Italia e il mondo

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO_di Massimo Morigi

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO

di Massimo Morigi

Scrive, fra le altre pregevoli e condivisibilissime cose, il nostro amico Ernesto nel suo bell’interventoPatria? Acune idee in ordine sparso (Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20251108095938/https://italiaeilmondo.com/2025/11/04/patria-alcune-idee-in-ordine-sparso_di-ernesto/):

«É quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale? Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi –. Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.»

Ora, alle molte (e tutte condivisibili) osservazioni del Nostro sarebbe assai avventuroso affiancare un’analisi e, soprattutto, predizioni, che non siano vaticini alla divino Otelma ma a questa domanda (o ragionamento) la risposta è molto facile accompagnata da un piccolo appunto. Sì, la Patria è l’unico punto di partenza dal quale iniziare ad affrontare il caso italiano (non certo lo Stato, perché lo Stato può benissimo esistere senza Patria, lo si vede bene in Italia e lo si vede altrettanto bene considerando con un minimo di oggettività l’Unione europea, una burocrazia arrogante ed autoreferenziale che prescinde totalmente da qualsiansi legame storico, sociale e culturale con i popoli che pretende di rappresentare) e lo è per il semplice motivo che un’azione politica o geopolitica che non voglia essere semplice scontro intestino all’interno del gruppo degli agenti strategici alfa (sui gruppi strategici alfa, le grandi unità strategiche che guidano le danze e i gruppi strategici omega, coloro che subiscono l’azione strategica alfa e cercano di reagire con controstrategie di solito inefficaci, in altri tempi si sarebbe detto il proletariato, cfr. Massimo Morigi, Teoria della distruzione del valore. Su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore, sull’ “Italia e il Mondo” e tramite congelamento Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/) anarchici ed irresponsabili che si contendono le risorse ha come condizione necessaria (anche se, ovviamente, non sufficiente) l’esistenza (o la credenza nell’esistenza, che poi per quanto riguarda il discorso che qui ci interessa è la stessa cosa) di un’unità di riferimento universalmente reputata ontologicamente superiore e concretamente politicamente prevalente su tutti i gruppi particolari (e soprattutto sui grandi gruppi strategici alfa) presenti e all’interno della singola società e anche in lotta intestina sullo scenario internazionale (immancabile qui il richiamo anche al fondamentale Lenin col suo L’imperialismo fase suprema del capitalismo). Insomma, per fare una facile metafora ma che penso estremamente illuminante, così come la medicina non può fare a meno di cercare di porre rimedio al corpo umano malato o a concepire le strategie per mantenerlo in salute, la politica e la geopolitica non possono fare a meno di quel fulcro di tutto il sistema relazionale umano che si chiama popolo con tutte le sue più o meno infelici problematiche storico-sociali al fine, se non di porvi un totale rimedio, di offrire, almeno in linea di principio, praticabili e concrete strategie per dialettizzare e superare le contraddizioni storiche, politiche e culturali (per compiere, cioè, l’hegeliana Aufhebung) che si frappongono al dispiegamento delle potenzialità positive di questo popolo. Nel caso contrario, una consocenza del corpo umano che non si proponga di curare o di procurare benessere al corpo, siamo in presenza di una conoscenza meramente fisiologica o patologica e nel caso di una politica senza popolo siano in presenza della conoscenza – e della pratica – da parte dei maggiori gruppi strategici alfa che si contendono le risorse sì di una politica e/o geopolitica ma una politica e una geopolitica riservate a gruppi ristretti, cioè, in ultima analisi, siamo in presenza di una conoscenza più o meno elitaria e/o esoterica dove il termine politica può essere, anzi deve, essere espunto, perché quello che manca è l’elemento della Polis o per esprimerci in termini otto-novecenteschi, la Patria (e, infatti, di conoscenza elitaria e/o esoterica e, simmetricamente, delle fantasiose suggestioni da ammanire al popolo si deve parlare oggi, tanto per fare esempio, riguardo all’attuale guerra Russia-Nato. I grandi gruppi strategici alfa ragionano al riguardo sulla falsariga del realismo politico – quanto questo realismo sia però “ragionato” e praticato con criteri di razionalità è però un altro discorso – mentre per il “popolaccio”, gli omega, i mass media e tutto il sistema politico delle c.d. democrazie occidentale riservano le consunte e ridicole litanie sulla difesa della democrazia).

L’appunto riguarda quando viene affermato che non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi, e qui ci si riferisce al fatto che non bisogna tornare al mito romantico otto-novecentesco della Patria. Ora, per questo breve ragionamento non rileva tornare alla distinzione fra patriottismo e nazionalismo, che molto erroneamente viene oggigiorno fatta in particolare da quella scuola di pensiero che va sotto il nome di neorepubblicanesimo cui io non appartengo avendo lo scrivente elaborato un paradigma repubblicano che ho definito ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e proprio in omaggio al criterio di brevità che esprime questo intervento e al fatto che su ciò mi sono espresso in moltissime occasioni non dettaglierò ulteriormente questo paradigma (ho già qui rinviato alla Teoria della distruzione del valore, che può ben essere propedeutica per una sua conoscenza iniziale).

Ma, in estrema sintesi, si può affermare quanto segue: certamente la ‘mitologizzazione’ di qualsiasi cosa, sia un concetto poliltico ma anche quanto colpisce la nostra sensibilità nella vita di tutti i giorni, è da evitare perché, come si dice, ci fa vedere lucciole per lanterne ma l’oggetto sul quale è stata poi operata l’operazione di mitologizzazione deve focalizzare la più attenta attenzione e cosiderazione perché, in caso contrario, ci si trova a muovere in un piatto e controstorico eterno presente dove le sole cose che contano sono le fugaci sensazioni del momento. E quindi, per tornare al mito della Patria, che non bisogna certo assumere acriticamente o come una sorta di spirito ultraterreno ma come di un oggetto storico di cui non ci si può facilmente sbarazzare, cito dal giuramente di affiliazione alla Giovine Italia dove il nuovo affiliato a questa rivoluzionaria organizzazione voluta da Giuseppe Mazzini giura «Nel nome di Dio e dell’Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica. Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto e ai fratelli che Dio m’ha dati. Per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli. Per la memoria dell’antica potenza. Per la coscienza della presente abiezione. Per le lagrime delle madri italiane […] [ e quindi giuro] Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.»: giuramento di affiliazione alla Giovine Italia all’URL Wayback Machine http://web.archive.org/web/20250118110304/https://www.schule-bw.de/faecher-und-schularten/sprachen-und-literatur/italienisch/land-und-leute/kursstufe-themen/storia-politica/risorgimento/mazzini.pdf.

