanziare questa operazione in modo adeguato per adempiere alle nostre necessarie responsabilità.
Non possiamo permettere alla Cina di ottenere questi chip. Punto. Ascoltate, ecco la cosa sorprendente: so che qui ci sono molti membri del settore privato e molti imprenditori. L’America è leader mondiale nell’intelligenza artificiale. Punto. L’America è leader mondiale nella progettazione di semiconduttori avanzati. Punto. Questo grazie al nostro settore privato. Perché abbiamo grandi innovatori. Ed è anche merito del nostro settore pubblico, che investe in questi campi.
Siamo un paio d’anni avanti alla Cina. Non possiamo permettere che ci raggiungano. Non possiamo permetterle di raggiungerci. Quindi negheremo loro la nostra tecnologia più avanzata. So che tra il pubblico ci sono amministratori delegati di aziende produttrici di chip che erano un po’ irritati quando l’ho fatto, perché stavano perdendo entrate: proprio come la vita, la protezione della nostra sicurezza nazionale è più importante delle entrate a breve termine. Ed è questo che faremo.
Il punto del rapporto tra pubblico e privato è centrale nel capitalismo politico americano e ancor più in questa fase storica, nella guerra dei chip. Da un lato, gli Stati Uniti contro la Cina, nei loro provvedimenti, fanno leva sulla loro grande forza nella filiera: aziende leader mondiali che operano su Electronic Design Automation, sul design dei chip, sui macchinari. Un primato che Raimondo apprezza e rivendica. Allo stesso tempo, a queste stesse aziende la sicurezza nazionale chiede un pesante sacrificio: quello del mercato cinese, che per la centralità della Cina nella manifattura e nell’assemblaggio dell’elettronica, ha un peso significativo. Anche se varia a seconda dei casi, il mercato cinese può pesare il 20-30% dei ricavi, ma molto di più come mercato di passaggio. La sicurezza nazionale è superiore ma ha questo vincolo.
Vi dirò: questa roba – e con «questa roba» intendo supercomputer, tecnologia AI, chip per l’AI – nelle mani sbagliate è letale quanto qualsiasi arma che potremmo fornire. Perciò dobbiamo essere seri se vogliamo affrontare questa minaccia ed essere seri nell’applicazione della legge. L’altra cosa per cui abbiamo bisogno di risorse al dipartimento del Commercio è l’applicazione della legge. Ogni minuto di ogni giorno, la Cina si sveglia cercando di capire come aggirare i nostri controlli sulle esportazioni. Questo ci impone di rafforzare continuamente i nostri controlli e di aumentare gli sforzi di applicazione insieme ai nostri alleati, tra cui gli olandesi, i giapponesi e gli europei.
Il nostro approccio deve includere anche una strategia multilaterale simile a quella della Cocom durante la Guerra Fredda per combattere la minaccia rappresentata dalla Cina. Un approccio multilaterale ai controlli sulle esportazioni è essenziale per affrontare efficacemente questa sfida.
Il discorso di Raimondo, nel riferimento al multilateralismo dei controlli sulle esportazioni, fa anche un riferimento al COCOM e ai meccanismi della guerra fredda. Come ha dimostrato Hugo Meijer nei suoi studi fondamentali, tra cui in particolare «Trading with the Enemy», il caso del commercio con la Cina è comunque profondamente diverso. Ma è interessante considerare i vari riferimenti al multilateralismo e agli alleati nella dottrina di Gina Raimondo. I suoi discorsi menzionano in modo esplicito alcune delle principali «potenze» della filiera dei semiconduttori, il Giappone, la Corea del Sud, i Paesi Bassi e la Germania, per la presenza di alcune aziende chiave. A questi alleati si chiede una maggiore collaborazione e una sorta di «prova» della fedeltà agli Stati Uniti.
È difficile trovare un equilibrio. Alan [Davidson, Assistente segretario al Commercio per le Comunicazioni e l’Informazione dal 14 gennaio 2022] ed io discutiamo spesso di questo problema. Se si esagera con i controlli sulle esportazioni, si ostacolano i flussi di reddito delle imprese statunitensi, impedendo loro di innovare. Inoltre, è doppiamente problematico se queste misure vengono attuate senza i nostri alleati. A cosa serve limitare le entrate delle imprese americane se la Cina ottiene la stessa tecnologia dai tedeschi, dagli olandesi, dai giapponesi o dai coreani?
Se non riusciamo a tracciare una linea di demarcazione, la Cina può ottenere la nostra tecnologia e usarla per la simulazione nucleare o per qualsiasi altra cosa voglia. Le capacità tecnologiche delle forze di combattimento di oggi sono più grandi di quanto siano mai state. Ecco perché il commercio è così importante. Tuttavia, devo ammettere che non so se possiamo mai essere perfetti o se siamo già a quel punto. Per questo dico al mio team che dobbiamo mantenere un dialogo costante con l’industria. Manteniamo una conoscenza aggiornata della tecnologia attraverso un dialogo continuo con i nostri colleghi del Pentagono. Devo fare un grande applauso al segretario Austin, che è stato un partner straordinario per me. Dobbiamo solo essere fedeli e disciplinati nel nostro processo per essere certi di metterci costantemente alla prova: stiamo facendo abbastanza? Non stiamo facendo abbastanza? Inoltre, una delle cose che sto facendo al dipartimento del Commercio è quella di rafforzare la nostra capacità tecnica, in modo da conoscere la tecnologia come chiunque altro.
L’evoluzione della natura della minaccia richiede un cambiamento corrispondente nel nostro approccio. In passato, il BIS si è basato sulla Entity list: Huawei, ad esempio, è un campione nazionale cinese, quindi è presente nella Entity list. Inoltre, è stato verificato che SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) e altre aziende cinesi sostengono l’esercito cinese e quindi sono anch’esse presenti nella lista. Tuttavia, il problema di questo approccio è che porta a un costante «acchiappa la talpa» in cui è vietato a vendere a un’azienda, quindi Huawei crea un’altra azienda.
Parlando di Huawei e SMIC, Raimondo ricorda che i controlli sulle esportazioni e le «liste» del dipartimento del Commercio e della sua fondamentale agenzia, il Bureau of Industry and Security, sono strumenti potenti, con effetti rilevanti sul mercato sulla base di esigenze di sicurezza nazionale, ma non sono onnipotenti. Le sanzioni e i controlli sulle esportazioni creano sempre incentivi per il loro aggiramento e, per quanto riguarda la Cina, per il rafforzamento di una filiera interna, con una «chiusura del cerchio» rispetto ai mercati di riferimento (smartphone, apparecchiature di telecomunicazione, data center, attività industriali e di automazione, automotive) dove la Cina ha un ruolo di primo piano. L’aggiramento avviene attraverso il dinamismo delle aziende che vengono colpite, come Huawei e SMIC: le aziende si collocano all’interno di un ecosistema dove «vengono fuori» ulteriori attori, ignoti alle liste nere, e che creano nuovi rapporti commerciali interni alla Cina ma anche nuove opportunità di mercato, fuori dalla sicurezza nazionale, per le aziende degli Stati Uniti. In sintesi: nessuna lista è onnipotente e autosufficiente.
Il nostro obiettivo, come dimostrato il 7 ottobre, è quindi quello di implementare controlli a livello nazionale. Dobbiamo essere più intelligenti sulle tecnologie in cui siamo più avanti rispetto alla Cina. Sono in grado di fare cose molto dannose e noi vogliamo impedire all’intero Paese l’accesso a questa classe di apparecchiature. Questo è un esempio di come stiamo innovando il nostro approccio per far fronte alla minaccia, perché se ci si limita a un approccio di tipo «acchiappa la talpa», sappiamo che non appena un’azienda finisce nell’elenco, la Cina creerà un’altra filiale nel giro di una settimana.
Penso che stiamo diventando più seri per quanto riguarda i controlli a livello nazionale e, non lo dirò mai abbastanza, dobbiamo diventare ancora più seri nel lavorare con i nostri alleati. Non va bene se neghiamo qualcosa alla Cina e i giapponesi o i tedeschi vendono loro componenti per realizzare strumenti EUV (litografia ultravioletta estrema). Dobbiamo quindi agire più seriamente, in modo che sia più difficile. Niente è perfetto: i cinesi faranno di tutto per trovare scappatoie, ma noi dobbiamo essere più veloci, più agili e pensare in modo diverso alle nostre strategie.
Questo è un punto valido. Vorrei rivolgermi all’industria presente. L’industria è allineata con questa prospettiva? Sì, ma il loro obiettivo primario è la generazione di entrate. Sono convinta che la democrazia sia vantaggiosa per le imprese, comprese quelle del settore. Lo stato di diritto qui e nel mondo è positivo per le aziende. Potrebbe doverci essere una brutta telefonata agli azionisti, ma a lungo termine vale la pena che lavoriate con noi per difendere la sicurezza nazionale del nostro Paese. Se tra dieci anni non venderete più in Cina, non sarà a causa dei nostri controlli sulle esportazioni, ma perché la Cina vi sta escludendo perché vuole compiere il decoupling, non a causa del mio operato.
Dobbiamo quindi tenere gli occhi ben aperti sulla minaccia rappresentata dalla Cina e collaborare per garantire la forza delle nostre aziende e la protezione della nostra sicurezza nazionale. Sebbene l’industria si sia dimostrata collaborativa e disponibile e le nostre relazioni siano buone, dobbiamo riconoscere la naturale tensione insita nel nostro lavoro.
Per quanto riguarda i controlli sulle esportazioni, vorrei sottolineare la necessità di andare oltre i tradizionali metodi di coinvolgimento del settore. Storicamente, il dipartimento del Commercio traccia una linea di demarcazione. Come abbiamo fatto con Nvidia: abbiamo tracciato una particolare linea di demarcazione. Non sorprende che nel giro di pochi mesi Nvidia abbia rilasciato un nuovo chip appena al di sotto di quella linea di demarcazione. Bene, questo è ciò che fa l’industria, questo è ciò che abbiamo insegnato loro, questo è il modo in cui funziona il controllo delle esportazioni.
Qui arriviamo al cuore della riflessione di Gina Raimondo e al vero dilemma del capitalismo politico degli Stati Uniti. Il segretario al Commercio cerca un nemico che non potrà mai battere: Jensen Huang, co-fondatore e amministratore delegato di NVIDIA, l’azienda divenuta leader dei semiconduttori non solo per una capitalizzazione che l’ha proiettata oltre i 1. 000 miliardi (quello che in inglese si chiama «trillion company») ma anche per i ricavi, almeno in questa fase del 2023, quindi sopra Intel, Samsung e TSMC. La potenza di NVIDIA nell’era dell’intelligenza artificiale non può essere sottovalutata. Inoltre, l’azienda non deve nulla del suo successo ai sussidi e agli incentivi degli Stati Uniti. Jensen Huang, così come gli altri operatori, riconosce l’esistenza della sicurezza nazionale ma vuole continuare a vendere in Cina. Finché il governo degli Stati Uniti porrà limiti tecnici, i tecnici di NVIDIA, con capacità immensamente superiori a quelle molto limitate dei tecnici del governo, sapranno adattarsi a quei limiti, per tenere un mercato e fornire prodotti, perché hanno paura (una paura relativa, vista la potenza di NVIDIA, ma sempre esistente) che decine di aziende in Cina, potenzialmente concorrenti, possano insediarle. È quello che NVIDIA sperimenta già, perlomeno in parte, con Huawei. Questo continuerà ad essere un problema, che non può essere risolto dalla «dottrina Raimondo».
La politica degli Stati Uniti dirà «dobbiamo impedire gli avanzamenti di intelligenza artificiale dell’esercito cinese». Ma NVIDIA spiegherà loro che l’intelligenza artificiale può essere abilitata da qualunque scheda grafica delle loro generazioni attuali, e di quelle precedenti, quindi questo contrasto è destinato a rimanere.
Se arrivano gli ingegneri del dipartimento del Commercio che lavorano per Gina Raimondo a dire a NVIDIA «collaboriamo insieme, lavoriamo per la sicurezza nazionale», a loro sarà sempre riservato il trattamento della battuta resa celebre proprio da Ronald Reagan: «Le parole più terrificanti della lingua inglese sono: Sono del governo e sono qui per aiutare». L’era del capitalismo politico non ha cambiato questo fatto e non lo cambierà perché il governo non saprà mai fare quello che ha saputo fare e che sa fare Jensen Huang.
Questo approccio non è produttivo. Invece, Alan e io stiamo sviluppando un nuovo modo di avere un dialogo continuo con l’industria, in cui i nostri ingegneri possono confrontarsi con i loro ingegneri. Il nostro messaggio è chiaro: vogliamo limitare la tecnologia che può consentire alla Cina di svolgere le attività XYZ. Quindi vi dico che se riprogettate un chip per superare una particolare linea di demarcazione e che permette alla CIna di fare IA, io lo controllerò il giorno dopo. Dobbiamo quindi arrivare a dire all’industria: il nostro obiettivo di sicurezza nazionale è quello di non avere la «salsa speciale» all’AI all’interno del vostro chip, ad esempio, quindi non fatelo e basta.
Si tratta quindi di una nuova discussione, in quanto il semplice tracciare una linea e far lavorare l’ingegnere intorno ad essa è insufficiente. Dobbiamo stabilire un continuo scambio di informazioni con l’industria, in cui comunicare chiaramente le nostre intenzioni e gli effetti desiderati, quasi come l’intenzione del comandante. Dobbiamo instaurare un continuo botta e risposta con l’industria, in cui comunichiamo chiaramente le nostre intenzioni e gli effetti desiderati, quasi come l’intenzione del comandante. Poi, l’industria deve adeguarsi.
Il dipartimento del Commercio è al centro della strategia del Presidente per l’IA. Abbiamo due ruoli. Il primo è quello di negare alla Cina l’accesso alla nostra IA, come discusso in precedenza con il BIS. Tuttavia, ritengo che il nostro ruolo più significativo sia quello di essere proattivi, investendo nell’industria attraverso il Chips Act e collaborando con loro per aiutarli a correre più velocemente in modo da superare la Cina.
Circa un mese fa, mi sono recata all’Istituto per la sicurezza dell’IA presso il dipartimento del Commercio con l’obiettivo di collaborare con l’industria, il Congresso e i responsabili politici per determinare i guard rail necessari. Vale la pena notare che nella Silicon Valley esiste una prospettiva che favorisce la filosofia del «move fast and break things». Quando si ha a che fare con l’IA, rompere le cose non è un’opzione, perché è pericoloso.
Il chiaro riferimento è al famoso motto di Facebook «move fast and break things» e ai danni che ha generato. Ma è rivolto anche all’attuale dibattito sulle regole dell’intelligenza artificiale, e la posizione di influenti figure della Silicon Valley, a partire da Marc Andreessen, co-fondatore e General Partner della società di venture capital Andreessen Horowitz, che manifesta e argomenta una posizione in cui, per creare ricchezza e trainare l’innovazione, le aziende del motore tecnologico americano devono essere lasciate in pace dal governo.
Dobbiamo quindi trovare un equilibrio di guard rail, assicurandoci che questi modelli non finiscano nelle mani di attori non statali e di malintenzionati. Dobbiamo anche assicurarci che i modelli facciano ciò che pensiamo che faranno. È una cosa enorme che persino gli sviluppatori non siano consapevoli di ciò che i modelli possono fare. Quindi serve sicurezza, ma dobbiamo essere molto attenti, perché non possiamo esagerare altrimenti soffochiamo l’innovazione e l’America ha raggiunto la sua posizione di leader grazie all’innovazione e dobbiamo continuare a coltivare questo approccio. L’Europa è molto indietro rispetto a noi, la Cina è ancora indietro. Ancora una volta, è delicato e complicato.
Importante e interessante che Raimondo, anche se cita Germania e Paesi Bassi come potenze dei semiconduttori, ribadisca la questione che gli europei sottovalutano sistematicamente, ovvero l’enorme ritardo europeo sulla tecnologia. Raimondo dice «l’Europa è dietro di noi» sull’intelligenza artificiale e in questo modo esprime una posizione pressoché unanime nel dibattito degli Stati Uniti, e che Eric Schmidt a Harvard in dialogo con Graham Allison ha espresso molto nettamente l’11 ottobre 2023, deridendo sostanzialmente l’Europa per il suo approccio all’intelligenza artificiale, privo di capacità industriale.
