Agricoltura europea, di Marc Dufumier

Agricoltura europea

La promessa dell’agroecologia

Il titolo è di per sé fuorviante. Dice di “agricoltura europea”, parla in realtà di agricoltura di quella vasta pianura che si estende dalla Francia sino alla Olanda, alla Germania e alle propaggini tardive della Polonia. Anche se snaturata dalle previste politiche compensative e riequilibrative dei territori dei programmi iniziali, le politiche agricole comunitarie ridussero l’originario piano Mansholt degli anni ’60 alla politica de “l’osso e della polpa” che prevedeva la costituzione di grandi aziende agricole nelle grandi pianure a scapito dell’agricoltura collinare, da abbandonare nei fatti. Una tragedia per le economie collinari soprattutto del centro-sud d’Italia, non solo di quelle terre più difficili da coltivare, ma curate per millenni, in particolare della Murgia barese e della Sicilia, diventate in buona parte aride per abbandono, piuttosto che per siccità, ma anche di quelle fertili collinari, ad esempio, della Basilicata di fatto espropriate ai piccoli proprietari spinti alla fuga a Nord. Fu l’ennesimo atto di resa senza combattere delle classi dirigenti italiane, pronte a liberarsi con l’emigrazione di enormi masse in cambio di un effettivo “miracolo economico”, però profondamente squilibrato e subordinato a logiche esogene. Un atto di resa che trasformò in breve tempo il problema delle eccedenze agricole europee delle produzioni di grano, foraggi, latte e carni in un enorme deficit commerciale italiano di tali prodotti. Non si può ridurre ad una chiosa un argomento che richiederebbe parecchie pagine ed una ricostruzione rigorosa in un paese sino a poco tempo fa tanto preso da uno stucchevole lirismo europeista, quanto privo di un sistematico lavoro di ricerca serio e documentato. Sta di fatto che il proverbiale spirito italico di adattamento è riuscito a trasformare nel tempo e a costi umani drammatici il declivio verso un disastro catastrofico in un parziale recupero di vitalità legato a produzioni agricole di nicchia, al netto comunque della “inefficienza” di gran parte delle organizzazioni consortili del Centro-Sud, di un sistema di distribuzione all’ingrosso in mano in buona parte a taglieggiatori, di una industria di trasformazione industriale del prodotto ormai sempre più inopinatamente in mano straniera. In tempi di intemperie geopolitiche sempre più violente ed imprevedibili, le classi dirigenti italiane si concedono ancora il lusso di ignorare del tutto o porre in termini parodistici il tema della sovranità alimentare, partendo dalla dipendenza estera del grano, dei foraggi e di numerosi prodotti di base della catena alimentare, al centro invece delle attenzioni di importanti settori istituzionali e di ampi settori delle categorie ed associazioni agricole di altri paesi. Diventa quasi scoraggiante porre questi temi temi, così cruciali per l’esistenza di una nazione sovrana; così come quelli legati alla strumentalizzazione dilettantesca dei temi ambientali e di conversione ecologica che hanno già creato immani disastri già in alcune produzioni, come quello della soia, e beffardamente anche in alcune nicchie ambientali, come quello del ciclo vitale delle api. Non posso evitare, però, di porre un quesito, probabilmente retorico: come mai le vivaci proteste degli agricoltori francesi, olandesi, tedeschi e polacchi, e quant’altro, godono del sostegno quanto meno dichiarato, se non fattivo, delle associazioni di categoria a fronte del carattere spontaneo ed essenzialmente imitativo delle proteste in Italia? Ritengo sia un interrogativo cruciale in grado di spiegare il carattere di sterile tumulto, comunque serpeggiante in Europa, ma particolarmente radicato qui in Italia e più volte evidenziato in precedenti analoghe circostanze. Di spiegare, anche, il probabile consueto epilogo di tali dinamiche e del ruolo collaterale ormai sempre più assolto dalle associazioni di categoria nazionali. Temi in qualche modo sfiorati, nell’articolo, sia pure con punti di vista spesso discutibili. Giuseppe Germinario

4 febbraio 2024: L’abbassamento delle frontiere ha gettato l’agricoltura del Vecchio Continente in una crisi insanabile, compromettendo la sovranità alimentare degli europei e la qualità dei loro alimenti. L’agronomo Marc Dufumier denuncia il vicolo cieco di questa politica e propone un’alternativa ispirata al suo lavoro di ricercatore e professionista…

Gli agricoltori francesi hanno buone ragioni per essere scontenti. Nonostante una legge Egalim che dovrebbe garantire loro prezzi di vendita relativamente stabili e remunerativi, la maggior parte di loro non è in grado di generare un reddito sufficiente a coprire i bisogni delle loro famiglie e a ripagare i prestiti che hanno contratto per attrezzare pesantemente le loro aziende agricole.

Il sostegno della Politica Agricola Comune, che è condizionato al rispetto di standard ambientali e sanitari spesso pignoli, spesso non riesce a fornire loro un reddito decente. E questo spiega senza dubbio perché gli agricoltori hanno un rischio di suicidio del 43% superiore a quello delle persone assicurate con tutti i regimi di sicurezza sociale(nota).

Per aggirare la famosa legge Egalim, i supermercati e le imprese agroalimentari non esitano a contrapporre i nostri agricoltori alle importazioni di un gran numero di prodotti alimentari (frutta, verdura, pollo, carne bovina, ecc.) prodotti all’estero a prezzi più bassi.

Da qui il fatto che gli agricoltori denunciano alcuni accordi di “libero scambio” e chiedono una maggiore protezione del nostro mercato interno. Ma dobbiamo riconoscere che anche molti dei prodotti standard per i quali esportiamo eccedenze stanno diventando sempre meno redditizi di fronte alla concorrenza internazionale.

Come può il nostro grano, con una resa media di 72 quintali per ettaro e spesso con costi considerevoli in fattori produttivi, competere con il grano prodotto su vasta scala in enormi fattorie in Ucraina o in Romania? Come possono i polli economici nutriti con mais e soia brasiliani competere con quelli allevati in Brasile? Come può il latte in polvere prodotto nel Finistère per essere esportato in Cina competere con quello prodotto dalle grandi mandrie lattiere della Nuova Zelanda, dove le mucche possono pascolare quasi tutto l’anno?

Le prove sono schiaccianti: i nostri agricoltori sono stati ingannati. È stato un gravissimo errore incoraggiarli, nella Francia dei mille e uno terroir, ad attuare forme di agricoltura industriale, con sussidi concessi in proporzione alla terra disponibile e non in base al lavoro richiesto.

Per soddisfare le richieste delle grandi aziende agroalimentari e rimanere competitivi nell’incessante corsa alla riduzione dei costi e all’aumento della produttività, i nostri agricoltori sono stati spesso costretti a specializzarsi e a meccanizzare ulteriormente i loro sistemi di produzione, al fine di fornire una gamma limitata di prodotti standard su vasta scala.

Di conseguenza, gli agro-ecosistemi sono diventati eccessivamente omogenei e fragili, causando danni molto gravi al nostro ambiente: invasioni intempestive di specie concorrenti o predatrici, epidemie causate da nuovi agenti patogeni, inquinamento chimico causato dall’uso indiscriminato di pesticidi e fertilizzanti azotati di sintesi, erosione della biodiversità domestica e selvatica, eccesso di mortalità degli insetti impollinatori, riduzione della qualità degli alimenti, aumento della dipendenza dai combustibili fossili, aumento delle emissioni di gas a effetto serra (anidride carbonica, metano e protossido di azoto)(nota), diminuzione della fertilità del suolo, crollo delle falde acquifere, ecc.

E stiamo già pagando un prezzo elevato per questi attacchi al nostro ambiente: antibiotici nella carne, residui di pesticidi nella frutta e nella verdura, intossicazioni alimentari e respiratorie, aumento della prevalenza di alcuni tipi di cancro, alghe verdi sulla costa bretone, costi finanziari delle misure di disinquinamento, ecc.

Sappiamo anche che con il riscaldamento globale, gli eventi meteorologici estremi (ondate di calore, siccità, inondazioni, grandinate, ecc.) diventeranno più intensi e più frequenti. Ma purtroppo non è stato ancora fatto nulla per aiutare davvero gli agricoltori a farvi fronte. Al contrario, l’esagerata specializzazione dei loro sistemi produttivi ha l’effetto di rendere i nostri agricoltori sempre più vulnerabili a questi eventi, in quanto i loro redditi possono periodicamente diminuire in modo considerevole.

La promessa dell’agroecologia

Fortunatamente, esistono sistemi di produzione agricola basati sull’agroecologia che consentirebbero ai nostri agricoltori di assicurarsi un reddito resistente senza dover ricorrere a pesticidi e fertilizzanti azotati di sintesi.

Il primo passo sarebbe ovviamente quello di utilizzare un maggior numero di varietà vegetali e razze animali tolleranti ai parassiti e agli agenti patogeni locali. Ma se vogliamo davvero adattare la nostra agricoltura alle attuali perturbazioni climatiche, dobbiamo anche diversificare le attività nelle nostre aziende.

A differenza della monocoltura o dell’allevamento in batteria, i sistemi di produzione agricola che riescono a combinare vari tipi di bestiame con rotazioni diversificate e rotazione delle colture sono quelli che garantiscono una maggiore resilienza del reddito, non “puntando tutto su un solo paniere”.

La moltiplicazione delle colture con piante seminate e raccolte in periodi diversi dell’anno ha il vantaggio di garantire che non vengano colpite tutte allo stesso modo in caso di eventi climatici estremi (ondate di calore, siccità, ma anche grandine, gelate, alluvioni, ecc.)

Con una tale diversificazione, gli organismi più suscettibili di danneggiare le colture o il bestiame non prolifererebbero più improvvisamente a macchia d’olio, a causa delle barriere imposte da potenziali concorrenti o predatori.

Per esempio, potremmo non dover usare insetticidi per eliminare gli afidi se le mosche sifilidi e le coccinelle ne limitassero la proliferazione. Lo stesso si potrebbe dire per le lumache, se i campi riuscissero ancora a ospitare coleotteri e ricci. Quanto alle larve di tignola (vermi delle mele), sarebbero facilmente neutralizzate se le siepi ospitassero cince azzurre e pipistrelli che predano le tarme.

La buona notizia è che questi stessi sistemi di produzione diversificati possono anche contribuire a mitigare il cambiamento climatico, con minori emissioni di gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto) e un maggiore sequestro di carbonio nella biomassa e nell’humus dei terreni. L’esatto contrario dei principi dell’agricoltura industriale, che incoraggiano i nostri agricoltori a fare un uso sempre maggiore di macchinari a motore, pesticidi e combustibili fossili. Ma è vero che questo avviene al prezzo di un lavoro più attento e molto più importante.

Questo tipo di agricoltura può quindi essere ad alta intensità di lavoro. Ma gli agricoltori che la praticano devono comunque essere adeguatamente remunerati dalle autorità pubbliche per i loro servizi ambientali di interesse generale. Soprattutto, i costi aggiuntivi del lavoro non dovrebbero essere sostenuti interamente dai consumatori. Solo le fasce più ricche della società sarebbero in grado di permettersi alimenti di alta qualità nutrizionale e sanitaria.

Perché le persone con un reddito modesto non dovrebbero avere il diritto di accedervi, visto che i prodotti in questione verrebbero venduti a un prezzo più alto? Il pagamento dei servizi ambientali di interesse generale dovrebbe logicamente essere effettuato dai contribuenti. E gli agricoltori, adeguatamente remunerati in questo modo, sarebbero in grado di modificare i loro sistemi di produzione per fornire maggiori volumi di prodotti buoni. Questa maggiore offerta diventerebbe quindi accessibile al maggior numero possibile di persone.

È quindi urgente cambiare radicalmente la nostra politica agricola comune: non concedere più sussidi in proporzione alla superficie coltivata, ma pagare il lavoro supplementare richiesto da queste forme di agricoltura su piccola scala basate sull’agroecologia, molto rispettose della nostra salute e del nostro ambiente. Ma cosa stiamo aspettando?

Marc Dufumier
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Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea, di Davide Gionco

Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea

di Davide Gionco

Le ipocrisie ambientali dell’Unione Europea

In Europa siamo tutti ecologisti, da Ursula Von der Leyen e Greta Thunberg in giù.
Ce lo dicono tv e giornali: siamo tutti ecologisti, le politiche ambientali davanti ogni cosa.
E’ giusto: abbiamo un solo pianeta in cui vivere e non possiamo permetterci di rovinarlo, per rispetto delle generazioni future.
Ma i politici “europei”, supportati dal coro unico dei mezzi di informazione, però, ci dicono un’altra cosa.
Ambiente significa unicamente fare politiche e informazione per contrastare il cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2. Ogni disastro naturale serve a giustificare questo assioma, che si tratti di siccità, di piogge eccessive, di temperature troppo elevate.
TV e giornali ci martellano in tal senso ogni giorno.

Altri motivi di danneggiamento dell’ambiente, come la gestione delle scorie nucleari, l’immissione in ambiente di sostanze chimiche cancerogene (come i famigerati PFAS, sostanze perfluoroalchiliche), l’uso eccessivo di additivi artificiali nell’industria alimentare, la dispersione delle microplastiche nelle acque, al punto che sono entrate a far parte della catena alimentare, fino agli esseri umani… Tutti questi veri problemi ambientali è come se non esistessero nella narrativa del potere politico e mediatico.
Per loro essere ambientalisti significa unicamente ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera.

Non intendo entrare nel dibattito sulla fondatezza o meno delle teorie per cui l’aumento di temperatura del pianeta Terra sia causato dalle emissioni di CO2 e che l’aumento della temperatura sarà certamente causa di cambiamenti gravissimi per il genere umano.
Chiediamoci invece se siano dei motivi scientifici a portare i politici di non occuparsi di tutti gli altri problemi ambientali, ma solo delle emissioni di gas serra.
Quali sono i problemi ambientali più gravi che affliggono l’umanità, misurati in termini di rischi per la salute e la stessa vita delle persone?
Davvero siamo sicuri che la questione più importante sia il cambiamento climatico?

Ciascuno si informi e sia delle risposte su base scientifica, senza accodarsi alla narrativa a senso unico dei mezzi di informazione.

 

Il modello economico europeo è incompatibile con l’ambiente

Ma diamo per assunto che il cambiamento climatico sia il problema prioritario.
Davvero l’Europa porta avanti delle politiche in favore dell’ambiente, al di là dei proclami ufficiali?

Il problema di fondo dell’Unione Europea è l’assoluta inconciliabilità fra il modello economico adottato e le politiche ambientali.
L’Unione Europea è fondata prima di tutto su 3 principi neoliberisti:
1) Il libero commercio senza barriere
2) La competitività
3) Il settore pubblico che non interviene nell’economia

Il libero commercio senza frontiere mette in concorrenza i produttori sulla base dei prezzi dei prodotti commercializzati. Siccome produrre merci riducendo l’impatto ambientale costa di più che produrre merci senza preoccuparsi delle conseguenze ambientali, l’eliminazione delle barriere doganali favorisce le imprese che producono in paesi nei quali esistono meno controlli ambientali e le imprese che meno di altre si curano di rispettare l’ambiente.
Questo avviene a livello c0ntinentale, dove non a caso molti siti produttivi sono stati delocalizzati dai paesi in cui si usa energia più pulita e vi sono maggiori controlli ambientali ai paesi dell’Europa dell’Est, dove si usa energia a maggiori emissioni di CO2 (carbone) e dove i controlli ambientali sono più blandi.
Ovviamente il fenomeno è ancora più marcato a livello mondiale, con l’adesione di tutti i paesi dell’Unione Europea ai trattati di libero scambio come il WTO, tramite i quali si sono aperte le porte a prodotti provenienti da paesi di quasi tutto il mondo, nei quali i controlli ambientali sono sostanzialmente inesistenti.
Si pensi non solo all’impatto ambientale dei paesi dell’Est Asiatico come la Cina o l’India, ma anche alle condizioni in cui le imprese europee si procurano le materie prime nei paesi del Terzo Mondo, senza il minimo rispetto dell’ambiente, della salute umana, dello sfruttamento del lavoro minorile, eccetera.