Certo, possiamo discutere il fatto di far svolgere a Dio il ruolo di chiusura del sistema semantico-simbolico del giuramento (ma però va sottolineato che qualsiasi umana comunicazione implica, più o meno esplicitamente, sempre una struttura logica con un elemento di chiusura all’interno della stessa indimostrato – e indimostrabile in ultima istanza –, e non addentriamoci qui ulteriormente intorno alla problematica dei Teoremi di incompletezza di Gödel e alle potenzialità che questi offrono anche ad un inquadramento teorico delle varie e possibili teologie politiche, non solo quelle consegnateci dalla storia ma anche quella che è sotto i nostri occhi – il mito della democrazia ampiamente ‘smitizzato’ e dal punto di vista della teoria politica ma anche nel sentire popolare, definizione corretta di ‘democrazia’ è ‘polioligarchia competitiva’, cfr. a questo proposito proprio qui sull’ “Italia e il Mondo” miei precedenti e recenti interventi – e, infine, quelle che ci riserva il futuro, delle quali nulla possiamo dire se non che la speranza che si ha quasi timore ad esprimere è che si possa in qualche modo influenzarne positivamente la dialettica), e possiamo anche convenire che l’impostazione retorica del giuramento rinvia ad una società e ad una sensibilità romantica dove nella vita pubblica deve essere prevalente il ruolo maschile ma non possiamo eludere che quello che veramente rileva e che ci riguarda direttamentamente severamente ammonendoci è il giuramento per costituire «l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana». In seguito all’esito fallimentare del Risorgimento, e nonostante si accettino pareri contrari, in seguito anche alla caduta del fascismo, non abbiamo avuto nessuna di queste cose, nemmeno la Repubblica, a meno che non si intenda Repubblica, sostituire un re con un presidente (e a meno che per Italia Una non ci si fermi, sempre in entrambi i casi, ad un rappresentazione puramente formale buona solo per colorare la carta politica dell’Europa ). E qui non stiamo parlando di miti ma di una concreta realtà storica, per comprendere e, possibilmente, rettificare la quale ha scritto il nostro amico Ernesto e per la quale anche lo scrivente è stato stimolato ad intervenire con questa breve nota.

Massimo Morigi, novembre 2025

https://marxist.com/lenin-100-years-on.htm

Buio a mezzanotte_di WS

Per  capire  il “buio ucraino”,  cioè la  fase    della  guerra  in Ucraina  qui riportata,    bisogna     ricordarsi sempre che questa è una guerra  “ convenzionale” ma anche  e soprattutto  di  “narrazione”, arma  che serve a spezzare la volontà  del nemico  a sostenere il proprio stato in  guerra  ,  sia perché così è stata concepita da chi l ‘ ha ordita, la NATO,   sia perché  NESSUNO  desidera  che  essa  sfoci  in una guerra nucleare incontrollabile.

Quindi sicuramente la guerra russa alla infrastrutture elettriche ucraine è “didattica” , cioè “tattica” e non “strategica”;  la “strategia”  per sconfiggere quanto prima la NATO-Ucraina presupporrebbe  che la Russia  puntasse a  distruggere completamente TUTTE le infrastrutture dell’ Ucraina  esattamente  come fa  da sempre U$rael.

Non solo, quindi, quelle elettriche, ma anche quelle viarie e  tutto  ciò  che serve  a far  funzionare la società ucraina: magazzini,  catene di approvvigionamento ,   gasdotti, oleodotti, acquedotti, case, ospedali  e  ovviamente  ANCHE  i   centri comando, e i “luoghi  simbolo”; tutte cose  che  invece  in  Ucraina non vengono toccate se non marginalmente.

Ma quale sia  la strategia scelta dai russi l’ ho già spiegato tre anni fa quando i russi hanno capito che era fallito il loro piano A; al quale per altro io penso  non abbiano mai creduto molto.

 Una volta infatti compreso che la guerra con la NATO sarebbe stata inevitabile, la Russia ha deciso di combatterla nelle condizioni migliori per lei, cioè a ridosso delle proprie frontiere, proprio là dove essa può meglio:

1) liquidare completamente l’ esercito ucraino

 2) attirare in suo sostegno le forze di attacco NATO e liquidarle all’ interno della stessa Ucraina laddove esse avranno gravi problemi di supporto logistico.

Quindi i bombardamenti russi sono essenzialmente mirati solo alle infrastrutture  militari ucraine. In primis alle sue infrastrutture aeree e contraere e in secundis alle infrastrutture  civili  di interesse militare, ma non  a quelle viarie e ferroviarie . Queste saranno distrutte dopo, quando le migliori unità NATO saranno arrivate al fronte, nell’ est dell’ Ucraina.

 In questa ottica , né ora e nemmeno dopo, sarà utile  alla Russia portare alla disperazione e agli stenti la popolazione civile  ucraina con bombardamenti “terroristici”. L’ attuale regime infatti poco si cura della popolazione civile e i sui mandanti non vedrebbero l’ ora di creare la “narrazione” del “genocidio del popolo ucraino”.

La Russia cercherà quindi di mantenere un minimo standard di sopravvivenza ai civili, anche  perché terrorizzarli non le serverebbe a nulla; il regine di Kiev non si regge sul consenso popolare ma sul sostegno economico e militare dei paesi NATO.

  Ma allora, in cosa consiste il valore didattico? Ovviamente, come ipotizza Simplicius, “la lezione” è rivolta alle popolazioni dei paesi NATO  di retrovia,  quei NATO-ascari  che sono appunto i più russofobici.

 E il messaggio dice :” volete farci la guerra? Beh allora meditate su quanto misera potrebbe diventare SUBITO la vostra vita” a “ casa vostra”.

Perciò  questi bombardamenti ” didattici” si concentreranno sempre più nell’ Ucraina occidentale, in primis perché li la popolazione non merita nulla in quanto fornisce il nerbo nazista del regime di Kiev, e poi perché lì gli  ” scoppi” si sentono meglio anche di là del confine, anche se la TV non ne parla.