Lo dico: quando mi guardo allo specchio, mi chiedo costantemente come posso gestire un dipartimento del Commercio più innovativo nell’era dell’IA. Penso che tutti i membri del governo debbano farlo. Il governo in generale è troppo lento nel capire come acquistare software, come acquistare l’IA e come utilizzare positivamente l’IA in ciò che facciamo. E in qualche momento penso ancora un po’ che ci troviamo di fronte a un gioco a somma zero: cosa vogliamo fare: rendere possibile l’innovazione e l’industria o proteggere la nostra sicurezza nazionale? È un modo di pensare antiquato. Non possiamo avere questo gioco a somma zero. Dobbiamo fare entrambe le cose: far sì che l’industria possa continuare a superarsi per innovazione e proteggere la nostra sicurezza nazionale.
Non vogliamo essere il minimo comune denominatore. Siamo un Paese che dà valore alla privacy, ai diritti, ai diritti umani. Nulla di tutto ciò sta cambiando. Quindi possiamo fare entrambe le cose. È questo che rende grande l’America. Possiamo fare entrambe le cose e le faremo. Dobbiamo investire in ricerca e sviluppo, formazione professionale e capacità tecnica, collaborando con l’industria per promuovere l’innovazione. Inoltre, dobbiamo implementare dei guardrail per evitare di impegnarci in pratiche non etiche e per proteggere la nostra tecnologia.
Lo spionaggio sponsorizzato dallo Stato per avere accesso alla nostra tecnologia è reale, ma dobbiamo sviluppare un nuovo modello per affrontare la minaccia che la Cina rappresenta. Dobbiamo avere un nuovo modello di collaborazione tra il dipartimento del Commercio e il Pentagono, tra il governo e l’industria, tra le università e la base industriale della difesa. Deve essere un modello più moderno se vogliamo affrontare le sfide necessarie.
In questo passaggio del suo intervento, Raimondo fa riferimento al «nuovo modello» di cui c’è bisogno a suo avviso per fare fronte alla minaccia cinese. Siccome la minaccia cinese è in continua evoluzione, perché usa le capacità industriali e di ecosistema, nel rapporto col governo, per adattarsi ai controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, allora gli Stati Uniti non possono avere un modello di capitalismo politico a silos, dove ogni attore del sistema persegue solamente i suoi interessi, ma devono lavorare sull’integrazione: tra il Commercio e il Pentagono, appunto, ma anche tra pubblico e privato e nel circolo della comunicazione tra le aziende della difesa e le capacità del mondo della ricerca e dell’università.
A questo punto, da un giorno all’altro. Ho un’intera squadra a casa che sta lavorando in questo momento e mi sono messa in contatto con tutti loro stamattina presto. Lo dico in tutta serietà: sono entusiasta di fare un annuncio prima della fine dell’anno, con un flusso continuo di annunci previsti per il primo trimestre o la prima metà del prossimo anno.
Il dipartimento del Commercio, al momento dell’approvazione della legge, non era attrezzato per gestire questo compito. Di conseguenza, abbiamo dovuto licenziare 110 dipendenti eccezionali, tra cui alcuni dei migliori investitori, analisti del mercato del credito, analisti industriali e ingegneri d’America. Come già accennato, la tempistica dovrebbe essere soddisfacente. Abbiamo costruito tutto questo partendo da zero e sono estremamente orgogliosa del lavoro di alta qualità che stiamo svolgendo per proteggere il denaro dei contribuenti.
Voglio dire questo, soprattutto ai membri del pubblico che potrebbero fare domanda per i fondi del Chips Act: vi darò delusioni, perché i fondi non sono sufficienti. Abbiamo solo 39 miliardi di dollari per questi incentivi alle imprese e io ho una missione di sicurezza nazionale da onorare.
Sì, vogliamo creare posti di lavoro in America, sì, abbiamo bisogno della produzione in America. Fondamentalmente, questa è un’iniziativa di sicurezza nazionale. Oggi gli Stati Uniti d’America non producono chip all’avanguardia sulle nostre coste. Avete citato Nvidia: tutti i loro chip sono prodotti a Taiwan. Tutti. Non c’è bisogno di dire a nessuno dei presenti i rischi legati a Taiwan o alla Cina. Quindi, alla fine della giornata, farò del mio meglio per allungare questo capitale, essere creativo e dare a tutti un buon numero. Ma alla fine della giornata, per poter dormire la notte, devo soddisfare la missione di sicurezza nazionale e questo significa assicurarci di produrre abbastanza chip Leading Edge, di avere abbastanza packaging avanzato, abbastanza chip maturi per la base industriale della difesa negli Stati Uniti d’America, è una missione di sicurezza nazionale che dobbiamo realizzare con questo denaro.
Ancora una volta ha colto nel segno. Non possiamo muoverci abbastanza velocemente. Non so se e quando la Cina farà una mossa su Taiwan e per molti versi non posso verificarlo se il nostro dipartimento della Difesa fa uno straordinario lavoro di deterrenza. Quello che posso controllare è la velocità con cui corriamo in America. Quindi devo pensare al peggio e andare il più veloce possibile, ed è per questo che inizieremo a far circolare questi soldi all’inizio del prossimo anno. Ci stiamo lavorando.
Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutte le aziende marittime presenti che hanno voluto partecipare. Abbiamo partner fantastici che lavorano con noi in modo collaborativo. Non si tratta semplicemente di presentare domande e ricevere risposte. C’è un continuo andirivieni tra noi, mentre discutiamo i loro progetti e come possono essere perfezionati per soddisfare le nostre esigenze di sicurezza nazionale. Per questo motivo ho citato l’Advanced packaging come esempio. Sono molto soddisfatto della situazione e il nostro atteggiamento è chiaro. Ne abbiamo bisogno per la sicurezza nazionale dell’America, quindi cerchiamo di determinare il modo più rapido ed efficiente per raggiungere l’obiettivo e portarlo a termine.
Sicuramente, nei settori delle biotecnologie, dei modelli di IA, dei prodotti di IA, del cloud computing e del supercalcolo, la risposta è sì. Ancora una volta, man mano che la tecnologia diventa sempre più avanzata e l’intelligenza artificiale ne guida lo sviluppo, credo che il BIS diventerà presto – se non lo è già – il posto più entusiasmante in cui lavorare nel governo federale. La nostra attenzione si concentrerà su come far progredire e controllare efficacemente l’IA e tutto ciò che ne deriva, per avere successo.
Il Bureau of Industry and Security, un tempo un’oscura agenzia del dipartimento del Commercio dedicata in prevalenza ai controlli sulle esportazioni che non interessavano a nessuno, è stata catapultata al centro dell’attenzione dal conflitto tra Stati Uniti e Cina, come ho mostrato dal 2018 nelle mie analisi sul capitalismo politico (prima, quindi, del ruolo ancora più centrale portato dalle nuove azioni dell’amministrazione Biden e dai controlli sulle esportazioni del 7 ottobre 2022 e dalle mostre conseguenti). Anche questo punto, tuttavia, merita un «reality check»: il BIS è veramente un posto di lavoro «eccitante» per i giovani americani, ad esempio per i grandi talenti della tecnologia? Esiste davvero qualcuno che vuole lavorare per il BIS e non per NVIDIA o per SpaceX? Non è facile capirlo. Sicuramente, il BIS ha avuto per anni un sito con una grafica assolutamente penosa e poco comprensibile e proprio in questo periodo la grafica viene rifatta, quindi preparando probabilmente un ruolo pubblico un po’ più ampio, nonostante sia di fatto un pezzo di «Stato profondo»
La comunicazione è fondamentale perché la sua mancanza può portare rapidamente a un’escalation, a tensioni e a errori di calcolo. Tuttavia, è importante non confondere la comunicazione con la debolezza o la mollezza. C’è una notevole opportunità economica con la Cina che non danneggerà la nostra sicurezza nazionale e genererà posti di lavoro negli Stati Uniti – una realtà che dovremmo considerare.
È fondamentale notare che la reciprocità è fondamentale: se chiedono l’accesso ai nostri mercati, devono fornire l’accesso ai loro. Se Unionpay e Alipay funzionano in America, MasterCard e Visa dovrebbero essere autorizzate in Cina. In condizioni di parità, competeremo e commerceremo, e questo è positivo. Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, dobbiamo essere consapevoli della minaccia e prenderla sul serio. È la più grande minaccia che abbiamo mai affrontato e dobbiamo essere all’altezza della sfida. La comunicazione è fondamentale e dobbiamo collaborare su questioni come la finanza e il cambiamento climatico. Non desideriamo tensioni o escalation, e il mondo conta su di noi per gestire in modo responsabile le nostre relazioni con la Cina ed evitare un’ulteriore escalation. Dobbiamo assolutamente fare tutto il possibile.
Ma non illudetevi, la Cina non è nostra amica e dobbiamo tenere gli occhi ben aperti sulla portata di questa minaccia.
Raimondo conclude l’intervento sulla sua «dottrina» ribadendo che c’è una profonda differenza tra il fatto che Biden e Xi Jinping si parlano e hanno canali di comunicazione, e l’aspetto strutturale, che è la competizione sistemica tra Cina e Stati Uniti. Per questo, con un linguaggio netto, dice che «la Cina non è nostra amica». Pertanto, gli elementi di riduzione della tensione e di comunicazione che si realizzano attraverso i contatti dei leader non possono cambiare questa realtà strutturale.
L’unica cosa che vorrei dire, a parte il fatto che sono davvero felice di essere qui, è una sfida a tutti noi a pensare in modo diverso. La tecnologia sta cambiando a un ritmo che non abbiamo mai visto e questo significa che dobbiamo cambiare il modo di pensare alla spectrum strategy, non può essere un gioco a somma zero, dobbiamo rendere disponibile questa tecnologia in modo da poter innovare il mondo e assicurarci che il Dipartimento della Difesa abbia ciò di cui ha bisogno. Abbiamo già parlato di IA: dobbiamo cambiare il modo in cui ci procuriamo la tecnologia, dobbiamo cambiare il modo in cui assumiamo, come possiamo ottenere gli ingegneri e i tecnici geniali di cui abbiamo bisogno per svolgere il lavoro, come possiamo attrarre e reclutare giovani nel governo, per svolgere il lavoro di cui abbiamo bisogno. E questo vale per tutti noi. Voglio dire, qui sta la sfida, l’eccitazione, ma è tempo di aprirci a nuovi orizzonti e di mettere in discussione il modo in cui abbiamo finora operato su tutti i livelli, se vogliamo affrontare la minaccia che la Cina rappresenta e se vogliamo fare ciò che deve essere fatto con questa tecnologia.
E se l’Europa stesse commettendo un errore cercando di emulare i modelli di capitalismo politico emersi in Cina e negli Stati Uniti? Questa è la seria domanda posta da David Edgerton in questo testo, che considera come l’economia del quotidiano – la Foundational Economy – potrebbe essere molto più incisiva nel migliorare lo standard di vita degli europei nel medio e lungo termine.
Dobbiamo sviluppare le industrie del futuro: intelligenza artificiale, quantistica e biotecnologia! Se non ci dotiamo di una strategia industriale ambiziosa e forte, saremo relegati dietro gli Stati Uniti e la Cina. Questo è il mantra che si ripete oggi in Europa, nel Regno Unito e nell’Unione Europea. Nel Regno Unito, questi mantra sono ripetuti in particolare da chi propone la visione del Paese come grande potenza globalizzata dopo l’uscita dall’Unione Europea – in altre parole, i sostenitori della «Global Britain». Nel continente, queste idee sono al centro del progetto di Europa geopolitica. La volontà di potenza si combina con la politica economica. Il capitalismo politico, per usare la terminologia proposta da Alessandro Aresu, esercita quindi un vero fascino a Londra, Parigi e Bruxelles.
Vorrei confrontare quello che considero un approccio standard al capitalismo politico e il suo strumento principale, ossia la strategia industriale, con un approccio all’economia del quotidiano1 volto a rispondere alle sfide del miglioramento della vita delle persone e della decarbonizzazione. Esiste una profonda differenza tra questi due approcci, non solo in termini di obiettivi, ma anche di teoria, di modo di conoscere e di agire2. Qualsiasi sovrapposizione o allineamento tra loro è quindi difficile.
La differenza principale è tra questi programmi: da una parte, una politica di crescita del PIL, attraverso la stabilità finanziaria e una politica industriale incentrata sull’innovazione e sulle start-up, nonché una politica fiscale e di spesa, integrata da un’innovazione guidata dal settore privato per aumentare l’efficienza del settore pubblico; dall’altro, una politica incentrata sugli imperativi fondamentali di una vita dignitosa per le famiglie, che include questioni di distribuzione, nonché l’accesso a beni e servizi, sia pubblici che privati, sia personali che infrastrutturali. L’obiettivo di questa politica non è quindi quello di aumentare il PIL o il peso geopolitico, ma di migliorare la vita delle persone.
La politica o strategia industriale è tornata di moda. La tesi principale a loro favore è che la globalizzazione è finita, che la lotta contro il cambiamento climatico richiede un’azione industriale diretta, così come la sfida posta dalla Cina e forse anche possibili pandemie. Si tratta di una politica che si concentra in modo fantasioso su una parte dell’industria manifatturiera, sulla ’tecnologia’ e sulla competizione internazionale, con l’obiettivo di essere leader mondiale, o addirittura di imporsi sul resto del mondo.
La maggior parte delle riflessioni sulla strategia industriale presuppone che, in termini assoluti, questo sia un bene, che produca di per sé risultati positivi. Ma ovviamente questo dipende dalla politica e dal contesto. La politica industriale viene presentata come una buona scelta politica per tutti i Paesi. Ma ciò che può valere per gli Stati Uniti o la Cina può non valere, ad esempio, per il Regno Unito o l’Unione Europea. Infatti, se tutti i Paesi, grandi o piccoli, ricchi o poveri, seguissero la stessa strategia, applicheremmo una ricetta per un fallimento massiccio piuttosto che per un successo generale. È quindi piuttosto preoccupante che molti discorsi sulla politica industriale si basino sull’idea di imitare gli Stati Uniti.
Per di più, queste politiche si basano su un’idea che è falsa e inadeguata. Il presupposto è che l’Europa – sia il Regno Unito che l’Unione Europea – sia, o meglio dovrebbe e potrebbe essere, una superpotenza scientifica e che le nuove industrie si svilupperanno su scala massiccia se le cose saranno finalmente organizzate correttamente. Questo è particolarmente evidente nel Regno Unito, dove il potere dell’innovazione è sopravvalutato, ma dove l’intero modello di trasformazione nazionale attraverso l’innovazione ha poca credibilità.
Quanto controllo può sperare di avere un Paese che rappresenta solo il 2% della spesa mondiale in R&S, ma anche della produzione manifatturiera globale, e i cui livelli di produttività non si avvicinano ai leader mondiali? Prendiamo il caso di British volt, una start-up che avrebbe dovuto incarnare il genio britannico nel settore delle batterie e battere l’industria asiatica, che è molto consolidata e più che dominante in questo settore. Questo progetto è un esempio perfetto di una politica basata ossessivamente sull’idea che bisogna insistere fino a quando non si ottiene il risultato giusto. In questo caso, non è andata così: il progetto si è fermato nell’agosto 2022 e la start-up è fallita nel gennaio 2023, prima di essere rilevata da un acquirente australiano3.
Questo non significa che il modello di start-up non abbia dei meriti. Il vaccino britannico AstraZeneca, ad esempio, è stato sviluppato dall’Università di Oxford. Ma è in India che è stato prodotto su larga scala per i Paesi poveri. Quindi, nonostante questa innovazione interna, il Regno Unito è stato un importatore netto di vaccini, soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. E il vaccino di AstraZeneca non era nemmeno il principale vaccino utilizzato nel Regno Unito. Il successo del Regno Unito nel campo dell’immunizzazione si è quindi basato su acquisti molto rapidi di diversi tipi di vaccini da tutto il mondo, consentendo di gestire il rischio e l’incertezza e di sfruttare l’esperienza globale. Il Regno Unito ha acquistato vaccini sia da start-up che da grandi aziende farmaceutiche. In altre parole, nel campo delle batterie come in quello dei vaccini, il Regno Unito dipende dal resto del mondo.
Al di là della retorica, va notato che alcune misure chiave di politica industriale hanno comportato il sostegno alle aziende straniere. A luglio, il Governo ha annunciato un sostegno di 500 milioni di sterline per il gruppo automobilistico indiano Tata Motors, con l’obiettivo di costruire una fabbrica di batterie utilizzando una tecnologia di origine cinese. Sono stati concessi importanti sussidi a EDF per la costruzione di una centrale nucleare con tecnologia francese e a un’azienda indiana di produzione di acciaio (sempre Tata) per la conversione a forni elettrici.