Nel mondo del libero commercio e della competizione globale prevale sempre chi è più “economicamente più efficiente” ovvero chi riesce più di altri a non farsi carico delle ricadute ambientali delle attività economiche.
L’Europa avrebbe potuto creare un grande mercato interno continentale con le stesse regole di rispetto dell’ambiente uguali per tutti, nel quale chiunque avesse voluto produrre doveva prima di tutto rispettare queste regole e nel quale chiunque avesse voluto importare merci dall’esterno avrebbe dovuto imporre ai propri fornitori il rispeto di tali regole.
Un mercato ricco di 500 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo pari al 20% di quello mondiale, avrebbe avuto la forza di imporre questi standard a livello mondiale o comunque di preservare l’ambiente quantomeno sul territorio europeo.

Invece si è preferito dare spazio. all’unico dogma che conta, quello del libero mercato senza regole, quello della competizione fra imprese ad ogni costo, senza riguardi per le conseguenze ambientali.
Dietro a tutta la retorica sul cambiamento climatico la realtà è che l’Europa è fra i principali devastatori dell’ambiente a livello mondiale, in quanto si occupa solo, a parole, della riduzione delle emissioni di CO2, mentre nel contempo porta avanti politiche economiche che generano inquinamento nella stessa Europa, ma soprattutto  in altre aree del pianeta.

I principi del libero mercato e della competitività non sono per nulla compatibili con il rispetto dell’ambiente, se guardiamo oltre la propaganda martellante dei mezzi di informazione.

 

L’ipocrisia europea sulle emissioni di gas a effetto serra

Dando per assunto, sulla base della narrativa mediatica e non della scienza, che il problema principale da affrontare sia la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, proviamo a valutare l’efficacia delle politiche europee per la riduzione delle emissioni di CO2.

Attualmente le emissioni annuali di gas serra (CO2 equivalente) a livello mondiale sono dell’ordine di 35 miliardi di tonnellate, mentre l’insieme dei paesi dell’Unione Europea emette circa 1 miliardo di tonnellate l’anno- Ovvero le emissioni europee contano il 2,8% delle emissioni annue globali.
Quando Ursula Von der Leyen annuncia nel 2021 il piano europeo “Fit for 55” che prevede la riduzione del 55% delle emissioni europee di CO2 entro il 2030 non ci dice che questo sforzo consentirebbe di ridurre le emissioni globali dell’1,6% in 9 anni, a patto che tutti gli altri paesi del mondo nel contempo mantengano invariate le proprie emissioni di gas ad effetto serra.
Con ogni evidenza la riduzione mondiale dell’1,6% risulterà sostanzialmente irrilevante sull’eventuale effetto serra globale, mentre la riduzione del 55% delle emissioni europee  in soli 7 anni, causerà certamente una gravissima crisi economica in Europa.
Questo perché, pur realizzando impianti per la produzione di energia da fonti rinnovaili e mettendo in atto interventi di risparmio energetico, è del tutto irrealistico riuscire a ridurre le emissioni di CO2 addirittura del 7,9% all’anno, senza avere avuto il tempo di quadruplicare (come minimo) il numero di lavoratori nel settore (ingegneri, operai specializzati, ecc.). Di conseguenza una tale riduzione delle emissioni potrà essere conseguita solamente riducendo in modo molto rilevate le attività produttive e mantenendo gli edifici al freddo in inverno.
E questo significherà disoccupazione e impoverimento.
Tutto questo per conseguire una misera riduzione a livello mondiale del solo 1,6% delle emissioni di CO2, senza alcun effetto rilevante sul cambiamento climatico.

Ovviamente, in un regime di libero commercio, i concorrenti extraeuropei delle nostre imprese continueranno a produrre emettendo CO2. Anzi, lo faranno di più, perché i cittadini europei saranno obbligati ad importare da fuori Europa ciò che in Europa, per le restrizioni ambientali, non potrà più essere prodotto.
L’Unione Europea avrebbe potuto ottenere molto di più esigendo dai fornitori internazionali del mercato europeo degli standard ambientali più adeguati. Ma non lo ha fatto, per non andare contro i principi fondanti del libero mercato e della competitività ad ogni costo.

 

L’ipocrisia europea nell’attuale crisi energetica

Nel rispetto dei soliti principi neoliberisti l’UE ha privatizzato e liberalizzato il mercato europeo dell’energia, istituendo la borsa del gas naturale TTF di Amsterdam e la borsa dell’energia elettrica EER di Lipsia.
Le regole di quotazione dei prezzi sono state scritte in modo da favorire i massimi guadagni agli speculatori. Ci riferiamo alla regola dei
prezzi marginali ed alla possibilità di scambiare in borsa quote virtuali di energia ovvero energia non realmente posseduta da chi la vende, che hanno fatto salire di 10 volte la quantità di energia quotata, con quantità pari a 10-15 volte le quantità reali di energia disponibile presso i produttori.

Queste regole tipiche della speculazione finanziaria hanno esasperato le conseguenze di situazioni “negative” per il mercato dell’energia.
La prima situazione negativa è stato proprio il piano europeo “Fit for 55”, che per limitare le emissioni di CO2 ha previsto la vendita all’asta delle quote di emissioni di CO2 consentite (il 45% restante).
Essendo concretamente impossibile ridurre di così tanto le emissioni di CO2 in soli 6 anni, gli investitori hanno anticipato gli effetti del razionamento delle quote di emissioni di CO2, che porteranno ad un aumento dei combustibili fossili.
Questa è stata la principale ragione degli aumenti dell’energia che già si erano registrati lo scorso autunno 2021.
La seconda situazione negativa sono state le sanzioni imposte alla Russia, conseguenti del conflitto in Ucraina.
L’obiettivo irrealistico di affrancarsi nel giro di pochi mesi dal fabbisogno di gas naturale russo, che rappresentava fino ad un anno fa circa il 40% del fabbisogno europeo, essendo noto, a chi conosce i dati reali, che tutti gli altri paesi produttori di gas naturale al mondo sono in grado, con le infrastrutture disponibili attualmente e nei prossimi 3-4- anni,  di sostituire la fornitura di gas russo. Quindi questo significa a priori la decisione di ridurre la disponibilità di gas in Europa, portando a razionamenti certi (tagli alle attività produttive, famiglie al freddo) e far salire i prezzi del gas alle stelle, in quanto si tratta di un bene primario a cui imprese e famiglie non possono rinunciare tanto facilmente.

Una conseguenza di queste decisioni è che ora molte auto che viaggiavano a gas metano, meno inquinante, ora inquinano di più viaggiando a benzina, che costa meno del gas.

Una seconda conseguenza deriva dal legame fra il prezzo dell’energia elettrica al prezzo del gas.
L’Unione Europea ha deciso che ci debba essere un unico mercato non solo del gas (borsa TTF di Amsterdam), ma anche dell’energia elettrica (borsa EER di Lipsia), con le regole per le quali il prezzo dell’energia elettrica viene determinato dalla fonte produttiva più costosa in circolazione, che attualmente è la produzione di energia elettrica mediante combustione di gas naturale. Sul mercato dell’energia elettrica non si fa più distinzione fra energia da fonti rinnovabili ed energia da fonti fossili. Tutta l’energia viene venduta allo stesso prezzo.
In una logica di politiche ambientali, invece, dovrebbe essere favorita la vendita di energia da fonti rinnovabili rispetto a quella prodotta da fonti fossili.
La conseguenza di queste dinamiche è che attualmente molti paesi si stanno orientando, sia per la carenza di gas che per questioni di prezzo, a produrre energia elettrica bruciando petrolio o carbone, emettendo molta più anidride carbonica di quanta se ne emetterebbe usando il gas naturale e senza incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Una terza conseguenza derivante dalle sanzioni alla Russia è che i russi sono obbligati a bruciare il gas metano preveniente dai loro giacimenti, dato che non può più essere venduto in Europa e date che, per motivi tecnici, è molto complesso “chiudere i rubinetti” del gas estratto dai giacimenti.
Per questo motivo, in passato, i contratti fra ENI e Gazprom prevedevano la fornitura di un flusso costante di gas per 20-30 anni e procedure obbligatorie di stoccaggio in Italia, il che consentiva nel contempo di minimizzare i costi per entrambe le parti e assicurare rifornimenti certi di energia per imprese e famiglie italiane.
Oggi, purtroppo, le esigenze della finanza europea e della geopolitica americana hanno prevalso sulle esigenze tecniche, portando Gazprom a bruciare il gaz metano che non viene venduto in Europa.
Il risultato di tutto questo è che vengono aumentate le emissioni di CO2 in Europa per la combustione di petrolio e di carbone in sostituzione del gas, mentre restano le emissioni di CO2 causate dalla combustione del gas russo che non può essere venduto dopo essere stato estratto.
Se a livello italiano siamo governati da incapaci, a livello europeo siamo governati da geni dell’inefficienza.
E ringraziamo che i russi brucino il gas naturale invenduto, perché se lo emettessero direttamente in atmosfera l’effetto serra del gas metano sarebbe di 25 volte superiore a quello della stessa CO2. Bruciando il gas l’effetto serra potenziale viene per fortuna ridotto di 24 volte.

Le attuali politiche europee stanno quindi caricando su cittadini e imprese europei tutti i costi derivanti dall’ideologia della riduzione delle emissioni di CO2 ad ogni costo e tutti i costi di scelte geopolitiche, pur se ufficialmente dipendenti dalla guerra in Ucraina, molto mal ponderate nelle loro conseguenze.

Personalmente mi chiedo come sarebbe andata a finire se i 1200 miliardi di euro di extracosti energetici che l’Unione Europea ha già dovuto subire negli ultimi 12 mesi fossero stati messi, come piano di accordi commerciali, sul tavolo delle trattative di pace fra Russia ed Ucraina. Probabilmente sarebbero stati un argomento sufficientemente convincente per mettere a tacere le armi, trovare una soluzione pacifica ed evitare decine di migliaia di morti.


L’insostenibilità del “meno stato più mercato”

Il terzo principio neoliberista fondante dell’Unione Europea , sopra citato, prevede la riduzione dell’intervento dello stato nell’economia, se non come strumento per tassare sempre di più cittadini e imprese, e per favorire lo strapotere delle multinazionali con regole truccate.
Per questo obiettivo l’Unione Europea continua, fin dalla sua costituzione nel 1992, a comprimere i bilanci degli stati, imponendo rigore di bilancio e tagli agli investimenti pubblici.
In questo modo molti paesi, soprattutto quelli meno ricchi e più indebitati, non hanno la possibilità di fare investimenti pubblici e strategici per ridurre l’impatto ambientale.
Il primo investimento da fare sarebbero i controlli sulle attività produttive inquinanti.
Ma i controlli costano. Meno spesa pubblica = più attività inquinanti.

Oltre a questo, per le stesse ragioni, lo Stato non ha i soldi per realizzare, ad esempio, impianti solari o interventi di risparmio energetico negli edifici pubblici.

Lo stato non hanno neppure la possibilità di intervenire sul mercato dell’energia, razionalizzando e rendendolo più funzionale alla sostenibilità ambientale, evitando i fenomeni illustrati nei paragrafi precedenti.
E’ del tutto evidente che per poter rendere disponibile per un grande paese come l’Italia energia da fonti rinnovabili per tutti serva un soggetto che sia in grado di fare investimenti al di là delle dinamiche dei mercati, in grado di realizzare interventi strategici a beneficio di tutti e dell’ambiente e che abbia tutto l’interesse a ridurre i consumi complessivi di energia, non avendo da guadagnarci sulla vendita, cosa che non succede per gli operatori privati che lucrano sulla vendita di energia.
Ad esempio interventi come l’adeguamento della rete elettrica, oggi strutturatsa con “grossi cavi” (mi scusino i colleghi ingegneri elettrici, ma è per rendere il concetto elettrotecnico facilmente comprensibile) in prossimità delle poche centrli di produzione e con “piccoli cavi” in prossimità degli utilizzatori. Per poter immettere in rete e redistribuire l’energia prodotta sugli edifici dagli impianti fotovoltaici serve installare dei nuovi cavi “più grossi” in prossimità degli utilizzatori-produttori, in modo che l’energia non si disperda per effetto Joule.
E serve realizzare delle “smart grid”, sistemi intelligenti che consentano di coordinare prevalentemente il consumo di energia elettrica nelle ore in cui il sole ci consente di produrne di più, dato che l’energia elettrica è difficile da immagazzinare in grandi quantità.
Tutto questo in Italia non lo si è ancora fatto, proprio perché lo Stato non dispone della libertà finanziaria per farlo (oltre alla mancanza di volontà politica, per incompetenza di chi ci governa).

Tutto questo, che sarebbe logico nell’ottica di politiche ambientali, è irreliazzabile restando nelle regole dell’Unione Europea e restando nella politica di mercato.

 

L’irreformabilità dell’Unione Europea
A questo punto gli amici ecologisti, sostenitori dell’Unione Europea, perché convinti che i problemi ambientali sono globali e non possono essere risolti su scala nazionale, mi diranno di essere d’accordo con le considerazioni sopra espresse, per cui l’unica cosa fa fare è perseguire una vera riforma dell’Unione Europea in chiave ambientalista, liberandola dalle logiche di mercato.

A questi amici io rispondo con un’altra domanda:
In quale modo noi potremmo oggi determinare una totale riscrittura dei trattati europei mettendo d’accordo 27 paesi, senza che nessuno ponga il veto, compresi quelli che lucrano dall’attuale situazione di speculazione finanziaria selvaggia sul mercato dell’energia, compresi quelli che lucrano sulla combustione del carbone e compresi quelli che lucrano sulle importazioni di merci dai paesi più inquinanti del mondo?
E mai ci dovessimo riuscire, quanti anni ci vorrebbero per convincere 450 milioni di cittadini europei?
Ma soprattutto per convicere i loro governanti, sempre attenti agli interessi delle lobbies economiche e molto poco a quelli dei cittadini.

E chiedo ancora:
In quale modo potremmo noi concretamente sfiduciare la Ursula Von der Leyen di turno nel caso in cui portasse avanti politiche che si dimostrino opposte agli interessi ambientali?
Abbiamo forse la possibilità concreta di votare la caduta della Commissione Europea persostituirla con un’altra di altra linea politica?

Oppure è più realistico pensare riformare questo sistema politico-economico iniziando, dal basso, a boicottare sistematicamente le attività economiche inquinanti e a favorire le attività economiche non inquinanti?

L’attuale Unione Europea, al di là dei proclami di facciata, è di fatto una vera e propria calamità per le questioni ambientali, in quanto gli unici veri obiettivi perseguiti sono gli interessi finanziari dei mercati, scaricando sui cittadini i costi e i danni causati dalle conseguenze ambientali delle loro attività.
E sono una calamità tutti coloro che sostengono questa istituzione sovranazionale.
Non è possibile coniungare ambientalismo ed ecologia.
Se ci dicono di volerlo fare, ci stanno solo ingannando, per darsi una facciata più credibile mentre perseguono obiettivi ben di altro tipo.

Abbiamo la possibilità di costruire una società diversa, a misura d’uomo e di ambiente, ma solo a patto di rifiutare in blocco meccanismi del mercato libero, della competitività e della non ingerenza dello stato nell’economia. E, quindi, l’Unione Europea.

Il problema di matematica di base che annulla l’isteria del riscaldamento globale_ Di Maker S. Mark

Se qualcuno propone una soluzione a un “problema esistenziale” che non ha possibilità di successo, dovremmo essere costretti a prendere sul serio il problema?

Se gli allarmisti climatici credono davvero che ci sia un’emergenza climatica, allora dovrebbero essere in grado di rispondere alla prima domanda fondamentale sul “piano”. I numeri del piano sono raggiungibili anche a distanza? Ricorda: in base al loro stridio, abbiamo solo dodici anni prima di morire tutti a causa del “cambiamento climatico provocato dall’uomo”.