Questa   “fase”,   questo “piano B” russo, è anch’esso  un  “atto  dovuto”, ma è molto  dubbio che possa funzionare  se non  nel “guadagnare  tempo”,  buttando la palla  nel  campo  di quella NATO   che presto  dovrà comunque   scegliere il “che fare”.  La Russia ha infatti dichiarato  anche  al   teatrante Trump  che  essa non defletterà mai  dagli obbiettivi   dichiarati  quando ha intrapreso la  SMO.

E la  decisione  della NATO      dovrà essere    tra     aggravare il conflitto    entrando UFFICIALMENTE  in Ucraina   o, peggio , andare  dritti  verso una  guerra  diretta attaccando    altrove  dove  essa si  ritiene in vantaggio.

Il “dove”  di ciò l’ ho già accennato: Baltico ,  Kaliningrad o  Transnistria  , con una preferenza  per quesi’ultima  perché   lascerebbe  ancora un margine  di ambiguità   alla Russia    con le cui  elites    €uropee vogliono  un “conflitto  eterno”, ma non TOTALE;  che  giustifichi un “governo emergenziale” con cui mantenersi  al potere  schiacciando ogni possibile opposizione   con i  propri  “diktat”   esattamente  come abbiamo visto  con la “pandemia”.

Io  ritengo  avventata  ognuna  di  queste fughe in avanti   e  lo sanno anche i nostri  NATO-gauleiter      che   ANCH’ESSI  rischiano  grosso;  l’  assai probabile   reazione  di una Russia   determinata  a NON perdere  non  colpirà solo  l’ Ucraina ma anche  i i centri nevralgici  della NATO-€uropa.

In  tal  senso,  assai  rivelatore  è il  recente  ridicolo   “ultimatum”  del  NATO-pagliaccio   capo ,Rutt,  a  “non usare l’ arma nucleare” , come  se una  Russia  determinata  a “non perdere”  si ponesse  problemi        di come   essa  apparirebbe  “ al mondo”   se  fosse  costretta  a farlo.

In conclusione  abbiamo ancora la conferma   di cio  che ipotizzai   da  subito.  Noi  Europei   tutti, in  questo mortale  “conflitto”  siamo  TUTTI in trappola . Noi “,€uropopoli”  che non contiamo niente perché  non possiamo    cambiare    una €uroelite  che   non ha altra  speranza  che “andare  avanti” , e i Russi  che non hanno alcuna  speranza  nel “ tornare indietro”.

Sfuggire  a questa  trappola   è sempre  poù difficile   e “ il buio”   di kiev      ci annuncia solo  la      famosa “mezzanotte”     a cui  siamo  sempre più vicini.

 In  quel momento però io  spero ardentemente  che    TUTTI ne paghino le conseguenze . Sarebbe  veramente un  infame  scherzo del destino   che  ne rimanessero  fuori    coloro  che , come le altre  “due  volte”  ,   questo  nuovo  conflitto in  Europa   lo hanno progettato  e acceso.

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Stati Uniti, la crisi del bipartitismo Con Gianfranco Campa

Su Italia e il Mondo: Si Parla delle elezioni locali statunitensi e della crisi del bipartitismo
Il responso delle recenti elezioni locali negli Stati Uniti ha sancito due sconfitte cocenti, un trionfo netto, probabilmente effimero e una condizione di perplessità. La vittoria di Ramdani, uomo di Soros, è stato un piccolo capolavoro di un brillante leader in grado di associare lo spirito identitario dei settori più popolari della popolazione di New York al messaggio ideologico tipico dei “colletti bianchi” dalle prospettive ormai sempre più incerte e dallo status ormai minacciato. Un successo effimero costruito sulle ceneri del Partito Democratico, piuttosto che di quello repubblicano. Negli altri stati federati è stato il Partito Repubblicano a subire una sonora e definitiva lezione, ma nella veste dei più accesi oppositori del Presidente. Trump potrà dormire sonni tranquilli? Non proprio. La diserzione di MAGA ai seggi è occasionale e legata alla volontà di punire i candidati repubblicani? L’evaporazione di MAHA, il movimento di Kennedy e del suo stuolo indispensabile di militanti organizzati, è il segno di un abbandono del sodalizio con Trump? Sono gli interrogativi di un movimento in piena fase di transizione verso una nuova inevitabile leadership. Non mancheranno le sorprese. Giuseppe Germinario

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TODO MODO_di Massimo Morigi

Todo modo para buscar la voluntad divina: dopo un cinquantennio da Todo Modo di Leonardo Sciascia e di  Elio Petri, breve esercizio spirituale di dialettica repubblicana sulla teologia politica abscondita di Todo modo di Elio Petri, gli UFO, l’intelligenza artificiale, Fëdor Dostoevskij, il grande inquisitore, Thomas Mann, La montagna incantata, Naphta, Carl Schmitt,  il Katechon e Giuseppe Mazzini

di Massimo Morigi

La primera annotacion es: que por este nombre Exercicios espirituales se entiende todo modo de examinar la consciencia, de meditar de contemplar, de orar vocal y mental, y de otras espirituales operaciones, segun que adelante se dirá: porque asicomo el pasear, caminar, y correr son exercicios corporales, por la mesma manera todo modo de preparar, y disponer el ánima para quitar de sí todas las afecciones desordenadas, y, despues de quitadas, para buscar, y hallar la voluntad Divina en la disposicion de su vida, para la salud del anima, se llaman Exercicios espirituales.