Questa esperienza e le lezioni del passato offrono alcuni insegnamenti salutari in termini di possibilità di una strategia industriale e di innovazione.
In primo luogo, è molto più facile perseguire una strategia industriale di autonomia nazionale che una strategia di conquista dei mercati mondiali. Il Regno Unito è stato il principale produttore di energia nucleare al mondo negli anni ’70, con reattori di progettazione britannica, ma erano venduti per l’esportazione. La Francia, invece, ha sviluppato un grande insieme di reattori, ma utilizzando la tecnologia americana su licenza.
In secondo luogo, essere indipendenti in un settore non rende indipendenti o sovrani in generale. Che senso ha per il Regno Unito progettare e produrre i propri aerei se poi dipende dalle testate nucleari e dai missili americani? Perché mantenere un’industria nazionale per progettare e produrre ali di aerei, ma non semiconduttori? Perché non essere autosufficienti nel campo delle armi e delle navi?
In terzo luogo, che cos’è la sovranità in un’industria o in una tecnologia? Significa utilizzare, mantenere, produrre o progettare? A che punto possiamo considerarci autosufficienti? Sarebbe chiaramente assurdo, e persino impossibile, per un Paese o un gruppo di Paesi come l’Unione Europea, progettare e produrre tutto ciò che viene consumato al loro interno. Se così fosse, quale dovrebbe essere l’obiettivo di produzione?
In quarto luogo, la sovranità significa che vogliamo solo aziende nazionali sul nostro territorio? Vogliamo che queste aziende non sviluppino alcuna capacità produttiva all’estero? Oppure la sovranità industriale significa commerciare con gli amici, con aziende amiche che operano in Paesi amici? Se sì, di quali amici e di quale tipo di interdipendenza stiamo parlando? Tutto questo fa un’enorme differenza.
La gamma di politiche industriali che emerge dalle varie risposte a queste domande è immensa. La maggior parte è anche molto costosa. La più economica, quella che è stata applicata per decenni e rimane la più popolare – il sostegno pubblico all’innovazione e alle start-up – non è stata un grande successo, e non dobbiamo aspettarci che lo diventi improvvisamente.
E anche se questo tipo di politica, o un’altra più plausibile e più costosa, dovesse funzionare, è importante riconoscerne i limiti. Innanzitutto, la politica industriale riguarda solo una parte molto piccola dell’economia. Un modo molto migliore di pensare all’economia è quello di partire dalle aree in cui la maggior parte delle persone effettivamente lavora e consuma, e chiedersi cosa si debba fare per cambiare le cose in un tempo ragionevole. Se vogliamo garantire posti di lavoro di qualità, dobbiamo riconoscere che l’80% dell’economia è costituito da servizi e che molti di questi lavori possono essere migliorati e meglio retribuiti. Se vogliamo davvero produrre batterie in casa – o acciaio, o altro – dobbiamo pagare per questo. Il punto di partenza di queste due politiche è radicalmente diverso.
Il nuovo libro del gruppo della Foundational Economy rappresenta uno degli sviluppi più importanti dell’economia politica da qualche tempo a questa parte4. Suggerisce nuovi modi di pensare e concepire il mondo. Suggerisce anche nuovi modi di agire, molto diversi da quelli attualmente proposti dai partiti politici.
Gli autori criticano la politica di «crescita del PIL tramite la strategia industriale». Quelli che chiamano tecno-centristi e i sostenitori del libero mercato vogliono entrambi una crescita del PIL più elevata e salari più alti (cioè una maggiore produttività). I tecno-centristi favoriscono le azioni dal lato dell’offerta a favore dell’innovazione e degli imprenditori. Questi programmi sono integrati da misure per ridurre le differenze di produttività regionali, ovviamente incoraggiando l’innovazione e l’imprenditorialità locale. Si tratta dell’applicazione a livello regionale di un programma che ha sostanzialmente fallito a livello nazionale e che è ancora più probabile che fallisca in futuro, dati i vincoli delle emissioni di carbonio. Si tratta inoltre di un programma che non affronta gli elementi essenziali dell’economia odierna e delle sue sfide.
Quali sono dunque gli elementi di questo nuovo approccio? In primo luogo, c’è una rinnovata attenzione alla famiglia piuttosto che all’individuo, alla distribuzione dei redditi familiari e a come questa sia cambiata nel tempo. Questo porta alla consapevolezza che, in linea di massima, la famiglia monoparentale oggi implica la povertà per le persone a carico, e che se dovessimo tornare ai livelli di disuguaglianza di reddito degli anni ’70, la maggior parte delle famiglie oggi sarebbe notevolmente più ricca. In altre parole, viviamo in un mondo in cui il salario familiare è scomparso e il capitale ha conquistato una fetta molto più grande della torta del PIL.
In secondo luogo, quello che gli autori chiamano empirismo fondamentale mostra l’importanza dell’acquisto di servizi essenziali (da internet agli autobus al cibo) e di servizi gratuiti come la salute e l’istruzione, che per le persone più povere hanno un peso maggiore rispetto ai salari o alle indennità, così come le infrastrutture sociali che non possono essere acquistate. Un’economia degna di questo nome non deve limitarsi al reddito degli individui (anche se aggregato), ma guardare alle strutture in cui le persone vivono (le famiglie) e alle molteplici infrastrutture che consentono loro di condurre una vita dignitosa. Questo mostra una serie di problemi sfaccettati, che vanno ben oltre la stagnazione del PIL pro capite. Mostra gli effetti del calo dei salari e delle prestazioni sociali, gli sforzi di riduzione dei costi sulla qualità e la quantità dei servizi e il caos causato dalla tendenza estrattivista di gran parte del capitalismo contemporaneo, in particolare in relazione alla proprietà della casa e al finanziamento degli alloggi. Evidenzia inoltre l’importanza della qualità dei servizi, sia pubblici che privati, da cui dipendiamo.
Quali sono le implicazioni per la politica economica? Innanzitutto, non è sufficiente concentrarsi sulla crescita del PIL (anche tenendo conto della ridistribuzione). Dobbiamo pensare meno a queste astrazioni e più alla fornitura di beni e servizi concreti e alla qualità di vita reale delle persone. Dobbiamo pensare in termini di principi classici della socialdemocrazia, che puntano alla massimizzazione dell’efficacia, dell’efficienza e dell’uguaglianza allo stesso tempo. Ciò richiede un’azione collettiva per affrontare gli interessi privati e settoriali che insistono solo sull’efficienza locale e non si preoccupano di un’efficacia o di un’uguaglianza più ampie. Un calcolo nazionale più ampio che tenga conto di queste altre dimensioni è al centro degli approcci socialdemocratici. In secondo luogo, abbiamo bisogno di questo tipo di approccio quando pensiamo alla decarbonizzazione, che richiede chiaramente un’azione incentrata sulla trasformazione delle infrastrutture. Ciò influisce direttamente sui costi delle famiglie e sulla qualità dei servizi, oltre che sui collegamenti fisici con le famiglie e le apparecchiature domestiche. Dobbiamo prendere in considerazione direttamente l’interconnessione dei sistemi di riscaldamento, di trasporto e di altro tipo, e la sfida della transizione senza imporre costi insopportabili. La strategia industriale non tiene in conto nulla di tutto questo. La decarbonizzazione dell’elettricità e delle automobili, che è al centro della strategia industriale, è la parte più facile. Per il resto, avremo bisogno di un intervento coordinato e di investimenti su una scala ancora più ampia di quella che ha caratterizzato la straordinaria trasformazione dell’infrastruttura energetica europea dagli anni ’50 agli anni ’70. Non possiamo pensare semplicemente a un programma o a sovvenzioni per i produttori di nuove attrezzature, o a una rivoluzione industriale verde, o a un piano per nuovi programmi di ricerca e sviluppo e nuove imprese.
> Un’economia degna di questo nome non dovrebbe limitarsi al reddito degli individui (anche in aggregato), ma dovrebbe considerare le strutture in cui le persone vivono (famiglie) e le molteplici infrastrutture che consentono loro di condurre una vita dignitosa.
Quali sono le implicazioni per la concezione dell’industria in generale? Prima di tutto, dobbiamo porre fine alla nostra ossessione per l’industria come esisteva in passato. Questo ci aiuterà a concentrarci meglio sulla realtà della produzione, non solo sui settori più visibili, riconoscendo, ad esempio, l’importanza della produzione alimentare al suo interno. Dovremmo anche concentrarci su ciò che produciamo e consumiamo, e sulla sua qualità. Dovremmo anche intervenire sulla qualità, sui costi e sui profitti spaventosi dell’industria edilizia, ad esempio. Potremmo concentrarci sull’installazione, la manutenzione e la riparazione di nuove infrastrutture e preoccuparci meno della provenienza di acciaio, cavi e turbine. Ma se lo facciamo, deve essere sulla base di un obiettivo ben ponderato.
Ciò suggerisce di concentrarsi seriamente su ciò che funziona bene, piuttosto che su particolari modelli di sviluppo guidati dalla novità. Ad esempio, vale la pena notare l’enorme differenza tra il sistema privato «Test and Trace» nel Regno Unito, che non è riuscito a rintracciare e isolare un solo paziente Covid, e un sistema sanitario pubblico degno di questo nome, implementato sul campo. Allo stesso modo, l’AI e la ricerca biomedica non sono la risposta alla profonda crisi dell’assistenza sanitaria e sociale che stiamo vivendo (a lungo termine, la riduzione della povertà è importante per la salute quanto le innovazioni mediche). Più in generale, ci permette di non concentrarci su una politica di innovazione che probabilmente fallirà, ma su una politica di emulazione e imitazione che ha molte più probabilità di successo.
L’approccio quotidiano implica anche una politica universitaria molto diversa da quella che ha continuamente fallito negli ultimi quarant’anni. La politica di R&S finanziata dallo Stato dovrebbe concentrarsi maggiormente sullo sviluppo di prodotti e processi specifici per le esigenze locali, che non possono essere forniti altrove, e sulla produzione di conoscenze che consentano al pubblico nel suo complesso di pensare e agire meglio, piuttosto che sul sostegno ai venture capitalist e alle grandi imprese. Più in generale, dobbiamo generare nuove forme di competenze, in particolare quelle economiche, anziché affidarci a esperti con dietro altri interessi. Lo Stato, centrale e locale, deve essere democratizzato e creare nuove forme di competenza.
Infine, concentrandoci sulle persone, sulle famiglie, sulla vita quotidiana, possiamo allontanarci dalle fantasie che ostacolano una politica sensata. Ciò che emerge dall’approccio dell’economia del quotidiano è la necessità di capire dove siamo realmente, e questo include non solo il problema, ma anche le possibili soluzioni. Questo è importante perché troppe delle nostre politiche ruotano intorno alla finzione. Abbiamo bisogno di una politica che punti a fare meglio, non a pretendere falsamente di essere la migliore. Abbiamo disperatamente bisogno di una politica più modesta, una politica di miglioramento e di imitazione, più che di una politica di eccessi retorici e peggioramento della miseria sociale. Pensare con l’economia della vita quotidiana ci aiuterà a fare tutto questo.
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La terza dimensione del conflitto economico tra Stati Uniti e Cina è la competizione e il conflitto tra i sistemi economici dei due Paesi1. In che misura il sistema economico cinese è unico rispetto al sistema americano di economia di mercato? A questo proposito, la critica di Dennis Shea, allora ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), è istruttiva. In occasione della riunione del Consiglio Generale dell’OMC tenutasi il 26 luglio 2018, subito dopo lo scoppio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, Denis Shea aveva affermato che «la Cina è in realtà l’economia più protezionista e mercantilista del mondo. Contrariamente alle aspettative dei membri, la Cina non si è mossa verso una più completa adozione di politiche e pratiche basate sul mercato da quando ha aderito all’OMC nel 2001. In realtà, è vero il contrario. Il ruolo dello Stato nell’economia cinese è aumentato». Per quanto riguarda i problemi del sistema economico cinese, ha evidenziato l’intervento del Governo cinese e del Partito Comunista nelle attività economiche e nell’allocazione delle risorse, la capillare presenza di imprese statali, il sistema di economia pianificata simboleggiato dal Piano quinquennale, la politica industriale simboleggiata da Made in China 2025, la creazione di capacità produttiva in eccesso attraverso i sussidi, il danno causato alla proprietà intellettuale da politiche irragionevoli e l’eliminazione dei concorrenti stranieri con lo strumento della politica industriale2.
Sebbene le osservazioni di Shea siano enumerative, possiamo, sulla base di questo indice, evidenziare tre punti sul carattere unico del sistema economico cinese visto dagli Stati Uniti. In primo luogo, il governo cinese dispone di un’enorme capacità di mobilitazione a favore dell’attività economica e per l’allocazione delle risorse. Questo avviene perché la Cina, in quanto Paese socialista, non consente la proprietà privata della terra. Cerca poi, per quanto possibile, di mantenere una forte presenza di imprese statali in aree strategiche come la finanza e l’energia. Inoltre, lo stesso Partito Comunista ha una notevole capacità organizzativa che usa per influenzare le comunità, anche quelle con una popolazione di qualche migliaio di persone. Questa situazione è fondamentalmente diversa dal sistema di economia di mercato degli Stati Uniti, che consente la proprietà privata di quasi tutti i fattori di produzione, compresi la terra e il capitale.
In secondo luogo, il governo cinese sta cercando di sfruttare questa forte capacità di mobilitazione per avantaggiarsi nella competizione economica globale, in particolare tramite sussidi industriali. Come vedremo in seguito, l’intervento governativo nell’attività economica segue una sua logica. Tuttavia, per gli Stati Uniti, che hanno adottato il principio di allocazione delle risorse sulla base dei principi di mercato, qualsiasi intervento appare inevitabilmente una distorsione del mercato.
In terzo luogo, il governo cinese ha una forte tendenza a privilegiare alcune imprese con proprietari diversi, al fine di assicurarsi un vantaggio nella competizione internazionale, e non mantiene necessariamente condizioni di parità nella concorrenza. Questa situazione è stata interpretata dagli Stati Uniti come una questione di trattamento discriminatorio rivolto alle aziende straniere – furti di proprietà intellettuale, trasferimento forzato di tecnologia e restrizioni per entrare nel mercato – ma la realtà apprare più complessa. Per attirare le imprese, ci sono anche casi di trattamento preferenziale verso le aziende straniere o, per proteggere le imprese statali, casi di trattamento discriminatorio delle aziende private locali.
La Cina sta perseguendo seriamente la sua politica industriale dalla metà degli anni 2000.3 Durante questo processo, la Cina ha aumentato in modo significativo il suo sostegno a industrie specifiche in termini di sussidi e fondi governativi di orientamento. Secondo la prudente stima di CSIS, la Cina ha dedicato quasi l’1,8% del suo PIL alla politica industriale nel 2019, più di quattro volte il rapporto osservato dagli Stati Uniti nello stesso periodo4. Dopo l’intensificarsi delle tensioni tra Stati Uniti e Cina nel campo dell’alta tecnologia, Pechino ha iniziato a ricostruire il suo sistema nazionale di innovazione e il ruolo del Governo sta aumentando anche in aspetti che esulano dal puro sostegno finanziario, come il coordinamento delle attività di innovazione. Tuttavia, almeno per i quattro aspetti seguenti, c’è ancora spazio per discutere se queste azioni possano essere considerate contrarie al libero mercato e nocive alla concorreza.
In primo luogo, gli strumenti politici adottati dalla Cina, che si tratti di strumenti di sostegno finanziario, come i fondi governativi di orientamento, oppure di meccanismi di supporto alla ricerca di base o di sforzi per creare consorzi di innovazione, sono stati più o meno replicati nelle politiche industriali dei Paesi sviluppati.
In secondo luogo, le politiche industriali del governo cinese, volte a sostenere le industrie in fase di catch-up o quelle già mature, come la cantieristica navale o l’acciaio, hanno effettivamente distorto i principi del mercato e portato alla formazione di un eccesso di capacità produttiva. Tuttavia, a partire dall’implementazione della nuova strategia di innovazione autonoma nel 2006, il focus della politica industriale si è già spostato sulla creazione di industrie emergenti e sulla costruzione di un sistema nazionale dell’innovazione5. Allo stesso modo, l’ambito dell’intervento governativo si è gradualmente spostato dall’obiettivo tradizionale della politica industriale, cioè proteggere e incoraggiare le industrie nascenti, per mirare ora all’eliminazione degli alti livelli di incertezza e asimmetria informativa insiti nella creazione di nuove industrie e nel processo di innovazione.