Per rispondere a questa domanda, scomponiamo parte del piano nel problema matematico più elementare: possiamo sostituire il 25%, il 50% o il 75% delle auto in circolazione in dieci anni? Per comprendere la possibilità teorica, semplificheremo questo in quanti anni ci vorranno per sostituire tutti i veicoli su strada negli Stati Uniti

Inizierò con quanti veicoli sono in circolazione oggi negli Stati Uniti. Secondo questo link , nel 2020 erano 286 milioni. Lo arrotonderò a 300 milioni per semplificare i calcoli.

Quanti veicoli totali vengono venduti ogni anno negli Stati Uniti?  Questo collegamento risponde che ogni anno negli Stati Uniti viene venduta una media di poco meno di 15 milioni di veicoli (supponendo che i veicoli venduti e la capacità di produzione siano correlati).

Quanti veicoli elettrici vengono prodotti negli Stati Uniti? Da questo link ne produciamo meno di 1 milione. Arrotonderò a un milione per il mio calcolo.

Il semplice problema di matematica è: quanti anni ci vorranno per sostituire tutte le auto negli Stati Uniti con veicoli elettrici (totale negli Stati Uniti arrotondato per eccesso / volume di produzione medio all’anno)?

È 300M / 15M/anno = 20 anni. Ciò presuppone due cose importanti: in primo luogo, non ci sono nuove aggiunte nell’economia di conducenti e veicoli. In secondo luogo, che possiamo convertire tutta la produzione in veicoli elettrici durante la notte.

Se credi che moriremo tutti tra 12 anni, siamo in ritardo di otto anni per passare a tutti i veicoli elettrici, anche se le ipotesi di fondo fossero possibili.

Questo semplice problema di matematica mostra che le persone che urlano di più non hanno una soluzione seria al problema esistenziale del “cambiamento climatico provocato dall’uomo”. La situazione automobilistica negli Stati Uniti da sola non può essere risolta in vent’anni, per non parlare di dieci anni.

Ecco dove la matematica diventa un po’ più divertente:

Se attualmente produciamo 1 milione di veicoli elettrici all’anno e stiamo lottando per ottenere i materiali per raggiungere quel numero, qual è il numero massimo di veicoli elettrici che possiamo produrre senza una “bacchetta magica”?

Sarò generoso e dirò che al massimo possiamo aspettarci di triplicare la produzione a 3 milioni all’anno. Se abbiamo bisogno di 300 milioni da produrre (300 milioni / 3 milioni/anno = 100 anni), ciò significa che ci vorranno 100 anni solo per sostituire tutti i veicoli su strada. Le aziende stanno già lottando per ottenere i minerali necessari per le batterie. Quando proviamo a passare da 1M a 2M, peggiorerà e sarà più costoso. Non riesco nemmeno a immaginare i costi e l’impatto ambientale del tentativo di passare da 2 a 3 milioni. La mia previsione è che in dieci anni, il meglio che possiamo sperare di ottenere negli Stati Uniti sia sostituire dal 10% al 15% dei veicoli su strada con veicoli elettrici.

Le persone poco serie, che non sanno fare questa matematica di base, non possono assolutamente comprendere la complessa scienza coinvolta nello studio del clima. I numeri non mentono. La loro soluzione non risolverà il “problema climatico creato dall’uomo” senza una bacchetta magica per sostituire ogni veicolo negli Stati Uniti in una o anche due generazioni.

I membri dell’amministrazione Biden hanno iniziato a dire che abbiamo bisogno del dolore per ottenere il guadagno. Vi dimostro ora che non è possibile produrre abbastanza veicoli in 12 anni o in 25 anni. Pertanto, questo è sicuramente tutto dolore e nessun guadagno. Distruggendo l’industria dei combustibili fossili degli Stati Uniti, sembra che siano determinati a distruggere l’economia statunitense dall’interno.

Pertanto, perché stanno spingendo questo programma e questa soluzione ridicola? Se credi che la “catastrofe climatica provocata dall’uomo” sia dietro l’angolo, in che modo la distruzione degli Stati Uniti e dell’economia mondiale aiuterà? La risposta semplice è “non lo farà”. Gli Stati Uniti sono la nazione più innovativa nella storia del mondo. Se ci togli dall’equazione, i problemi seri non possono essere risolti.

Per coloro che dicono che i globalisti hanno un piano, posso assicurarvi sulla base di questa matematica di alto livello che non hanno un piano serio per affrontare il “cambiamento climatico causato dall’uomo” (se ci credono davvero). Probabilmente ci vorranno trilioni di dollari iniettati nell’economia mondiale e dai trenta ai quarant’anni per sostituire tutti i veicoli a gas con quelli elettrici (supponendo che possiamo trovare i minerali e i componenti per produrre le batterie).

Senza la bacchetta magica a cui fanno riferimento ripetutamente i globalisti, non c’è modo di produrre abbastanza veicoli elettrici per fare la differenza. La vera domanda allora diventa: perché spingono a convertirsi ai veicoli elettrici (non servirà in tempo) per risolvere un “problema esistenziale”? Penso che dobbiamo “seguire i soldi” per scoprirlo.

Personalmente, continuerò il lavoro sui problemi di matematica e sulla scienza reale per sfatare il mito del “cambiamento climatico provocato dall’uomo”. Raccomando di non ascoltare le persone che non vogliono o non sono in grado di completare i problemi di matematica di base quando risolvono questa cosiddetta crisi. Le soluzioni poco serie non faranno nulla per aiutare un problema poco serio.

Maker S. Mark (uno pseudonimo) è un patriota che può capire e spiegare matematica e scienze avanzate ed è preoccupato per lo stato della nazione e come risolvere i problemi che dobbiamo affrontare. Uniti vinciamo divisi perdiamo.

https://www.americanthinker.com/articles/2022/08/the_basic_math_problem_that_undoes_global_warming_hysteria.html

IL RISCALDAMENTO GLOBALE HA UNA BUONA SCHIENA, di Xavier Jésu

65 milioni di anni fa, poco prima che i dinosauri si estinguessero, la temperatura media sulla superficie terrestre era di 25°C, dieci gradi più calda di oggi, e le calotte polari nord e sud erano scomparse…

 

 

 

Ci doveva essere un motivo valido per spiegare le alte temperature della scorsa settimana che hanno contribuito all’espansione dei drammatici incendi in Gironda: “Riscaldamento globale”: anche questa espressione viene discretamente sostituita da “cambiamento climatico”. , che non è più a lungo la stessa cosa. La seconda formulazione mi sembra, diciamo, più ragionevole e riposiziona il problema in una dimensione più fatalistica che incriminante. Mi spiego (come direbbe Zemmour): il termine “riscaldamento” è stato, sin dal primo rapporto dell’IPCC nel 1990, correlato quasi esclusivamente all’attività umana; il famoso antropomorfismo. Il termine “perturbazione” sembra piuttosto essere attribuito a una forma di fatalità distribuendo equamente l’influenza della popolazione e quella dell’evoluzione naturale del nostro pianeta. Inoltre, nel 2019 Patrick Moore, co-fondatore ed ex presidente di Greenpeace Canada aveva denunciato, e cito: “la bufala globale del riscaldamento globale antropogenico! ” Solo quello !! Ha descritto, in un’intervista alla rivista Breitbart News, “le macchinazioni ciniche e corrotte dei governi in mancanza di progetti politici che alimentano la truffa intellettuale e fiscale del riscaldamento globale di origine umana. “. “le macchinazioni ciniche e corrotte dei governi in mancanza di progetti politici che alimentano la truffa intellettuale e fiscale del riscaldamento globale provocato dall’uomo. “. “le macchinazioni ciniche e corrotte dei governi in mancanza di progetti politici che alimentano la truffa intellettuale e fiscale del riscaldamento globale provocato dall’uomo. “.

PRIMA DELL’IPCC

Ma, per tornare davanti all’IPCC, il 29 giugno 1989 l’Ufficio delle Nazioni Unite per l’ambiente annunciò che, 10 anni dopo (cioè nel 1999 se i miei calcoli sono corretti…), diversi paesi rischiavano di scomparire a causa dell’elevazione degli oceani e mari di 1 metro… Che fu ritrasmesso, all’epoca, da Antenne2 (A2) su un giornale presentato da Henri Sannier in prima serata. (Fonte INA).

Ora sappiamo che dal 1880 il livello medio degli oceani è aumentato di circa 25 cm, o 1,7 mm all’anno, supponendo che le misurazioni del 1880 siano affidabili….

MA LA MACCHINA INFERNALE ERA A POSTO!

Non abbiamo più parlato dello strato di ozono o delle piogge acide. Tutto questo era sparito. Avevamo bisogno di una ragione quasi non verificabile per i comuni mortali che servisse da sfogo per tutto ciò che è sbagliato sulla terra.

Ecco tre esempi piuttosto nitidi:

  • Nel 2019, un funzionario della città di Parigi ha giustificato la sporcizia della capitale a causa del… riscaldamento globale che ha fatto uscire le persone a fare picnic all’aperto e quindi ha attirato i topi (diremmo i topi oggi) (Fonte Valeurs Actuelles 21/02/2019)
  • Più di 2.000 morti in più per ferite mortali ogni anno negli Stati Uniti. Questa è la conclusione di uno studio pubblicato sulla rivista  Nature Medicine il 13 gennaio 2020. I ricercatori dell’Imperial College London (UK) e della Columbia University di New York (USA) hanno analizzato i dati per 6 milioni di decessi per lesioni mortali negli Stati Uniti. Questi stessi dati sono stati correlati all’evoluzione delle temperature tra il 1980 e il 2017. (Fonte Sciencepost del 02/02/2020)
  • In seguito alla scoperta dell’America, i coloni uccisero così tanti nativi americani (56 milioni, causati da massacri di nativi americani ed epidemie di malattie portate dai coloni) che la terra divenne fredda a causa di un calo dello sfruttamento della terra, storicamente mantenuto da Nativi americani, che ha portato a un calo delle emissioni di Co2, e luppolo, raffreddamento di tutta la terra… (Fonte Slate del 02/02/2019)

AH! SCIENZA …

Nel 1990, l’IPCC prevedeva un aumento della temperatura di 0,35°C per decennio. Infine, nel 2017, la realtà misurata aveva fornito 0,095°C per decennio.

La tendenza generale è di attribuire alla Co2 la principale responsabilità di questo aumento della temperatura, e quindi, da causa ad effetto, all’attività umana. Tuttavia, secondo gli studi del geofisico e membro dell’Accademia delle scienze, Vincent Courtillot, la temperatura è aumentata allo stesso ritmo dal 1910 al 1940 dal 1970 al 2000, mentre le emissioni sono state molto più elevate dal 1970 al 2000. e che la temperatura è diminuita dal 1940 al 1970 poiché le emissioni sono aumentate notevolmente. Inoltre, Vincent Courtillot ha mostrato la stretta relazione tra l’attività solare e l’aumento della temperatura sulla terra. E curiosamente, Elon Musk aveva annunciato nel febbraio 2022 che a causa di una tempesta magnetica, fino a 40 satelliti della sua compagnia non potevano essere schierati dopo il loro lancio. E SpaceX per chiarire:

A gennaio 2017 ci è stato detto che gli scienziati “avrebbero fatto” una scoperta intrigante: 125.000 anni fa, il livello degli oceani era da sei a nove metri più alto del livello attuale, ma le temperature superficiali degli oceani erano simili a quelle viste oggi.

QUALI CONTRADDIZIONI SONO PORTATE ALL’IPCC?

In effetti sono tanti: secondo alcuni siti, la NASA ammetterebbe che il cambiamento climatico è dovuto ai cambiamenti dell’orbita solare terrestre, e non ai SUV (un piccolo cenno a d’Hidalgo) o ai combustibili fossili. Ma non appena questa ipotesi è stata affermata, la stampa si è affrettata a smantellarla. Il problema è lì: i rapporti dell’IPCC sono considerati sintesi infallibili (anche quando si passa da una temperatura di 0,35°C per decennio a 0,095°C…) dall’intera classe politica. Tutto il resto è solo un’ipotesi più o meno inverosimile per gli scettici del clima di estrema destra. Quindi Vincent Courtillot è un ciarlatano estremista? Ha lavorato con Bertrand Delanoë, mi sembra, e quest’ultimo non era al FN. Potremmo almeno riconoscerlo?

Dal 1990, se si ha la sfortuna di esprimere il minimo dubbio sulle conclusioni ( proposte) che ci vengono imposte, si ricorre nuovamente alla tecnica della stella gialla appiccicata sul petto: “sei un climatoscettico” la cui definizione in il “piccolo manuale di buon senso” potrebbe essere: “l’altezza della stupidità di un sottoproletariato di cospiratori di destra” (potremmo anche, volendo, allegare tutte queste parole per farne una categoria che la “Verità” (implicito: “sinistra”) il mondo ama usare.

E COME INTERPRETARE TUTTE LE INFORMAZIONI RACCOLTE?

Tutto dipende dai modelli utilizzati per sfruttare questi miliardi di dati. Ma per me c’è una sola certezza, che è che nulla è certo e che i vari e vari risultati di studi e/o pseudo-studi sono soprattutto armi politiche. Tutti tendiamo a volere solo informazioni che confermino il nostro punto di vista: è comodo e confortante. Ma un vero scienziato ama le analisi contraddittorie e accetta metodologie diverse dalla sua che possono dare o gli stessi risultati dei suoi, o risultati radicalmente diversi. Questo è il bello della scienza.

Ma ahimè, “Il dibattito sul cambiamento climatico non riguarda la scienza. Questo è uno sforzo d’élite per imporre controlli politici ed economici sulla gente”, ha scritto un commentatore del programma radiofonico Hal Turner.

I “politici” sono i primi ad averlo capito.

Come non insospettirsi, allora, dopo aver sentito tante certezze vero-false durante la Guerra del Golfo (armi chimiche), e più recentemente sul Covid (mascherine inutili)? Come chiedere alla popolazione di accettare nel suo insieme ciò che le viene costantemente lanciato con una forma di condiscendenza che diventa più che dubbia, persino oscena?

Sta a noi essere vigili e critici perché, come ha detto Agatha Christie:

“Un popolo di pecore finisce per partorire un governo di lupi”

https://www.minurne.org/billets/31959

AUTO ELETTRICHE: IL PIANETA IN PERICOLO!_di MARC LE STAHLER

Ogni attività umana, anche la più nobile, ogni tecnologia, anche la più innovativa e promettente, hanno un lato oscuro che si dovrebbe considerare nel promuoverle. Da qui la necessaria cautela e gradualità nelle politiche di adozione. Proprio quello che sta mancando ai catastrofisti ambientali, agli ecologisti dogmatici, alla Commissione Europea, nota organizzazione lobbistica, che ne è diventata la paladina indefessa e la fervida sacerdotessa. Buona lettura, Giuseppe Germinario

AUTO ELETTRICHE: IL PIANETA IN PERICOLO! (L’Arbitro)

PERICOLO: DOBBIAMO FERMARE
L’AUTO ELETTRICA!

Il 28 febbraio, il vettore automobilistico merci FELICITY-ACE caricato con 4108 auto dei marchi del Gruppo VW ha preso fuoco mentre stava per consegnarle negli Stati Uniti.

Questo incendio ha preso piede tra le 3000 auto elettriche; è affondato il 1 ° marzo a una profondità di 3000 m nell’Atlantico, al largo delle Azzorre!

Ne avete sentito parlare? No? Solo l’anatra incatenata ha osato dirlo!

 

 

L’incendio è dichiarato il 16 febbraio 2022 nelle batterie agli ioni di litio dei veicoli.

I 22 membri dell’equipaggio sono stati evacuati dalla nave sani e salvi, la procedura di traino è iniziata il 24 febbraio, ma la nave ha preso un po ‘di alloggio ed è affondata.

Le Canard Enchaîné, sotto la penna di Jean-Luc Porquet, pubblica un articolo al vetriolo sull’assurdità delle direzioni ecologiche in cui la Francia si è imbarcata.

In linea di vista, l’auto elettrica, dovrebbe essere la soluzione del futuro per salvare il pianeta in pericolo. Ci viene costantemente detto.