S. Ignacio de Loyola, Ejercicios espirituales

         Accanto ai capolavori della cinematografia italiana, esiste il caso di una rimozione e dall’immaginario del pubblico e, fino non molto tempo fa, anche dalle valutazioni più intellettuali e professianali, di un film che forse (e impiego la forma dubitativa solo per non risultare arrogante verso chi dissente) è il maggiore capolavoro di tutti: mi riferisco a Todo modo di Elio Petri. Come è noto (o come dovrebbe essere noto, visto quanto appena affermato), il film, proiettato nel 1976, trae ispirazione e numerosi spunti dal Todo modo di Leonardo Sciascia pubblicato nella sua prima edizione nel 1974 e, sebbene nell’autore siciliano fosse più una riflessione generale sulla natura del potere politico mentre il film di Elio Petri  prende più concreatamente di mira il partito che da trentanni esprimeva la maggiorenza relativa del Parlamento e colui che in quel momento era il suo principale leader, Aldo Moro, Sciascia  dimostrò la sua approvazione verso la trasposizione cinematografica e questo non tanto perché la sua trama fosse  tutto sommato abbastenza fedele a quella del romanzo ma perché, quasi per assurdo, restringere l’obiettivo verso una concreta forza politica, rendeva ancora più ficcante – ed anche, ovviamente, più facilmente popolare – la critica metapolitica di Sciascia al potere politico nella sua più vasta accezione. Non avrebbe in questa sede molto senso comparare le trame dei due prodotti di fantasia se non per segnalare il fatto che nel film accanto al Don Gaetanto, direttore spirituale  sia nel Todo modo di Sciascia che in quello di Petri, viene aggiunto nel film Todo modo il suo antagonista Aldo Moro e che è proprio dallo scontro fra Don Gaetano e Aldo Moro che scaturise non solo il messaggio esplicitamente voluto da Petri, la Democrazia cristiana è un partito marcio che rappresenta ed aggrava la corruzione della vita pubblica italiana, ma anche la moralità forse nemmeno del tutto chiaramente percepita dal regista stesso (e certamente più avvertita in Sciascia) del film e cioè che il potere, qualsiasi forma di potere, si basa su due pilastri. Da una lato una sua autorappresentazione di natura teologica e dall’altro, molto più prosaicamente, su una spartizione/predazione delle risorse che si serve di questa autorappresentazione ma solo per celare la sua pratica concreta che si basa sui rapporti di forza economico-politici fra gli agenti strategici che animano la società. Come chiaramente emerge dal seguente dialogo dal tono espressionista e grottesco fra Don Gaetano e il capo riconosciuto dei notabili riuniti dal sacerdote per gli esercizi spirituali (cioè Aldo Moro, il cui nome non viene mai pronunciato nel film):

         «Moro: “Devo dire tutto quello che ho scoperto? Far crollare il castello? Ci dobbiamo consegnare al nemico? Rovesciare la piramide? I rapporti di classe? Cambiare, cambiare, cambiare cultura, cambiare tutto? Devo cambiare veramente?” Don Gaetano: “Todo modo para buscar la voluntad divina.” Moro: “E che cos’è la voluntad divina?” Don Gaetano: “Non è anima e non è mente, non è immaginazione, né opinione, né ragione, né pensiero, non è numero, ordine, grandezza, piccolezza, uguaglianza, disuguaglianza, non è viva e non è vita, non è spazio, materia, scienza, non è bontà, né verità,  non è tenebra e non è  luce, non è errore né verità.” Moro: “Io sono un politico, ho bisogno di indicazioni concrete.” Don Gaetano: “Tu sei un uomo come tutti gli altri. Ami il potere?” Moro: “Sì magmaticamente.” Don Gaetano: “Sei pronto a cederlo?” Moro: “Eh, Eh,… e a chi? Non c’è nessuno meglio di me. Sai. Io credo di avere una missione da compiere, sì.” Don Gaetanto: “Hai le stigmate? Moro.: “Beh, sì, a volte mi pare di vederle, sì, sì, sì. Sì, guarda, anche adesso, vedì?” Don Gaetano: “Io non le vedo, tu sei come gli altri, segui il loro esempio e non fingere più.” Moro: “Eh no, io non sono come gli altri, io sono diverso dagli altri, io non sono avido, io non sono arrogante, io non sono ipocrita, io sono una persona perbene, sono una persona onesta, non rubo, non manco ai patti, non rubo io. Dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo anche tu per favore che non sono come gli altri.” Don Gaetano: “Tu sei come i tuoi elettori, cinico e feroce, segui il tuo mandato fino in fondo tanto noi due cadremo insieme, tu con i tuoi ricchi impostori che ti tengono al governo solo per proteggerli dai poveri, io con il mio stupido gregge, innocente e peccatore che aspetta da me solo il viatico per l’altro mondo.” Moro :“Tu non mi ami più.” Don Gaetano: “No sei tu che non ami più. Io lo so, i preti sono ingombranti. ” Moro: “Confessami, per l’ultima volta, io ho la sensazione che non ci vedremo più.” Don Gaetano: “No, non potrei assolverti.” Moro: “No tu devi assolvermi, devi assolvermi.” Don Gaetano, strappandosi da Moro che tenta di trattenerlo: “Lasciami!”  Moro: “Pensa a ciò che rappresentiamo, non a ciò che siamo.” Don Gaetano: “Sei una beghina, piangi come una beghina!” Moro: “Io per continuare ho bisogno della tua assoluzione, cosa siamo noi senza voi, voi senza noi, loro…” Don Gaetano: “Non possumus”».

