la trappola…e il tramonto di un Presidente, di Giuseppe Germinario

Ieri, 6 gennaio, era il giorno annunciato; il punto di svolta di cinque anni di scontro politico negli Stati Uniti. Questo punto di svolta non è stato l’assemblea riunita del Congresso Americano che doveva certificare e che oggi 7 gennaio ha certificato l’elezione del nuovo presidente. È stata invece la manifestazione e la sua conduzione; soprattutto l’obbiettivo politico strategico che ha, meglio avrebbe dovuto informare e guidare quella iniziativa così impegnativa.

Due punti fermi:

  • il vicepresidente Pence aveva la facoltà di rinviare la certificazione del voto negli stati contestati a quegli stati stessi; entro due mesi questi ultimi avrebbero dovuto decidere entro due mesi se confermare o meno il responso

  • gli indizi che l’elezione di Biden sia il frutto di un broglio elettorale in quantità industriale sono pesantissimi. In Italia, ovviamente, non disponiamo delle prove come spesso e volentieri ci viene rimproverato strumentalmente; quelle sono in possesso dei manipolatori e del collegio di avvocati che ha contestato quelle modalità di svolgimento. Del resto Trump era stato avvertito con dovizia di particolari sin da giugno scorso di quello che si stava tramando

La manifestazione a Washington avrebbe dovuto essere uno straordinario momento di pressione e delegittimazione di una classe dirigente e di un ceto decadente e fatiscente al quale è legato con un cordone ombelicale una classe dirigente europea altrettanto fatiscente. Si è rivelata una trappola tanto tragica quanto scontata, almeno per chi ha esperienza di queste cose.

È molto probabile che, con l’assenza di un dissuasivo apparato di sicurezza appena sufficiente, si sia incentivata ed istigata la parte più radicale e irrazionale di quel movimento e di quella manifestazione; è certo però che quel movimento soffre di una carenza di guida e di strategia, di obbiettivi politici di fondo chiari che apre varchi enormi a quelle componenti irrazionali e sterilmente radicali che in più occasioni, sin dagli albori, avevano rivelato il loro cieco anarchismo. Non è un caso che il gruppo che aveva concepito e portato al successo la prima candidatura di Trump, valutando tra l’altro questo, si era immediatamente sciolto al momento dell’insediamento di “the Donald”. È quindi in quel movimento e in quella manifestazione, in chi la ha condotta che risiede la responsabilità politica di questo epilogo, compreso l’incredibile invito esplicito del Presidente ai manifestanti di raggiungere la sede del Congresso.

Questo epilogo rappresenta molto probabilmente la fine della carriera politica di Donald Trump; molto probabilmente rappresenterà la fine civile tragica del personaggio, se non a prezzo, ma non è detto che sia sufficiente, di un umiliante ritorno a Canossa, molto più degradante di quello subito ed accettato da Berlusconi. Osservando il personaggio, un epilogo quest’ultimo improbabile.

L’epilogo cruciale della manifestazione è avvenuto nel momento di una sconfitta tattica pesante, la conferma dell’elezione di Biden, ma di una situazione strategica abbastanza favorevole al movimento di Trump. Le elezioni avevano rivelato il radicamento del movimento in territori pregiudizialmente ostici sino a pochi anni fa; in comunità etniche, comprese la nera, sino ad ora appannaggio e riserva elettorale e di consenso esclusiva dei democratici; in ceti sociali sino a qualche anno fa inaccessibili al richiamo del partito repubblicano. Per raggiungere questo risultato Trump è stato capace di rivoluzionare quel partito senza però aver avuto la capacità ed il tempo di sostituire sufficientemente ed adeguatamente il suo gruppo dirigente.

Il punto di forza di questo movimento è stato ed è ancora il suo patriottismo e il nazionalismo. Due virtù che prevedevano una riconsiderazione della politica internazionale, una avversione al globalismo o quantomeno alle sue modalità di esercizio e il tentativo di ricostruire una formazione sociale più coesa ed economicamente più equilibrata.

Due virtù che però hanno guardato al passato remoto degli Stati Uniti, alla sua costituzione originaria varata da George Washington nel ‘700.

Non è, storicamente, una novità. Spesso i movimenti rivoluzionari e di trasformazione si sono attaccati al passato sotto una veste apparentemente reazionaria e conservatrice che comprendeva in essa contenuti programmatici adeguati alle esigenze di rinnovamento e alle trasformazioni in corso.

Questo movimento e i suoi gruppi dirigenti così approssimativi hanno una particolare difficoltà a coniugare questi aspetti.

La situazione degli Stati Uniti è particolarmente precaria e difficile: i competitori nello scacchiere geopolitico si stanno moltiplicando e stanno mettendo in discussione dall’interno il circuito costruito in questi ultimi quarant’anni. Un circuito, associato all’ideologia neocon e politicamente corretta strette in un paradossale sodalizio, che ha accelerato i processi interni a quel paese di polarizzazione geografica, di frammentazione ed isolamento etnici agli antipodi dell’ideale originario di “melting pot”, di degrado di intere aree geografiche e metropolitane, di scomposizione e degrado di ceti medi tipici di una fase regressiva.

Una situazione che avrebbe dovuto ancor di più spingere le menti di quel movimento a pazientare, a tessere con maggior convinzione una trama che accentuasse ulteriormente l’erosione della base sociale democratica e neocon, che tentasse un dialogo almeno larvato con le espressioni politiche dissenzienti di quella area ormai sempre più riottosa, a dispetto dell’opportunismo e del trasformismo dei suoi capi, a cominciare da Sanders e Cortez, ad accettare le logiche di appartenenza ad un partito contrapposto artificialmente all’altro.

Sull’onda dell’euforia del momento Trump e chi per lui ha scelto una strada diversa, a cominciare dalla polemica sulla natura socialista di quelle forze avverse, quando in realtà si trattava di una natura egualitaria, per altro per alcuni settori specifici della società (studenti, emarginati) che tuttalpiù sfociava facilmente in forme di assistenzialismo. Per non parlare della connotazione religiosa e messianica offerta per altri aspetti dello scontro politico. Una strada comprensibile, per le caratteristiche intrinseche del proprio movimento e per i limiti ancor più gravi dei suoi leader, ma non giustificabile, specie in una fase nella quale stanno emergendo tutte le contraddizioni che stanno mettendo a rischio la coesione e l’esistenza dello stesso partito democratico americano.

A questo si è aggiunta una ingenuità inspiegabile per un leader che ha conosciuto quattro anni di scontro politico della virulenza vissuta da Donald Trump; quello di aver fondato le aspettative di rivalsa prevalentemente su una azione legale, per quanto fondata giuridicamente, quando in realtà si tratta di uno scontro politico talmente esistenziale da coinvolgere apparati di potere ben più pervasivi, potenti ed operativi nel loro intreccio di legami.

Tutti limiti che rischiano di trasformare un movimento fondato su principi di unità nazionale e di patriottismo ostentato in un movimento in fase di ripiego disposto ad accettare e promuovere ipotesi di secessione dagli esiti tragici per se stesso e per il paese nella sua unitarietà.

Viene in particolare alla luce il limite di fondo di rappresentazione della realtà che sta guidando un movimento per altro ancora così eterogeneo e frammentato. Una rappresentazione che raffigura il conflitto insanabile tra un basso, la base popolare e produttiva ed un alto, raffigurato in un establishment arroccato, chiuso ed autoreferenziale. Quell’establishment sta scivolando sicuramente lungo questo declivio; ma è appunto un processo tutt’altro che compiuto o in fase di esaurimento. Dispone ancora del controllo pressoché totale dei centri di comando degli apparati coercitivi ed amministrativi, anche se meno nella loro base esecutiva; e una disarticolazione, un indebolimento e una sostituzione di quei centri è una parte fondamentale dell’azione politica, specie quella più “riservata”. Dispone per altro ancora di una discreta capacità di aggregazione di una parte significativa della base sociale e soprattutto del controllo maggioritario dei settori tecnologici più avanzati e delle prospettive di futuro che, nel bene e nel male, questi possono offrire.