A tal fine, la Francia si precipitò a capofitto nel tutto elettrico, ma senza alcun discernimento. I nostri leader hanno ordinato alle case automobilistiche di scommettere tutto sull’elettrico.
Ma cosa significa questo?
In primo luogo, l’installazione di decine di migliaia di stazioni di ricarica lungo le nostre strade, perché i veicoli più efficienti al momento non possono rivendicare un’autonomia superiore a 500 km. E ancora senza fare uso di fari, riscaldamento, tergicristalli, radio, sbrinamento o aria condizionata, e senza superare i 90 km / h … altrimenti l’autonomia scende a 200/250 km.

LE BATTERIE DELLE AUTO ELETTRICHE SONO PESANTI E ALTAMENTE INQUINANTI

Quindi si tratta di progettare batterie in grado di immagazzinare quell’energia.

Allo stato attuale, sono molto pesanti, molto costosi e imbottiti di metalli rari. Ciò rende questi veicoli dal 40 al 60% più costosi dei nostri buoni vecchi motori diesel e benzina.

In quella della Tesla Model S ad esempio, batteria da 600 kg, non ci sono meno di 16 kg di nichel.

Tuttavia, il nichel è piuttosto raro sulla nostra terra. Questo fa sì che il capo di Tesla dica alla Francia che “il collo di bottiglia della transizione energetica sarà sul nichel“. Il nichel è molto difficile da trovare. Devi andare a prenderlo in Indonesia o Nuova Caledonia e la sua estrazione è una vera seccatura perché non si trova mai nel suo stato puro.
In Caledonia, il nichel è grattugiato a livello del suolo, non ci sono più alberi.
Nei minerali, come il ferro che il colore rosso mostra a sinistra della foto, il nichel esiste solo in proporzioni molto piccole. Pertanto, è necessario scavare e scavare di nuovo, macinare, schermare, idrociclonico per ottenere un tonnellaggio proprio all’altezza delle esigenze. Questo porta a montagne colossali di residui che vengono scaricati la maggior parte del tempo in mare!

Ma non importa quale sia la biodiversità per i Khmer Verdi che giurano sulla “mobilità verde”, giustifica tutto l’inquinamento.

C’è anche il litio.
Ci vogliono 15 kg per batteria (Tesla Model S). Questo proviene dagli altopiani delle Ande, principalmente in Bolivia. Per estrarlo, viene pompato sotto i salars (laghi salati secchi) che porta ad una migrazione di acqua dolce verso le profondità. Un disastro ecologico per i nativi che già soffrono per la mancanza di acqua.

E poi c’è il cobalto: 10 kg per batteria che otterremo in Congo. E lì, è il lavoro dei bambini che scavano a mani nude nelle miniere artigianali per soli 2 dollari al giorno (Les Échos del 23/09/2020).

I bambini hanno tra gli 8 e i 16 anni e lavorano dieci ore al giorno. Sonostati denutriti e molti si stanno ammalando.
Infastidisce un po ‘le nostre case automobilistiche elettriche, tuttavia vogliono a tutti i costi raggiungere la Cina, che è leader in questo settore.
Quindi, il lavoro minorile, “gli ambientalisti a cui non importa” come direbbe Macron.

Per finire, le batterie sono terribilmente pesanti (1/4 del peso della Tesla Model S, 2,2 tonnellate, la Model X pesa 2,6 tonnellate, con una batteria da 600 kg), quindi è necessario alleggerire il veicolo il più possibile. Vengono quindi realizzati corpi in alluminio la cui estrazione genera fanghi rossi, rifiuti insolubili dal trattamento dell’allumina con soda e che sono composti da diversi metalli pesanti come arsenico, ferro, mercurio, silice e titanio, che vengono anche scaricati in mare a dispetto dell’ambiente, come a Gardanne-Bouches-du-Rhône.

LE AUTO ELETTRICHE SI ACCENDONO SPONTANEAMENTE

Oltre al loro peso, generando un elevato consumo di kilowatt, il loro costo e l’elevato inquinamento generato dalla loro fabbricazione, le auto elettriche sono pericolose. Si accendono spontaneamente da determinate temperature esterne, il che giustifica il loro divieto nella maggior parte dei parcheggi sotterranei.

Detto questo, questi incidenti sono ancora piuttosto rari, le auto elettriche sono ancora rare e anche i veicoli a carburante a volte prendono fuoco, ma è quasi sempre un errore umano, come il calcio gravemente spento e la perdita del serbatoio e in proporzione al loro numero, sono molto rari.

In inverno, al di sotto dei -5°C, il liquido in cui sono bagnati i due elettrodi (positivo e negativo) si congela. È un elettrolita “aprotico” (un sale LiPF6 disciolto in una miscela di carbonato di etilene, carbonato di propilene o tetraidrofurano). C’è un cortocircuito che accende la batteria.

Questo incendio ha due peculiarità, è impossibile estinguerlo senza immergere l’intera auto in una piscina per almeno 24 ore ed è facilmente comunicabile alle auto vicine, soprattutto se sono elettriche. Per questo si consiglia di non parcheggiare le auto elettriche affiancate, come si fa quando c’è una stazione di ricarica multi-socket (rara in Francia, ma sempre più frequente negli USA).

TUTTI I DISPOSITIVI DI MOBILITÀ PERSONALE MOTORIZZATI SONO INTERESSATI

Il problema della bassa temperatura è stato risolto, le batterie vengono riscaldate a + 16 ° C da un resistore che assorbe il kw di cui ha bisogno, sia nella batteria stessa, che riduce l’autonomia dell’auto, sia in una batteria ausiliaria, che la appesantisce. Ma questo esiste solo per le auto.

Per l’incendio dovuto al calore, le notizie ci ricordano regolarmente che tutte le macchine a batteria al litio possono essere pericolose. Nessun EDPM (Motorized Personal Mobility Machine) è risparmiato: scooter, giroruole, skateboard elettrici e auto, tutto va lì.

https://www.anumme.fr/2020/07/23/rsiques-incendies-solutions/

Da una temperatura della cella* di 60-70°C, può verificarsi quella che viene definita una fuga termica: la batteria agli ioni di litio sale a 200° e prende fuoco. Nella stagione calda, se un’auto viene lasciata alla luce diretta del sole per troppo tempo, può prendere fuoco. Si presume che questo sia ciò che è accaduto con l’auto elettrica parcheggiata ai margini della foresta delle Landes (fonte Elisabeth Borne) e che ha bruciato circa 20.000 ettari.

Su tutti questi incidenti di auto elettriche, la censura più severa è dilagante. Per gli ecologisti politici e i funzionari governativi, l’auto elettrica è il futuro ed è pulita, diciamolo. Diesel e benzina sono sporchi e devono essere vietati, diciamolo anche e soprattutto senza pensarci o guardarsi intorno.

Un altro dogma che è stato appena inventato, non sono più gli abitanti delle città che inquinano, sono i contadini, i loro campi, i loro trattori e i loro animali. Gli ambientalisti sono il 98% del boho delle città della ricca classe borghese. Non avendo trovato nulla che giustificasse il loro consumo eccessivo di riscaldamento, aria condizionata, acqua calda, ecc., i loro sacerdoti e vescovi hanno pensato che sarebbe stato più semplice accusare i contadini che, è noto, non sanno nulla della natura, delle sue piante e dei suoi animali. Inquinano perché hanno colture che richiedono fertilizzanti, quindi azoto (che è completamente innocuo) e animali che fanno scoregge, quindi producono CO2 e metano derivanti dalla decomposizione delle piante nel loro intestino.

In realtà, allo stesso peso, gli ambientalisti vegetariani, vegani o vegani producono tanta CO2 e metano quanto le mucche, dalle loro scoregge create dalla decomposizione nel loro intestino delle erbe e delle altre piante che mangiano.

Quindi, se dobbiamo eliminare il 30% delle mucche entro il 2025 e il 100% entro il 2050 per salvare il pianeta, dobbiamo logicamente eliminare così tanti ambientalisti. C.Q.F.D.

GLI AMBIENTALISTI SONO PER IL 98% TOTALMENTE IGNORANTI IN SCIENZE NATURALI

Nel 1967, ho capito perché gli ambientalisti e i biologi sono così spesso ignoranti. Un direttore del CNRS specializzato in biologia marina, che si è ammalato, mi aveva chiesto di sostituirlo con breve preavviso per una conferenza su cnidariani e tenari, due famiglie di animali marini che rappresentano l’80% della massa biologica degli oceani, più il 15% di animali con ossa, pesci e + o – 5% di vari come animali con scheletri ossei, balene, foche… serpenti marini…

Nella grande sala dell’Università di Scienze Paris VII, c’erano 400 studenti di biologia e una mezza dozzina di professori curiosi di vedere chi il loro leader aveva trovato per sostituirlo.

Per prima cosa ho posto la domanda: conosci la differenza tra cnidari e tenari? Nessuna risposta. Ho passato loro un centinaio di diapositive scattate da me di animali marini fotografati in diversi oceani e nel Mediterraneo, ponendo loro ogni volta la domanda, cnidaria o ctenary? C’era solo il 4% degli errori. Sai come riconoscerli, ma non sai ancora cosa li differenzia e tuttavia è semplice. Gli cnidari pungono e i tenari si attaccano.

Tutti hanno tentacoli, ma alcuni, come meduse, anemoni, gorgonie… e un piccolo polpo con macchie blu dall’Australia, hanno tentacoli velenosi che pungono al contatto. Abbracciano la loro preda con molti tentacoli, aspettano che sia paralizzata o muoiano del veleno e la portano alla bocca per mangiarla.

Gli altri, come polpi, seppie… alcuni vermi marini, e i minuscoli dentieri del plancton, usano la forza dei loro tentacoli per immobilizzare la preda e portarla alla bocca o al becco per distruggerla e mangiarla.

Sono stato applaudito a lungo, anche dagli insegnanti, ma mi è venuta in mente un’altra idea e ho ripreso il microfono. “Ti dirò perché nessuno ha avuto questa idea, ma semplice, gli cnidari pungono e i ctenari si attaccano. Tutti voi studiate questi animali nei vostri laboratori universitari o altrove. Sono morti, li sezionate, li esaminate, ma non li vedete vivi, io ci passo ore e ho notato infatti due cose, che alcuni pungono e altri si attaccano, ma anche che molti aspettano che la preda venga catturata da sola nei loro tentacoli, come meduse, anemoni e tutti i vermi marini; altri cacciano, come polpi, seppie e stelle marine. Le stelle avanzano casualmente fino a trovare un guscio che è buono da mangiare, ma cacciatori come polpi e seppie sono molto intelligenti e dispiegano strategie di aiuto alle mani, cioè attacco rapido a sorpresa e imboscate che sarebbe interessante per alcuni di voi studiare.
Ma per questo, ricorda l’essenziale, nelle scienze della vita l’osservazione dal vivo è importante quanto l’analisi di laboratorio.

È questo senso di osservazione che manca agli ecologisti: in questi giorni hanno il sole che sorge intorno alle 6 del mattino, è di circa 20 ° C; alle 10 del mattino, è 24°; alle 14 è 34° (in Provenza), 14° in più in 8 ore. Ma ciò che li spaventa è che gli scarichi delle auto e le scoregge delle mucche potrebbero aggiungere 1 o 2 gradi in dieci o venti anni!

Non capiscono che l’unico e solo fattore importante, naturale, ecologico e sostenibile nel riscaldamento dell’atmosfera è il SOLE.
Né che se moltiplichiamo le auto elettriche il rischio di incendi delle batterie aumenterà considerevolmente ovunque.

Il direttore

1 agosto 2022

* Temperatura cellulare: Nel cuore delle nostre cellule, la temperatura raggiunge i 50 ° C.
La temperatura normale di un corpo umano è di 37 ° Celsius.
Ma i mitocondri che si annidano all’interno delle nostre cellule sono molto più caldi.
Nelle batterie è lo stesso, il loro liquido ha le celle…

https://www.minurne.org/billets/32004

Crisi ambientale, catastrofismo climatico e avventurismo energetico_di Giuseppe Germinario

Il 29 dicembre scorso abbiamo pubblicato un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. http://italiaeilmondo.com/2021/12/29/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso/ Un testo, il primo, sintetico e incisivo, tipico dell’approccio di un tecnico professionista, che offre numerosi spunti di riflessione, in particolare, nell’economia di questo commento, nei punti 1° e 3°.Riguardo al 1° vale la pena sottolineare la costante irrilevanza del tema della sovranità ed autonomia nazionali, sia in forma individuale che condivisa con altri stati affini specie in un contesto multipolare come l’attuale e la sudditanza remissiva ed irriflessiva del sistema mediatico alle campagne allarmistiche e modaiole lanciate di volta in volta dai veri facitori di opinione pubblica più o meno discreti.

il 3° punto è in realtà propedeutico al 1° e per rendere evidente tale caratteristica occorre riprendere il principio informatore del recente articolo di Roberto Buffagni sulla gestione della pandemia http://italiaeilmondo.com/2021/12/19/sulle-strategie-di-approccio-alla-pandemia-da-coronavirus-tiriamo-le-fila_di-roberto-buffagni/ : la gestione positiva di una crisi sistemica complessa ed imprevista non può essere affidata ad un’unica soluzione salvifica, in pratica ad una scommessa. Un approccio unidimensionale all’apparenza occasionale, ma che viene riproposto pedissequamente, in realtà, in analoghe situazioni di reale o presunta crisi sistemica. Il segno a questo punto dei limiti di visione e di realistica ambizione di classi dirigenti ottuse e decadenti, prive di autonomia strategica; la causa prima dei comportamenti paradossali e incoerenti, dozzinalmente manipolatori di queste man mano che devono sbattere con l’evidenza della realtà. Lo abbiamo già visto nella crisi pandemica in corso; cominciamo ad intravederlo negli altri tre ambiti segnalati da questo articolo. Le questioni ambientale e climatica da una parte ed energetica dall’altra sono, quindi, tre delle vittime più illustri di questo approccio.

La questione ambientale/climatica si è trasformata rapidamente nella sua forma dogmatica e moralisticheggiante di ambientalismo catastrofico nel momento in cui ha attribuito all’UOMO, alla sua avidità e al suo delirio di potenza, la responsabilità prima e determinante dei cambiamenti climatici. Un assioma ancora tutto da dimostrare al quale seguono altre certezze più simili a dogmi indiscutibili che ad argomentazioni inoppugnabili, quali l’origine e la responsabilità antropica del cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse della terra.

Assiomi i quali, per essere inquadrati criticamente, necessitano intanto di due precisazioni preliminari:

  • la questione ambientale andrebbe prima separata nettamente da quella climatica per poi procedere all’individuazione delle correlazioni tra di esse;
  • la tematica ambientale/climatica non è un mero movimento culturale pregno di motivazioni idealistiche solo in un versante, ma un tema politico sostenuto in entrambi i versanti da lobby, dinamiche geopolitiche e gruppi di interessi, uno dei quali, in quanto allo stato nascente e intrinsecamente più limitato, dal carattere maggiormente assistito e parassitario e con alcuni attori di prima grandezza impegnati contemporaneamente nei due fronti. Uno per tutti il solito Soros, impegnato a finanziare i vari “gretini” per il mondo e nella partecipazione azionaria di CFS, impegnata nella ricerca applicata sulla fusione nucleare.

 

Il cambiamento climatico, per meglio dire i cambiamenti climatici, quando rilevati lungo tempi ragionevoli ed appropriati, hanno effetti opposti e non necessariamente negativi secondo la latitudine, il carattere e la morfologia dei terreni, la cura del territorio, il livello di antropizzazione incontrollata e squilibrata, sia in condizione di spopolamento che di inurbamento caotico ed incontrollato.

Ammessa e non concessa la determinante responsabilità antropica nei cambiamenti climatici, più che di “UOMO” si dovrebbe parlare di uomini nelle loro diverse aggregazioni sociali, nei loro vari gruppi di interesse e di visione delle cose, nelle loro diverse dinamiche legate al soddisfacimento delle necessità.