In terzo luogo, va notato che c’è ancora una competizione feroce tra i governi locali in qualità di attori principali della politica industriale cinese. Nella creazione di nuove industrie, il comportamento dei governi locali si avvicina di più a quello dei venture capitalist che a quello del settore pubblico. In qualità di operatore effettivo dei fondi di orientamento governativi, il governo locale è stato in grado di svolgere le funzioni di selezione e incoraggiamento proprie dei venture capitalist, e la concorrenza intergovernativa ha anche incoraggiato la competizione tra i cluster industriali. La Cina ha formato diversi consorzi di innovazione locali, che rappresentano un mezzo importante per creare un sistema nazionale dell’innovazione. È molto probabile che la forte concorrenza tra questi consorzi inneschi in futuro una concorrenza attiva in materia di R&D tra le aziende.
In quarto luogo, per quanto riguarda la neutralità della concorrenza, le politiche discriminatorie nei confronti degli investimenti stranieri in termini di protezione della proprietà intellettuale e di trasferimento forzato di tecnologia hanno effettivamente rappresentato un problema. Tuttavia, questi non sono necessariamente i problemi principali per le aziende statunitensi in Cina, e molti indicatori mostrano un miglioramento, come dimostrano i risultati di un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio Americana in Cina6.
Xu Lin, ex funzionario della Commissione per lo Sviluppo e le Riforme, responsabile della negoziazione sui sussidi durante i negoziati di adesione all’OMC, fornisce una valutazione accurata del sistema economico cinese7. Secondo Xu, un profondo intervento governativo è inevitabilmente criticato come strumento che porta ad una concorrenza sleale nel mercato, ma sottolinea che è improbabile che il governo cinese autorizzi la proprietà privata dei terreni o promuova la privatizzazione delle istituzioni finanziarie e delle imprese statali. Xu suggerisce che il Governo cinese dovrebbe limitare il più possibile il suo intervento diretto nell’allocazione delle risorse nell’area dei beni pubblici e allocarle piuttosto in altre aree, seguendo standard trasparenti e aperti e secondo un processo competitivo. In una certa misura, attraverso il meccanismo di convergenza istituzionale, la riforma istituzionale del governo cinese sta andando in questa direzione.
Se il conflitto tra Stati Uniti e Cina continua, come si evolveranno in futuro la concorrenza e il conflitto tra i sistemi economici dei due Paesi? Come si trasformerà la divisione internazionale del lavoro, che è stata costruita attorno a due Paesi con istituzioni economiche diverse? A questo proposito, va sottolineato che il meccanismo della convergenza istituzionale, ossia l’aumento graduale del numero di aspetti del proprio sistema che sono simili a quelli dell’altro Paese, è decisamente all’opera tra le parti coinvolte nella competizione intersistemica.
Questo meccanismo è stato suggerito da Jan Tinbergen, il primo vincitore del Premio Nobel per l’Economia, negli anni ’60, con il nome di teoria della convergenza. Secondo Tinbergen, i campi comunista e capitalista, sotto la pressione di un’intensa competizione intersistemica, devono apprendere i punti di forza del sistema altrui per compensare le debolezze del proprio. Di conseguenza, nel blocco comunista sono penetrati elementi dell’economia di mercato, mentre nelle economie libere si è sviluppato il settore pubblico, e i due sistemi hanno avuto una graduale tendenza a convergere8.
Cui Zhiyuan dell’Università Tsinghua ha pubblicato un articolo intitolato «Decoupling or Convergece?» sul China Daily dell’8 ottobre 2019 e, citando la teoria della convergenza di Tinbergen, ha sottolineato che esiste una possibilità di convergenza istituzionale tra Stati Uniti e Cina. Cui ha indicato due casi cinesi che supportano la teoria della convergenza: (1) le misure per gestire l’eccesso di capacità produttiva e (2) il passaggio dalla «gestione dell’impresa» alla «gestione del capitale» durante la terza sessione plenaria del 18° Comitato Centrale sulla riforma della gestione degli asset di proprietà dello Stato. Come esempi da parte statunitense, ha citato invece le discussioni sulla nazionalizzazione del 5G negli Stati Uniti e la nuova politica industriale statunitense9.
Sebbene le idee di Tinbergen, combinate con le analisi di Cui, siano davvero illuminanti, è importante notare alcune sottili e importanti differenze nei meccanismi di convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e quelli tra Stati Uniti e Cina. In primo luogo, i sistemi economici adottati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica erano fondamentalmente diversi. D’altra parte, il sistema cinese, noto come «capitalismo di Stato» – il nome ufficiale in Cina è piuttosto «economia socialista di mercato» – pur enfatizzando il ruolo dello Stato, ha naturalmente anche un aspetto capitalista o di economia di mercato. Come Paese in via di sviluppo, la Cina ha tratto molto dalle istituzioni e dall’esperienza delle economie di mercato avanzate, in particolare da quella statunitense10. Per quanto riguarda il sistema dell’innovazione, che è al centro del sistema economico generale, la Cina ha incorporato attivamente le istituzioni e le esperienze degli Stati Uniti e di altri Paesi avanzati attraverso il rimpatrio di scienziati e ingegneri, al fine di ricostruire un sistema nazionale dell’innovazione. Con l’intensificarsi del conflitto tra Stati Uniti e Cina, è probabile che Pechino impari di più da Washington, soprattutto nel campo dell’innovazione.
D’altra parte, gli Stati Uniti non avevano inizialmente motivo di indagare sul sistema economico cinese. In risposta però alla sfida di Pechino, e consapevoli delle pratiche e del comportamento economico della Cina, gli Stati Uniti sono stati gradualmente costretti a prendere provvedimenti per rafforzare il loro intervento governativo.
In effetti, i recenti commenti dei politici statunitensi sulla politica industriale sono stati degni di nota proprio per la loro consapevolezza sulla Cina. Ad esempio, nell’articolo «L’America ha bisogno di una nuova filosofia economica», pubblicato su Foreign Policy nel febbraio 2020, prima del suo insediamento, il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e la sua coautrice Jennifer Harris hanno sottolineato che «Difendere una politica industriale (in senso lato, le azioni governative per rimodellare l’economia) era una volta considerato imbarazzante – oggi dovrebbe essere invece visto come qualcosa di praticamente ovvio» e che «le aziende statunitensi continueranno a perdere terreno nella competizione con le aziende cinesi se Washington continuerà a fare così tanto affidamento sul settore privato». L’articolo chiariva anche che, per affrontare la sfida cinese, era necessario adottare politiche industriali e rafforzare il ruolo del Governo nel processo di innovazione11. La rinnovata importanza degli investimenti pubblici e della strategia industriale nella definizione della politica economica sotto l’amministrazione del Presidente Biden è stata recentemente illustrata da Brian Deese sulle nostre colonne.
Per quanto riguarda le azioni effettive da parte del governo degli Stati Uniti, le proposte di legge per incoraggiare le strutture di produzione di semiconduttori a ristabilirsi sul mercato interno erano già state prese in considerazione sotto l’amministrazione Trump. E sotto l’amministrazione Biden, è stato approvato il CHIPS and Science Act per consentire un sostegno massiccio nella forma di sussidi. Queste azioni sono considerate molto attente alla politica cinese per l’industria dei semiconduttori. Per quanto riguarda lo sviluppo del settore dell’AI, il rapporto pubblicato dalla Commissione di Sicurezza Nazionale sull’intelligenza artificiale sottolinea chiaramente che la concorrenza deve essere inquadrata dallo Stato per sviluppare l’industria12. Nel campo delle tecnologie verdi, un’altra area considerata essenziale sia dal Governo statunitense che da quello cinese, nell0agosto del 2022 il Congresso ha adottato una massiccia politica di sovvenzioni verdi, l’Inflation Reduction Act, che mira ad aumentare massicciamente la produzione di veicoli, pannelli solari fotovoltaici, energia verde e idrogeno negli Stati Uniti, attraverso le sovvenzioni.
Un altro punto importante che differenzia la situazione attuale dalla convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica è che, data la profonda interdipendenza tra gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultima ha interesse a mantenere la divisione internazionale del lavoro che esiste con gli Stati Uniti.
Ciò si riflette chiaramente in una serie di riforme istituzionali dell’ambiente di investimento per le aziende straniere in Cina dal 2010. Come contromisura ai negoziati dell’Accordo di Partenariato Trans-Pacifico guidato dagli Stati Uniti, la Cina ha introdotto nel 2013 un sistema di liste negative in via sperimentale in quattro zone pilota di libero scambio, tra cui Shanghai. Questo sistema ha abolito il sistema della lista positiva, che designava individualmente quali industrie erano autorizzate ad entrare e consentiva alle aziende straniere di entrare in tutte le industrie non presenti nella lista. Nel 2017, il sistema della lista negativa è stato esteso all’intero Paese e le barriere all’ingresso delle aziende straniere nel mercato cinese sono state rapidamente abbassate. Con l’intensificarsi della disputa tra Stati Uniti e Cina, la parte cinese ha continuato a implementare le riforme istituzionali, tenendo conto della pressione degli Stati Uniti. Dopo la guerra commerciale del 2018, nel dicembre dello stesso anno, il governo cinese ha sottoposto a discussione un progetto di legge sugli investimenti esteri, che è stato adottato nel marzo 2019 ed è entrato in vigore nel 2020, in una data insolitamente precoce. Nella prima fase dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina, firmato nel gennaio 2020, il governo cinese ha anche adottato misure per adeguare le istituzioni economiche, in particolare eliminando i trasferimenti forzati di tecnologia e le barriere industriali discriminatorie nei settori bancario, dei titoli, delle assicurazioni e dei pagamenti elettronici. Il governo cinese ha anche fatto alcuni compromessi sull’aggiustamento economico
I risultati della serie di riforme istituzionali sono chiaramente illustrati nel «China Business Climate Survey Report», pubblicato annualmente da AmCham China. Come mostra la tabella qui sopra, la valutazione delle aziende associate ad AmCham China sul clima degli investimenti è peggiorata fino al 2016, ma è migliorata significativamente a partire dal 2017, in seguito all’introduzione del sistema di liste negative a livello nazionale. Anche la percentuale di aziende statunitensi che ritengono di essere trattate in modo equo – un indicatore di neutralità competitiva – è migliorata costantemente. Nello stesso sondaggio, una delle aspettative che le aziende associate esprimevano al Governo statunitense era quella di «impegnarsi per creare condizioni di parità per le aziende statunitensi che operano in Cina». Anche la percentuale di aziende che hanno selezionato questa voce è diminuita, passando dal 47% nel 2018 al 27% nel 2021.
Questo meccanismo di convergenza istituzionale è importante per il futuro della divisione internazionale del lavoro, che è stata costruita intorno agli Stati Uniti e alla Cina. Come spiega Inomata13, il conflitto economico tra Cina e Stati Uniti e la diffusione globale della pandemia di Covid-19 hanno portato «le aziende globali a considerare la forza di varie istituzioni nel Paese di destinazione o l’affinità con l’ambiente aziendale del Paese di origine come punti di riferimento importanti per la valutazione del rischio nell’espansione all’estero». In altre parole, la divisione internazionale del lavoro sarà favorita tra Paesi dotati di quadri istituzionali comuni, come i sistemi economici, gli standard tecnologici e i sistemi legali, mentre c’è una crescente possibilità di decoupling tra Paesi con quadri istituzionali diversi. In queste condizioni, la convergenza istituzionale tra Stati Uniti e Cina è estremamente importante per garantire la base istituzionale necessaria a mantenere l’attuale divisione del lavoro tra i due Paesi.
Va notato, tuttavia, che anche se questi meccanismi continuano a funzionare a lungo termine, è improbabile che i due sistemi economici convergano completamente verso uno stesso modello 14. Ciò è dovuto non solo alle differenze di sistemi politici e di capacità dei governi, ma anche allo scopo fondamentale della competizione tra i sistemi, che consiste nel mantenere una posizione di leadership nei confronti dell’altra parte attraverso la concorrenza. Questo meccanismo è decisamente diverso da quello del coinvolgimento, che incoraggia il cambiamento di regime nel Paese partner invitandolo a integrarsi nell’ordine internazionale esistente. Di conseguenza, quando si tratta di innovazioni che richiedono una fiducia profonda e un coordinamento complesso, o di attività economiche strettamente legate alla sicurezza, come quelle descritte nella seconda parte di questo studio, il margine di cooperazione tra Stati Uniti e Cina probabilmente si ridurrà – e sarà inevitabile un decoupling almeno parziale.
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Per concludere un ragionamento che meriterebbe altri spazi ed altra profondità, più che di centri decisori finanziari egemonici nel mondo occidentale, parlerei di “strateghi del capitale” (Gianfranco La Grassa), non solo finanziari, facenti parte a pieno titolo, ma con peso più o meno relativo, di centri decisori strategici politici in competizione e conflitto tra di essi a fini di potere e di conformazione delle formazioni sociali, quindi anche di costruzione di identità e collettività e di obbligo e necessità di costruzione di una qualsivoglia coesione sociale, delle quali sono espressione. Nell’azione dei quali l’aspetto economico è solo parte ed è intriso dell’azione politica e delle finalità politiche di potere. Ambito, quello economico, che, con l’affermazione del modo capitalistico, ha assunto forme sempre più sofisticate e pervasive e, nei periodi di affermazione egemonica, carattere di apparente neutralità ed oggettività. Può assumere un interesse predominante tuttalpiù nelle periferie dei sistemi imperiali. Questo vale, pur in diversa misura e in diverse fasi storiche per tutte le formazioni sociali e per tutti i poli in via di formazione.
Possono sembrare sottigliezze fini a se stesse. In realtà hanno implicazioni particolarmente pesanti nel dibattito e nell’azione politica. Nella fattispecie nella caratterizzazione “neomedievale” delle future società, con annessa debilitazione del potere statale ridotto e conteso da altre figure, tese a generalizzare, secondo le tesi di importanti centri di pensiero (Rand), una condizione di crisi dello Stato altrimenti propria invece di alcune formazioni sociali declinanti in particolare del mondo occidentale, squassate da conflitti interni distruttivi; nella visione “populistica” del rapporto assolutamente determinante tra centri decisori, élites tout court e strati bassi della società; nel rapporto tra “moltitudini” e cupole ristrette di potere. In altre parole in una riduzione semplicistica delle stratificazioni sociali, delle gerarchie, della funzione delle élites e delle dinamiche del conflitto politico e sociale, di quelle geopolitiche e di conflitto orizzontale tra centri. Buona lettura, Giuseppe Germinario
FABIO LONDERO — “Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain”: stiamo per far deragliare le catene del valore con i nostri valori?
In un mondo rotto e sempre più regolamentato, le multinazionali che avevano puntato su una crescita globalizzata e su un diritto uniforme rischiano di disgregarsi. Per Fabio Londero, General Counsel del gruppo siderurgico friulano Danieli, le conseguenze negative dell'”effetto Bruxelles” potrebbero essere fatali.
Fabio Londero è un giurista d’impresa, Group General Counsel della multinazionale friulana Danieli, tra i leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici.
Penso sia utile ripartire dall’insegnamento, che oggi sembra così sorpassato, di Milton Friedman, secondo cui l’impresa deve perseguire gli interessi degli azionisti, nel rispetto della legge. Tale massima, e in particolare la sua seconda parte, ossia la mera conformità dell’attività di impresa rispetto all’ordinamento giuridico vigente, rimane per me un canone fondamentale. È chiaro poi che tale approccio debba essere senz’altro rimodulato alla luce del contesto. Ho sempre avuto dubbi, però, sull’agire etico dell’azienda. John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende. Solo che l’impresa, e in particolare la multinazionale, è composta da un insieme di valori spesso differenti, non comprimibili in una scelta politica del consiglio di amministrazione. Una multinazionale, pure se occidentale, lavora in decine e decine di paesi e contesti giuridici e culturali profondamente diversi: è impossibile, se non proprio controproducente, trascurare idee e valori estranei ai nostri, così come non è possibile ignorare i quadri giuridici dei paesi in cui si opera, che sono dettati dai più svariati fattori di carattere politico, economico e culturale. Il principio di realtà per affrontare questo mondo frammentato dovrebbe essere informato da logiche che permettano all’impresa di rimanere efficiente, senza una adesione totale agli scontri politici e valoriali in atto. Anche perché, quando dico che l’impresa dovrebbe limitarsi a perseguire i profitti nel rispetto della legge, non intendo solo il cosiddetto lucro; profitto deriva dal latino proficĕre, che significa innovare, perfezionare, essere efficienti. Questo deve essere secondo me il paradigma dominante, specie in un contesto geopolitico così turbolento.