Sta di fatto che gli Stati Uniti sono una nazione politicamente divisa in due e socialmente polarizzata sia verticalmente che orizzontalmente; una frammentazione sociale che rischia di portare ad una frammentazione politica.

Il successo di un movimento politico così alternativo non può prescindere da una azione di erosione in quei tre ambiti sucitati e dal superamento di una fase e concezione spontaneistica che induce a sottovalutare l’importanza della formazione di gruppo dirigente politico, di una élite adeguati.

Il successo più o meno pianificato della trappola dell’assalto al Campidoglio richiederà molto probabilmente il sacrificio, probabilmente tragico, di un leader; porrà certamente il movimento e i nuovi leader che la fucina del conflitto sta facendo emergere di fronte ad un bivio non più eludibile. Dalla strada che sapranno o saranno indotti a prendere dipenderà la natura e la modalità di svolgimento di un conflitto particolarmente virulento e destabilizzante, tutt’altro però che sopito e messo a tacere. Ne vedremo sicuramente delle belle, anche tragicamente belle, non solo lì, ma anche nelle implicazioni più contorte, anche qui, nel nostro paese così provincialotto e perennemente in attesa delle decisioni altrui.

Elezioni americane, una settimana di fuoco _ con Gianfranco Campa

la settimana tra il 4 e il 10 gennaio è cruciale per lo scontro politico in corso negli Stati Uniti. Deciderà dell’insediamento alla Casa Bianca, certamente non porrà fine ad una contesa che tutto lascia pensare, soprattutto le mosse di Trump, assumerà toni sempre più aspri e definitivi. I colpi bassi non mancano- Ci troviamo di fronte ad una elite decadente quanto arrogante che fatica a nascondere il lato oscuro dell’azione politica

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La risposta democratica alla dottrina Trump 2a parte, di Maya Kandel

La prima parte di questo sondaggio in due parti può essere trovata qui .

Trump ha aperto il più grande dibattito di politica estera negli Stati Uniti da decenni, dopo essere stato eletto nel 2016 sulla sua promessa di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo. La sua risposta, “America First”, ha sfidato alcuni postulati dell’azione estera del paese e ha posto la questione del legame tra politica estera e politica interna al centro del dibattito democratico. Dopo una prima sezione dedicata alla  dottrina Trump , questa seconda sezione si concentra sulla visione, o più precisamente sulle visioni democratiche in politica estera: la dottrina Biden non esiste ancora, e si cristallizzerà solo sotto la prova di potere ed eventi dei prossimi anni. Ma è stato costruito da un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

Ricostruisci dopo Trump

Il campo democratico condivide la diagnosi trumpiana di una crisi nella politica estera americana. La specificità del 2016, al di là di Trump, era legata alla specificità del momento per la politica estera, cristallizzando una doppia crisi, e in particolare una crisi interna di legittimità della politica estera: il fatto che gli americani non sostenessero più, e non capiva più l’azione esterna del Paese. Le élite democratiche specializzate in politica estera hanno visto questa crisi e hanno trascorso quattro anni cercando di trarne le conseguenze. 

Così va inteso lo slogan “  Build back better  ” della campagna Biden: ricostruire meglio e in modo diverso, come dopo un disastro naturale. La frase è il filo conduttore del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che lo ha già assunto nel gennaio 2019. Non è un promemoria del truismo democratico che da tempo ripete che il potere esterno deve basarsi sul potere interno: l’ondata populista è passata da qui, ed è una riflessione sul 2016 e sul voto di Trump che lasciano i Democratici di oggi.

La dottrina Biden non esiste ancora e si cristallizzerà solo sotto la prova del potere e gli eventi dei prossimi anni. Ma si basa su un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

MAYA KANDEL

Al centro della formula, portata dallo stesso Sullivan, troviamo questa  diagnosi  secondo la quale gli americani non sostengono più la politica estera perché sentono che non serve più i loro interessi: il che porta al secondo slogan del E ‘l’era Biden, già indossata da  Elizabeth Warren  durante le primarie, ovvero la volontà di fare “una politica estera per la borghesia” (americana, ovviamente). Questo è anche il titolo di un rapporto del think tank Carnegie, pubblicato a fine settembre ma frutto di un lavoro durato diversi anni lontano da Washington, per sondare gli americani nel “cuore del Paese” sulla loro visione e sulle loro aspettative. -politica estera visibile: questo rapporto, giustamente intitolato ”   Far funzionare la politica estera per la classe media  »Chiede di ripensare il ruolo internazionale del paese; tra i suoi coautori troviamo Jake Sullivan.

La nuova amministrazione democratica eredita altri elementi, grazie ancora a Trump, che lo ha reso possibile, proprio perché non era un esperto (eufemismo) e voleva scuotere il sistema, per mettere in discussione alcuni presupposti: esso È qui che troviamo l’altro slogan comune a entrambe le parti, la “fine delle guerre infinite” in Medio Oriente, un altro modo per porre fine al periodo successivo all’11 settembre 2001 (l’accelerazione degli annunci di ritiro – Afghanistan , Iraq, Somalia – dal momento che la sconfitta di Trump è adatta ai Democratici, che hanno protestato meno dei loro omologhi repubblicani). Vale anche la pena menzionare qui la messa in discussione del libero scambio su uno sfondo di critiche populiste sia da destra che da sinistra, considerando che la globalizzazioneavvantaggiavano le multinazionali e i loro profitti molto più degli interessi dei cittadini (anche se i consumatori potevano comprare a meno). Aggiunto alla fine del ruolo americano di “poliziotto del mondo”, già respinto da Obama con il pretesto di diminuire i mezzi, è infatti il ​​periodo del dopo Guerra Fredda che si chiude anche per i Democratici, con la comune constatazione del fallimento. del principio guida della politica estera americana dal 1990 che postulava l’idea che l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li avrebbe resi partner responsabili (anche, idealmente, democrazie liberali): Cina e Russia non sono diventate nessuno dei due, mentre la relativa potenza americana è diminuita di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina.di un “realismo” a lungo diffamato nell’intellighenzia di politica estera: ”   realismo con principi   ” nella dottrina Trump (una formula usata nella strategia di sicurezza nazionale del 2017), ”   realismo progressista   ” per la sinistra del partito democratico, il che suona in entrambi i casi come ammettere i limiti del potere americano.

La visione democratica differisce dalla dottrina Trump su due caratteristiche centrali: minacce e mezzi (il punto di partenza e il cuore della strategia). La prima divergenza strategica riguarda non solo la gerarchia delle minacce, ma anche più profondamente la loro natura. L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, ampiamente ignorate dai repubblicani, e si colloca persino ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la guerra fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico. La divergenza sui mezzi deriva principalmente da questa visione più ampia delle minacce, poiché la cooperazione internazionale diventa una condizione necessaria per affrontarle laddove l’amministrazione Trump aveva fatto dell’unilateralismo (o bilateralismo) il suo approccio unico alle relazioni internazionali. . Riscopre la tradizionale insistenza democratica sulla diplomazia e contro l’eccessiva militarizzazione della politica estera americana. Il multilateralismo nasce da questo per i Democratici, come metodo ma anche come principio, quello basato sulla convinzione che alleati e partner siano ancora il principale moltiplicatore di potere degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Questa prospettiva non contraddice in alcun modo il fatto che un presidente americano abbia come priorità la difesa degli interessi americani, e non impedirà un approccio più nazionalista o patriottico alla definizione di questi stessi interessi; ma implica l’esistenza di una comunità internazionale, un’esistenza che il team di Trump aveva negato fin dall’inizio attraverso la voce del suo secondo segretario alla sicurezza nazionale, HR McMaster. Anche un simile approccio si opponela visione hobbesiana di uomo Trump affare , per i quali le relazioni internazionali non può essere un gioco a somma zero: i democratici ritengono che siamo in grado di proporre i propri interessi senza necessariamente danneggiare degli altri, anche spostandoli anche in avanti. Infine, Biden e la sua cerchia ristretta vogliono anche ricostruire una base bipartisan per la politica estera, al fine di garantire la stabilità dei principali orientamenti esterni del Paese: questo risponde a una preoccupazione di efficienza, ma anche al fatto che il principale  pericolo di polarizzazione  della politica estera è la perdita di fiducia dei partner di fronte alla cronica instabilità degli impegni internazionali degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.