Conseguenze e problemi diversi in diversi contesti, ma anche e quindi approccio multidimensionale nella individuazione e circoscrizione dei problemi ed adozione di provvedimenti ed indirizzi secondo il criterio cautelativo del multirischio (AHP), tipico di azioni in contesti complessi e non sufficientemente controllabili.

Se, a titolo di esempio, i cambiamenti climatici possono innescare processi di desertificazione, l’intervento dell’uomo può contribuire a rendere irreversibile, contenere o a far regredire il fenomeno: lo sono, però, in un senso e nell’altro, tanto l’introduzione dell’allevamento estensivo, specie di ovini, come nel Sahel, quanto l’uso indiscriminato di fertilizzanti e anticrittogamici nelle coltivazioni intensive e specializzate; tanto la sovrappopolazione rispetto alla capacità dei bacini idrografici e alle tecnologie ivi disponibili di uso razionale delle risorse idriche, quanto l’abbandono e lo spopolamento di territori bonificati e trasformati dal paziente, millenario intervento dell’uomo; tanto i repentini processi di industrializzazione e sfruttamento dei terreni, come avvenuto nell’Asia sovietica, quanto la loro repentina interruzione. Per non parlare del problema delle risorse idriche e dei contenziosi geopolitici ad esse legate ( http://italiaeilmondo.com/2018/03/16/geopolitica-dellacqua-verita-controcorrente-di-aymeric-chauprade-traduzione-di-roberto-buffagni/ ). Si potrebbe continuare all’infinito. Come si potrebbe sindacare sugli sconvolgimenti ambientali ed economici provocati dall’interruzione repentina e senza alternative dell’uso di sostanze chimiche, ma rimossi da quegli ambientalisti così altrimenti sensibili ai mutamenti.

Ad un tale livello di complessità ed articolazione delle problematiche intrinseche ai sistemi ecologici si deve aggiungere l’ulteriore complicatezza di quelle estrinseche in azione in questo ambito, a cominciare dalle dinamiche geopolitiche, dalle esigenze di coesione e dinamicità delle formazioni sociali, dalla costante pressione esercitata dall’accumulazione capitalistica, dal modello di sviluppo e di progresso che informa le diverse strategie politiche delle classi dirigenti.

Da qui il carattere irrealistico delle ipotesi di governo mondiale di questi fenomeni, tanto più in una fase multipolare delle dinamiche geopolitiche. Si potrebbe pervenire tutt’al più alla definizione di indirizzi e di qualche strumento finanziario e di incentivazione a patto che si passi dalla velleità del contrasto all’obbiettivo più praticabile dell’adattamento, principio accettato in coabitazione solo dopo quattro decenni di proclami apocalittici quanto sterili.

Troppo poco rispetto all’annuncio drammatico della imminente catastrofe; sufficiente, però, a spingere alla soluzione salvifica e al discrimine moralistico rispetto al posizionamento dei vari attori; esattamente come è successo per la crisi pandemica, per il discrimine umanitario dei regimi e via dicendo.

Non poteva non cadere nel mirino il principale bersaglio predestinato: la produzione ed il consumo dell’energia fossile; non potevano non essere il principale soggetto promotore e la vittima suicida di queste scelte i paesi europei e la loro sintesi politica di impotenza e subordinazione, l’Unione Europea. Nel nostro piccolo, gli artefici ed apologeti del PNRR.

L’obbiettivo di conversione integrale e subitanea alle fonti di energia rinnovabile è di per sé irrealizzabile per i limiti fisici di trasformazione delle fonti originarie e di estensione territoriale degli impianti necessari. Imposta come soluzione salvifica e redentiva induce a sottovalutare i problemi di inquinamento e di dipendenza geopolitica derivati dall’estrazione e dalla lavorazione delle materie prime, del tutto analoghi a quelli delle fonti fossili; spinge a rimuovere il problema dell’intermittenza della produzione e dell’accumulazione e trasporto di questi prodotti; sopprime di fatto ogni obbiettivo di ricerca delle fonti fossili, di miglioramento delle loro rese proprio nella fase più delicata di questo processo, quella della transizione; impedisce una realistica politica integrata e diversificata delle fonti e delle modalità di produzione ed espone, con la fretta nell’adozione ed i ritardi nella capacità di produzione, alla dipendenza tecnologica. Il mix perfetto per perpetuare la propria dipendenza geoeconomica e geopolitica e per esporsi pericolosamente a crisi drammatiche quanto prevedibili ampiamente preannunciate e già in corso. Crisi non cagionate dal fato, ma da precise responsabilità e ottusità politiche, aggravate per di più da scelte economiche come quella di affidarsi, in tempi così incerti, alle contrattazioni hot spot nel mercato delle fonti fossili e dalla subordinazione geopolitica come accade sulle vicende south-stream, north-stream 2, della gestione schizofrenica dei giacimenti nell’Mediterraneo Orientale, del mancato sfruttamento delle risorse proprie per ragioni avulse da quelle del mantenimento di riserve strategiche proprie.

Un mix esplosivo e inconfessabile in grado di mettere assieme sodalizi improbabili ed apparentemente inconciliabili, laddove il dogmatismo di gran parte dei movimenti ambientalisti, la subordinazione e passività politica e geopolitica delle classi dirigenti europeiste e dei paesi europei, la natura speculativa di quegli ambienti finanziari adusi a trarre profitto dalle situazioni di crisi e di transizioni sgovernate, l’indole assistenziale e parassitaria di quelli capaci di fondare il proprio successo su incentivi massicci e procrastinati indefinitamente, incapaci di gestire i tempi necessari alla sperimentazione e alla applicazione industriale delle scoperte scientifiche trovano un humus comune nel quale coltivare utopia millenaria ed interessi prosaici.

Non è solo, purtroppo, un problema di buon senso, ma quello di un continuo tentativo di procrastinare situazioni più o meno reali di emergenza tali da giustificare l’esistenza e la legittimità di classi dirigenti altrimenti improbabili e da rendere schizofrenici i necessari bagni nella realtà ai quali si è costretti a cedere, come nel caso del riconoscimento dell’energia nucleare come fonte indispensabile alla transizione, quando in realtà necessaria strategicamente e in più campi.

La notizia evidenziata da Piergiorgio Rosso, nel nostro testo del 29 dicembre scorso, rappresenta un barlume positivo, ma ancora tutto da interpretare nella sua consistenza; il successivo articolo di Industria Italiana, nello stesso testo, valorizza la capacità manifatturiera della piccola e media industria nel settore nucleare, ma glissa elegantemente sul carattere complementare dell’industria italiana nella catena del valore. Non a caso è totalmente assente, nell’articolo, un qualche accenno sul ruolo, pur esistente e resistente, della residua grande industria strategica italiana.

Un provincialismo ed economicismo consapevole perfettamente in linea con la vacuità e la passività della nostra classe dirigente ma del tutto inadeguati l’uno e l’altra ai frangenti che dovremo affrontare.

Il PNRR, del quale si celebrano quotidianamente i fasti, rappresenta la summa di queste modalità operative ed opacità, ad essere generosi, degli obbiettivi. Un argomento che sarà necessario approfondire proprio per trovare conferme in sede di bilancio, dovesse essercene l’opportunità.

Fusione nucleare e ENI: perché conta, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. Seguirà all’indomani un lungo commento ai due testi. _Giuseppe Germinario

Il quotidiano La Verità del giorno 22 dicembre u.s. dedicava l’intera pagina 19 ad un articolo molto informato sulle prospettive della ricerca sulla fusione nucleare soffermandosi in particolare sul ruolo dell’ENI.

 Le osservazioni in proposito sono diverse e tutte rilevanti. La prima è che ci sono voluti 100 giorni dal comunicato ANSA, perché della questione se ne parlasse diffusamente su un quotidiano quindi destinato al grande pubblico non specializzato. I cosiddetti “giornaloni si sono limitati a riportare delle sintesi dell’agenzia ANSA in merito, relegate per lo più nelle pagine di economia/mercato.

 La seconda è che l’ENI, una delle poche grandi aziende italiane sopravvissute con difficoltà allo smantellamento/spezzettamento sistematico subito dall’industria pubblica italiana negli ultimi trent’anni, sta giocando un ruolo da protagonista in un campo di ricerca di punta, ad altissima tecnologia, con ampie ricadute in tutti i settori industriali. Svolgendo puntualmente il ruolo che lo Stato le ha affidato in particolare nel campo energetico. La scelta di allearsi con gli americani del MIT assumendo la maggioranza azionaria in CFS – la società che ha realizzato il test positivo di un magnete superconduttore per il confinamento del plasma – sembra suggerire che il gruppo dirigente ENI abbia scelto un approccio insieme realistico ed autonomo. Occorre infatti sottolineare come la ricerca in questo campo coinvolge tutte le nazioni ad alto sviluppo scientifico e la competizione per arrivare “primi” a produrre energia da questa fonte, è fortissima.

 La terza è che la notizia del test positivo superato da CFS è arrivata proprio nel momento in cui è diventato evidente e di dominio pubblico (…finalmente! è il caso di dire …) che la sostituzione dei combustibili fossili con eolico e solare è una chimera – per l’intermittenza di vento e sole – oltretutto poco sostenibile socialmente ed economicamente. Il significativo disinvestimento nell’esplorazione e sfruttamento delle riserve di fonti fossili, stimolato in questi ultimi anni dalle politiche energetiche definite “alternative/ecologiche”, ha comportato una penuria delle stesse fonti che ha messo in crisi settori fondamentali (come l’industria dei fertilizzanti) e ne ha fatto schizzare i prezzi. Tutto questo ha rilanciato il dibattito sulle fonti energetiche nucleari da fissione (una realtà consolidata) e da fusione. Per quanto riguarda la prima, l’Unione Europea si è convinta a definirla “sostenibile”, garantendole i necessari investimenti (gode la Francia, nicchia la Germania). Per quanto riguarda la seconda, è uscita opportunamente dai laboratori ed è stata presentata sulla scena pubblica come uno dei protagonisti dei prossimi decenni.

 Che su questa scena sia apparsa l’ENI da protagonista non può che essere motivo di soddisfazione. Non sfugge d’altra parte che il comunicato ENI del 21 settembre scorso, ripreso e rilanciato dall’ANSA, potrebbe riflettere anche una reazione difensiva da parte ENI, da tempo attaccata su vari fronti e da diverse direzioni, nazionali ed internazionali.

Se poi consideriamo la scarsa attenzione che la grande stampa nazionale ha rivolto a quel comunicato, capiamo come sia ancora lunga la strada da percorrere per ribaltare la narrazione ambientalista relativa alla “nocività-della-CO2-di-origine-antropica-per-il-pianeta” e difficile, ancorché necessario, su questa stessa strada difendere e rilanciare la nostra grande industria energetica nazionale.

Da qui la nostra enfatizzazione di questo importante evento scientifico/tecnologico che nella nostra lettura permette tra l’altro di rilanciare la significatività e fertilità – anche interpretativa dei fatti – del concetto lagrassiano di conflitto strategico per la supremazia, agente in tutte le sfere sociali. In questo specifico caso nell’industria/finanza, nella comunicazione/controllo dei media, nella politica.

http://www.conflittiestrategie.it/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso

Eni e CFS: raggiunto un traguardo fondamentale nella ricerca sulla fusione a confinamento magnetico

08 SETTEMBRE 2021 – 1:15 PM CEST
Una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile che riprodurrà i principi alla base della generazione dell’energia solare

 

San Donato Milanese, 8 settembre 2021 – Eni annuncia che CFS (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva HTS (HighTemperature Superconductors) che assicurerà   il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica.

La fusione a confinamento magnetico, tecnologia mai sperimentata e applicata a livello industriale finora, è una fonte energetica sicura, sostenibile e inesauribile che riproduce i princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendone una enorme quantità a zero emissioni e rappresentando una svolta nel percorso di decarbonizzazione.

La tecnologia oggetto del test è di particolare rilevanza nel quadro della ricerca sulla fusione a confinamento magnetico poiché rappresenta un passo importante per creare le condizioni di fusione controllata, e questo rende possibile il suo impiego in futuri impianti dimostrativi. Studiare, progettare e realizzare macchine in grado di gestire reazioni fisiche simili a quelle che avvengono nel cuore delle stelle è il traguardo tecnologico a cui tendono le più grandi eccellenze mondiali nella ricerca in ambito energetico.

L’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato: “Lo sviluppo di tecnologie innovative è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo. Per Eni, la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire all’umanità di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza alcuna emissione di gas serra, cambiando per sempre il paradigma della generazione di energia e contribuendo a una svolta epocale nella direzione del progresso umano e della qualità della vita. Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer”.

Eni è impegnata da tempo in questo ambito di ricerca e nel 2018 ha acquisito una quota del capitale di CFS per sviluppare il primo impianto che produrrà energia grazie alla fusione. Contestualmente, l’azienda ha sottoscritto un accordo con il Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (MIT), per svolgere congiuntamente programmi di ricerca sulla fisica del plasma, sulle tecnologie dei reattori a fusione, e sulle tecnologie degli elettromagneti di nuova generazione.

Il test ha riguardato proprio l’utilizzo di tali elettromagneti di nuova generazione per gestire e confinare il plasma, ovvero la miscela di deuterio e trizio portata a temperature altissime da fasci di onde elettromagnetiche, e ha dimostrato la possibilità di assicurare l’innesco e il controllo del processo di fusione, dimostrando l’elevata stabilità di tutti i parametri fondamentali. La tecnologia oggetto del test potrebbe contribuire significativamente alla realizzazione di impianti molto più compatti, semplici ed efficienti. Ciò contribuirà a una forte riduzione dei costi di impianto, dell’energia di innesco e mantenimento del processo di fusione e della complessità generale dei sistemi, avvicinando in tal modo la data alla quale sarà possibile costruire un impianto dimostrativo che produca più energia di quella necessaria ad innescare il processo di fusione stesso (impianto a produzione netta di energia) e consentendo, successivamente, la realizzazione di centrali che possano più facilmente essere distribuite sul territorio e connesse alla rete elettrica senza dover realizzare infrastrutture di generazione e trasporto dedicate.

Sulla base dei risultati del test, CFS conferma la propria “roadmap”, che prevede la costruzione entro il 2025 del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato SPARC e successivamente quella del primo impianto dimostrativo, ARC, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica che, secondo la tabella di marcia, sarà disponibile nel prossimo decennio.

SPARC sarà realizzato assemblando in configurazione toroidale (una ciambella detta “tokamak”) un totale di 18 magneti dello stesso tipo di quello oggetto del test. In tal modo sarà possibile generare un campo magnetico di intensità e stabilità necessarie a contenere un plasma di isotopi di idrogeno a temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, condizioni necessarie per ottenere la fusione dei nuclei atomici con il conseguente rilascio di un’elevatissima quantità di energia.

https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2021/09/cs-eni-cfs-raggiunto-fusione-confinamento-magnetico.html

Nucleare: il tassello perfetto per raggiungere il net zero. E un’industria che ci piace moltissimo!

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ È un settore che vedrà la rivoluzione della fusione e tecnologie di avanguardia nella fissione: i mini reattori modulari. In Italia, una filiera di aziende fornitrici di significativo impatto economico: Ansaldo Nucleare, Fincantieri, Asg, Cestaro Rossi, Simic. I progetti Iter e Dtt per reattori di quarta generazione

Tokamak

Il net zero? Impossibile senza Nucleare, soprattutto quello in parte avveniristico della Fusione, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori.  Una verità che emerge con forza in questi giorni, dopo che la Commissione europea ha deciso che il nucleare rientrerà nella tassonomia delle attività economiche sostenibili. Una mossa rivoluzionaria che segue la presa di posizione del ministro italiano per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, secondo cui non solo l’accelerazione data dalle rinnovabili è insufficiente per la transizione ma «non ha senso pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose». Anche perché il nucleare sta cambiando profondamente – non è più quello della vecchia fissione rigettato da due referendum anche nel nostro Paese.