         A parte segnalare la  fenomenale interpretazione di Gian Maria Volontè nei panni di Aldo Moro così come si evidenzia dalla visione  di tutto il film ed in particolare dal dialogo citato e che non può essere minimamente restituita in tutta la sua violenta carica grottesca ed espressionista tramite la trascrizione del dialogo della sua pur più importante scena, soffermiaci su Don Gaetano. Come già accennato, Don Gaetano, interpretato magistralmente da Marcello Masroianni ma non raggiungendo le vette espressioniste del Moro di Gian Maria Volontè,  ha radunato in un hotel i notabili democristiani per sottoporli agli esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola. La sua frase nel dialogo con Moro, «Todo modo para buscar la voluntad divina.», Tutti i modi per arrivare alla volontà divina, è un icastico  compendio del più famoso passaggio del manuale degli esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola che nella sua integrità è il seguente: «La primera annotacion es: que por este nombre Exercicios espirituales se entiende todo modo de examinar la consciencia, de meditar de contemplar, de orar vocal y mental, y de otras espirituales operaciones, segun que adelante se dirá: porque asicomo el pasear, caminar, y correr son exercicios corporales, por la mesma manera todo modo de preparar, y disponer el ánima para quitar de sí todas las afecciones desordenadas, y, despues de quitadas, para buscar, y hallar la voluntad Divina en la disposicion de su vida, para la salud del anima, se llaman Exercicios espirituales.», e pur nella sua compendiosità, rispecchia fedelmente non solo il senso degli esercizi spirituali ignaziani  ma anche l’obiettivo voluto da  Don Gaetano nel radunare i politici nell’hotel per gli esercizi spirituali, e cioè instillare a tutti i costi nelle menti  dei corrotti politici una teologia politica cattolica che li redima dalle malefatte compiute nell’esercizio del potere. Ma nel dialogo fra Don Gaetano e Moro c’è un altro snodo che merita di rilevare ed è quando Don Gaetano descrivendo la volontà divina afferma che essa  «Non è anima e non è mente, non è immaginazione, né opinione, né ragione, né pensiero, non è numero, ordine, grandezza, piccolezza, uguaglianza, disuguaglianza, non è viva e non è vita, non è spazio, materia, scienza, non è bontà, né verità,  non è tenebra e non è  luce, non è errore né verità.», affermazione alla quale Moro ha buon diritto di replicare che lui, in quanto politico, ha bisogno di indicazioni più concrete. Ora questa affermazione di Don Gaetano, libera ma al tempo stesso fedele parafrasi del noto passo tratto dal De mistica theologica dello Pseudo-Dionigi Areopagita: «Poiché invero la causa buona di tutte le cose è insieme esprimibile con molte parole, con poche e anche con nessuna, in quanto di essa non vi è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure, e in ascesa vanno oltre tutte le cime più sante, e abbandonano tutti i lumi divini e i suoni e le parole celesti, e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose. E diciamo che questa causa non è né anima né mente; che essa non ha immaginazione né opinione né ragione né pensiero; non si può esprimere né pensare. Non è numero né ordine né grandezza piccolezza uguaglianza disuguaglianza somiglianza dissomiglianza. Non è immobile né in movimento; non è in riposo né ha potenza, e neppure è potenza o luce. Non vive e non ha vita: non è sostanza né evo né tempo; di lei non vi è apprendimento intellettuale. Non è scienza e non è verità, né potestà regale né sapienza; non è uno, non è divinità o bontà, non è spirito, secondo la nostra nozione di spirito. Non è filiazione né paternità né alcun’altra cosa di ciò che è noto a noi o a qualsiasi altro essere. Non è niente di ciò che appartiene al non-essere e neanche di ciò che appartiene all’essere; né gli esseri la conoscono, com’è in sé, così come essa non conosce gli esseri in quanto esseri. Di lei non si dà concetto né nome né conoscenza; non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità», inserendosi a pieno titolo nell’ambito della teologia negativa di cui lo Pseudo-Dionigi Aeropagita è uno dei principali rappresentanti, contraddice in pieno la metodologia e l’intima teologia degli esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola, basate su un serie di ossessive e ripetitive pratiche autoipnotiche  volte a conferire concretezza e una sorta di tangibile matericità e ai concetti dottrinali e teologici e, soprattutto, all’immagine umanizzata di Dio stesso. Insomma, se dal punto di vista di una teologia politica à la Carl Schmitt, gli esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola possono benissimo essere inquadrati nell’ambito dello svolgimento dell’azione del Kathecon, il grande frenatore che impedisce il disfacimento dell’ordine costituito terreno la cui gerarchia è garantita da un ben riconoscibile e ben definito ordine celeste, la teologia negativa di Don Gaetano non è altro che il preannuncio dell’epifania dell’Anticristo dissolutore di ogni ordine terreno e celeste. 

         A noi non  è dato sapere se Elio Petri fosse consapevole o meno della tradizione filofofico-politologica che ruota attorno al concetto di ‘teologia politica’ e non sappiamo quindi se Petri (e, a maggior ragione, anche Schiascia il cui Todo modo rispecchia la sua mentalità illuminista e che vuole quindi condannare l’esercizio di un potere autoreferenziale che per compiere le sue nefandezze si nasconte sotto i velami della pratica religiosa) ma sta di fatto che il regista per rappresentare nel modo più negativo il potere democristiano ricorre ad una Weltanschauung e ad una struttura concettuale che direttamente rinviano alla riflessione teologico-politica.

           E se possiamo porci domande in merito alla consapevolezza in Petri della problematica teologico-politica che solleva il film, atrettanto dubbi non possiamo avere in merito alla potente e pervasivo azione dialettica che all’interno del film svolge la teologia politica perché se Don Gaetano con i suoi esercizi spirituali volti a dare concreta e sensibile matericità alla divinità si presenta apparentemente come il difensore di un ordine minacciato dalla corruttela dei politici (e quindi precursori costoro dell’Anticristo in una prospettiva alla Don Gaetano), dentro di sé è assolutamente convinto che i fantasmi creati dagli esercizi spirituali non sono che vuote larve buone  a tenere solo provvisoriamente a bada le anime secolarmente astute ma teologicamente ingenue dei politici corrotti. Insomma se Ignazio de Loyola con i suoi esercizi spirituali intendeva formare una classe dirigente devota e a cui le ordinarie pratiche religiose con il loro basso impatto emotivo erano ormai  adeguate ed efficaci solo per i  praticanti meno colti e più suggestionabili ma non assolutamente più sufficienti per le sezioni della società di maggior potere e/o di cultura che ancora potentemente risentivano dell’impatto secolarizzante dell’Umanesimo e del Rinascimento, Don Gaetano non ha più fiducia in questa efficacia pedagogica degli esercizi spirituali ma questi vengono impiegati per distruggere nella mente e poi anche nel corpo  i politici corrotti  (i politici conventuti agli esercizi muoiono quasi tutti di morte violenta per mano sconosciuta, anche  Moro ma esplicitamente per mano di uno dei funzionari dello Stato apparentemente inviati per indagare sugli omicidi).

          In quanto portatore di dissoluzione dell’ordine terreno basato su una rigida gerarchia e distinzione fra governati e governanti (anche se è un ordine corrotto, come lo sono i notabili democristiani,  la funzione del Kathecon schmittiano è sempre e comunque presevare questo gerarchico ordine politico), Don Gaetano e non i politici corrotti politici è la perfetta epifania dell’Anticristo, epifania ancor più evidente non solo nel tradimento del metodo e della teologia politica di S. Ignazio di Loyola che ce lo rende la versione moderna di Giuda Iscariota che tradisce Gesù Cristo ma anche, in quanto traditore di Cristo in ragione della sua teologia negativa che implica una logica impossibilità di averne una concreta rappresentazione, con evidenti analogie al grande inquisitore di Dostoevskij che nella sua pratica e nei suoi ragionamenti contraddice e contrasta il messaggio del Salvatore, ed anche, nella sua umana cattiveria (Don Gaetano si autodefinisce un prete umanamente cattivo che proprio perché cattivo è l’architrave sui cui si regge la Chiesa),  nel suo nichilismo teologico e nei suoi sforzi agognanti una paligenesi violenta, con altrettanto evidenti analogie al  nichilista e marxista Naphta della Montagna incantata di Thomas Mann.