L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, largamente ignorate dai repubblicani, e pone addirittura ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la Guerra Fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico.

MAYA KANDEL

Ripoliticizzare la politica estera

Il filo conduttore del pensiero democratico, logica conseguenza della polarizzazione della politica estera americana, è quello della ripoliticizzazione della politica estera nel suo insieme, anche nella definizione degli interessi nazionali. Sullivan ha menzionato, nel suo articolo del 2019, uno scambio sintomatico con l’economista Jennifer Harris che gli ha chiesto perché la sua amministrazione seguisse comunque esattamente la stessa politica economica internazionale, quando la politica estera di Obama doveva essere una rottura con quella di Bush. Questa critica evoca il grilletto per la critica populista della politica estera (rifiuto di TINA,  There Is No Alternative, un altro nome del consenso neoliberista prevalente dagli anni ’80 fino alle sue recenti critiche), ricorda la necessità di studiare la base elettorale della politica estera, perché le questioni interne ed esterne sono intrecciate – ciò che i cittadini sanno. Si pone la necessità di ripensare la natura e il posto della politica economica internazionale al centro della strategia, argomento su cui hanno lavorato anche gli stessi Sullivan e Harris   in un articolo dal titolo originale premonitore ( Neoliberalism is done ), mettendo in discussione il postulati neoliberisti che hanno guidato la politica economica dall’era Reagan-Thatcher.

L’ ambizione di spazzare via quello che altri chiamano il “Washington consensus” sopravviverà ai vincoli politici americani? La domanda può essere posta, sia alla luce delle attuali condizioni politiche a Washington, sia per la molteplicità dei punti di vista democratici. Thomas Wright, analista presso la Brookings Institution di Washington, ha  proposto una dicotomia tra restaurazione o riforma come griglia per interpretare la politica estera di Biden, visto che il dibattito principale si svolge all’interno di circoli centristi, tra lealisti della linea Obama (restaurazione) e desiderio di diritti di inventario (riforma) . Siamo tentati di aggiungere “rivoluzione” per tener conto del peso dei progressisti della tendenza AOC-Sanders (i Warrenisti sono più dalla parte dei riformatori della griglia di Wright) nel dibattito di politica estera. Il fatto che la sinistra della sinistra democratica intenda influenzare il dibattito di politica estera è già un fatto nuovo che guida le scelte della prossima amministrazione. La differenza si giocherà, per il mondo come per gli americani, sulla politica economica internazionale, soprattutto sul commercio, in particolare nelle sue variazioni sulla tecnologia e sul clima. Con speronela questione cinese , come per la dottrina Trump – uno sprone che potrebbe diventare il motore o addirittura la principale continuità, a causa  delle condizioni politiche degli Stati Uniti contemporanei evidenziati dalle elezioni del 2020: una vittoria democratica molto netta a livello nazionale, ma una base elettorale trumpista consolidata e ampliata, risultante in termini politici da un equilibrio di potere quasi uguale, con forse il mantenimento di un Senato repubblicano (risposta dopo il 5 gennaio 2021 e risultati dei due secondi turni delle elezioni senatoriali in Georgia). Ma l’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

Se il suo margine di manovra fosse limitato a livello nazionale da un Senato repubblicano, Biden potrebbe essere spinto ad agire più a livello internazionale dove l’azione del Presidente è meno vincolata dal Congresso. Tuttavia, l’amministrazione dovrà fare i conti da un lato con i due poli di un partito repubblicano diviso tra tendenze trumpiste all’isolazionismo e fautori di un internazionalismo militarista ora anti-cinese, e dall’altro si scontrerà con le divisioni del Campo democratico sulla politica estera. La ricerca di un sostegno bipartisan potrebbe in particolare irrigidire la politica cinese dell’amministrazione Biden, con conseguenze per il posizionamento europeo e lo sviluppo delle relazioni transatlantiche .

L’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

MAYA KANDEL

Ridefinire la sicurezza nazionale: l’offensiva progressiva

La pandemia e l’anno 2020 hanno fatto luce sulla  portata dei movimenti  nati o decollati dall’inizio della presidenza Trump, e soprattutto hanno permesso la loro cristallizzazione in una mobilitazione di massa popolare dopo la diffusione dell’assassinio di George Floyd. Sono infatti la reclusione, la disoccupazione forzata e gli effetti della pandemia che non solo hanno alimentato la frustrazione, ma hanno anche permesso la consapevolezza e le manifestazioni massicce, insolite e storiche della popolazione americana. Le mobilitazioni riunite ben oltre gli attivisti di  Black Lives Matter , hanno illustrato i legami e le convergenze di questi movimenti (dal  Sunrise Movement  al  Working Families Party attraverso i  Justice Democrats e molti gruppi femministi, etnici, LGBTQA +, ecc.), e hanno mostrato la forza dei “nuovi attivisti” – per citare l’espressione  nell’eccellente libro di  Mathieu Magnaudeix, movimenti nati o che hanno ha acquisito uno slancio notevole durante i quattro anni di presidenza di Trump. Questi sviluppi hanno trasformato la candidatura di Biden, costringendo il candidato a coinvolgere da vicino i progressisti nello sviluppo del suo progetto, con la costituzione di gruppi di lavoro tra il suo team e quello di Sanders, e più in generale alla sua futura amministrazione, con il  reclutamento all’interno del suo stretto staff di personalità appartenenti a minoranze etnico-razziali. Senza la fine delle primarie e la rinuncia e il chiaro raduno di Sanders da marzo 2020, possiamo immaginare che il campo democratico non si sarebbe avvicinato alla campagna generale nello stesso stato, e probabilmente non avremmo conosciuto una tale collaborazione. durante la campagna tra le due ali nemiche. Questa trasformazione ha colpito per la prima volta il clima economico del  programma , incluso Biden, a metà luglio dal programma soprannominato  Sunrise Movement , che era molto critico nei confronti del piano Biden di pochi mesi fa.

La progressiva offensiva per realizzare un vero cambiamento sistemico si è manifestata anche in politica estera. Questo aspetto segna una rottura con i Democratici – un segno della fine dell’era post-Guerra Fredda – al di là anche della messa in discussione di ciò che aveva guidato l’atteggiamento della sinistra durante la Guerra Fredda almeno fino a «la guerra del Vietnam: l’accettazione di un accantonamento nella politica interna, lasciando agli esperti di strateghi la conduzione degli affari esteri a causa dell’imperativo imperativo di lottare contro l’Unione Sovietica; a quel tempo, la politica estera era destinata anche a servire le classi medie perché garantiva la crescita economica (che in genere era il caso all’epoca). Dopo il Vietnam, la sinistra di sinistra si è poi trovata in una posizione pacifista e antimilitarista, senza però investire in politica estera al di là dell’opposizione aperta. Dopo la Guerra Fredda, alcuni pacifisti storici, come il rappresentante Ron Dellums, si erano persino uniti ai sostenitori degli interventi umanitari, in particolare negli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per affascinanti dibattiti sulla definizione di a in particolare durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a soprattutto durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a politica estera di sinistra . Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema. Dopo ulteriori vittorie progressiste alle primarie del 2020, la sconfitta a New York del rappresentante Elliot Engel (presidente della commissione per gli affari esteri della Camera) ha portato a una lettera di quasi  70 organizzazioni progressiste, di solito incentrato sulla politica interna, chiedendo alla presidenza di questa Commissione decisiva di tradurre le idee progressiste nella politica estera americana: “moderazione e realismo progressista”, rivalutazione degli strumenti di politica estera (diplomazia, interventi militari, sanzioni, ecc.) e ridefinizione degli obiettivi (lotta alla corruzione, tutela della biodiversità, trattamento di alleati e avversari, ecc.).

Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di una politica estera di sinistra. Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema.

MAYA KANDEL

Alla sua nomina, Jake Sullivan ha annunciato di voler ampliare la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” che determina gli obiettivi dell’azione internazionale del Paese. Lo sviluppo più interessante finora è la scelta di John Kerry come inviato speciale per il clima e, soprattutto, la  decisione  di dargli un seggio e quindi una voce nel Consiglio di sicurezza nazionale alla Casa Bianca. , al centro dello sviluppo della politica estera. Il segnale è chiaro ed è stato richiamato sia da  Kerry  che da  Sullivan durante le rispettive nomine: il cambiamento climatico deve essere integrato nel pensiero della sicurezza nazionale e la diplomazia climatica sarà al centro della politica estera. Se c’è un argomento in cui europei e americani dovrebbero essere alleati naturali, è quello del clima; questa considerazione del clima si può trovare anche su tutte le questioni di politica interna, dall’agricoltura ai trasporti e alle infrastrutture,     essendo l ‘” ambizione climatica ” apparentemente un criterio per il reclutamento nel team di Biden. È anche un argomento su cui la conversazione deve includere la Cina, e apre orizzonti emozionanti (chiariti qui da  Pierre Charbonnier), per trasformare il pensiero geopolitico e geoeconomico, anche per l’Europa che dovrebbe coglierlo. È qui che si gioca anche una parte dell’ambizione dell’amministrazione Biden.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden. Il suo slogan sarà con tutta probabilità ereditato anche da Trump, che ha aggiornato i principi geoeconomici definiti da Edward Luttwak alla fine della Guerra Fredda: la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Da questo punto di vista, la sicurezza economica ha la precedenza sulle alleanze geopolitiche, e non il contrario. Yellen giocherà anche un ruolo di primo piano nella politica cinese, dal momento che gli elementi più decisivi messi in campo dall’amministrazione Trump sono stati posti dal Tesoro (elenco di entità e sanzioni extraterritoriali in generale). fiscalità  nazionale e internazionale nel programma Biden. Avrà il controllo sul destino dei decreti e dei regolamenti messi in atto dall’amministrazione Trump dopo il voto sulla riforma fiscale da parte del Congresso repubblicano alla fine del 2017, in particolare per quanto riguarda la tassazione delle multinazionali. Il suo tandem con il nuovo capo del commercio della Casa Bianca, Katherine Tai, sarà sicuramente una parte fondamentale delle prossime relazioni transatlantiche.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden.

MAYA KANDEL

Ripensare le relazioni internazionali nel XXI °  secolo: la sfida cinese, l’emergenza clima

La Cina  divide i Democratici  (come i Repubblicani), e questo anche all’interno del campo progressista: tra chi rifiuta una nuova guerra fredda ma intende lottare contro un asse autoritario internazionale, e chi preferisce concentrarsi sui temi della cooperazione e un disimpegno militare americano. Ci sono molti intorno a Biden, tuttavia, soprattutto nella comunità strategica, che vedono la sfida cinese alla superpotenza statunitense come la principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo   come l’unico modo per ricostruire una politica estera. solido e affidabile perchébipartisan . Alcuni vanno anche oltre, vedendo nella questione cinese il  modo migliore  per Biden, in caso di Senato repubblicano, di fare politica estera   politica interna: una forma di inversione dell’adagio del senatore Vandenberg ( politica si ferma al bordo dell’acqua, il che significava che l’interesse nazionale era superiore – e indipendente da – qualsiasi posizione politica interna e quindi di parte); La Cina, come unico punto di convergenza della politica interna, diventa così il pretesto per la politica interna (per il commercio, la tecnologia, le infrastrutture, ecc. Tutto sotto l’ombrello della concorrenza con la Cina). Ovviamente non sarebbe la prima volta nella storia americana che un evento esterno servisse da pretesto per la trasformazione interna, essendo numerosi gli esempi storici da Hamilton a Roosevelt e Reagan. Ma sarebbe anche un ritorno a una gestione “tecnocratica”, presumibilmente “politicamente neutrale” della politica estera e degli interessi nazionali – precisamente il cuore dell’attuale protesta.

In un  ottimo articolo elencando diversi lavori recenti, l’economista Adam Tooze ha ricordato che la fine del periodo post-Guerra Fredda ha chiuso anche il periodo in cui gli Stati Uniti credevano di poter considerare le sfere economiche e strategiche come separate artificialmente o indipendenti da una delle Un’altra: nella tesi di Fukuyama sulla fine della storia c’era proprio questa idea che la crescita economica grazie alla globalizzazione potesse essere “geopoliticamente neutra”. Si volta pagina su quella che non è mai stata una finzione basata sull’idea che la globalizzazione americana fosse, come l’egemonia americana, necessariamente “benevola”, e sull’euforia globalizzante legata alla fine del guerra fredda. Nella comunità strategica americana, è davvero la realtà e “l’enormità” (come la chiamava giustamente Fareed Zakaria ) del potere cinese che spiega la svolta strategica dell’era Trump, l’adozione di un atteggiamento ostile – molto più che la preoccupazione per il deficit commerciale o la scomparsa dei lavori non qualificati dei colletti blu del Rust Cintura. È così che dobbiamo intendere il rilancio del concetto di “geoeconomia”, che Luttwak  aveva avanzato  proprio alla fine della Guerra Fredda. Il Pentagono ne è consapevole da tempo e il legame tra sicurezza nazionale e sicurezza economica è onnipresente nella  Strategia di difesa 2018 . La questione della leadership tecnologica e del futuro di Internet è al centro di questo nuovo approccio.

Mentre i leader americani (ed europei) hanno appena ammesso il legame tra la globalizzazione delle democrazie di mercato guidata dalle amministrazioni Clinton e Bush e l’attuale regressione democratica nella stessa area euro-atlantica, il concorrente progetto cinese di Routes de La seta riguarda una parte crescente dell’umanità e il suo modello di governo tecno-autoritario viene esportato in tutto il mondo. Il risveglio americano è troppo tardi? Adam Tooze conclude sulla necessità di pensare e fare il passo successivo, immaginare una forma di rilassamento sullo sfondo di una nuova era segnata dalla consapevolezza della sfida esistenziale posta dall’Antropocene – la pandemia del 2020 è il segno che questa era è iniziato. La domanda quindi è se americani ed europei, che lì potrebbero svolgere un ruolo veramente geopolitico, si daranno i mezzi per diventare loro stessi quello che lui voleva dai cinesi: partner responsabili e competenti, impegnati a gestire – se non risolvere – i rischi e le sfide di questa nuova era.

elezioni presidenziali americane_ X atto con Gianfranco Campa

Sull’esito delle elezioni presidenziali americane sembra essere calata una spessa cortina fumogena. Stampa e notiziari non ne parlano più. Si vuol dare l’impressione di un decorso normale verso l’insediamento di Biden, quando in questa vicenda c’è ben poco di normale. Ormai lo scontro politico ha assunto altri orizzonti che vanno oltre gennaio 2021. Un nuovo presidente sempre meno legittimato, ma intenzionato a cadere nella trappola della vendetta; una opposizione sempre più agguerrita in cerca di nuovi leader_Giuseppe Germinario