Ma è un settore caratterizzato da tecnologie di avanguardia nella fissione stessa (come i mini reattori modulari) ma che soprattutto mirano a creare energia dalla fusione tra atomi, replicando lo stesso processo che avviene nelle stelle. Last but not least, come raccontiamo nell’articolo qui nel nostro Paese è presente una filiera di aziende fornitrici di tecnologie ad altissimo valore aggiunto e di significativo impatto economico. Filiera preziosa e strategica, da difendere e da far crescere il più possibile. Per tutti questi motivi, Industria Italiana è fortemente a favore del nucleare: la fusione in primo luogo, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori puliti. Riteniamo che l’avversione pre-giudiziale e irrazionale verso il Nucleare sia l’ennesima manifestazione dell’autolesionismo italico e di quella mentalità anti-impresa che ha già fatto troppi danni. (Filippo Astone)

I protagonisti della filiera italiana del Nucleare, che sta cambiando

Iter è un reattore deuterio-trizio in cui il confinamento del plasma è ottenuto in un campo magnetico all’interno di una macchina denominata Tokamak. La costruzione è in corso a Cadarache

Un settore che vede tra i suoi protagonisti, in Italia, aziende di grandi dimensioni come Ansaldo Nucleare e Fincantieri, ma anche e soprattutto pmi attive nella componentistica a elevato contenuto di innovazione: la Asg della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi; Cestaro Rossi, meccanica pugliese che ha diversificato nella costruzione e nel montaggio di impianti nucleari; Simic che partendo dall’oil&gas si è poi specializzata nei Tf coils, tubi che contengono i magneti superconduttivi.

E un settore che sta cambiando grazie in particolare a due progetti, quello globale – ma con un cuore tutto italiano – Iter e quello domestico Dtt. Sono progetti che valgono, solo per la filiera italiana oltre due miliardi (1,6 il primo e 600 milioni il secondo). E sono i progetti che abiliteranno i reattori di quarta generazione, capaci di garantire la produzione di energia dalla fusione nucleare. La parte manifatturiera di Iter – al cui centro c’è la realizzazione del reattore sperimentale Tokamak, che si basa sull’approccio del confinamento magnetico – è all’80%. Lo afferma Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation. Per Dtt invece, secondo il presidente Francesco Romanelli, è stato impegnato il 30% del budget: la tecnologia italiana sarà usata per risolvere il problema dello smaltimento del calore che si genera nella fusione e che arriva intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremmo se fossimo seduti sul sole. Quando i progetti vedranno la luce i primi impianti di generazione commerciale, nel 2035, secondo le stime più accreditate. Le informazioni e gli interventi che i lettori troveranno in questo articolo sono tratte da un recente convegno che Confindustria ha organizzato a Roma. La parte informativa è frutto di nostre rielaborazioni. Le parole virgolettate sono state pronunciate in quella sede.

L’energia da fusione? È necessaria (e va messa sullo stesso piano delle rinnovabili)

Oggi in Europa i reattori operativi sono 292, in cui viene prodotta il 20% dell’elettricità e il 43% della generazione a basse emissioni. Tuttavia, le fonti fossili dominano ancora, anche perché negli ultimi 20 anni oltre 70 reattori sono stati scollegati dalla rete e nella metà dei casi rimpiazzati da fonti fossili. Sono dati contenuti in un rapporto rilasciato dalla United Nations Economic Commission for Europe (Unece).

L’energia nucleare è una fonte di energia a basse emissioni di carbonio che ha svolto un ruolo importante nell’evitare le emissioni di CO2. Negli ultimi 50 anni, l’uso del nucleare ha ridotto la CO2 globale emissioni di circa 74 Gt, ovvero quasi due anni del totale emissioni globali legate all’energia. Solo l’energia idroelettrica ha svolto un ruolo maggiore nella riduzione storica emissioni

Secondo il rapporto, le centrali nucleari hanno un elevato potenziale di riduzione delle emissioni perché possono produrre in modo continuato sia elettricità sia calore utile a diversi processi, dal riscaldamento residenziale agli usi industriali. A favore del nucleare ci sono anche ragioni legate al costo (già con una penetrazione pari al 50%, le rinnovabili intermittenti renderebbero l’elettricità più costosa del nucleare). Senza considerare che sta aumentando vertiginosamente il prezzo del gas naturale, che è il migliore sostituto del nucleare per fornire backup alle rinnovabili intermittenti. Ma se il suo costo aumenta viene meno il vantaggio marginale.

 

L’LCOE confronta tutti i costi a livello di impianto, ma non lo fa non tener conto del valore o dei costi indiretti per il sistema complessivo ed è scarso per confrontare le tecnologie che operano in modo diverso (es. rinnovabili variabili e tecnologie dispacciabili). Mentre i costi della variabile le fonti di energia rinnovabile (VRE) stanno rapidamente diminuendo, queste tecnologie impongono anche costi di sistema aggiuntivi che iniziano ad aumentare significativamente a penetrazioni più elevate. Questi costi di sistema aggiuntivi aumentano il totale costo dell’energia elettrica

E anche sul fronte dell’impatto ambientale e sanitario il nucleare è vincente. L’impatto (sul ciclo di vita) è molto ridotto, più esiguo del solare e secondo solo all’eolico per quanto riguarda i potenziali danni agli ecosistemi. Tuttavia i progetti scontano le difficoltà insite nell’elevato costo capitale iniziale e nella durata di lungo termine che li rende soggetti al mutare delle agende politiche e dell’opinione pubblica. Ecco perché è prioritario che si instaurino politiche di supporto che consentano al nucleare di competere alla pari con le altre fonti a basse emissioni. E lo si fa, secondo Unece, perseguendo due strade: creando un clima a lungo termine favorevole agli investimenti, a cominciare dal suo inserimento nel novero degli investimenti sostenibili – punto che è stato almeno in parte soddisfatto grazie alla nuova tassonomia. E accelerando lo sviluppo delle tecnologie nucleari avanzate per favorirne l’ingresso sul mercato.

Anche le centrali nucleari richiedono acqua per il raffreddamento e questo deve essere gestito per prevenire impatti sul locale ecosistemi acquatici. Ciò richiede un’attenta ubicazione e valutazione di impatto ambientale. L’analisi comparativa del fabbisogno di spazio delle diverse fonti di energia è presentato nel grafico

 

La roadmap di Iter e il ruolo della filiera della fusione nucleare italiana

Su questo secondo punto sono proprio Iter e Dtt a poter fare la differenza. Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) è in costruzione a Cadarache, nel Sud della Francia, per iniziativa di un consorzio internazionale che vede partecipare Europa, Russia, Cina, Giappone, Usa, India, Corea del Sud. Per la sua realizzazione saranno investiti 21 miliardi di euro. Si tratta del progetto più importante in assoluto a livello globale, avviato nel 2006: ne deriverà la prima centrale termonucleare al mondo. Al centro il già citato Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.

Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter. Come cinque settori del Vacuum Vessel, la camera di vuoto del reattore, come pure i grossi magneti capaci di assicurare il confinamento magnetico del plasma nella camera stessa sono in produzione da parte di aziende italiane.

Circa il 60% dei contratti industriali per la costruzione di Iter sono stati aggiudicati da aziende italiane

Orlandi (Iter): «I lavori sono all’80%»

Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.
Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter

Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025. Dello stato di avanzamento dei lavori parla Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation: «I lavori sono all’80% – dice Orlandi – Le imprese italiane hanno commesse per 1,5 miliardi di 7 miliardi di investimenti complessivi. Nato nel 2007 per accordi internazionali, il progetto prevede la costruzione di un sito grande almeno 4 volte un impianto medio nucleare a fissione, complesso, sulla frontiera delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e l’integrazione tra attori diversi che hanno cooperato in tempi difficili. Il sito comprenderà la parte elettrica con 400 kw volt, trasformatori di impianto, convertitore di potenza e impianto criogenico; pozzi freddi ad acqua e edifici ad alta frequenza».  Per quanto riguarda Tokamak, l’edificio reattore con una massa di 400mila tonnellate, con una platea (fondazione) di un metro e mezzo, numeri che già di per sé rappresentano un record, «tutto quello che ruota intorno a questa opera è completato, siamo al commissioning – dice Orlando –Il caricamento del combustibile nucleare è previsto a dicembre 2035». Ma l’impianto, spiega il responsabile, viene costruito per fasi successive, allo scopo di testare la macchina i progress: «il primo stadio è fissato a dicembre 2025 in cui facciamo la reazione di fusione pulita, studiamo il plasma e cerchiamo di mettere in commissionig tutti i sistemi; poi la fase due prevede il caricamento del criostato; e infine il test dei sistemi in modo integrato per avere certezza del buon funzionamento».

L’industria nostrana sta offrendo il suo altissimo contributo nelle attività di montaggio e di avviamento dell’impianto, qualificandosi per la capacità di assicurare la qualità del prodotto. I principali player sono Ansaldo Nucleare nell’assemblaggio e Fincantieri nei montaggi d’impianto. Ma anche nella costruzione: ancora Ansaldo è coinvolta nell’ideazione dei componenti chiave come il divertore o la camera di vuoto; il design della zona di raffreddamento delle acque; la produzione dei settori della Vacuum Vessel; la produzione dei prototipi dei divertori. Poi c’è il contributo di Asg, l’azienda della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi e che ha un giro d’affari intorno ai 40 milioni, specializzata nella produzione di magneti superconduttivi: per Iter ha prodotto bobine poloidali in sito e bobine toroidali per le quali è stato necessario allestire una fabbrica ad hoc al porto di La Spezia in modo da poterle trasportare poi a Cadarache. E il lavoro delle Università di Pisa, Padova, Torino e Roma. Insomma un progetto che ha un cuore italiano.

Romanelli (Dtt): «Attività al picco nel prossimo biennio. Facciamo palestra per le necessarie partnership pubblico-private che dovranno seguire»

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Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025

Strettamente collegato alla realizzazione del reattore Tokamak di Iter è la Dtt (Divertor Test Tokamak), progetto questo tutto italiano avviato nel sito Enea di Frascati, con capofila Ansaldo Energia ed Enea. La roadmap di Dtt prevede la costruzione di un reattore dimostrativo nel 2050, la chiave è il successo di Iter e in cui il know how italiano ha avuto modo di farsi valere. «Ci siamo focalizzati sulla sfida principale che è lo smaltimento del calore che si genera nella fusione – dice il presidente Francesco Romanelli – Il calore fluisce verso il bordo del plasma e poi viene trasferito nel divertore (in una nicchia intorno ai bordi). Localmente i carichi termici arrivano intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremo se fossimo seduti sul sole. Dobbiamo fare componenti in grado di sopravvivere sulla superficie del sole. Enea e Ansaldo Nucleare lavorano a questo».

Quanto allo stato di avanzamento, Dtt è già in costruzione, «abbiamo impegnato circa il 30% del budget, firmato contratti con Asg per la fornitura delle bobine superconduttrici, per i cavi e per le casse dei magneti stiamo per firmare, abbiamo una serie di attività che raggiungeranno il picco nel 2022-23 con gare per edifici e componenti della macchina». Un progetto che è un elemento fondamentale nella roadmap europea: una sfida e una grossa opportunità. «Prevede un salto tecnologico a livello di dimensioni e tipologie – continua Romanelli – Nelle tecnologie dei magneti superconduttori, nei sistemi di riscaldamento avanzati, nelle diagnostiche innovative: questo richiede una organizzazione del progetto adeguata che metta assieme tutte le competenze che servono». Ma non è solo sul fronte della tecnologia che Dtt rappresenta un balzo senza precedenti. «Si tratta – prosegue Romanelli – di un laboratorio interessante anche per lo studio di partnership pubblico-private: abbiamo di fronte una sfida per il sistema energetico che deve assicurare sostenibilità, sicurezza di approvvigionamento e competitività economica. La soluzione verrà da un portafoglio di fonti che includono fer, fissione, soluzioni di cattura di co2 ma la fusione ha interesse particolare per i vantaggi che offre. È una sorgente diffusa e infinita. Deuterio e litio nell’acqua durano 30 milioni di anni, non producono gas serra ed è una fonte intrinsecamente sicura. Quanto ai materiali radioattivi, riguardano sono la camera di fusione e sono a rapido decadimento, dopo 100 anni possiamo riciclare tutto in un nuovo reattore e non abbiamo bisogno di depositi geologici».

 

Minopoli (Ain): «Ecco perché la fusione nucleare, e le prossime frontiere della fissione – come i minireattori modulari, sono un’occasione che l’Italia non può perdere»

Realizzazione del reattore sperimentale Iter

Nel prossimo futuro oltre alla fusione, hanno prospettive interessanti sono i mini reattori modulari, basati sulla fissione e sotto i 300 megawatt di potenza (rispetto ai 1600 megawatt di una centrale tradizionale): cilindri di metallo grandi come un paio di container che contengono il nocciolo con il combustibile e il generatore di vapore: il calore del nocciolo trasforma l’acqua in vapore e aziona un alternatore che produce energia (senza l’intervento di pompe). Con tre vantaggi: possono essere montati in fabbrica e trasportati ovunque, occupano il 10% dello spazio di una centrale tradizionale e producono meno scorie perché il rifornimento può essere fatto ogni 3-7 anni con combustibili non convenzionali, contro gli 1-2 anni. «Rischiamo di perdere il treno perché ci sono cose che vanno fatte subito – spiega il presidente dell’associazione italiana del nucleare Umberto Minopoli – Nel mondo il nucleare esiste ed è un mercato competitivo, perché per i piccoli reattori sono per esempio già 70 i modelli in pipeline, pronti a essere lanciati sul mercato; così i dimostratori della fusione nucleare. Cose per cui in Italia si fa ancora fatica a capire di cosa parliamo. Ci sono dietro impegni degli Stati e aziende privati del settore che hanno investito e si apprestano a sfidarsi sul mercato. Perché alle aziende italiane e ai centri di ricerca deve essere precluso partecipare a questa iniziativa competitiva? Al di là che poi impianteremo o no le centrali. Lo fa la Francia ma anche la Uk. Noi oggi siamo fuori da tutte le leggi di ricerca e sostegno e innovazione. Fa specie quando si parla del nucleare come qualcosa rispetto a cui aspettare cosa succede in Europa».

Per questo la decisione dell’Europa sulla tassonomia è importante: «La tassonomia non è qualcosa di astratto di cui si discute tra paesi pro e contro. La Commissione aveva proposto un anno fa che il nucleare debba far parte delle tecnologie della transizione energetica perché ci siamo dati un target sulla decarbonizzazione che con la sola tecnologia no carbon non riusciremo neanche ad approcciare. Il “tutto rinnovabili” potrebbe essere uno slogan ma ci poniamo l’obiettivo di realizzare i target bisogna essere onesti riconoscere che solo con le rinnovabili non si riesce». Inserire il nucleare nella tassonomia, ovvero nelle politiche finanziarie che servono a incentivare gli investimenti nelle tecnologie no carb, è una presa di posizione precisa. E rappresenta il superamento delle resistenze ideologiche. «Anche il Gse si è espresso sulla pericolosità delle tecnologie nucleari, con riferimento ai temi della sicurezza e della riduzione delle scorie. Il Gse ha prodotto un poderoso documento concludendo che il problema non esiste: il nucleare è no harm per tutti gli obiettivi della transizione e risponde pienamente alle esigenze della transizione».

Marchesini (Confindustria): «Bisogna affrontare il nucleare senza barriere ideologiche»

il Vice Presidente di Confindustria per le Filiere e Medie Imprese Maurizio Marchesini, ceo dell’omonima azienda bolognese di macchine industriali

Proprio l’urgenza di abilitare la sostenibilità rende necessario lavorare sulle tecnologie nucleari. Ne è convinto Maurizio Marchesini (Vicepresidente Confindustria), secondo cui «non si può trascurare il nucleare con barriere ideologiche ma la questione deve essere affrontata con il giusto peso. Altro aspetto che va tenuto in considerazione: la lotta ai cambiamenti climatici richiederà investimenti in tecnologia per 650 miliardi in dieci anni solo per l’Italia e bisogna partire adesso. L’Europa è responsabile dell’8% delle emissioni di CO2, dunque se la strada non è fatta in sintonia globale assisteremo a ondate di delocalizzazione e a un impoverimento del nostro tessuto industriale. Le filiere sono il modo in cui l’Italia sviluppa nuovi settori e tecnologie per cui sono richieste competenze. Non conta la dimensione ma la capacità di innovare».