         Quando Todo modo fu proiettato nelle sale cinematografiche anche la critica di sinistra lo accolse freddamente (si era nel clima del compromesso storico e rappresentare in modo così grottesco e surreale la classe dirigente democristiana costituiva, dal punto di vista del PCI, una verità non proprio rivoluzionaria, giusto per richiamare un altro grande film sempre del 1976,  Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi con protagonista Lino Ventura, sempre tratto da un romanzo Leonardo Sciascia, Il contesto del 1971) e il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro non solo fecero ritirare il film dalle sale italiane e anche dal circuito internazionale ma anche segnarono la fine del cinema politico italiano, con un Elio Petri la cui ultima prova fu Buone notizie, 1979, ottima pellicola, se vogliamo, ma in cui l’uso del grottesco è diventato maniera e ripetizione di stilemi ma semza più la carica eversiva di Todo modo. Oltre a Petri, fra i vulnerati dal fallimento di botteghino e di critica di Todo Modo, ci fu  Sciascia che anche per difendersi dalle accuse di vicinanza ideale alle  Brigate Rosse scrisse L’affaire Moro (1978) ed anche Gian Maria Volontè che dopo questa sfortunata (ma artisticamente eccelsa) prova si distaccò amaraggiato da Petri e non avrebbe avuto più occasioni altrettanto importanti per far rifulgere il suo incredibile talento.

         Oggi, passati ormai cinquant’anni dalla sfortunata vicenda culturale e commerciale di Todo modo, al film la critica restituisce formalmente quanto gli era stato negato allora, sottolineando ovviamente il fatto che le sfortunnate vicende storiche che fecero da sfondo alla sua uscita fecero sì che gli intellettuali e la classe dirigente, soprattutto quella di sinistra, snobbassero pubblicamente questo lavoro di Petri (Petri affermò che però gli stessi uomini di sinistra che pubblicamente  gli negarono l’approvazione,  lo coprirono privatamente di elogi per Todo modo) e però tristamente sottolineando che in quanto la Democrazia cristiana e il PCI non sono più fra noi, Todo modo, parlando di un mondo politico defunto non è più attuale e, se proprio gli si vuole consegnare il valore di segnalatore d’incendio, rimarcando  il fatto che i nuovi conservatori sono peggio dei vecchi democristiani e la sinistra, ça va sans dire, non è più la vecchia sinistra rivoluzionaria (se mai lo è stata, mi permetto di soggiungere…) ma è diventatata, il palladio più inespugnabile dell’attuale neoliberismo rampante.