Il Kamalometro, di Giuseppe Masala

Il Kamalometro.
Forse ho trovato il termometro corretto per capire come andrà a finire la contesa giudiziaria sulle elezioni presidenziali in Usa.
Kamala Harris, vice presidente eletta o presunta tale a 25 giorni dalle elezioni Usa ancora non si è dimessa dal Senato come sarebbe dovuto. Ho controllato un po’ per fare qualche raffronto e ho scoperto che Obama si dimise a 12 giorni dalle elezioni che lo incoronarono Presidente.
Il Kamalometro segna +25 ed è già oltre la soglia d’allarme. Quando e se Kamala si dimetterà vorrà dire che i giochi saranno fatti. Al contrario, se non si dimetterà entro i prossimi 10 giorni possiamo parlare di gravi problemi.
[E’ un po’ buffa questa cosa, ma non essendo in grado di capire la battaglia legale in corso, mi affido a questo indicatore empirico]
NB_tratto da facebook

elezioni americane_ IX atto e oltre con Gianfranco Campa

Le notizie ormai si inseguono. Appena finita la registrazione trapelano notizie attendibili riguardante la separazione di Sydney Powell dalla squadra di avvocati guidata da Giuliani. Trump è orientato a riconoscere la vittoria di Biden e con lui Giuliani. La Powell, sostenuta dal generale Flynn, vorrebbe andare sino in fondo. Le prove di frode elettorale sarebbero schiaccianti; forse troppo però. Pare che a detenere le chiavi di accesso a Dominion siano proprio gli omini ombra del grande orecchio più importante. Non è più uno scontro che riguarda soprattutto il ceto politico. L’osso rischia di essere troppo grosso; anche per la stessa Corte Suprema e per mastini come Giuliani. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

ELEZIONI PRESIDENZIALI AMERICANE_ VIII atto con Gianfranco Campa

Lo staff legale di Trump, il passato autorevole degli avvocati, la sottovalutazione dell’efficacia e dell’inerzia del sistema di potere, il sistema Dominion; la composizione e le competenze dei giudici della Corte Suprema, l’allineamento dell’intera classe dirigente democratica e repubblicana, la crisi di un intero ceto politico, il movimento di massa, l’emergere di nuovi capi politici. Una conversazione un po’ lunga, ma da ascoltare tutta di un fiato_Giuseppe Germinario

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti, di Hajnalka Vincze

Un interessante articolo dell’analista ungherese Hajnalka Vincze sulle possibili dinamiche future della “alleanza” USA/stati europei. Qualche approfondimento maggiore meriterebbero le posizioni della Presidenza Trump e soprattutto la loro contraddittorietà dovuta in gran parte alle lacerazioni politiche interne agli Stati Uniti e alla scarsa disponibilità, se non alla aperta ostilità delle gerarchie militari americane nella NATO a seguirne le indicazioni; per il resto un testo ricco di spunti di riflessione, fermo restando che i giochi dell’insediamento alla Casa Bianca non si sono ancora conclusi; anzi, più si trascineranno, più la figura presidenziale assumerà la sostanza di una “anatra zoppa”_Giuseppe Germinario

Hajnalka Vincze:

https://europatarsasag.hu/sites/default/files/open-space/documents/magyarorszagi-20201115vinczetransatlanticrelationsbiden.pdf

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti

(Hungarian Europe Society, 15 novembre 2020)

Fedele alla forma, le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 hanno innescato una valanga di passioni nelle relazioni transatlantiche. Ansia corrispondente alla semplice domanda “Ci ameranno di nuovo, vero?” era diffusa dal lato europeo. Sfortunatamente, questo tipo di approccio non fa che rafforzare la decennale matrice emotiva delle montagne russe del legame euro-americano. Si alimenta nell’oscillazione senza fine tra clamorosi “litigi” e spettacolari “riconciliazioni”. Questa è una spirale nefasta, perché più ci sforziamo di mostrare la nostra presunta armonia, più anche gli scontri minori assumeranno l’aspetto di una tragedia. E più quegli scontri sono percepiti come sconvolgenti, più dobbiamo insistere sull’armonia, per tornare alla “normalità”, cioè a un altro giro sulle montagne russe.

Anche se i primi incontri tra l’amministrazione Biden e le loro controparti europee si adatteranno sicuramente a quel modello (una felice riunione di famiglia, dopo una caduta di quattro anni), tutti questi sconvolgimenti emotivi stanno iniziando a farsi sentire. Gli europei sconvolti da alcune impennate dell’era Trump ricordano ancora di essere stati traumatizzati anche durante i tanto attesi anni di Obama, in particolare dal cosiddetto perno asiatico. Di conseguenza, il diffuso sollievo, persino il giubilo, in Europa per il cambio di amministrazione statunitense è questa volta sfumato con più cautela rispetto a dodici anni fa, quando Barack Obama era atteso e salutato come il “salvatore”.

Parlando dinanzi al Parlamento europeo nel luglio 2020, il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer ha avvertito in anticipo che solo il “tono” sarebbe cambiato dopo la vittoria di Biden.1 Il presidente francese Emmanuel Macron, nella sua ormai famigerata intervista di “morte cerebrale” , ha anche sottolineato: “non è stata solo l’amministrazione Trump. Devi capire cosa sta succedendo nel profondo del processo decisionale americano ”. 2

Un’alleanza congelata (més)

La scomoda realtà è che trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli europei hanno consentito ancora che l ‘”Occidente” fosse squilibrato come lo era durante la Guerra Fredda. La maggior parte dei governi europei spera di continuare a cavalcare, per quanto possibile, gli Stati Uniti per la loro difesa, a costo di ciò che ex alti funzionari americani e britannici chiamavano “un’eccessiva deferenza verso gli Stati Uniti” .3 Negli ultimi tre decenni, gli osservatori americani sono stati continuamente stupiti dalla riluttanza degli europei a uscire dal loro status di “protettorato” degli Stati Uniti .4 All’inizio degli anni 2000, Charles Kupchan ha sottolineato: “Nonostante tutto ciò che è cambiato dal 1949, e soprattutto dal 1989 l’Europa è rimasta dipendente dagli Stati Uniti per la gestione della propria sicurezza ”. Ha poi aggiunto: “Il controllo sulle questioni di sicurezza è il fattore decisivo per stabilire l’ordine gerarchico e determinare chi è al comando” .5

Quindici anni dopo, nulla è cambiato.

Come osserva Jeremy Shapiro: “Le nazioni d’Europa contano sull’America per la propria sicurezza e l’America non fa affidamento sull’Europa. Questa dipendenza asimmetrica è la caratteristica fondamentale e apparentemente permanente delle relazioni transatlantiche, il fatto scomodo alla base di decenni di retorica sui valori condivisi e sulla storia comune. ”6

Essa porta anche inevitabilmente alla cosiddetta logica transazionale. Non esiste una cosa come la difesa gratuita; prima o poi, in una zona o nell’altra, c’è sempre qualcosa da aspettarsi in cambio. La revisione dal basso dell’amministrazione Clinton è stata piuttosto chiara: “I nostri alleati devono essere sensibili ai collegamenti tra un impegno costante degli Stati Uniti per la loro sicurezza da un lato e le loro azioni in aree come la politica commerciale, il trasferimento di tecnologia e la partecipazione a operazioni multinazionali di sicurezza dall’altro. “7 In modo simile, già nel 1962 il vicepresidente statunitense Johnson minacciò di ritirare le truppe americane dal continente, se il mercato comune avesse bloccato le esportazioni di pollame americano in Europa …

Sebbene la fine della Guerra Fredda costituì un momento di svolta, i leader su entrambe le sponde dell’oceano fecero del loro meglio per ignorare questo fatto. Con la notevole eccezione dei politici francesi che si sono sforzati di risvegliare i loro partner dell’UE sulle realtà dell’imminente ordine mondiale “multipolare” – ma senza alcun risultato. Durante gli anni 2010, un allineamento unico dei pianeti (iniziato con il “perno asiatico” e culminato con la presidenza Trump) ha aiutato gli europei ad aprire gli occhi sulle realtà del dopo Guerra Fredda. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha parlato di “fare piani per un nuovo ordine mondiale” e ha avvertito: “Il fatto che l’Atlantico si sia allargato politicamente non è in alcun modo dovuto esclusivamente a Donald Trump. Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno allontanando da anni. La sovrapposizione di valori e interessi che ha plasmato il nostro rapporto per due generazioni sta diminuendo. La forza vincolante del conflitto Est-Ovest è la storia. Questi cambiamenti sono iniziati ben prima dell’elezione di Trump e sopravviveranno alla sua presidenza anche in futuro “. 8

Maas ha continuato dicendo: “Usiamo l’idea di una partnership equilibrata come modello, in cui ci assumiamo la nostra eguale quota di responsabilità. In cui formiamo un contrappeso quando gli Stati Uniti oltrepassano il limite. Dove mettiamo il nostro peso quando l’America si ritira. E in cui possiamo iniziare un nuovo dialogo. ” Gli eccessi dell’amministrazione Trump hanno sicuramente dato slancio in questa direzione. Per quattro anni, gli europei hanno dovuto affrontare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, gli svantaggi della loro dipendenza. Resta da vedere se trarranno le lezioni e, in tal caso, che tipo di reazione ci si può aspettare da Washington.