Se la filiera è il modo di produrre italiano, dobbiamo trovare le policy giuste per trasformare il rapporto da commerciale «a relazione di scambio di tecnologie e affidamento tra aziende di tutte le dimensioni, con un ruolo cruciale svolto dai capofiliera. Che hanno bisogno di far crescere la filiera su digitalizzazione, green, crescita culturale dei collaboratori anche sulla base di un ragionamento collettivo. O cresciamo tutti o non riusciamo a competere. Molti capofiliera organizzano la crescita della filiera, Ansaldo è una di queste, ma anche Leonardo. E lo fanno per “puro egoismo industriale”: o crescono gli elementi della filiera o non ce la facciamo

https://www.industriaitaliana.it/nucleare-fusione-energia-iter-ansaldo-fincantieri-asg/?utm_source=sendinblue&utm_campaign=NEWSLETTER%20INDUSTRIA%20ITALIANA%2028%20dicembre%202021&utm_medium=email

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
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Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Fertilizzanti e insicurezza alimentare, di Allison Fedirka

In calce un interessante articolo tratto da Geopolitical Future sul problema della sicurezza alimentare negli Stati Uniti. Sicurezza intesa ormai non solo in rapporto all’ambiente fisico del territorio, ma anche al contesto geopolitico sempre più dinamico e conflittuale che rende sempre più problematica la gestione politico-economica di catene di produzione e consumo troppo indipendenti dal controllo politico. Un tema che rientra a pieno titolo nell’ambito delle tematiche cosiddette “sovraniste”, esorcizzate a parole, ma che ultimamente cominciano a fare capolino anche in istituzioni, come l’Unione Europea che si presentano costitutivamente in antitesi alle prerogative sovrane di uno stato nazionale. Si presentano, ma di fatto non lo sono almeno per quegli stati nazionali che riescono a controllarne e muovere le leve ai danni degli altri. La sicurezza alimentare, come pure quella energetica, è ulteriormente e pesantemente condizionata anche dalla tematica ambientale, specie quando quest’ultima assume una postura teologica e dogmatica tale da ignorare tempi e modi delle fasi di transizione e da rimuovere dal dibattito le possibili alternative. Il tutto dietro il comodo scudo del catastrofismo antropomorfico. Le conseguenze di tale approccio cominciano a manifestarsi, nella crisi degli approvvigionamenti, nell’effetto dei divieti immediati, in assenza di alternative, di uso di prodotti inquinanti in agricoltura sia in termini di crollo di produzioni strategiche, sia paradossalmente in termini di alterazione degli equilibri ecologici, come avvenuto nella fattispecie in Francia. Un controcanto rispetto al problema, altrettanto drammatico, della progressiva sterilizzazione dei suoli sfruttati troppo intensivamente presente ormai in numerosi territori; segno che le soluzioni, il più delle volte, (ri)propongono nuovi problemi a volte più gravi e su scala maggiore. Non è solo il dogmatismo a indirizzare queste dinamiche, ma anche gioco di interessi prosaici e dinamiche geopolitiche in corso; giochi di potere e predominio quindi, sottesi ai contenziosi regolamentari e agli anatemi moralistici; quando addirittura maschera per nascondere beffardamente la mancanza di interventi dell’uomo sul territorio e sulla natura. Una rappresentazione olistica che dovrebbe permettere una lettura più attenta e disincantata di eventi mediatici come quelli recenti del COP26. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Fertilizzanti e insicurezza alimentare

Gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi del cibo.

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La prossima settimana è il Ringraziamento, una festa statunitense che celebra e viene celebrata con il cibo. Quest’anno, tuttavia, gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Le notizie abbondano di storie di lunghe file alle banche alimentari, carenza di pollame e prodotti lattiero-caseari più costosi del previsto. Anche i costi energetici elevati e le interruzioni dei trasporti sono abbastanza ben documentati. Meno attenzione è stata data all’aumento del prezzo dei fertilizzanti, un input fondamentale per l’approvvigionamento alimentare che minaccia di mantenere alti i prezzi del cibo fino al 2022.

I prezzi elevati dei fertilizzanti (per non parlare delle potenziali carenze) sono preoccupanti per alcuni motivi. Per uno, il fertilizzante è onnipresente; metà delle colture alimentari del mondo sono coltivate con fertilizzanti minerali. Dall’altro, la fornitura è estremamente sensibile al fattore tempo. Le colture generalmente beneficiano maggiormente dei trattamenti fertilizzanti nelle prime fasi della stagione di semina e nel loro periodo di crescita iniziale. L’applicazione ritardata o mancata durante il ciclo si tradurrà quasi sicuramente in rendimenti inferiori, il che restringe l’offerta alimentare e fa salire i prezzi. Anche la durata è un fattore. Per molti cereali e semi oleosi, il tempo dalla stagione della semina al raccolto può durare dai quattro ai sei mesi, dopodiché il terreno ha bisogno di tempo per riprendersi o per essere preparato per il prossimo ciclo di colture. Tutto sommato, possono volerci mesi per avere un’altra opportunità di ricostituire le colture alimentari.

Prezzi fertilizzanti Illinois 2014 - 2021
(clicca per ingrandire)

L’impatto dei prezzi dei fertilizzanti sui prezzi degli alimenti dipende da alcune variabili. Innanzitutto, la quantità di fertilizzante necessaria dipende dal raccolto. Alcuni cereali come il mais costano di più per acro per fertilizzare rispetto al grano o ai semi oleosi come i semi di soia. Il secondo è il tipo di fertilizzante utilizzato. I fertilizzanti possono essere suddivisi in tre categorie generali in base alle esigenze di macronutrienti di una pianta: azoto, fosfato e potassio. Il fertilizzante globale utilizzato durante la stagione 2020-21 ha totalizzato 198,2 tonnellate; l’azoto rappresentava circa il 55 percento, mentre il fosfato e il potassio rappresentavano rispettivamente il 25 percento e il 20 percento. Di questi, l’azoto è il più critico. Il suo prezzo tende ad essere più volatile a causa del suo legame diretto con i prezzi del gas naturale ed è un costo quasi inevitabile per gli agricoltori. Un nuovo lotto di fertilizzante azotato deve essere applicato all’inizio di ogni stagione del raccolto poiché non indugia nel terreno. I prezzi di fosfato e potassio, tuttavia, si muovono indipendentemente da altre materie prime come il gas naturale. Gli agricoltori hanno anche una maggiore flessibilità nell’utilizzo di questi due tipi di fertilizzanti, poiché porzioni inutilizzate di questi macronutrienti possono rimanere nel terreno di stagione in stagione.

I mercati dei fertilizzanti sono entrati quest’anno in una posizione ristretta che è diventata solo più stretta. Nel 2019, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura ha pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio le prospettive della domanda e dell’offerta di fertilizzanti fino al 2022. Secondo le sue stime, l’offerta globale totale sarebbe leggermente superiore alla domanda e si verificherebbero carenze in determinate regioni. Queste stime, tuttavia, non tengono conto di “fattori imprevedibili” come problemi logistici o una pandemia. Una conseguenza immediata nel 2020, il primo anno della pandemia di COVID-19, è stata la riduzione delle scorte di fertilizzanti e delle condutture. Le fabbriche produttrici di fertilizzanti hanno chiuso per contenere il virus e poi hanno faticato a riprendere la piena capacità a causa di altre carenze e sfide logistiche. Gli agricoltori, sostenuti dalle misure governative di emergenza, hanno continuato a produrre e, quindi, a chiedere fertilizzanti.

Prospettive regionali sui fertilizzanti | 2022
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Quest’anno, gli effetti a cascata dei problemi della catena di approvvigionamento e la ripresa della domanda hanno esercitato una pressione al rialzo sui prezzi dei fertilizzanti. Le guerre commerciali, i porti congestionati, i prodotti chimici non disponibili e gli alti costi di trasporto hanno reso i fertilizzanti più difficili da produrre e consegnare. Nel frattempo, altri fattori hanno ridotto la produzione di fertilizzanti. La produzione di fertilizzanti azotati nel delta del Mississippi, ad esempio, è stata temporaneamente interrotta a causa di un uragano. La produzione cinese è stata interrotta nel 2021 a causa di interruzioni elettriche negli stabilimenti. Quando l’economia cinese ha iniziato a rimettersi in marcia, ha causato un picco nel suo consumo di energia che, di concerto con altre cose, ha portato a prezzi più alti del gas naturale. I conseguenti costi operativi furono così alti che alcuni stabilimenti di fertilizzanti europei chiusero temporaneamente.

Anche l’intervento del governo ha avuto un ruolo. La Russia (il secondo esportatore di fertilizzanti azotati e il terzo esportatore di fertilizzante potassico) e la Cina (principale esportatore mondiale di fertilizzanti azotati e fosfatici) hanno annunciato misure per vietare o limitare le esportazioni di fertilizzanti fino a giugno 2022, ben oltre la semina primaverile stagione. Si prevede inoltre che le sanzioni dell’UE alla Bielorussia, il secondo esportatore di potassio, ridurranno l’offerta. La ridotta disponibilità sul mercato di esportazione farà salire il prezzo di tutti i fertilizzanti, indipendentemente dalla fonte, mentre le aziende e i paesi fanno offerte l’uno contro l’altro per ciò che rimane sul mercato.

Questo è certamente vero negli Stati Uniti, che non si affidano a Russia e Cina per i propri fertilizzanti, ma sono uno dei principali produttori e consumatori di ammoniaca al mondo. Le scoperte di gas naturale negli Stati Uniti hanno reso conveniente per le aziende aggiornare gli impianti di ammoniaca esistenti e costruire nuovi impianti di azoto. Ciò ha ridotto la dipendenza netta delle importazioni del paese dall’azoto-ammoniaca come percentuale del consumo apparente dal 27% nel 2016 a solo il 10% nel 2020, secondo i calcoli effettuati dall’US Geological Survey. Gli Stati Uniti hanno una percentuale di dipendenza netta dalle importazioni simile con la roccia fosfatica. Cinque società negli Stati Uniti hanno estratto minerale di roccia fosfatica in 10 località diverse e lavorato circa 24 milioni di tonnellate di prodotto commerciabile. Quasi tutto questo è stato utilizzato per produrre acidi fosforici necessari per i fertilizzanti, integratori per mangimi e pesticidi. Tuttavia, gli Stati Uniti importano circa il 90 percento delle loro forniture di potassio e potassio, la maggior parte delle quali proviene dal Canada.

Gli agricoltori statunitensi, quindi, hanno poche buone opzioni in vista della stagione della semina primaverile. Non avere abbastanza fertilizzanti, o semplicemente non essere in grado di permettersi ciò di cui hanno bisogno, li costringerà a determinare quanta area coltivare e quali colture piantare. Con il fertilizzante azotato, gli agricoltori possono utilizzare meno fertilizzante sulla stessa superficie o ridurre la superficie delle colture piantate e mantenere la quantità di fertilizzante a livelli più pieni. Entrambe le opzioni porterebbero a rese inferiori, anche se la qualità del raccolto sarebbe probabilmente migliore nel secondo scenario . Chi ha livelli residui di potassio e fosfato nel proprio terreno può ridurre o rinunciare agli acquisti per una sola stagione.

Aspettative sui prezzi di input dell'azienda agricola
(clicca per ingrandire)

Eppure il momento di decidere si avvicina rapidamente. I rivenditori di fertilizzanti hanno già avvertito gli agricoltori di testare il loro terreno in anticipo e pianificare acquisti anticipati di fertilizzanti poiché i prezzi sono così volatili. Mentre le vendite hanno iniziato ad accelerare, non è chiaro quanti agricoltori abbiano iniziato ad acquistare ora. Il senso prevalente tra gli esperti del settore è che gli agricoltori aumenteranno i loro acquisti di fronte a forniture più limitate, continui ritardi logistici e pura necessità. Ciò aumenta il rischio di guerre di offerte e accaparramento tra gli acquirenti, il che non fa che aumentare ulteriormente i prezzi.

Gli agricoltori statunitensi sembrano pessimisti. Il sentimento dei produttori agricoli ha iniziato a diminuire negli ultimi mesi. Il sentimento per le condizioni future è ora quasi quanto lo era nel picco di chiusura economica della pandemia del 2020. Gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per i costi elevati dei fattori di produzione, ovvero i prezzi dei fertilizzanti, che indeboliscono i loro margini operativi. Hanno anche indicato che non si aspettano molto sollievo nei prezzi dei fattori di produzione nell’anno a venire.

Sentimento degli agricoltori 2015 - 2021
(clicca per ingrandire)

Oltre ai costi dei fertilizzanti, gli agricoltori statunitensi hanno anche identificato ulteriori fattori interni che danneggeranno la produzione. La carenza di manodopera, ad esempio, persiste in tutti i punti della filiera alimentare. In particolare, gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per la carenza di esaminatori alimentari federali il cui sigillo di approvazione è necessario per le importazioni, le esportazioni e le vendite in fabbrica. Esistono ancora colli di bottiglia nei porti (la carenza di chiatte sul fiume Mississippi è la più preoccupante). C’è anche preoccupazione per la diminuzione della disponibilità di pesticidi come il glifosato e la carenza di attrezzature agricole. Le nuove attrezzature agricole hanno un inventario molto basso, ma più preoccupante è la crescente scarsità di pezzi di ricambio che hanno ritardato di mesi le riparazioni delle macchine. Il guasto meccanico durante il periodo del raccolto è catastrofico per un agricoltore,

Come tutti i governi, Washington è sensibile all’insicurezza alimentare, ma è vincolata a come può prevenirla. Non può risolvere unilateralmente i problemi della catena di approvvigionamento globale dall’oggi al domani, e non può sistemare magicamente i programmi delle colture, che non si allineano con i programmi del governo. Le soluzioni necessarie per affrontare i problemi dell’agricoltura vanno oltre quanto necessario per mitigare l’impatto sui raccolti della prossima stagione.

Gli Stati Uniti hanno adottato una strategia a doppio binario per affrontare le cause alla base dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari. La prima traccia affronta i problemi generali che interessano l’intera economia degli Stati Uniti – cose come ritardi nei porti, carenza di manodopera, ecc. La seconda traccia mira a soddisfare le esigenze specifiche dell’agricoltura a breve termine, principalmente attraverso finanziamenti e finanziamenti per gli agricoltori, anche mentre continua a pompare denaro in altre aree dell’industria agricola. A giugno, l’USDA ha annunciato 4 miliardi di dollari di investimenti previsti per rafforzare il sistema alimentare. Di questo, 1 miliardo di dollari è stato stanziato per sostenere ed espandere le reti di assistenza alimentare di emergenza. L’ultimo disegno di legge sulle infrastrutture fornisce anche una riduzione diretta del debito agli agricoltori economicamente in difficoltà, sebbene si concentri maggiormente su investimenti a lungo termine per rivitalizzare le comunità rurali. Questa strategia significa che gran parte dei costi dei fattori di produzione continueranno a essere trasferiti agli agricoltori, il che si tradurrà in prezzi alimentari più elevati per i consumatori. Il finanziamento del governo servirà a prevenire il fallimento degli agricoltori e fornirà assistenza a coloro che vengono sopravvalutati. È una soluzione a breve termine con costi politici potenzialmente elevati.