         Tutto vero ma in questa riconsiderazione di Todo modo  il momento teologico politico non viene nemmeno  sfiorato, mentre ciò che lo rende veramente non solo attuale ma assolutamente un classico che travalica la critica politica contingente del sistema politico italiano di quegli anni e la sua triste e forse peggiore trasmutazione dei nostri anni in pseudo seconda repubblica, è il contributo concreto di questo film alla riflessione di ciò che sta al cuore della crisi delle odierne democrazie rappresentative, vale a dire la crisi irreversibile della teologia politica su cui fino ad oggi si sono rette  queste c.d. democrazie. Non vale su questa crisi spendere molte parole, se non per segnalare, per l’ennesima volta, la propaganda bellicista svolta all’interno di questi sistemi che non ha alcun contenuto di razionalità politica e culturale ma fa leva, con le metodologie ossessive dell’indottrinamento religioso di cui gli esercizi spirituali ignaziani possono anche essere considerati come precursori, ad una fantomatica difesa della democrazia, una difesa di non si sa bene cosa, visto che dell’originaria teologia politica della democrazia, vale a dire la mistica credenza nell’esistenza extrastorica di un corpus di diritti sociali ed individuali che con un sistema democratico verrebbero immancabilmente e deterministicamente garantiti e troverebbero la loro definitiva epifania,  non crede più nessuno, o meglio la sinistra che apparentemente mostra ancora di credergli li ha tramutati, vista la sua inanità nel difendere i diritti sociali,  nella caricaturale versione woke che, nella pratica, si traduce in una forma rovesciata di suprematismo  delle minoranze psicologicamente e sessualmente extravaganti contro una sempre più intimorita maggioranza che si riconosce nei  modelli psicologico-comportamentali tradizionali, un suprematismo negatore nei fatti dell’originaria teologia politica che costituiva l’innervatura ideologica delle c.d. democrazie rappresentative e per la quale questi diritti sociali ed individuali attraverso la c.d. democrazia rappresentativa si sarebbero miracolosamente e armoniamente composti  nella costruzione della civitas politica e sociale; e infine per notare, vista l’inanità teologico-politica del bellicismo a difesa della democrazia e del ridicolo wokismo e dei suoi derivati, la comparsa di ancor più ridicoli sostituti teologico-politici: della riproposizione, soprattutto nei mass media dell’anglosfera, delle credenze ufologiche abbiamo già detto (cfr. Massimo Morigi, Prologo dopo quasi un decennio alla Democrazia che sognò le fate, in “L’Italia e il Mondo” 16 agosto 2025, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20251103145539/https://italiaeilmondo.com/2025/08/16/prologo-dopo-quasi-un-decennio-alla-democrazia-che-sogno-le-fate_giuseppe-germinario-massimo-morigi/) ma accenniamo qui ad un ulteriore versione tecnologico-fantascientifica di narrazione teologico-politica, vale a dire il tentativo compiuto dai grandi agenti strategici di instillare nella popolazione la bizzarra idea che la c.d. intelligenza artificiale sia analoga a quella umana e che, col passare del tempo e col suo perfezionamento, potrà sostituire quella umana con evidenti vantaggi per l’efficienza non solo produttiva ma anche politico-sociale delle società che vi si affideranno. In realtà, la c.d. intelligenza artificiale non è uno strumento per comprendere il mondo e soprattutto non ha nulla a che fare con l’intelligenza (un virus che introduce il suo DNA in una cellula è molto più intelligente) ma solo una tecnologia che attraverso algoritmi opera su base statistica sui file presenti sul Web per  generare delle frasi che abbiano probabilità di essere vere e senso compiuto. O se vogliamo ritornare a Todo modo, l’intelligenza artificiale altro non è che la traduzione tecnologica delle meditazioni ignaziane, volte non a generare una reale comprensione della dinamica religiosa ma, molto più semplicemente e pericolosamente, a fornire immagini false, stereotipate e falsamente concrete della stessa e, riferendoci alla tragica  figura di Don Gaetano, non è arduo credere che anche questa  pseudoteologia politica non godrà di molta fortuna, porterà molti lutti e disgrazie ai gonzi che vi si affideranno,  e troverà molto presto i suoi seppellitori per essere sostituita dal altrettanto fantasiose e ridicole panzane. Le quali, però, non  possono indurci nell’altrettando falsa idea che di una teologia politica, o se vogliamo dire di un’idea olistica, totalizzante e universalmente condivisa del mondo così come lo percepisce l’esperienza umana, un sistema politico e a maggior ragione un sistema politico che abbia la pretesa di definirsi democratico, non abbia bisogno. Mazzini era convinto che la Repubblica (egli preferiva l’uso di questo termine a democrazia ma per il nostro odierno discorso questo non è essenziale) doveva essere fondata sulla credenza nell’esistenza di  Dio la cui volontà  si manifesta per gradi nella storia dell’umanità, non solo il  sommo principio regolativo ma anche l’entità concretamente agente che avrebbe dovuto costiture l’imprescindibile e determinante termine di riferimento ed ispirazione di tutto  l’ordine politico, sociale ed economico non solo all’interno della futura repubblica italiana ma anche all’interno di tutte quelle nazioni che si sarebbero conformate all’ideale repubblicano (fondamentale, a questo proposito, per comprendere l’importanza di Mazzini nell’ambito dell’elaborazione filosofico-politica degli attuali caposaldi della teoria delle relazioni internazionali, Martin Wight, Four Seminal Thinkers in Internation Theory, Machiavelli, Grotius, Kant, and Mazzini, New York, Oxford University Press, 2005). Ma senza essere così mistici come l’Apostolo di Genova, è altrettanto evidente che senza conformare la Res Publica sul paradigma del mazziniano ‘Dio e popolo’ non sarà possibile andare oltre alla crisi delle c.d. odierne liberaldemocrazie rappresentative che, infatti, molto più correttamente, devono essere  oggi definite – in questa loro fase di involuzione terminale – perfette polioligarchie competitive, mentre fino a non molto tempo addietro erano sì polioligarchie ma che riuscendo ancora a garantire una certa distribuzione delle risorse riuscivano  a preservare senza troppi scossoni la vecchia teologia politica e potevano ancora definirsi, senza troppo evidenti forzature, come democrazie. E in questo ribaltamento gestaltiano della narrazione politica della nostra c.d. democrazia, anche la comprensione di Don Gaetano con i suoi terribili esercizi ignaziani e della teologia politica abscondita di Todo modo di Petri ci possone essere di non piccolo aiuto per gli  esercizi spirituali propedeutici alla nuova  dialettica della Res Publica sul solco di Giuseppe Mazzini. Ora e sempre.

Massimo Morigi, novembre 2025

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The day After : Come le previsioni di ieri si aggravano_di Cesare Semovigo

La Crisi sembra delinearsi .

The day After : Come le previsioni di ieri si aggravano 

La Crisi sembra delinearsi .

Di Cesare Semovigo 

WarrenBuffett continua a disinvestire nel mercato azionario, segnalando una crescente cautela in un contesto economico globale instabile. Nel terzo trimestre del 2025, la sua holding @BerkshireHath ha venduto azioni per un controvalore lordo di circa 12,5 miliardi di dollari, acquistandone solo 6,4 miliardi, risultando in un disinvestimento netto di 6,1 miliardi. 

Questo segna l’11° trimestre consecutivo di vendite nette, con un cumulativo di 177,4 miliardi di dollari dal 2022, un trend che riflette una strategia difensiva protratta nel tempo. 

Parallelamente, la liquidità detenuta da Berkshire Hathaway ha raggiunto un livello record di 381,7 miliardi di dollari al 30 settembre 2025, superando i precedenti picchi e testimoniando un accumulo prudente dettato da valutazioni di mercato considerate eccessivamente elevate, con indici come I’S&P 500 che sfiorano multipli P/ E storici superiori a 30 in settori tech e Al-driven. 

Questo approccio privilegia riserve liquide rispetto a investimenti azionari rischiosi, evitando esposizioni a bolle potenziali in un’era di volatilità amplificata da mega-trend come l’Al, il cambiamento climatico e le tensioni geopolitiche.

Tale strategia di Buffett si inserisce perfettamente in un quadro di politiche monetarie espansive da parte della @federalreserve, che nel 2025 ha continuato a immettere liquidità con ritmi intensi: solo negli ultimi mesi, iniezioni come i 125 miliardi di dollari in cinque giorni attraverso operazioni repo e standing facilities, o i 29,4 miliardi in un singolo overnight repo il 31 ottobre, hanno sostenuto il sistema bancario ma alimentato preoccupazioni su bolle speculative, con il bilancio Fed ancora a livelli elevati nonostante riduzioni marginali. Con tagli ai tassi di 0,25% all’ultima riunione di ottobre e piani per terminare la contrazione del balance sheet dal 1° dicembre, la Fed sta essenzialmente “stampando” moneta per prevenire credit crunch, ma questo rischia di gonfiare asset bubbles in equities e crypto, come visto con l’impatto su Bitcoin post-iniezioni e il calo dei reverse repo che segnala vulnerabilità sistemiche.