Il momento Biden: hit o miss

Nonostante i prevedibili discorsi su un “nuovo inizio” e un clima notevolmente migliorato nella diplomazia transatlantica, la politica degli Stati Uniti si sforzerà innanzitutto di tornare alla “normalità”. Questo è certamente rassicurante per gli alleati, ma non significa automaticamente che ne trarranno vantaggio. Anche sui più graditi cambiamenti di politica, su organizzazioni e alleanze multilaterali, un risultato positivo, da una prospettiva europea, è lungi dall’essere garantito. Per non parlare della lunga serie di disaccordi persistenti, o lacune politiche, dove il meglio che si può sperare è uno scambio civile di argomenti, forse un certo grado di avvicinamento, ma soprattutto un educato riconoscimento delle divergenze.

Non ci sono dubbi sul rinnovato sostegno dell’amministrazione Biden al multilateralismo e sul rafforzato impegno verso le alleanze tradizionali. Una volta che gli Stati Uniti saranno di nuovo in gioco, la domanda, per gli europei, è se ci sarà spazio per il coordinamento o se Washington parteciperà solo per guidare (qualcuno potrebbe dire dettare).

Come sottolinea un recente rapporto del Congressional Research Service “i funzionari europei si lamentano periodicamente delle frequenti aspettative degli Stati Uniti di un sostegno europeo automatico”. 9 In effetti, quando sentono Joe Biden dire che “io, ancora una volta, farò guidare dall’America il mondo” esprimono sentimenti misti. Per quanto apprezzino che Washington prenda l’iniziativa ogni volta che gli interessi si sovrappongono, sono meno entusiasti quando in altre situazioni sono invitati ad allinearsi semplicemente agli Stati Uniti.

La NATO è un esempio calzante. Sentire Joe Biden affermare con forza che “la NATO è al centro della sicurezza americana” è senza dubbio musica per le orecchie europee, soprattutto dopo gli ultimi quattro anni. Tuttavia, sanno anche che il prossimo presidente degli Stati Uniti spingerà le priorità degli Stati Uniti di lunga data e si aspettano concessioni in cambio di un nuovo impegno con la NATO.

Il problema è: non tutti gli alleati sono desiderosi di espandere il mandato dell’Alleanza guidata dagli Stati Uniti ad altre questioni (come spazio, cyber, energia) e ad altre aree geografiche (allargamento e designazione di nuovi nemici). Aggiungete ad esso gli sforzi rinvigoriti per ridurre la libera scelta degli alleati attraverso una più profonda integrazione (maggiori finanziamenti comuni e una delega più automatica dell’autorità al comandante SACEUR / USA in Europa), e arrivate a un mix non consensuale.

Il commercio è un altro settore in cui gli europei sono soddisfatti della posizione iniziale di Joe Biden che dichiara che “le regole dell’economia internazionale dovrebbero essere modellate per essere eque”. Eppure, iniziano a diventare diffidenti le dichiarazioni dello stesso Biden: “quando le imprese americane competono in condizioni di equità, vincono”. Riapre vecchie ferite – specialmente sulle sanzioni extraterritoriali – e solleva dubbi su come esattamente il nuovo governo degli Stati Uniti intenda plasmare quelle regole internazionali. Sapendo che la disputa Boeing-Airbus, così come il puzzle sulla tassazione GAFA, saranno probabilmente temi ricorrenti nei negoziati transatlantici.

Indicare la Russia come “la più grande minaccia” (come ha fatto Joe Biden) potrebbe certamente sembrare rassicurante per alcuni europei, sul versante orientale, ma sicuramente non starà bene ad altri, soprattutto Germania e Francia. Pur essendo critici nei confronti del regime di Vladimir Putin, vedono anche Mosca come un indispensabile partner strategico (per la Francia) ed economico (per la Germania). I presidenti francesi sottolineano ripetutamente che “la Russia non è un avversario”, e l’ex ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha parlato in modo sprezzante delle attività della NATO al confine con la Russia come “sciabola che tintinna”.

In Cina, gli europei accolgono con favore la volontà degli Stati Uniti di affrontare seriamente la violazione delle regole del commercio internazionale da parte di Pechino. Allo stesso tempo, non sono entusiasti che la NATO si allinei dietro Washington per affrontare la Cina.10 L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera, Josep Borrell, afferma: “Non dobbiamo scegliere tra Stati Uniti e Cina. Alcune persone vorrebbero spingerci a scegliere, ma non dobbiamo scegliere, deve essere come la canzone di Frank Sinatra, ‘My way’ “. 11 Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha avvertito che senza una propria politica indipendente , gli europei “avranno solo la scelta tra due dominazioni”, da parte della Cina o degli Stati Uniti ”.12

Per coronare il tutto, l’amministrazione Biden dovrà affrontare due questioni, più immediate e più tecniche, in relazione all’Europa. Entrambi saranno esaminati come una cartina di tornasole dell’interferenza degli Stati Uniti contro l’autonomia europea. In primo luogo, gli Stati Uniti insistono per avere accesso al Fondo europeo per la difesa recentemente creato dall’UE, finanziato dal bilancio dell’Unione. Gli europei non sono contenti della prospettiva che potenti società americane sottraggano denaro al tesoro comune dell’UE, creato esplicitamente con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia dell’Europa. Sotto la pressione incessante degli Stati Uniti, hanno escogitato una soluzione di compromesso che garantisce l’accesso caso per caso, pur mantenendo una condizione generale di “non dipendenza”. In tal modo gli europei manterrebbero almeno il controllo sull’esportazione e sui diritti di proprietà intellettuale. Un compromesso finora respinto con veemenza dagli Stati Uniti.

La seconda questione spinosa è il gasdotto russo-tedesco in fase di completamento, Nord Stream 2. Joe Biden, in qualità di vicepresidente, lo ha definito “inaccettabile”, e gli Stati Uniti hanno già imposto sanzioni drastiche alle società europee che partecipano alla costruzione. Ancora una volta, questo atteggiamento americano è visto da molti, anche se non da tutti, gli Stati membri dell’UE come un’ingerenza negli affari europei. Nel 2017, il cancelliere federale austriaco e il ministro degli Esteri tedesco hanno avvertito: “L’approvvigionamento energetico dell’Europa è una questione che riguarda l’Europa, e non gli Stati Uniti d’America”. Nel dicembre 2019, il ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz ha definito le sanzioni statunitensi “un grave intervento negli affari interni tedeschi ed europei”, e il ministro degli esteri Heiko Maas ha affermato che “la politica energetica europea è decisa in Europa, non negli Stati Uniti”.

In sintesi, tutto il cambiamento positivo di tono da parte degli Stati Uniti non significa necessariamente negoziati più facili o vantaggi per l’Europa a lungo termine. Abbastanza paradossalmente, più l’atmosfera è gioviale, più alcuni governi europei saranno tentati di fare concessioni, abbandonare le posizioni comuni dell’UE e abbandonare persino l’idea di autoaffermazione nei confronti degli Stati Uniti. Ciò non farebbe che aumentare l’asimmetria del rapporto. La sfida, per gli europei, è trovare il giusto equilibrio: cogliere l’opportunità di una posizione americana meno conflittuale, senza tornare ai vecchi riflessi di eccessiva deferenza.