Molto spesso, la prima domanda che si pone un manager di una multinazionale è: tale azione è legale o illegale? Se è legale, la decisione è quasi già presa. Questo è – e secondo me dovrebbe pure rimanere – il paradigma tradizionale. È chiaro poi che quando si opera nei mercati globali vi sono certi rischi di carattere reputazionale. Credo però che spesso questa dimensione del danno da immagine sia eccessivamente sopravvalutata: se il prodotto è valido, l’eventuale danno da immagine lascerà il tempo che trova. Dopodiché, mi chiedo: si può dire che il danno reputazionale è lo stesso per le decine di paesi in cui la multinazionale opera? O è solo quello occidentale? La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain. Per questo insisto sul fatto che l’unico imperativo da seguire, ulteriore rispetto ai profitti, sia quello legale: il limite e lo spazio dell’agire di impresa è e deve essere solo quello tratteggiato dai diversi legislatori.
La decisione di perseguire una politica ambientale, sul fronte, ad esempio, della produzione di beni industriali, molto spesso non deriva da una decisione di carattere ideologico-politico assunta in qualche consiglio di amministrazione sotto la spinta delle raccomandazioni di Bruxelles. È molto più probabile, invece, riscontrare scelte aziendali che hanno origini nel tempo e che nascono da intuizioni, sviluppo di nuove competenze tecniche e, soprattutto, esigenze della clientela. Mi permetto di fare un esempio riferito all’azienda per cui lavoro, la Danieli & C. Officine Meccaniche S.p.A. Negli anni ci siamo ritagliati un ruolo leader nel cosiddetto green steel, ma questo perché? Non si tratta di una mera decisione di essere sostenibili, ma di un insieme di dinamiche di impresa, come i clienti che vogliono prodotti più efficienti, l’individuazione di soluzioni tecnologiche e competenze, l’intuizione di nuovi mercati. Grazie a questa combinazione di fattori, anni fa si è deciso di andare oltre al paradigma dei grandi impianti tipico degli anni ’60, investendo invece nella maggiore efficienza dei micro-impianti, di dimensioni più contenute e più localizzati (in prossimità dei clienti), con impatti positivi in termini di minore inquinamento, minore spesa energetica e via dicendo. Un passo avanti verso la sostenibilità, ma guidato da logiche decisamente più complesse – e, mi si permetta, capitalistiche – della mera decisione dall’alto di darsi un volto verde.
Penso che stiamo assistendo ad una bulimia di normative, parametri, direttive, raccomandazioni di soft law. Il che ha implicazioni non solo in relazione ai maggiori rischi giuridici, ma anche sul fronte dei costi, tanto che a volte mi chiedo provocatoriamente quanto sia sostenibile la sostenibilità. Peraltro, oltre al tema dei costi, vi è un discorso di fattibilità. Pensiamo proprio alla Direttiva CS3D: identificare nuovi oneri e adempimenti è facile, ma chi si ritrova a doverli applicare deve fare fronte alla complessità della supply chain. Andare a ritroso nella catena per verificare se uno delle centinaia di fornitori rispetta o meno determinati principi non solo è piuttosto complicato (oltre ad ulteriori accorgimenti di compliance, nel concreto cosa deve fare l’impresa? Ispezioni tra decine e decine di paesi?), ma riporta anche a quanto già detto sulla catena, che non è solo del valore, ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici. Un uso eccessivo di tali strumenti rischia di tradursi in quello che chiamo “imperialismo dei valori”: ossia l’errore di assumere la nostra prospettiva come universale, mentre il mondo – e lo vediamo ogni giorno – è eterogeneo, “particolare”. Da cittadino italiano o europeo posso anche essere d’accordo sull’attenzione verso certi valori, ma per un’impresa conta anche il principio di realtà.
Vi sono poi le implicazioni giuridiche di tali politiche e legislazioni o para-legislazioni ambientali. Uno dei rischi più concreti è che a livello giudiziario inizino ad essere adottate decisioni basate su principi che non si fondano su normative cogenti e certe, bensì su parametri, standard e best practices di soft law. Se i tribunali, nonostante l’assenza di vere e proprie leggi vincolanti, cominciassero ad applicare tale apparato di soft law alla stregua di un principio generale dell’ordinamento, questo si tradurrebbe in un panorama di profonda incertezza, ove alla fine l’attività di impresa finirebbe per dipendere dalla sensibilità del singolo giudice. Mancherebbero la prevedibilità e la calcolabilità del rischio giuridico. E il soft law rischierebbe di tramutarsi in hard law, non per opera del legislatore, bensì di un giudice.
Se la divisione politica e valoriale dovesse essere perseguita in modo netto, nella direzione di un sempre minore dialogo tra sistemi giuridici e culturali differenti, il rischio concreto è quello di una frammentazione dell’attività aziendale, nell’ottica di una divisione per aree: così, per fare un esempio, la multinazionale Alpha si scinderebbe, di fatto, in un ramo con un brand occidentale, uno orientale e via dicendo, secondo regimi valoriali e legislativi diversi e, dunque, separandone i destini e la comunicabilità, come avvenuto in parte nel caso Sequoia riportato da Jeremy Ghez in un articolo su Grand Continent. Il punto è che una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla, ad esempio creando Alpha Cina, Alpha Usa e Alpha Italia e pretendendo logiche, politiche e decisioni radicalmente diverse a seconda del contesto. L’azienda è interconnessa, vi è un flusso di conoscenze, competenze e rapporti che non si può scindere, a mio parere. La tecnologia, ad esempio, è una, attraverso la quale si progetta, si realizza, si produce. Come si può suddividere il patrimonio in entità separate e tra loro non comunicanti? Significherebbe, di fatto, privare la multinazionale della sua ragion d’essere organizzativa, economica e aziendale.
Dal mio punto di vista, non si può ignorare il fatto che ogni impresa ha un’origine, che per forza di cose è in un certo paese e secondo la sua legge. L’importanza del nesso tra impresa controllante e Stato di origine, e relativa politica estera, è pacifica. Detto questo, ribadisco – rifacendomi soprattutto all’esperienza delle aziende produttive, che è la realtà che conosco meglio – un punto fondamentale: una multinazionale che produce determinati beni opera in diversi paesi e siti produttivi. Ciò significa che, il più delle volte, ci sono migliaia di dipendenti in giro per il mondo, in percentuali maggiori di quelle presenti nello Stato d’origine. Se il cuore è in un posto, vi sono tante altre parti del corpo dislocate per decine e decine di paesi, che hanno altrettanta rilevanza. Peraltro, il tema secondo me si complica quando si va a discutere di filiali aperte in un altro Stato. Queste filiali sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui sono costituite, non da quello dello Stato d’origine della controllante. Penso al tema delle sanzioni, la cui complessità deriva anche e soprattutto dalla diversità dei sistemi giuridici che informano le filiali lungo la catena. Spesso, il diritto che le regola non è quello occidentale che ha imposto le sanzioni, pur considerando la portata extraterritoriale che questo intende assumere. Nel momento in cui un soggetto opera all’estero, accetta anche le normative locali di riferimento. Questo rende meno scontata l’implementazione di certe politiche.
Nelle dinamiche politiche, così come in quelle economiche, a partire soprattutto dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ci si è illusi sull’esistenza di un mondo pacifico e globalizzato, paradigma che oggi si scontra con un contesto geopolitico radicalmente cambiato. Certo, per una multinazionale il mondo piatto e unificato dal mercato sarebbe il contesto più auspicabile, ma la realtà non è più questa, ammesso sia mai stato veramente così.
Uno degli indici più concreti e interessanti per registrare tali cambi di paradigma è proprio quello delle controversie internazionali, che le multinazionali affrontano ogni giorno. Pensiamo all’arbitrato internazionale: anche in presenza di lodi arbitrali favorevoli, che ad esempio riconoscono il diritto ad ottenere dei beni di una impresa estera, nel concreto la possibilità di enforcement, ossia di eseguire questi lodi nello specifico paese per ottenere tali asset, è spesso impedita da una serie di misure protezionistiche delle singole realtà statuali. Tale tendenza sconfessa, da un certo punto di vista, l’idea del mercato globale regolato da un regime giuridico universale e uniforme. Nonostante le Convenzioni sottoscritte, di fatto risulta sempre più difficile vedersi riconosciuta la sentenza internazionale, a causa di barriere più o meno surrettizie che vengono innalzate dai singoli Stati. Così, anche se si ottiene un lodo favorevole contro un’impresa cinese, o egiziana o brasiliana e via dicendo, poi nel momento in cui si va ad eseguire tale lodo nei rispettivi paesi ove si trovano gli asset, ci si vede opporre una qualche eccezione di ordine pubblico interno che impedisce il riconoscimento del credito. E a cosa serve un lodo arbitrale internazionale che non si riesce a eseguire nel concreto? L’arbitrato internazionale è nato proprio come modello ideale di risoluzione delle controversie a livello sovranazionale, per evitare di affidarsi a sistemi giuridici statali di paesi problematici, ma ciò non è stato sufficiente a svincolare la realtà dalla concreta geografia degli asset, ossia dalla giurisdizione del singolo Stato in cui bisogna poi eseguire i lodi. Questo diventa un problema soprattutto con i soggetti locali, che hanno beni localizzati solo nel proprio Stato di riferimento, mentre le multinazionali hanno quantomeno asset più dislocati.
Trattasi di un altro fattore che può indurre alla frammentazione delle imprese in sezioni tra loro separate. Isole produttive, economiche e giuridiche sempre più indipendenti l’una dall’altra, in modo da ridurre i rischi di essere aggrediti e avvalersi, al caso, delle protezioni domestiche dello Stato. Un mondo che si frammenta in un arcipelago di isole la cui comunicazione è sempre più ridotta. Dai mercati globali ai mercati interni, con una separazione di fatto della capogruppo dalle proprie ramificazioni nei singoli paesi, con minore, se non nullo, trasferimento di ricchezze, competenze e tecnologie. Il problema, però, è che, come dicevo, la multinazionale è un tutt’uno organico, che necessita di scambi, interconnessioni. Ho dei dubbi sulla fattibilità, in concreto, di questo sistema ad arcipelago. Il rischio è che a forza di frammentare si finisca, sostanzialmente, per rovesciare le fondamenta su cui poggia una multinazionale contemporanea.
Sono dell’idea che in questo mondo frammentato le aziende dovrebbero adottare una politica di basso profilo. Non bisogna ignorare la tenaglia di cui parli, ma proprio perché vi sono plurime e spesso eterogenee pressioni, l’obiettivo potrebbe essere quello tradizionale di perseguire il profitto, inteso come innovazione, efficienza, valore dell’azienda. In questo contesto non si può ignorare il quadro geopolitico, né quello dell’opinione pubblica, ma l’impresa ha una sua dimensione e deve fare i conti con i continui rapporti con le proprie ramificazioni. Quando mi confronto con un manager di un paese straniero, con valori diversi da miei, cosa devo fare? Chi ha ragione? Magari dal mio punto di vista occidentale ho ragione io, però non credo sia nell’interesse dell’impresa alzare un muro per tale mancata condivisione di un’etica comune. Per questo l’azienda dovrebbe fare un passo indietro: alla fine, cosa unisce i diversi manager? Degli scambi efficienti che portino ricchezza. Anche perché le imprese, come soggetti, non hanno alternativa, salvo perdere mercati o dividersi.
Poi certo, c’è chi potrebbe dire che proprio per le turbolenze geopolitiche di questa fase storica le imprese dovrebbero partecipare attivamente alla politica estera dei propri Stati. Questo però dipende dal contesto. Negli Stati Uniti si è sempre registrato, storicamente, un dialogo tra dimensione pubblica e privata, pensiamo alla nascita di Internet, ma stiamo parlando di un mercato enorme e di un paese con una politica estera piuttosto definita, centrale nella sua proiezione. Ma noi italiani? O noi europei? Possiamo avere buoni rapporti con le istituzioni di riferimento, certo. Ma pensiamo all’Europa: al momento è ancora percorsa da diverse geografie politiche, non è una nazione. Esiste veramente una politica industriale europea? Esiste una politica antitrust. O ambientale tuttalpiù. Ma qual è la politica estera e di sovranità europea? Se non si diventa un soggetto politico, si rimane, sostanzialmente, dei mercanti.
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Tratto da linkedin:
Un proposito più che meritorio. Mi preme sottolineare, però, alcuni aspetti fondamentali: 1- per la natura specifica della UE, l’attività lobbistica è fondamentale e deve essere gestita, per le caratteristiche della struttura industriale, da associazioni e, più realisticamente, da specifiche componenti di esse, visto il carattere eminentemente conservatore e ossequiente di Confindustria 2- per la natura specifica della struttura industriale, l’apporto del ceto politico-governativo è ancora più importante che per gli altri paesi europei, quanto lo è di fatti, purtroppo, più deficitario 3- diventa fondamentale, non solo salvaguardare, ma recuperare il controllo e la gestione paritetica delle compartecipazioni della grande industria di base in vista di possibili fusioni nel contesto europeo 4- occorre orientare sempre più verso il prodotto finito finale la produzione della piccola e media industria piuttosto che sulla componentistica o, quantomeno e in controtendenza, diversificare il portafoglio clienti sulla falsariga, ormai parziale anch’essa, di Brembo e poche altre 5- creare un sistema bancario-finanziario dedicato. Pensare ad un particolare connubio tra banche-poste-Cassa DDPP in controtendenza con la progressiva cessione di azioni di Poste Italiane a fondi internazionali. “Vaste programme”. Concordo che basilare è la consapevolezza dei termini della questione Giuseppe Germinario
Intelligence economica e Confindustria
Ho letto con grande attenzione il programma di Emanuele Orsini (ormai al vertice di Confindustria) e sottolineo che questo imprenditore (che conosce la costellazione delle PMI italiane) ha messo al centro un progetto fondamentale per le nostre aziende (di tutte le dimensioni): l’intelligence economica salva-aziende.
Prima dovrà serrare i ranghi e ridare serenità ad una Conf troppo importante e strategica per il nostro Paese. La dorsale dei piccoli e medi imprenditori sarà fondamentale nella nuova Confindustria che ha bisogno di far lavorare grandi e piccoli in parallelo. Orsini dovrà gestire la delicata nuova normativa europea inerente la manifattura (le nostre imprese piccole e medie non sono mai state al centro dei progetti europei…).
Oltre a questo va sottolineato come Francia, Germania, USA, Uk, Giappone e Cina avvantaggiano i propri settori industriali e di manifattura. Per gestire il peso italiano a Bruxelles serve una vera e propria intelligence economica che protegga le nostre aziende e gli asset economici.
Qualche esempio?
Siamo la seconda manifattura d’Europa: non possiamo farci fagocitare da regolamenti decisi altrove.
Abbiamo una dorsale strategica fatta di PMI, non possiamo avvallare proposte (soprattutto da Nord Ue) che avvantaggiano la grande industria.
Non possiamo accettare che stati come Germania o Francia aiutino le proprie imprese a debito (omettendolo, la Germania 1000 miliardi dal 2013).
Non possiamo farci sfilare in affari come il fu Fincantieri-Stx.
Non possiamo farci imporre carburanti sintetici tedeschi quando abbiamo Eni che lì produce da più d’un anno.
Non possiamo rimanere fuori dal comparto industriale dedicato allo spazio (annessa IA).
Non possiamo più permettere attacchi ai nostri asset come accadde con Saipem nel 2015.
Serve una svolta sistemica e bisogna iniziare anche a dire che l’obiettivo deve essere chiaro: riportare l’Italia ad occupare il quarto posto (come ad inizio anni ‘90) a livello industriale nel mondo, lasciando questo settimo posto ormai datato anni 2000. Basta galleggiare, bisogna spingere.
Ho creato https://openindustria.com per dare rete tra imprese, educazione, cultura e ricerca.
Al suo interno progetti innovativi come Deutelio o quello di Gianfranco Pizzuto, oltre a Roberto Santori con Made in Italy.
Aggiungi anche il lavoro del CISINT – Centro Italiano di Strategia e Intelligence nel settore geoecomomico e la mission di ItalyUntold.