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Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue

Si contempla il traguardo, ma non la strada da percorrere_Giuseppe Germinario

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue. Se ne esce rallentando la corsa alla transizione forzata e inverando l’economia circolare

di Marco de’ Francesco ♦︎ Intervista allo storico ed economista sull’enorme aumento dei prezzi dell’energia, che danneggerà seriamente molte industrie (automotive, plastica, chimica, acciaio…). «Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente»

«La crisi energetica? Un colossale fallimento manageriale da parte degli strateghi e dei responsabili degli acquisti delle società energetiche europee». I primi hanno smesso di investire nelle ricerche minerarie, i secondi non hanno capito che il just in time, con l’interruzione delle filiere in corso di pandemia non funzionava più, e che bisognava far scorte di idrocarburi. E ora il Vecchio Continente è in guai seri, perché il prezzo del Brent viaggia a quota 80 dollari, e il gas naturale è passato in un anno da 2,5 dollari al metro cubo a circa 6 dollari, e anche il carbone ha rialzato la testa, da 50 a circa 220 dollari a tonnellata. E i livelli di stoccaggio sono paurosamente bassi. Ci aspettano momenti terribili, con possibili gravi ripercussioni sull’automotive, il vero motore dell’industria continentale, «che si sta smantellando da sola». Lo pensa Giulio Sapelli, economista, storico e accademico torinese (ma con cattedra a Milano), uno dei pochi ad avere sempre un punto di vista originale sulle vicende industriali ed economiche in Italia.

C’è di più. Secondo Sapelli, la dabbenaggine non c’entra. Non si tratta, cioè di errori di valutazione dovuti al fato o all’incompetenza. Il fatto è che i manager sanno bene che la Borsa premia il green. La Finanza sovvenziona l’ideologia verde con denari a palate: secondo Morningstar, sui 139,2 miliardi di dollari che nel secondo trimestre di quest’anno sono affluiti sulle società che producono energia rinnovabile o che investono nella transizione energetica, l’81%, e cioè 112,4 miliardi, provengono dal Vecchio Continente. Il mondo green valeva a giugno 2.243 miliardi di dollari, più del Pil dell’Italia; di questi soldi, l’82% era in mano all’Europa. È oggettivamente difficile, per qualsiasi manager, non tenere conto di queste dinamiche. D’altra parte, le scelte green degli amministratori, dice Sapelli, sono “ricompensate” dalle società di appartenenza con laute concessioni di stock option.

Tutto ciò si fa perché Strasburgo ha posto in essere un proprio piano sulle politiche energetiche (ma anche climatiche e dei trasporti), il Green Deal, che si fonda largamente sul ricorso alle fonti rinnovabili e sulla compressione di quelle fossili. Ma secondo l’economista non è chiaro se sia stata l’Unione Europea a condizionare la finanza, o il contrario, visto che la seconda «ha un piede nell’Unione Europea». Come se ne esce? Da una parte l’Unione Europea dovrebbe per lo meno rallentare la corsa alla transizione forzata, dall’altra il governo Draghi dovrebbe «inverare l’economia circolare», che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Tutto questo secondo Sapelli, che abbiamo intervistato.

 

D: Con il Covid la domanda di energia era calata, e pure i prezzi. Si era detto che era un calo strutturale e non casuale. Oggi questi discorsi sembrano destituiti di qualsiasi fondamento: abbiamo ancora bisogno di petrolio e gas?

Giulio Sapelli, economista e accademico

R: Sì, non c’era nulla di strutturale nella riduzione dei prezzi durante il Covid-19. Il calo era momentaneo, ed era legato al blocco delle attività produttive, al alla disarticolazione delle filiere e alla difficoltà degli approvvigionamenti. Molto si era fermato, e quindi c’era meno bisogno di energia. Poi, quanto sta accadendo da qualche mese, è invece frutto di un insieme di fattori. Anzitutto l’aumento è legato ad una transizione green troppo rapida, guidata dall’alto, e cioè dalle politiche europee sull’energia e sui trasporti, che sono frutto della tecnocrazia di Strasburgo, sempre più lontana dalla realtà dell’industria. Inoltre stanno pesando anche le condizioni climatiche, l’inverno freddo e l’estate calda, e soprattutto il default manageriale delle imprese energetiche del Vecchio Continente.

 

D: Quale default manageriale?

R: Ciò che si osserva è anche un colossale fallimento manageriale: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time che aveva regolato il loro mondo negli ultimi anni non avrebbe più funzionato e che bisognava fare scorte. Invece, gli esperti che si occupavano di strategia avrebbero dovuto continuare a fare investimenti nel fossile, nella ricerca mineraria. Non c’è niente da fare: senza queste attività si resta a secco. Comunque sia, ora ci troviamo senza riserve.

La missione 2 del Pnrr: la transizione ecologica

D: In effetti nel 2014 si investivano 800 miliardi nella mineraria, quest’anno di stima sui 250 miliardi. E i livelli di stoccaggio sono tra i più bassi mai registrati. Ma come mai i manager delle aziende energetiche non hanno interpretato correttamente la situazione?

R: Diversi fattori hanno inciso sul comportamento dei manager. La Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E le scelte dei manager sembrano guidate dalla logica dei bonus.

Gas naturale. L’incremento dei prezzi delle materie prime non è di certo una novità, ma piuttosto un fenomeno che ciclicamente coinvolge l’economia mondiale. Ma questa volta, alle dinamiche fisiologiche si sono sommate quelle straordinarie dettate dalla pandemia, su tutte le politiche di stimolo messe in campo dai governi

D: Non è che l’Europa, con il Green Deal, ha fatto il passo più lungo della gamba?

R: Ha imposto dall’alto una politica sull’energia e sui trasporti largamente fondata sulle rinnovabili, caratterizzate da una produzione intermittente e insostenibile dal punto di vista industriale. Bisogna tornare alla raffinazione del petrolio. È essenziale in termini energetici; e con i suoi derivati non si fa soltanto la plastica, il cui prezzo è peraltro raddoppiato in un anno, ma anche i prodotti farmaceutici, che sono basati sull’urea. Vorrei sapere come avremmo fatto a sviluppare i vaccini, altrimenti. L’aspetto grottesco del momento attuale è che, dopo tutta questa guerra ai combustibili fossili, alcuni Paesi paladini di questa ideologia (come il Regno Unito) stanno riattivando le centrali a carbone – che è senz’altro la fonte più inquinante.

Brent petrolio. Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi.

D: Quali settori industriali rischiano di più? E quanto rischiano?

Linea di produzione nella fabbrica Fca di Torino

R: La crisi energetica sta colpendo duramente le industrie ad alto consumo di elettricità, e quindi la siderurgia, la chimica, la ceramica, le cartiere. Ma non trascurerei l’automotive, che è centrale per il sistema Paese. Al di là dei componentisti, molti settori dipendono dalla domanda dei carmaker: si pensi alle materie prime: plastica, vetro, metallo, compositi. Ora, l’automotive è di nuovo sotto scacco, perché, dopo i guai e l’indebitamento per la transizione all’elettrico, si trova a fronteggiare sia la crisi energetica che quella dell’aumento dei costi e della difficoltà di reperire componenti essenziali, come i micro-chip, che dei raw material. Come si è arrivati a tutto questo? Si torna al discorso di prima: la colpa è dei tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, che subiscono le pressioni delle lobby ambientaliste, che a loro volta hanno un piede nella finanza. Quello che sta accadendo è strano e forse non è mai successo: l’industria europea si sta smantellando da sola.

 

D: L’Opec e la Russia non sembrano avere alcun interesse ad aumentare l’offerta. Anzi, pare che Gazprom abbia diminuito le forniture.

R: L’Opec e la Russia fanno i loro interessi. Per quale motivo dovrebbero agire per diminuire i prezzi, dopo un periodo, quello della pandemia, in cui questi sono diminuiti? Fa parte della dialettica fra gli Stati. L’Opec in particolare è sempre stata molto attenta a gestire la dinamica dei costi del petrolio. Questo si sapeva già. La colpa è dell’Europa, che si è cacciata nei guai da sola, e che ora non sa esattamente cosa fare.

Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi

D: Come si esce da questa situazione?

Maire Tecnimont Impianto di trattamento Oil & Gas Tempa Rossa

R: Ritornando alla ragione, e quindi abbandonando le sirene e i cantori della transizione forzata. Certo, bisogna agire anzitutto in Europa, per porre i tecnocrati di fronte alla realtà: non è mai stato inventato un sistema per contrastare l’emissione di Co2. Il green sposta il problema altrove, ma si vive sotto lo stesso cielo, nella stessa atmosfera. Se movimento e tratto in Cina centinaia di tonnellate di terra per ottenere un centimetro cubo di materiali da inserire in una batteria o nel fotovoltaico, qual è il vantaggio? Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente. Poi c’è il governo. Se fossi Draghi, cercherei di inverare l’economia circolare, che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Quanto a Confindustria, non so neanche cosa dire. All’interno, non è difficile scorgere una lotta di potere, dove la politica ha un peso importante. D’altra parte, gran parte del finanziamento all’associazione dipende dalle imprese pubbliche. Questo influisce molto sulle dinamiche di Viale dell’Astronomia.

https://www.industriaitaliana.it/sapelli-crisi-energia-economia-circolare-industria-gas-petrolio/

Che cosa penso delle tesi di Rutelli su Pnrr e rinnovabili. Parla Sapelli

Draghi Sapelli

Lo storico ed economista, Giulio Sapelli, commenta in una conversazione con Start Magazine le tesi di Francesco Rutelli che a Draghi sulla transizione energetica ha consigliato di…

“Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è inadeguata. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori”. Non usa mezzi termini l’ex ministro dell’Ambiente Francesco Rutelli, ora presidente della fondazione Centro per un futuro sostenibile e presidente di Anica, associazione delle industrie cinematografiche, audiovisive e multimediali, in una intervista a Repubblica chiede che il dossier sul clima passi a Draghi.

Per Giulio Sapelli, economista, però il Pnrr più che essere fuori strada sul clima lo è sulla politica industriale. “Gli obiettivi climatici al 2030 non dovrebbero esistere”, dice Sapelli, sentito da Start Magazine.

Andiamo per gradi.

RUTELLI: SUL CLIMA SIAMO FUORI STRADA

Partiamo dalle tesi di Francesco Rutelli.

“Sul clima siamo completamente fuori strada”, afferma l’ex Ssndaco di Roma, che negli ultimi anni è uscito dalla scena politica in una intervista a Repubblica. “L’agenda politica italiana è totalmente inadeguata ad affrontare l’emergenza. Ma una soluzione c’è e si chiama lavoro”.

SPROPORZIONE TRA IMPEGNI E FATTI

“C’è una colossale sproporzione tra quello che ci siamo impegnati a fare e quello che stiamo realizzando davvero. La comunità internazionale, quindi anche l’Europa e l’Italia, è concorde nel dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e azzerarle entro il 2050”, ha aggiunto Rutelli.

IL DOSSIER PASSI A DRAGHI, DICE RUTELLI

Per il presidente di Anica, a prendere in mano il dossier dovrebbe essere direttamente il Premier: “Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è totalmente inadeguata. Non basta cambiare nome a un ministero e affidarlo a un persona competente come Cingolani, di cui mi fido e che stimo, ma che è l’ottavo ministro del governo in termini gerarchici. Se ne deve far carico il premier in prima persona”, aggiunge Rutelli.

A RISCHIO COMPETITIVITA’ PAESE

Per l’ex sindaco di Roma, in gioco c’è il futuro imprenditoriale del Paese. Bisognerebbe, spiega Rutelli, riscrivere “totalmente l’agenda politica del Paese”, mettendo “al centro la lotta all’emergenza climatica. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori (i dispositivi che estraggono idrogeno dall’acqua, ndr)”.

OBIETTIVO: CREARE LAVORO

Ma come convincere la popolazione che la strada verso il green sia quella giusta?

“L’unica chiave per convincere le persone a sposare la transizione ecologica – spiega Rutelli – è il lavoro. Vanno coinvolti tutti gli attori pubblici perché gli investimenti green siano finalizzati alla creazione di nuova occupazione. Chi perderà il lavoro per il passaggio dai fossili alle rinnovabili dovrà poter contare su una struttura di formazione permanente che lo prepari alle nuove professioni. E ai ragazzi va prospettata una filiera di formazione e occupazione compatibile con la transizione verde. È il solo argomento convincente nel breve termine per avere il consenso delle persone”.

SAPELLI: LA TRANSIZIONE E’ SOCIALE E A LUNGO TERMINE

Ma davvero, come dice l’ex ministro dell’Ambiente, nella lotta al cambiamento climatico siamo fuori strada? “L’affermazione di Francesco Rutelli è apolitica. Il problema sollevato è giusto, ma non possiamo trovare soluzioni solo superficiali. Bisogna capire cosa e come si interpreta la lotta al cambiamento climatico”, afferma Giulio Sapelli, storico ed economista, a Start Magazine.

“Per controbilanciare, realmente, la devastazione fatta negli anni passati del clima, della natura e della Terra, è necessaria una transizione di lungo termine. Guardiamo al passato e al tempo che è stato necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo”.

CON MODELLO CAPITALISTA LA TRANSIZIONE ENERGETICA E’ LONTANA

E proprio il capitalismo, per Sapelli, è un impedimento alla lotta al cambiamento climatico. “Sarà difficile risolvere il problema climatico all’interno del nostro sistema capitalista, serve prima una transizione sociale ed economica. La necessità di presentare i conti economici ogni tre mesi dirotterà le politiche aziendali alla creazione di plus valore”.

OBIETTIVI 2030? MODELLO SBAGLIATO

Anche la modalità dell’imposizione degli obiettivi, per Sapelli, è fallibile. “Il problema non è essere in linea o meno con gli obiettivi al 2030, come sostiene Rutelli, il problema è l’imposizione di quelli obiettivi. Questa politica risponde ad un modello sovietico, già fallito”, spiega l’economista: “Con il Pnrr abbiamo resuscitato il modello URSS”.

SAPELLI SU RUTELLI

E allora qual è la strada che il governo Draghi dovrebbe perseguire? “Quella che dovremmo seguire tutti: puntare al risparmio energetico, nel senso di non accendere luci non necessarie, per esempio, e a nuovi modelli di estrazione delle risorse naturali. Mi spiego: l’acqua dovrebbe essere amministrata dalla comunità, come bene comune di cui prendere consapevolezza. Un altro esempio? La pesca: il fermo pesca non dovrebbe essere imposto dall’alto, ma deciso da una cooperativa di pescatori. É la società che si deve anche fare carico dell’economia”.

PNRR: NON RISPECCHIA STRUTTURA INDUSTRIALE

E quindi il Pnrr, così come impostato, potrebbe avere effetti controproducenti per la struttura imprenditoriale italiana? “Sì”, secondo Sapelli, ma non per gli stessi motivi di Rutelli. Secondo l’economista, infatti, “il Piano non è modulato sulla struttura industriale italiana, che è composta principalmente da piccole e medie imprese. Noi siamo una potenza grazie a queste: se guardiamo alla siderurgia, oltre all’Ilva, noi siamo leader grazie alle imprese medie e piccole di settore”.

UN PNRR TROPPO BUROCRATICO

Ma Sapelli che cosa rimprovera a questo Pnrr? “E’ troppo burocratico e centralizzato. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è un elenco di spese, una teoria. Sembra essere l’ultimo tentativo sovietico. I neoliberisti vogliono fare i liberisti con lo Stato. Il Pnrr manca di una visione industriale per il nostro Paese, è frutto delle idee dei 10.000 burocrati di Bruxelles”.

IL FOSSILE TORNERA’ DI MODA

Ma burocrati ed ideologie momentanee a parte, per Sapelli i fossili non passeranno mai di moda. “Del fossile ce ne sarà sempre bisogno. Ci accorgeremo presto che con le rinnovabili produrremo più anidride carbonica di quanto immaginiamo. L’idrogeno, invece, richiede l’utilizzo di materiali cancerogeni. Il litio non riusciamo a smaltirlo. Quanto prima torneremo alle fossili e al gas, soprattutto”, secondo lo storico ed economista.

“Rutelli è mosso da pensieri positivi, ma bisogna conoscere bene la materia. Io ho anche letto il libro “Tutte le strade portano a Roma”, è molto bello, ma consiglio a Rutelli di leggere quanto è accaduto in Texas, dove sono stati senza luce per il crollo del sistema elettrico, che si regge sulle sole rinnovabili. Ci sono già elementi che valorizzano la mia tesi”.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-penso-delle-tesi-di-rutelli-su-pnrr-e-rinnovabili-parla-sapelli/

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