La maledizione di una parola

L’autonomia è stata, fin dall’inizio, il nodo della questione nei dibattiti transatlantici. La parola “a”, come talvolta viene chiamata, ha segnato il ritmo delle relazioni euro-americane negli ultimi tre decenni. Ogni volta che eventi esterni (come la guerra in Kosovo del 1999 o la crisi in Iraq del 2003) danno impulso alla linea autonomista guidata dalla Francia, gli Stati Uniti iniziano a mostrare ostilità, pongono limiti rigorosi e le controversie relative ai membri dell’UE si svolgono in pubblico. Al contrario, quando il vento è nell’area “priorità NATO / USA.”, Washington sostiene le iniziative di difesa dell’UE (entro i limiti già determinati) e gli europei passano il loro tempo a spazzare via i disaccordi.

Dietro queste fluttuazioni periodiche le rispettive posizioni rimangono invariate. Da parte americana, i vantaggi dello status di dipendente dell’Europa sono innegabili. In primo luogo, a causa della logica transazionale sempre presente, la protezione militare degli Stati Uniti rende gli europei più accomodanti in altre aree. Sulle questioni commerciali, ad esempio, la maggioranza dei membri dell’UE chiede apertamente di attenuare le posizioni dell’UE per “non mettere a rischio le più ampie relazioni transatlantiche”. In secondo luogo, gli alleati europei molto obbligati tendono a essere arruolati al servizio della strategia globale americana. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO, Robert Hunter, ha dichiarato: “Pochissimi paesi europei credono che vincere in Afghanistan sia necessario per la propria sicurezza. La maggior parte di loro lo fa … per compiacere gli Stati Uniti. ”13 Infine, la tutela americana sull’Europa ha anche lo scopo di tenere sotto controllo un potenziale rivale. Nelle parole di Brzezinski: “Un’Europa politicamente potente, in grado di competere economicamente mentre militarmente non è più dipendente dagli Stati Uniti, potrebbe limitare l’ambito della preminenza degli Stati Uniti in gran parte all’Oceano Pacifico”. 14

Da parte europea, la maggior parte dei governi sarebbe felice di non dover mai menzionare la parola “a”. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, è diventato sempre più difficile nascondere che l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea è altamente, e doppiamente, condizionato. È sia incerto (vedi le riserve del presidente Trump sull’articolo 5) sia condizionato da un buon comportamento da parte degli europei. Di conseguenza, l’ambizione dell’autonomia ha acquisito un certo slancio. La strategia globale dell’UE, nel 2016, si è articolata intorno all’idea tabù di lunga data dell’autonomia strategica. Il discorso del 2018 sullo “Stato dell’Unione europea” del presidente della Commissione Juncker era intitolato “l’ora della sovranità europea” e la nuova Commissione europea si dichiara fin dall’inizio “geopolitica”.

Detto questo, gli europei sono più preoccupati che mai di non fare alcun passo che potrebbe alienare gli Stati Uniti.

Il cancelliere tedesco è il perfetto esempio di queste ambivalenze. Un giorno Angela Merkel dice: “L’era in cui potevamo fare pieno affidamento sugli altri è finita. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani ”.15 Il successivo, assicura:“ Ancor più che durante la Guerra Fredda, mantenere la NATO è oggi nel nostro migliore interesse. L’Europa attualmente non può difendersi da sola, noi dipendiamo. ”16 L’autonomia europea è sia il problema nelle relazioni transatlantiche, sia l’unica soluzione in vista. All’interno della tradizionale relazione squilibrata, l ‘ “altro” è percepito a ciascuna estremità dell’Atlantico o come un peso (free-rider contro l’interferente estraneo) o come un rivale (“sfidante” contro “potere dominante”), ma molto spesso i due , peso e rivale, allo stesso tempo. Questo crea incessantemente risentimenti da entrambe le parti. Per quanto controintuitivo possa sembrare, l’autonomia strategica europea potrebbe essere l’unica via d’uscita. È anche praticamente l’unica cosa rimasta che non è stata provata finora …

Conclusione: le virtù della chiarificazione

I quattro anni dell’amministrazione Trump sono stati per molti versi una rivelazione transatlantica. Semmai, il suo mandato ha chiarito quanto profondamente le istituzioni di politica estera siano attaccate alle relazioni, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, una lunga serie di audizioni e votazioni al Congresso – intese a proteggere l’Alleanza dal furore del Presidente – ha rivelato un appoggio bipartisan generale per la NATO. Hanno anche avuto il merito di evidenziare le basi molto razionali di questo supporto. Come ha affermato il presidente del Consiglio per le relazioni estere Richard N. Haass: “Gli Stati Uniti rimangono e sostengono la NATO come un favore non agli europei ma a se stessi. L’adesione alla NATO è un atto di interesse strategico egoistico, non filantropico ”. 17

In Europa, l’impegno degli alleati per il collegamento transatlantico si è tradotto in sforzi instancabili per accogliere, o addirittura placare, il presidente Trump. Questo approccio è stato mostrato in modo spettacolare in un esercizio di simulazione di alto livello, tenutosi nel 2019.

Il Körber Policy Game ha riunito esperti senior e funzionari governativi di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Anche quando i team europei hanno dovuto affrontare uno scenario di ritiro degli Stati Uniti dalla NATO, seguito dallo scoppio di crisi ai margini dell’Europa, la maggior parte di loro si è concentrata soprattutto nel persuadere gli Stati Uniti a tornare alla NATO. Al prezzo di “concessioni prima impensabili”. 18

Sulla base di questa rinnovata consapevolezza dell’impegno di entrambe le parti nei confronti del legame euro-americano, il riflesso naturale potrebbe essere quello di godere del temporaneo sollievo dopo la vittoria di Joe Biden, andare con il pilota automatico e continuare lo stesso vecchio schema nelle relazioni transatlantiche. Sarebbe un difetto, e doppiamente così.

In primo luogo, se gli europei – per mera gratitudine per non aver avuto a che fare con Donald Trump – rinunciano alla loro ambizione di autonomia e rifiutano di difendere la propria posizione all’unisono, perderebbero un’occasione senza precedenti per porre le relazioni transatlantiche su un piano più equilibrato. . Avrebbero solo perpetuato la matrice emotiva delle montagne russe: dal giubilo alla disperazione, dalla disperazione al giubilo, per l’eternità.

In secondo luogo, la chiave è l’accoglienza da parte degli Stati Uniti. Troppo spesso, la reazione americana ai disaccordi è impegnarsi nella “nostra partnership” in quanto tale, sostenendo che questa o quella posizione europea metta a rischio le relazioni transatlantiche (o, come sulla questione del sistema di navigazione satellitare Galileo, “renderebbe la NATO un reliquia del passato ”). La maggior parte degli europei ha già questa paura, ecco perché evita l’idea stessa di autonomia. Washington potrebbe indicare la strada: assicurati che le due parti possano convergere su alcune questioni, divergano su altre, senza che gli Stati Uniti mettano in dubbio l’intera relazione ogni volta che gli europei affermano il loro punto di vista.

Perché ciò avvenga, è necessario riconoscere che, contrariamente alle accuse di routine, l’ambizione dell’autonomia europea non viene da un mitico antiamericanismo. O si preserva la propria indipendenza rispetto a qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di rinunciarvi una volta, in particolare nei confronti degli Stati Uniti, il modello di sottomissione che determina li metterà in balia di qualsiasi altra potenza in futuro. Un’Europa che non riesce ad assumere la propria piena autonomia diventa una facile preda per chiunque. Emmanuel Macron spiega: “Se non può pensare a se stessa come una potenza globale, l’Europa scomparirà”.

Henry Kissinger sembra essere d’accordo. La leggenda vivente della politica estera statunitense dice sul quotidiano tedesco Die Welt: “Mi piacerebbe vedere un’Europa capace di svolgere un ruolo più storico, vale a dire con alcune affermazioni di se stessa come policy maker globale”. Poi aggiunge: “Spero che l’Europa svolga il suo ruolo globale in modo che ci sia un forte parallelismo tra il pensiero americano ed europeo”. 19

Qui sta il paradosso atlantista. Coloro che tengono i discorsi più appassionati sui valori transatlantici condivisi e sugli interessi comuni sono di solito quelli che si oppongono con più veemenza ai progetti europei guidati dall’autonomia. A loro sembra che le relazioni transatlantiche possano reggere solo finché gli europei sono dipendenti, non funzionerebbe tra partner alla pari. D’altra parte, coloro che credono seriamente nella forza di ciò che è comune tra i nostri valori e interessi, non hanno motivo di vedere l’autonomia europea come una minaccia. Preferirebbero considerarlo come una possibilità …

Quo vadis Europa Centrale?