Grazie alla professionalità di Roberto Macheda stiamo cercando di dare un respiro più profondo a chi vuol cambiare il Paese investendo.
A breve uno speciale inerente Confindustria su Bankimpresanews.com
Sono convinto che sia giunto il momento di concludere il tempo delle mezze misure.
Porto per questo motivo Olivetti e Mattei in aziende e scuole: dobbiamo tornare a crederci o avremo un futuro di serie B.
hashtag economia hashtag italia
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Ormai la constatazione della rottura di un equilibrio unipolare, per altro a suo tempo appena agli albori, si è diffusa anche negli ambienti più oltranzisti; con essa quella, particolarmente interessata dal nuovo corso statunitense, del ridimensionamento del ruolo di potenze sino a poco tempo fa ritenute, più a torto che a ragione, di primo piano. Giuseppe Germinario
La frammentazione delle nazioni? Il nostro scenario per il 2024
Il mondo sta entrando in un’epoca di stagnazione economica e inflazione dei prezzi?
2 gennaio 2024
L’economia globale e il suo sistema di interconnessioni e catene di approvvigionamento complesse e multidimensionali sono una rete robusta ma fragile.
È robusta perché è altamente efficiente e resistente agli shock idiosincratici in tempi normali, ma è molto vulnerabile quando si verificano interruzioni impreviste e, in parte, imprevedibili.
Ancora più importante, il sistema economico globale è quasi privo di protezione e “non proteggibile” da una confluenza di tali shock che potrebbero portarlo al collasso.
Perché non abbiamo visto la scritta sul muro?
Perché? E perché ce ne rendiamo conto solo ora? L’economia mondiale ha iniziato ad aprirsi completamente negli anni Ottanta. Entro il 2020 si è sviluppato un sistema commerciale globale profondamente interconnesso. Ciò è avvenuto gradualmente in un periodo di pace globale e di crescente consenso sul fatto che una marea crescente solleva tutte le barche.
Mentre i Paesi avanzati hanno beneficiato di prezzi al consumo bassissimi che hanno placato la sete di “giocattoli” a basso costo dei loro cittadini relativamente benestanti, i Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto nuove vette grazie alla loro inclusione nella comunità commerciale globale.
Sì, ci sono state crisi finanziarie, anche dirompenti, tra il 1980 e il 2020. Ma anche la più grave, quella del 2008/2009, è stata superata grazie ad azioni coordinate a livello globale, anche se con costi elevati.
Sì, ci sono state guerre locali o regionali e altre crisi di sicurezza globale. Ma anche in questo caso, tutte non hanno avuto un impatto sul sistema commerciale globale. C’era semplicemente una comprensione globale implicita che era nell’interesse di tutti proteggere la globalizzazione e l’interconnessione.
Entra in scena il COVID 19
Tutto questo è cambiato nel 2020 con lo scoppio della pandemia globale. Si è trattato di un evento senza precedenti, con conseguenze economiche ben superiori a quelle dell’influenza spagnola di cento anni prima. Il motivo è semplice: L’economia mondiale era allora molto meno connessa e interdipendente.
Così, con l’insorgere della pandemia globale, le catene di approvvigionamento crollarono, mentre interi Paesi chiusero l’attività economica. Sono emerse carenze di microchip, cibo e minerali. La produzione si è fermata nei Paesi fornitori, così come nei Paesi che finalizzavano e distribuivano la produzione.
Gli effetti sono stati forti aumenti dei prezzi in tutti i paesi, soprattutto perché la domanda non è crollata allo stesso ritmo, in quanto le banche centrali hanno iniettato (correttamente) grandi quantità di denaro. Queste carenze di beni e i relativi aumenti dei prezzi si ripercuotono ancora oggi sull’economia globale.
Eccessiva dipendenza dalla Cina
Ancora più importante, la pandemia è stata la prima scheggia nella fiducia generale del mondo nel valore delle catene di approvvigionamento globali. Ci si è chiesti se, in ultima analisi, catene di approvvigionamento più regionali dovessero sostituire la massiccia dipendenza del mondo dalla produzione cinese di qualsiasi cosa.
Questo ha fatto anche il gioco delle voci nazionaliste nelle democrazie avanzate. Fino a quel momento erano state emarginate con la loro opinione che la completa – e sicuramente irraggiungibile – autosufficienza dei Paesi avanzati fosse il santo graal.
Ciò ha creato un mix pericoloso e volatile di ragionevole preoccupazione per la stabilità delle catene di approvvigionamento globali durante gli shock sistemici e di retorica estremista e spesso xenofoba.
Ha avvelenato il risultato oggettivo di un’analisi attenta e ben intenzionata. Ciò ha talvolta implicitamente equiparato le preoccupazioni ragionevoli alla paranoia nazionalista, portando quest’ultima dal margine intollerabile al centro accettabile.
La guerra in Ucraina
Aggiungiamo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 e la guerra che ne è seguita. Si tratta probabilmente della più grande minaccia alla sicurezza globale sul suolo europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le sue implicazioni globali sulle catene di approvvigionamento economico e sulla loro sostenibilità percepita sono state di gran lunga superiori alle dimensioni combinate delle economie russa e ucraina.
Il crollo dell’agricoltura ucraina – che era stata il granaio di parte dell’Europa e di gran parte dell’Africa – è stato un duro colpo. Le sanzioni globali giustificate contro la Russia hanno messo in crisi l’industria del petrolio e del gas, facendo temere blackout e interruzioni di corrente in alcune parti dell’Europa occidentale.
Il controllo da parte della Russia di un’ampia porzione di materiali di terre rare ha raddoppiato questo timore, con preoccupazioni per la gestione dell’infrastruttura informatica mondiale che dipende dall’accesso a questi materiali.
Questo, e le relative impennate dei prezzi, hanno gettato un’ulteriore ombra sul sistema commerciale mondiale.
Autocrati che la pensano allo stesso modo
Si sono sviluppate coalizioni confuse di autocrati che la pensano allo stesso modo: Turchia/Russia, India/Cina, India/Cina/Russia e Ungheria/Russia.
Ciò è stato rilevante per i membri delle democrazie occidentali perché ha ulteriormente minato la loro fiducia nel sistema commerciale globale e nell’ordine mondiale in generale. Dopo tutto, la Turchia è un membro della NATO e l’Ungheria è un membro della NATO e dell’UE.
Putin non si preoccupa del benessere del suo popolo, tanto meno di quello di altre nazioni. Il suo atteggiamento minaccioso ha letteralmente messo in ginocchio la comunità commerciale mondiale, anche se la Russia è un attore economico irrilevante in termini di dollari.
È una minaccia sistemica per la natura delle sue esportazioni. Inoltre, la sua posizione minacciosa solleva profondi dubbi sul sistema commerciale mondiale, ben oltre i confini della Russia e dell’Ucraina.
La guerra di Gaza
Aggiungiamo il brutale attacco omicida di Hamas contro ignari israeliani il 7 ottobre 2023 e la guerra che ne è scaturita. Bisognava schierarsi. L’Occidente si schierò con Israele.
Nuove alleanze confuse si sono evolute, poiché i regimi arabi assassini dell’Arabia Saudita e altri volevano proteggere la loro ricchezza personale accumulata schierandosi unicamente con l’Occidente e Israele.
Ma soprattutto, all’interno delle democrazie occidentali è emerso un abisso tra le forze pro-Israele e quelle pro-Palestina. Alcune di esse si basavano su intenzioni di pace, altre sul concetto di falsa equivalenza infuso con una dose di puro antisemitismo.
Ma ancora una volta, questo ha spinto un cuneo tra le democrazie occidentali, che nel complesso una volta erano state guidate da un senso generale di valori comuni.
Non dimenticare gli Houthi
Aggiungiamo gli attacchi degli Houthi ai passaggi commerciali marittimi in Europa delle ultime settimane. Questa minaccia, gestita dall’Iran, è enorme, anche se militarmente gestibile, presumendo che un’alleanza globale se ne faccia carico.
Ma la fiducia negli elementi più elementari del coordinamento internazionale è ormai crollata. Questo lascia l’onere, ancora una volta, agli Stati Uniti. Tuttavia, essi stessi sono una potenza esausta e divisa, con poco fiato a disposizione.
La crisi climatica
A ciò si aggiunge la crisi climatica. L’aumento della siccità e delle inondazioni sta distruggendo i raccolti in tutto il mondo, provocando enormi pressioni/incertezze inflazionistiche su diversi prodotti alimentari.
A ciò si aggiungono le azioni dei politici nazionali di alcuni Paesi per affrontare queste minacce al futuro del pianeta. Come per molte cose buone, anche per queste azioni ci sono conseguenze non volute o forse effetti collaterali noti.
Almeno nel medio termine, i costi per produttori e consumatori aumenteranno per dare al pianeta una possibilità di sopravvivenza.
Ma questo è politicamente ancora più divisivo perché non tutti i Paesi avanzati sono disposti a fare sacrifici che consentano di contenere i danni ambientali.
Questo, a sua volta, aumenta le conseguenze politiche materiali in quei Paesi che lo fanno, creando più spazio per gli estremisti politici e i nichilisti che vedono la possibilità di avanzare tra tutte le paure represse dei loro popoli.
Conclusione
Tutto ciò porta a una spinta verso l’alto dell’inflazione. Le catene di approvvigionamento globali sembrano insostenibili, la sicurezza globale sembra irraggiungibile, il consenso interno nelle società democratiche si sta erodendo rapidamente e il pianeta rischia di collassare.
Tutte le scelte politiche sono complicate e nessuna gode di un sostegno unanime o addirittura maggioritario. Ma soprattutto, la massiccia confluenza di tutti questi shock sistemici ha reso quasi impossibile un coordinamento internazionale su larga scala.
Di conseguenza, l’economia mondiale, il suo sistema commerciale e la sua dipendenza da accordi reciprocamente vantaggiosi non esistono più in alcun senso tangibile.
La globalizzazione è morta. Peggio ancora, anche i regimi commerciali regionali si stanno screditando e hanno meno probabilità di essere sostituiti.
Infine, l’unità nazionale delle democrazie mondiali è in discussione. Tutto ciò porta a una lega di nazioni sempre più frammentata e isolata, a una capacità economica limitata e a un periodo di rischio di inflazione lungo e sostenuto.
Uwe Bott is Chief Economist of The Global Ideas Center and Senior Editor at The Globalist. [New York/United States]
Stephan Richter su NPR: Perché la spina dorsale economica della Germania dice “Auf Wiedersehen”
Come la Germania contemporanea stia vivendo per lo più con i fumi della sua reputazione passata: Intervista con David Brancaccio di Marketplace Morning Report.
21 dicembre 2023
David Brancaccio è il conduttore di Marketplace Morning Report. Questa intervista con Stephan Richter è stata trasmessa dalla National Public Radio in tutti gli Stati Uniti il 19 dicembre 2023. Per ascoltarla, cliccare qui.
La Germania, un tempo considerata la pietra miliare della rettitudine fiscale, si ritrova dall’altra parte del libro mastro. Sta affrontando una crisi di bilancio tra l’aumento dei costi dell’energia, le pressanti richieste di riforma dell’immigrazione e altri problemi più urgenti. Cosa deve fare la più grande economia europea?
David Brancaccio
Stephan, pensi che qualcosa sia andato storto in Germania? Voglio dire, è la Russia che ha invaso l’Ucraina, riducendo le forniture di energia alla Germania e scuotendo le economie europee. Ma pensi che dare la colpa alle esternalità, come si suol dire, non racconti tutta la storia?
Stephan Richter
No David, non lo è affatto. I problemi sono iniziati nel 2005, con la famosa (e ora famigerata) Angela Merkel. Per 15 anni al governo non ha fatto altro che preservare il proprio potere e rimanere popolare tra gli elettori, non prendendo decisioni difficili.
E questo ha portato a un grave problema per la Germania, perché tutti questi problemi hanno continuato ad accumularsi. Quindi le cose non vanno affatto bene. E la Germania di oggi vive soprattutto dei fumi della sua reputazione passata.
David Brancaccio
Sta dicendo che l’amministrazione Merkel ha rimandato decisioni difficili e ora i polli stanno tornando a casa?
Stephan Richter
Esatto, ma il governo che è ora in carica, guidato da Olaf Scholz, naturalmente, l’SPD [Partito Socialdemocratico] è stato per la maggior parte degli anni in cui la Merkel era al governo il partner minore, quindi è co-condannato.
Il problema è stato e continua a essere che in Germania c’è stato un ampio consenso sulla spesa sociale e non su infrastrutture o altri investimenti – nessun investimento nell’istruzione, nessun investimento nell’edilizia abitativa.
Ed è l’opposto di ciò che la gente negli Stati Uniti pensa sempre della Germania: che sia un Paese che pianifica in anticipo, che usa le sue risorse con saggezza e che cerca di assicurarsi che tutto funzioni senza intoppi, e che le scuole e tutto il resto siano in buone condizioni. Non c’è più nulla di tutto questo.
David Brancaccio
Recentemente lei ha scritto che la spina dorsale economica del Paese sta, come ha detto lei, “fuggendo” dalla Germania, lasciando la Germania. Chi sono queste istituzioni fondamentali e perché stanno decollando?
Stephan Richter
Sono le grandi aziende industriali che dipendono dal costo dell’energia. E badate bene, il motivo per cui i tedeschi sono stati così gentili con Putin per così tanto tempo è che ci ha dato energia a prezzi bassissimi.
In un contesto economico e di mercato, il problema è che si è trattato di un falso positivo per la Germania, perché stiamo perdendo terreno nelle classifiche di competitività.
Se un Paese industriale leader dipende dall’energia a basso costo per primeggiare sui mercati mondiali, non è esattamente il luogo in cui si vuole avere un’economia avanzata.
Eppure, queste grandi aziende sono ancora molto potenti in politica. Ostacolano la trasformazione, la ristrutturazione e i cambiamenti strutturali che devono avvenire.
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Definizione dei problemi economici globali nel 2024
La centralizzazione del potere cinese e l’effetto delle elezioni sulla guerra in Ucraina sono in cima all’agenda.
Di Antonia Colibasanu – 19 dicembre 2023Apri come PDF
Quasi un anno fa, abbiamo evidenziato alcune tendenze che avrebbero definito l’economia mondiale nei prossimi anni. In breve, si trattava di riallineamento commerciale ed economico, stagflazione, volatilità e probabile rallentamento del settore tecnologico. Queste tendenze sono ancora attuali mentre ci avviamo verso il 2024. Ma l’anno prossimo porterà anche maggiore chiarezza, soprattutto quando la nuova direzione e le dinamiche dei flussi commerciali e di investimento si stabilizzeranno in una nuova normalità. Di seguito, esaminiamo tre questioni che riceveranno particolare attenzione da parte nostra nell’anno a venire.
La strategia di de-risking della Cina
All’inizio del mese, Moody’s ha emesso un avviso di declassamento del rating creditizio della Cina, citando i probabili costi di salvataggio dei governi locali e delle imprese statali e una crisi immobiliare. Il giorno successivo, l’agenzia di rating ha fatto lo stesso con Hong Kong e Macao, oltre che con diverse banche. Moody’s ha affermato che la legge cinese sulla sicurezza nazionale del 2020 e le riforme elettorali hanno degradato l’autonomia di Hong Kong, sollevando dubbi sullo stato di diritto e sulla protezione degli investitori.
Per coincidenza, la decisione di Moody’s è arrivata a pochi giorni dall’inizio dell’atteso processo a Hong Kong del critico cinese e magnate dei media Jimmy Lai, che rischia l’ergastolo con l’accusa di collusione con potenze straniere, in particolare gli Stati Uniti. Hong Kong sta inoltre pianificando per l’anno prossimo un inasprimento delle sue leggi sul controspionaggio, concedendo potenzialmente alla Cina continentale un controllo ancora maggiore.
Allo stesso tempo, però, Pechino sta intensificando gli sforzi per attrarre maggiori investimenti dall’estero. A novembre, in mezzo ad altri gesti calorosi, il Presidente Xi Jinping ha finalmente incontrato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden per la prima volta dopo un anno. La Cina ha anche tenuto la sua revisione di alto livello del settore finanziario, la Conferenza centrale sul lavoro finanziario, che ha dichiarato di aver sostenuto la visione centrale del Partito Comunista Cinese sul settore bancario. Secondo i leader cinesi, il ruolo della finanza è quello di servire l’economia reale, mentre il governo è responsabile del mantenimento della stabilità, del controllo dei rischi e del sostegno all’innovazione e allo sviluppo locale. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto alla conferenza del 2017, quando l’attenzione principale era rivolta alla gestione degli squilibri creati dal sistema bancario ombra, dal debito pubblico locale e dalla bolla immobiliare.
Il rapporto della conferenza ha anche sottolineato l’impegno a lungo termine di Pechino ad aprire gradualmente l’economia cinese agli investimenti stranieri e alla concorrenza privata. La sfida è capire come arrivare da qui a lì. La pandemia, il “de-risking” della catena di approvvigionamento occidentale, l’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti e in Europa e il calo dei prezzi degli asset cinesi hanno creato problemi di liquidità a breve termine per la Cina. Inoltre, i leader cinesi sembrano orientarsi verso un maggiore, e non minore, controllo dell’economia nazionale.
Quando il 2023 si avvicina alla fine, non è ancora chiaro quale sarà il futuro della Cina, ma qualsiasi cosa accada si ripercuoterà in tutto il mondo. Se la Cina non riuscirà a liberalizzare o a centralizzare ulteriormente il controllo, un probabile beneficiario sarà l’India. Sebbene non sia una destinazione d’investimento così attraente come la Cina, l’India è il Paese che più si avvicina a replicare il vantaggio dimensionale della Cina per le imprese straniere che cercano di spostare o avviare la produzione altrove. Oltre ai dati demografici favorevoli, l’India beneficia anche della sua politica estera di non allineamento. Col tempo, potrebbe diventare una potenza economica globale.
Sostenere l’Ucraina
Le guerre finiscono quasi sempre con dei negoziati, ma nel caso della guerra tra Russia e Ucraina, le opportunità per i leader di sedersi a un tavolo nel 2024 saranno poche. Il problema è il calendario elettorale. La Russia terrà le elezioni presidenziali a marzo, seguite dalle elezioni statunitensi a novembre. Nel frattempo, a giugno gli europei voteranno per il prossimo Parlamento europeo, che nominerà la nuova Commissione europea, l’organo esecutivo del blocco. Anche in Ucraina potrebbero tenersi le elezioni presidenziali, previste per la fine di marzo, anche se al momento la posizione del governo è di aspettare la fine della guerra.
È estremamente improbabile che si verifichino cambiamenti ai vertici della Russia e il prossimo governo continuerà a riorientare l’economia russa allontanandola dall’Occidente e attenuando l’impatto delle sanzioni occidentali. Negli Stati Uniti, la polarizzazione sociale crea un ambiente politico teso e l’economia rimane l’obiettivo principale. A meno di una svolta miracolosa da entrambe le parti sul campo di battaglia ucraino, l’amministrazione Biden correrebbe un grave rischio politico se si giocasse la reputazione sulla fine della guerra.
Di fronte alla prospettiva di una guerra ancora più lunga, gli Stati Uniti e l’Europa dovranno continuare a ricostruire le loro basi industriali di difesa. La Russia, essendo passata a un’economia di guerra molto prima, ha un grande vantaggio. I governi occidentali hanno iniziato ad aumentare seriamente le spese militari solo nel 2023, ma i prezzi e i tassi di interesse sono aumentati solo nel corso dell’anno. Inoltre, con le elezioni alle porte, i politici sono restii ad aumentare le tasse, a tagliare la spesa sociale o a fare marcia indietro sui piani di sovvenzionamento della transizione verde, dell’industria e della digitalizzazione. I vincoli di bilancio dei governi occidentali diventeranno sempre più evidenti verso la fine del 2024, soprattutto quando il sostegno all’Ucraina richiederà maggiori risorse.
In questo contesto, i governi occidentali dovranno mettere a disposizione i fondi per sostenere lo Stato ucraino e, ove possibile, aiutare il Paese a ricostruirsi. Gli investitori privati non sono propensi a investire in zone di guerra e Kiev ha bisogno di tutte le sovvenzioni e i prestiti a basso tasso di interesse che può ottenere. Tuttavia, come si può già vedere, la stagione elettorale complicherà e probabilmente ritarderà le decisioni di spesa, soprattutto negli Stati Uniti. Gli aiuti che l’Occidente riuscirà a raccogliere dovranno probabilmente dare priorità alle esigenze di difesa dell’Ucraina; la ricostruzione dovrà probabilmente aspettare.
L’economia ucraina dipende quasi interamente dagli aiuti occidentali. Anche per vendere le proprie merci all’estero, Kiev si affida all’Occidente per facilitare le spedizioni o, nel caso del Mar Nero, per fornire supporto alla sicurezza. Allo stesso tempo, l’insoddisfazione dei comuni cittadini ucraini nei confronti del governo e della sua condotta di guerra è aumentata progressivamente. Quando l’Ucraina terrà nuovamente le elezioni, si può essere certi che la Russia farà di tutto per influenzarne l’esito. Dopo tutto, il cambio di regime è stato l’obiettivo del Cremlino fin dall’inizio.
Interruzione della catena di approvvigionamento
Il terzo problema è la possibilità che il degrado della sicurezza possa interrompere ulteriormente le catene di approvvigionamento globali. Gli ultimi mesi del 2023 sono stati tra i più brutali della storia recente di Israele e Palestina. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha traumatizzato Israele e minato il suo senso di sicurezza. La risposta militare di Israele a Gaza è stata brutale. La preoccupazione per le imprese è che la situazione possa interrompere le forniture globali di petrolio, cosa che potrebbe accadere se il conflitto coinvolgesse l’Iran o altri produttori.
È quanto accaduto nel 2022 dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Quell’anno, un’impennata dell’inflazione portò molti Paesi ad aumentare rapidamente i tassi di interesse, limitando la loro capacità di utilizzare una politica fiscale espansiva per contrastare l’indebolimento dell’attività economica. Da allora l’inflazione è ampiamente diminuita, ma i tassi d’interesse restano elevati e la crescita è ancora debole. Ciò ha creato una certa resistenza della domanda; l’aumento dei prezzi dell’energia potrebbe portare a un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, ma le economie più sviluppate si adatteranno.
Nel frattempo, dati i limiti della Cina alla crescita e considerando che deve mantenere buone relazioni con gli Stati Uniti (e viceversa), la domanda di energia probabilmente crescerà nel 2024, aggiungendo potenzialmente una pressione al rialzo sul prezzo dell’energia. La Cina e gli Stati Uniti sembrano aver raggiunto un’intesa, come dimostra la visita di Xi Jinping negli Stati Uniti lo scorso autunno, ma ciò non significa che Washington porrà fine alle politiche di disaccoppiamento o di de-risking che ha promosso per alleviare la sua dipendenza dalle catene di approvvigionamento globali.
L’aumento dei conflitti globali accelererà questa spinta verso la de-globalizzazione. L’aumento dei costi assicurativi per le spedizioni internazionali a partire dal 2022, soprattutto nelle aree colpite da guerre, ha costretto i Paesi e le aziende a preferire il commercio sicuro a quello libero. Il reshoring, il near-shoring e il “friend-shoring” suggeriscono un compromesso tra efficienza e solidità, con catene di fornitura globali just-in-time che lasciano il posto ad accordi just-in-case. Tutto ciò si ripercuoterà anche sulla manodopera; i problemi demografici in Europa, Giappone e Cina ridurranno l’offerta di lavoratori in un momento in cui le restrizioni all’immigrazione fanno aumentare il costo della manodopera.
Tutto ciò determina un ambiente commerciale difficile, che ha abituato le imprese a fare aggiustamenti al volo. Anche se la fine della crisi del costo della vita alleggerirà alcuni vincoli a breve termine per i responsabili politici, questi dovranno essere creativi nel ricostruire le finanze pubbliche e proteggere i governi dall’aumento dei costi di indebitamento – il tutto cercando di evitare misure di austerità impopolari. Il sostegno politico alle politiche moderate e liberali rimarrà debole e la politica economica diventerà più isolata, il che, pur essendo potenzialmente efficace a livello nazionale, probabilmente danneggerà la cooperazione internazionale su importanti sfide climatiche e tecnologiche.
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Con questo video avvieremo un approfondimento sulle virtù e sui limiti del sistema produttivo italiano, mettendolo in relazione soprattutto con le caratteristiche, le capacità e le ambizioni della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico e con il contesto geopolitico, in particolare europeo e statunitense. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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I risultati del mese di ottobre 2023, pubblicati il 30 novembre 2023, confermano che la Russia sta proseguendo sulla traiettoria di forte crescita iniziata all’inizio della primavera. Si tratta di una crescita forte, che naturalmente si inserisce in un contesto di ripresa dallo shock delle sanzioni subite nel 2022. Questa crescita è un segno che la Russia ha superato la maggior parte delle conseguenze quantitative delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.
I risultati dei primi tre trimestri del 2023 mostrano un aumento del PIL nel periodo gennaio-settembre 2023, rispetto al periodo equivalente del 2022, del 2,9%. L’aspetto ancora più interessante è che, rispetto allo stesso periodo del 2021, l’aumento è dell’1,0%. Oggi stiamo assistendo a una crescita assoluta dell’economia russa, che si riflette in un miglioramento dei risultati del PIL, non solo rispetto al 2022, ma anche rispetto al 2021, ossia nel periodo precedente alle sanzioni. Oggi si prevede una crescita del PIL del 5,0% per l’ottobre 2023.
Anche i redditi reali delle famiglie sono aumentati nei primi tre trimestri dell’anno. Per il periodo gennaio-settembre 2023, l’aumento è del 4,8% rispetto allo stesso periodo del 2022 e del 3,4% rispetto allo stesso periodo del 2021. Questo dato è socialmente significativo. Dimostra che le operazioni militari in corso dalla fine di febbraio 2022 non hanno avuto alcun impatto sul tenore di vita dei russi.
Per quanto riguarda gli investimenti, specificamente presi di mira dalle sanzioni imposte dai Paesi occidentali, essi continuano a crescere. Infatti, nel periodo di riferimento dei primi tre trimestri del 2023, si è registrato un aumento del 10% rispetto al 2022 e del 16% rispetto al 2021.
Sebbene questi dati siano ancora provvisori e non includano i risultati del 4° trimestre a venire, indicano che l’attuale traiettoria della Russia è di forte crescita, confermata dall’analisi dei risultati del mese di ottobre. Le previsioni di crescita per il 2023 sono state quindi alzate dai colleghi dell’Istituto di previsione economica dell’Accademia delle scienze russa (IPE-ASR) dal 3,6% al 3,8%. In ogni caso, e tenendo conto dei risultati di ottobre 2023, possiamo ritenere che la crescita russa nel 2023 non dovrebbe essere inferiore al 3,5%. In altre parole, la crescita sarebbe dell’1,3% superiore a quella del 2021.
I. Crescita stabile
La crescita si è quindi mantenuta ad un livello elevato nel mese di ottobre, nonostante una politica monetaria più restrittiva, segnata dall’aumento del tasso di riferimento della Banca centrale russa al 15% il 27 ottobre, che ha fatto seguito agli aumenti del 15 settembre 2023, quando il tasso di riferimento è stato portato al 13%, del 15 agosto, quando il tasso è stato portato al 12%, e del 25 luglio 2023, quando è stato portato dal 7,5% all’8,5%. È abbastanza inedito nella storia delle osservazioni economiche che un aumento così consistente, +7,5%, cioè un raddoppio del livello iniziale, in tre mesi non abbia avuto alcun effetto sulla crescita del PIL.
L’andamento del PIL mostra che l’indicatore è tornato al tasso di crescita della seconda metà del 2021. La crescita russa ha raggiunto un forte picco nella prima metà dell’anno, corrispondente a una forte ripresa dell’attività dopo il periodo di confinamento causato dalla crisi COVID-19.
La crescita attuale deve essere vista anche alla luce dell'”effetto base” dell’anno precedente. Da aprile 2022 a febbraio 2022, la Russia è stata in forte recessione, in parte a causa delle sanzioni. Tuttavia, possiamo anche notare che la crescita registrata dal marzo 2023 ha più che compensato il calo del 2022. Questo è un chiaro segno che la Russia è impegnata in una crescita reale e non si sta semplicemente riprendendo dallo shock del 2022.
Graphique 1
Source : FSGS (Rosstat)
Si noti poi che nel mese di ottobre 2023 la produzione industriale è aumentata del 5,3% rispetto a ottobre 2022 e del 3,6% rispetto a ottobre 2021. La crescita dell’attività produttiva si è quindi attestata al 7,7%. Questo forte aumento della produzione industriale è una delle caratteristiche principali della nuova traiettoria di crescita della Russia, iniziata nel marzo di quest’anno.
Anche la produzione agricola è aumentata del 5,5% (e del 18,1% rispetto a ottobre 2021) e l’attività edilizia è cresciuta del 3,2% (e del 12,2% rispetto al 2021). L’attività in questi settori dimostra che l’economia russa nel suo complesso è impegnata in un fenomeno di crescita, che non si limita al solo settore industriale.
Il trasporto merci, un solido indicatore dell’attività economica, è cresciuto del 2,8% rispetto al 2022 e il volume del commercio al dettaglio del 12,7% (e dell’1,2% rispetto al 2021). Quest’ultimo dato indica una forte ripresa dei consumi delle famiglie, che contribuisce a trainare l’attività economica. La crescita complessiva rimane ampiamente influenzata dal settore industriale, che caratterizza il periodo attuale.
Graphique 2
Source : FSGS (Rosstat)
II. Continua la ripresa dell’industria
Vale la pena tornare sui risultati dell’industria, che è al centro della crescita attuale.
L’industria ha registrato una ripresa complessiva nel marzo 2023, indicando che le sanzioni hanno avuto effetto solo per un periodo di 11 mesi (aprile 2022/febbraio 2023). Questo periodo estremamente breve è stato una sorpresa per gli economisti che hanno seguito gli sviluppi in Russia per molti anni. In effetti, le reazioni dell’economia – e dell’industria – russa in seguito a shock importanti, come la crisi finanziaria dell’agosto 1998 e l’introduzione di una prima ondata di sanzioni da parte dei Paesi occidentali nel 2014, facevano pensare a un rimbalzo significativo. Ma nell’estate del 2022, il consenso tra questi economisti, e in particolare nell’ambito del seminario franco-russo organizzato due volte l’anno dal CEMI-CR451 e dall’IPE-ASR, era che lo shock delle sanzioni poteva essere distribuito su un periodo che andava dai 15 mesi (per i più ottimisti) ai 24-30 mesi (per i più pessimisti). Il fatto che sia stato distribuito su soli 11 mesi è stata quindi una (felice) sorpresa. Personalmente, nei testi scritti all’inizio del 2023, non mi aspettavo una tale ripresa dell’attività prima di giugno-luglio 2023.
I risultati dell’attività industriale mostrano che, mentre l’industria estrattiva è ancora in ritardo, è l’industria manifatturiera il principale motore della crescita, con tassi di crescita regolarmente superiori al 9% dallo scorso aprile. Anche in questo caso, anche escludendo l’effetto base per il 2022, i risultati sono piuttosto sorprendenti. A giugno, l’industria manifatturiera è cresciuta di oltre l’8% rispetto al 2021! Questo risultato indica chiaramente che è successo qualcosa di importante nell’industria manifatturiera.
Graphique 3
Source : FSGS (Rosstat)
Nel breve termine, questi risultati possono essere spiegati dalla combinazione di tre fattori alla base della crescita attuale.
L’impatto dello sforzo bellico, che probabilmente rappresenta il 40% della crescita totale. Contrariamente a quanto sostenuto in Francia e in Europa, la Russia non ha mobilitato l’intero apparato industriale per far fronte alle operazioni militari in Ucraina. Sebbene la spesa militare nel bilancio sia elevata, con oltre il 6% del PIL per il 2024, è comunque inferiore, ad esempio, alla spesa militare degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, che ha raggiunto cifre comprese tra il 7,5% e l’8,5%.
L’impatto della ripresa dei consumi delle famiglie, che non sembra indebolirsi nonostante la politica monetaria restrittiva perseguita dalla Banca Centrale. I consumi delle famiglie dovrebbero rappresentare tra il 35 e il 40% della crescita industriale.
Il grande sforzo di sostituzione delle importazioni e di delocalizzazione di tutta una serie di attività, che sta iniziando a dare i suoi frutti e sta avendo un impatto molto positivo sul tessuto industriale nel suo complesso.