Come regola generale, i paesi dell’Europa centrale non definiscono gli attori su queste questioni transatlantiche. Ci sono alcune rare eccezioni quando la loro posizione attira l’attenzione immediata, come nel caso della Lettera degli otto e della Lettera di Vilnius, a sostegno dell’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 – provocando quel famoso sfogo del presidente francese Jacques Chirac: “hanno perso una buona opportunità per tenere la bocca chiusa ”. Tradizionalmente, sulle questioni NATO-UE e su altre questioni relative all’autonomia, sono saldamente nel campo atlantista, poiché considerano gli Stati Uniti come il principale, se non l’unico, garante della loro difesa.

Alcuni di loro sono ora a disagio per la posizione di promozione della democrazia della prossima amministrazione americana, specialmente quando si applica all’interno dell’Alleanza. Joe Biden afferma che “il crescente autoritarismo, anche tra alcuni membri della NATO” è una minaccia per l’Alleanza: “In qualità di presidente, chiederò una revisione degli impegni democratici dei membri della NATO”. 20

Questi non sono solo slogan della campagna.

Nell’Assemblea parlamentare della NATO, la delegazione statunitense ha già spinto in questa direzione, presentando un rapporto che punta a “fautori interni dell’illiberalismo” e raccomanda “che la NATO istituisca un Centro di coordinamento della resilienza democratica con lo scopo esplicito di aiutare gli Stati membri a rafforzare istituzioni democratiche “. 21

Detto questo, le considerazioni geopolitiche non possono essere e non saranno trascurate.

L’Europa centrale è la zona cuscinetto tra il confine occidentale dell’Eurasia e le potenze dominanti nel resto di questo vasto continente combinato. Alcuni dei paesi della regione CEE hanno instaurato relazioni sempre più strette con Mosca e tutti sono attratti dalla Belt and Road Initiative cinese, firmata nel trattato per la cooperazione 17 + 1, sperando in investimenti esteri e opportunità commerciali.

Ciò potrebbe essere disapprovato dalla nuova amministrazione statunitense, le cui principali priorità strategiche saranno: isolare la Russia, contenere la Cina (e ovviamente impedire all’Europa di andare da sola).

Se i paesi dell’Europa centrale si dimostreranno partner affidabili su questi temi, la loro politica interna sarà probabilmente di scarso interesse per Washington. Tuttavia, se si avvicinano a Mosca o Pechino, i loro affari interni potrebbero ricevere maggiore attenzione.

Per quanto riguarda il loro posto nell’enigma transatlantico, i paesi dell’Europa centrale rivelano la loro facilità nello scivolare da una dipendenza all’altra. I più accesi sostenitori della linea atlantista – sabotando costantemente l’autonomia dell’UE dall’interno – sono anche tra i primi tentati di cedere al dominio russo o cinese. Come un ammonimento su come un giorno l’ostacolo all’autonomia europea potrebbe ritorcersi contro.

1 Germany sets up European defense agenda with a waning US footprint in mind, Defense News, 15 July 2020.

2 Transcript: Emmanuel Macron in his own words, The Economist, 7 November 2019.

3 Jeremy Shapiro – Nick Witney, Towards a post-American Europe: A Power Audit of EU-US Relations, European Council on Foreign Relations, 2 November 2009.

4 Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, Perseus Books, 1997, p59.

5 Charles A. Kupchan, The End of the American Era, Vintage Books, 2003, pp152, 267.

6 Jeremy Shapiro, Dina Pardijs, The transatlantic meaning of Donald Trump: a US-EU Power Audit, European Council on Foreign Relations, 21 September 2017.

7 Report on the Bottom-Up Review, DoD, October 1993.

8 Heiko Maas, Making plans for a new world order, Handelsblatt, 22 August 2018.

9 Transatlantic Relations: U.S. Interests and Key Issues, CRS report, 27 April 2020.

10 Stephen M. Walt, Europe’s Future Is as China’s Enemy, in Foreign Policy, 22 January 2019.

11 Borrell: EU doesn’t need to choose between US and China, EU Observer, 2 June 2020.

12 President Macron’s speech at the annual conference of ambassadors, 27 August 2019.

13 U.S.-NATO: Looking for Common Ground in Afghanistan, Interview with Robert E. Hunter, Council on Foreign Relations, 8 December 2009.

14 Zbigniew Brzezinski, The Choice: Global Domination or Global Leadership, Perseus Books, 2004. p91.

15 Chancellor Angela Merkel’s speech in Munich, 28 May 2017.

16 Chancellor Angela Merkel at the Bundestag, 27 November 2019.

17 Testimony before the Senate Committee on Foreign Relations, on “Assessing the Value of the NATO Alliance”, 5 September 2018.

18 Körber-Stiftung – International Institute for Strategic Studies, European security in Crisis: what to expect if the US withdraws from NATO, 23 September 2019.

19 Interview with Henry Kissinger, Die Welt, 8 November 2020.

20 Statement from Vice President Joe Biden on NATO Leaders Meeting, 2 December2019.

21 Gerald E. Connolly, NATO@70: Why the Alliance Remains Indispensable, 12 October 2019.

elezioni americane durante e dopo_ V atto con Gianfranco Campa

Due staff che per il momento procedono in parallelo, ma che non tarderanno a convergere e collidere. Trump si sta muovendo con il suo staff legale e sta riposizionando alcune pedine importanti nei dipartimenti. Biden ha allestito la task force che dovrà gestire la transizione; la sua composizione parla da sola riguardo alle intenzioni e alle forze che lo stanno sostenendo. Nel frattempo comincia a muoversi la piazza. Uno dei due sarà di troppo, ma chi sarà obbligato a vincere è soprattutto Biden_Giuseppe Germinario

NB_Intanto tra la fase di registrazione e quella di pubblicazione di questa conversazione si susseguono le novità: Biden si aggiudica l’Arizona, Trump la Georgia; gli organi ufficiali si affannano a certificare la regolarità delle elezioni; il Vaticano e soprattutto la Cina riconoscono Biden alla Casa Bianca.

NB_Scorrendo siti, servizi di informazione on line e su supporto cartaceo scopriamo con piacere e soddisfazione di essere spesso e volentieri fonte di informazione e di ispirazione. Scopriamo con minore soddisfazione che in tanti casi il flusso viene riportato in maniera sin troppo fedele senza che però ci sia un riferimento esplicito al testo originario. Sottolineiamo che la produzione di questo sito poggia esclusivamente sulla ricerca e sull’impegno del tutto volontario e gratuito dei redattori senza alcun sostegno finanziario, pubblicitario e organizzativo esterno. Ci aspettiamo almeno un riconoscimento morale esplicito. Indicare nei testi il link originale non costa nulla; è un piccolo segno di sportività e di correttezza in un panorama che vede anche gli organi di informazione apparentemente più autorevoli e rispettabili liberarsi progressivamente dalle fatiche dell’impegno di ricerca originale e ridursi a meri riproduttori di veline e gossip del mainstream internazionale. Non si sono ancora accorti che nell’era della tanto decantata globalizzazione le distanze non sono più garanzia di opacità

elezioni americane durante e dopo_atto IV, con Gianfranco Campa

Siamo ormai al riposizionamento delle pedine. Il segno che lo scontro finale dovrà compiersi nelle prossime settimane. Da questo epilogo dipenderà la modalità di svolgimento dello scontro politico nei prossimi anni. Un confronto che coinvolgerà pesantemente ceto politico, apparati dello stato e popolazione; sarà tanto più dirompente quanto una delle parti sarà messa con le spalle a muro senza altre vie di fuga. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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