Questi fattori di crescita sono stati sostenuti da una politica fiscale espansiva, che ha aggirato i canali di trasmissione della politica monetaria per limitarne l’impatto sull’attività, e dalla notevole reazione spontanea degli imprenditori russi che hanno sfruttato le opportunità create dalle sanzioni e dalla partenza di alcune aziende occidentali. Sono stati in gran parte loro a creare le modalità concrete per aggirare le sanzioni e i meccanismi di sostituzione delle importazioni. In questo sono stati naturalmente aiutati dal governo, che è stato in grado di sostenerli. La rapidità con cui il governo ha reagito e il fatto che la legge sui poteri economici dello Stato sia stata approvata l’8 marzo (e quindi probabilmente scritta negli ultimi giorni di febbraio), accreditano l’idea che le sanzioni fossero state almeno in parte anticipate.
Graphique 4
Source : Banque centrale de Russie
Un altro fattore estremamente importante dietro questa spettacolare ripresa del settore manifatturiero è il fatto che le importazioni sono tornate ai livelli precedenti alle sanzioni, o addirittura li hanno superati. Ciò avviene in un momento in cui si sta attuando una politica di sostituzione delle importazioni. Ciò indica chiaramente che, da questo punto di vista, la situazione sembra tornare alla normalità prebellica.
III. L’effetto residuo delle sanzioni sta diminuendo
Questo non significa che le sanzioni non abbiano alcun effetto. Se, come già detto, l’effetto quantitativo delle sanzioni sembra essere scomparso, il loro effetto qualitativo, in particolare sulla produttività del lavoro, è ancora evidente.
Il calo della produttività è stato significativo nel 2° e 3° trimestre del 2022. Il calo tende a diminuire, ma non è ancora del tutto scomparso. Pertanto, la produttività apparente pro capite non è ancora tornata completamente al livello del 2021.
Tableau 1
Évolution de la productivité apparente par tête
A | B | C | D | |
PIB (glissement) | Emploi (glissement) | Productivité (glissement)* | Productivité, glissement sur 2 ans** | |
1er T 2022 | 103,0% | 101,0% | 102,0% | |
2ème T | 95,5% | 100,6% | 95,0% | |
3ème T | 96,5% | 100,0% | 96,4% | |
4ème T | 97,3% | 99,8% | 97,5% | |
1er T 2023 | 98,2% | 101,9% | 96,4% | 98,3% |
2ème T | 104,9% | 102,0% | 102,8% | 97,6% |
3ème T | 105,50% | 1,025% | 102,9% | 99,2% |
* Calculée comme A/B
** Calculée comme DTn2023/DTn2022
Source : FSGS (Rosstat)
L’attuale crescita dell’economia russa si spiega quindi con un aumento significativo della forza lavoro occupata. Il 28 febbraio 2022 la popolazione occupata era di 71,7 milioni. Il 31 ottobre 2023 era di 74,1 milioni, con un aumento di 2,4 milioni. Se a ciò si aggiunge la partenza di circa 600.000 persone per l’emigrazione a causa della guerra, di cui si può comunque ipotizzare il ritorno di circa 150.000, e la mobilitazione di 300.000 riservisti, si ottiene un aumento netto di 3,15 milioni di occupati.
Graphique 5
Source : FSGS (Rosstat)
Sembra che questo aumento abbia esaurito le riserve di manodopera disponibili in Russia. La disoccupazione è particolarmente bassa, pari al 2,9% della popolazione attiva (cioè 2,2 milioni di persone, meno che in Francia per una popolazione che è comunque circa il doppio di quella francese) e sembra corrispondere in gran parte alla cosiddetta “disoccupazione frizionale”, cioè a persone che hanno lasciato volontariamente il loro precedente lavoro e sono in attesa di uno nuovo. Va notato, tuttavia, che esistono differenze regionali significative in questa situazione generale. Mentre c’è una carenza di fatto di lavoratori in regioni come il “centro” (con Mosca) e gli Urali, ci sono ancora riserve di disoccupati nel “sud”.
Il risultato di questa situazione è stato un forte aumento dei salari nominali alla fine di settembre (+13,6%), che si è tradotto in un aumento del 7,6% dei salari reali. Complessivamente, nei primi tre trimestri dell’anno, i salari reali sono aumentati in media del 7,4%. Questo è un punto molto importante. Non solo l’aumento dei salari reali ha un impatto notevole sul tenore di vita dei russi, ma conferma anche una situazione di estrema tensione sul mercato del lavoro, che sembra caratteristica del nuovo modello di crescita messo in atto in Russia.
Graphique 6
Source : FSGS et calculs du CEMI-CR451
IV. Una particolare dinamica inflazionistica
Questa situazione, che combina il calo della produttività apparente del lavoro, l’esaurimento delle risorse lavorative e i costi aggiuntivi che incidono sui fattori produttivi importati, ha naturalmente portato all’inflazione, che è tutt’altro che trascurabile ed è ora uno dei principali problemi della Russia. Il dato di ottobre 2023 è superiore del 6,7% rispetto a quello di ottobre 2022, ma è superiore del 20,0% rispetto a quello di ottobre 2021. Al 27 novembre, secondo i calcoli della Banca centrale e dell’Alfa-Bank, era pari al 7,5%. Le aspettative di inflazione sia per le famiglie che per le imprese rimangono attualmente molto alte.
Di fatto, sembra che ci siamo trovati di fronte a 3 movimenti distinti dell’inflazione.
Graphique 7
Source : FSGS (Rosstat) et CEMI-CR451
Nel corso del 2021 abbiamo assistito a una significativa tendenza inflazionistica legata all’uscita disordinata di molti Paesi dalla crisi sanitaria, tendenza riscontrabile anche nell’Unione Europea. Lo sfasamento tra la ripresa della domanda e quella dell’offerta, ritardata dai confinamenti cinesi, spiega in parte questo fenomeno. Va notato che alla vigilia dell’inizio delle operazioni militari in Ucraina, l’inflazione in Russia ha raggiunto il 9%, rispetto all’obiettivo della Banca Centrale del 4%.
Poi, con l’applicazione delle sanzioni, l’inflazione ha raggiunto un picco nel marzo e nell’aprile 2022, legato all’improvvisa scarsità di molti beni importati, prima che venissero attivati altri canali di importazione, in particolare per i beni di consumo. Ma questa inflazione non è durata. È rientrata in tempi relativamente brevi e, all’inizio del 2023, siamo scesi significativamente al di sotto dell’obiettivo di inflazione della Banca Centrale.
L’inflazione riprende dalla tarda primavera del 2023, ma questa volta sembra essere in gran parte legata all’aumento dei salari nominali causato dalla scarsità di lavoratori disponibili e, senza dubbio, anche dagli effetti indotti del calo della produttività del lavoro.
Infine, a questa inflazione si è aggiunta una forma di inflazione importata legata al deprezzamento del rublo dalla fine di giugno all’inizio di ottobre. Quindi c’era anche un meccanismo di inflazione legato al tasso di cambio.
In questo contesto, la stabilizzazione del tasso di cambio del rublo dalla fine di ottobre dovrebbe contribuire a moderare l’inflazione. Tuttavia, date le tensioni sul mercato del lavoro, l’inflazione rimarrà alta. La Banca centrale russa prevede che l’inflazione salga dal 7,5% all’8,5% nel 2023 e continui a salire nella prima metà del 2024.
V. Investimenti e consumi sostenuti
In questo contesto, il significativo aumento degli investimenti registrato nei primi 9 mesi del 2023, dopo quello registrato nel 2022, appare particolarmente significativo. È legato a diversi fattori:
La forte domanda, sia pubblica che privata, unita alla sostituzione di alcune importazioni, mantiene un clima economico espansivo, naturalmente favorevole agli investimenti.
I programmi pubblici, sia per la produzione militare che per lo sviluppo delle infrastrutture o la sostituzione delle importazioni, contribuiscono a sostenere questo clima espansivo nel lungo periodo.
I sussidi statali diretti e indiretti, così come la piccola percentuale di investimenti fissi finanziati dal credito bancario (solo il 9,9%), isolano relativamente bene le decisioni di investimento dagli effetti di una politica monetaria più restrittiva.
Questo grande sforzo di investimento, unito all’approfondimento dei legami tecnologici tra Russia e Cina, dovrebbe in ultima analisi produrre effetti positivi sulla produttività del lavoro, effetti che potrebbero concretizzarsi nel corso del 2024. L’aumento della produttività del lavoro dovrebbe quindi sostituire gradualmente l’aumento del numero di occupati, che sembra aver raggiunto i suoi limiti. Va inoltre notato che l’aumento della produttività ha un effetto moderatore sui dati dell’inflazione.
Le vendite al dettaglio hanno continuato a crescere fortemente (+11% su base annua in agosto, +12,2% in settembre e +13,3% in ottobre secondo le stime di SberIndex). La forte crescita dell’indice destagionalizzato della spesa reale dei consumatori per beni e servizi, calcolato da Sberbank, è ripresa (108,74% nell’ottobre 2023 rispetto alla stima rivista per settembre 2023 del 107,64%). Non si è ancora verificato un rallentamento significativo dei prestiti alla popolazione, nonostante il forte aumento del tasso di riferimento da parte della Banca Centrale.
Tuttavia, i dati disponibili per ottobre indicano un rallentamento della crescita del portafoglio mutui (+2,9% mese su mese rispetto al +4,2% di settembre) e dei prestiti al consumo non garantiti (+1,1% mese su mese a ottobre rispetto al +1,5% di settembre), che può essere spiegato sia con l’aumento dei tassi di prestito che con l’inasprimento delle normative macroprudenziali. L’aumento dei prestiti ai privati a ottobre è stato pari a +0,7 miliardi di rubli, inferiore a quello di agosto e settembre (quando si era registrato un aumento di oltre 0,9 miliardi di rubli al mese), ma comunque significativamente superiore a quello registrato nel periodo gennaio-luglio 2023 (da +0,1 a +0,6 miliardi di rubli al mese).
La forte attività dei consumi delle famiglie è evidenziata dal rapporto tra l’aumento dei prestiti ai privati (+5.700 miliardi di rubli) e l’aumento dei fondi detenuti dai privati nelle banche (+3.600 miliardi di rubli, esclusi i conti vincolati) per il periodo gennaio-ottobre 2023. Tuttavia, con il trasferimento dei fondi delle famiglie dai conti correnti (-347 miliardi di rubli) ai depositi (+766 miliardi di rubli) nell’ottobre 2023, unitamente all’inasprimento delle condizioni di credito nei prossimi mesi, potremmo assistere a una riduzione del livello di attività dei consumatori nei prossimi mesi.
Conclusione: un cambiamento importante nel modello di crescita?
L’economia russa ha reagito in modo particolarmente spettacolare al contesto creato dall’introduzione delle sanzioni occidentali, che sono probabilmente le più significative ad aver colpito qualsiasi Paese occidentale con cui è in pace. Questa reazione è stata resa possibile da tre fattori:
Il fatto che queste sanzioni siano state decise solo da un gruppo limitato di Paesi e che non abbiano mai portato al completo isolamento della Russia. Inoltre, il peso specifico dell’economia russa nel commercio mondiale ha reso praticamente impossibile agli Stati Uniti e ai Paesi dell’Unione Europea isolare la Russia.
La reazione delle imprese e degli imprenditori a questa situazione è stata notevole. Le aziende russe sono state in grado di sfruttare tutte le opportunità offerte da questa nuova situazione. La reattività del tessuto imprenditoriale russo alle sanzioni testimonia la dinamica che esisteva nell’economia russa alla fine della crisi di Covid-19 e che molti osservatori occidentali non hanno potuto o voluto vedere.
Il fatto che il governo russo sia stato in grado di reagire rapidamente (dall’8 marzo) ed efficacemente a questa situazione e di sostenere le imprese, sia direttamente che indirettamente. A questo proposito, mentre le reazioni del Ministero delle Finanze e della Banca Centrale sono state giustamente notate, quelle di altri dipartimenti governativi sono state relativamente ignorate. Tuttavia, sono state le reazioni dell’intero apparato amministrativo, nonché delle principali aziende statali, a consentire l’attuazione di una politica economica che si è dimostrata ben adattata alla nuova situazione.
Di conseguenza, l’economia russa è stata in grado di limitare le perdite causate dalle sanzioni (con un calo del PIL di appena -2,1% nel 2022) e di effettuare la transizione verso un nuovo modello di crescita in un arco di tempo particolarmente breve. Parte del calo della produzione nel 2022 e all’inizio del 2023 può probabilmente essere attribuito alla riorganizzazione della produzione che ha accompagnato questa transizione. È senza dubbio eccessivo attribuire l’intero calo della produzione unicamente agli effetti delle sanzioni.
Tuttavia, il periodo di transizione è stato notevolmente breve. Ciò suggerisce che molte aziende stavano già pianificando sviluppi nella direzione intrapresa dal nuovo contesto economico. Sebbene sia difficile quantificare l’impatto delle varie misure di sostegno alla sostituzione delle importazioni adottate dal 2014, è indiscutibile che il loro effetto qualitativo sia stato significativo. La transizione verso un nuovo modello di crescita, iniziata nel febbraio 2022, è stata preparata attraverso l’introduzione di nuove mentalità e nuovi processi produttivi prima del febbraio 2022. Da questo punto di vista, è probabile che il periodo 2014-2021 abbia avuto un ruolo nell’educare i decisori pubblici e privati alla nuova situazione.
Lo sviluppo particolarmente rapido di alcuni settori dell’industria manifatturiera testimonia questo cambiamento del regime di crescita. Si segnalano i guadagni estremamente significativi dei settori dei componenti elettrici, della chimica e dell’elettronica. Ma il cambiamento dei modelli di crescita non si limita a questo. La diminuzione della quota del credito bancario nel finanziamento degli investimenti in capitale fisso e la protezione offerta dallo Stato ad ampi segmenti della popolazione russa attraverso la cancellazione del debito e i prestiti agevolati indicano il passaggio a un modello di sviluppo molto meno simile al capitalismo finanziario occidentale del passato.
Non è ancora chiaro se il 24 febbraio 2022 abbia segnato l’inizio di una terza forma di sviluppo economico in Russia, dopo quella ampiamente rentier degli anni ’90 e quella di integrazione controllata nel capitalismo occidentale degli anni 2000. Tuttavia, questo non sminuisce in alcun modo l’importanza della svolta che l’economia russa sembra aver preso e delle trasformazioni che stanno interessando la struttura della produzione e che sono ora chiaramente visibili.
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Ecco un discorso di grande rilievo per la comprensione del capitalismo politico degli Stati Uniti e delle sue sfide. Gina Raimondo, segretaria al Commercio degli Stati Uniti, e Jensen Huang, presidente e CEO di Nvidia, di cui si parla a lungo in questa intervista realizzata al Reagan National Defence Forum, saranno tra i protagonisti del mio libro sull’intelligenza artificiale, che sarà pubblicato nel 2024.
Anzitutto, un aspetto significativo di per sé è la presenza di Gina Raimondo al Reagan National Defense Forum, un appuntamento col motto «promoting peace through strength» ispirato all’eredità del presidente Reagan, e che nel 2023 festeggia il suo decennale. La stessa evoluzione del Reagan National Defense Forum in questi 10 anni è importante per comprendere l’evoluzione degli Stati Uniti: all’inizio popolato soprattutto da generali, esperti di strategia militare e aziende della base industriale della difesa, nel corso del tempo si è aperto sempre di più alla tecnologia, ospitando tra l’altro imprenditori come Jeff Bezos e Alex Karp di Palantir. Gina Raimondo, qui intervistata da Morgan Brennan (una delle presentatrici più famose di CNBC) è il primo segretario al Commercio a intervenire al Reagan National Defense Forum e, come dice lei stessa, non è certo l’ultimo.
La sua retorica offensiva mette in crisi qualsiasi idea di distensione tra Stati Uniti e Cina. Se da un lato sottolinea la necessità di mantenere aperti i canali di comunicazione tra i due Paesi, per evitare una pericolosa escalation, dall’altro ciò che conta è soprattutto proteggere la sicurezza nazionale americana, difendendosi dallo spionaggio e dall’acquisizione tecnologica cinese. Ma questa esigenza di protezione si scontra con un altro imperativo dell’economia americana: la libertà e l’indipendenza concesse alle aziende per innovare e cercare nuovi mercati. È su questa linea di faglia che si sviluppa la dottrina Raimondo, che l’autrice descrive dettagliatamente in questa intervista fondamentale per comprendere le nuove prospettive della guerra dei capitalismi politici.