Questa prudenza si sposa con dinamiche emergenti nei mercati globali e settori sensibili, richiamando le mie analisi OSINT su @italiaeilmondo relative alle previsioni di “shutdown” governativi prolungati, come l’attuale shutdown federale USA iniziato il 1° ottobre 2025 e giunto al 35° giorno (il più lungo della storia, con 14 voti falliti al Senato per riaprire), che sta impattando servizi federali, dipendenti e budget statali, con rischi di credit crunch e instabilità economica. Similmente, le posizione short-term e tactical di BlackRock su asset considerati stabili – come il pivot verso investimenti a breve termine, alternative liquide e diversificazione anti-volatilità, con enfasi su mega-forze come Al e climate – indicano una stance cautelativa, prevedendo pullbacks near-term nonostante un outlook pro-risk per il 2025 e un focus su bets più corti amid shaky global foundations.

 L’incalzante stampa di moneta da parte delle banche centrali globali, inclusa la Fed, amplifica questi rischi sistemici, con liquidità che fluisce in asset gonfiati ma vulnerabili a correzioni.

Inoltre, questa instabilità si estende all’Eurozona, dove il problema è che alcuni paesi sono essenzialmente broke ma rifiutano di ammetterlo, mascherando fragilità debitorie sotto politiche di austerity selettiva e contributi minimi a sforzi collettivi. Prendiamo l’esempio dell’aiuto all’Ucraina: i tre paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) hanno contribuito complessivamente più di Italia in termini assoluti, nonostante il PIL italiano sia circa 13-15 volte maggiore (PIL Italia ~ 2.3T USD vs. Baltic combined~170B USD). Dati aggiornati al 2025 dal Kiel Institute mostrano Estonia al top con ~ 2.2-2.8% del PIL in aiuti bilaterali (circa 1-1.3B EUR), Lettonia

~1.5% (~0.7B EUR), Lituania ~ 1.8% (~1.4B EUR), per un totale combinato di

~3.4B EUR. Italia, al contrario, ha impegnato solo ~ 1.05-1.7B EUR totali (0.05-0.08% del PIL), riflettendo vincoli di debito elevato (~140% PIL) e riluttanza a spendere in contesti geopolitici. 

Questo squilibrio non è solo un’anomalia umanitaria, ma un segnale di disfunzionalità strutturale: paesi con debito alto come Italia priorizzano il contenimento fiscale, alimentando tensioni interne all’Eurozona e rischi di default sovrano o bail-in. La discussione sul debito Eurozona deve cambiare, passando da negazione a riforme reali come mutualizzazione selettiva o haircut, altrimenti amplificherà shock globali – pensate a come un “Italexit” o crisi bancaria italiana potrebbe triggerare una recessione EU, impattando supply chain e mercati USA, giustificando ulteriormente la strategia cash-heavy di Buffett.

L’accumulazione record di contanti da parte di Berkshire non è mero tatticismo, ma un indicatore quantitativo di prudenza investoriale contro scenari con rischi non trascurabili, come shutdown governativi prolungati (si pensi ai 35+ giorni di US shutdown nel 2025, con impatti su mandatory e discretionary funding), anomalie geofisiche influenzanti supply chain, bolle economiche con probabilità bayesiana di burst al 35% entro il 2027, o fragilità Eurozona come sopra. In questo senso, la posizione di Buffett rafforza l’esigenza di un approccio ibrido di valutazione, simile al mio metodo bayesiano sperimentale su @italiaeilmondo – che integra evidenze economiche (es. P/E ratios, debt-to-GDP), finanziarie (liquidity injections) e geopolitiche (aid disparities as proxies for fiscal health) con priors conservativi e 100K iterazioni Monte Carlo per prevedere discontinuità o correzioni profonde.

Per illustrare con l’Eurozona: consideriamo un modello bayesiano semplice per stimare la probabilità di una crisi debitoria EU (es. spread BTP-Bund

>400 bps o default parziale) entro il 2027, incorporando fattori come aid disparities (indicatori di riluttanza fiscale), debt levels e monetary divergence. Iniziamo con un prior conservativo Beta(3, 7), che implica una probabilità media iniziale di 0.3 (basata su crisi storiche EU dal 2010, con varianza per incertezza attuale). Aggiorniamo con evidenza: in 15 periodi osservati simili (es. anni con debt >120% GDP in major economies, low aid contributions relative to peers, e ECB tightening), si sono verificate 6 crisi (adattato da dati ECB/Eurostat).

 La posterior diventa Beta(9, 16), con media analitica 9/25 = 0.36. Per approssimare la distribuzione e ottenere intervalli credibili, usiamo Monte Carlo: campioniamo 100.000 valori dalla posterior Beta. Il risultato è una probabilità stimata di 0.360 (36%), con deviazione standard ~0.095 e intervallo credibile al 90% [0.215, 0.515].

Questo approccio – prior + likelihood bayesiana + sampling Monte Carlo – quantifica come disparità come quelle negli aiuti all’Ucraina (segnalando paesi “broke” in negazione) spostino la probabilità verso l’alto, integrando con rischi USA per un outlook globale cauto.

Investitori consapevoli: Diversificate, accumulate cash e usate OSINT bayesiano con Monte Carlo per navigare l’incertezza, specialmente in un’Eurozona fragile.

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Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre_di Vladislav Sotirovic

Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre

La Russia nella Grande Guerra

Entrambe le rivoluzioni del 1917 in Russia, la cosiddetta rivoluzione di febbraio e la cosiddetta rivoluzione di ottobre, ebbero luogo durante la prima guerra mondiale (la Grande Guerra), quando la Russia combatté contro le potenze centrali e i loro alleati come membro a pieno titolo delle potenze dell’Intesa insieme a Francia e Gran Bretagna e ai loro alleati (cioè membri associati), tra cui il Regno di Serbia, per il quale la Russia zarista entrò in guerra in modo altruistico e sacrificale, anche se nell’estate del 1914 non era sufficientemente preparata per la guerra contro le potenze centrali, soprattutto in termini puramente militari. Tuttavia, nell’agosto 1914, a San Pietroburgo, prevalsero ragioni morali e storico-culturali piuttosto che ragioni puramente militari e politiche, dato che la Russia, ovvero lo zar Nicola II, decise di difendere a tutti i costi l’indipendenza della Serbia contro l’imperialismo pangermanico e la politica di Berlino del Drang nach Osten (spinta verso est attraverso i Balcani fino a Bassora e al Golfo Persico).

Sebbene la Russia entrò con riluttanza nella Grande Guerra nel 1914, lo fece con grande entusiasmo e fiducia nella vittoria finale. Tuttavia, subito dopo i primi successi militari, divenne chiaro che l’esercito russo non era in grado di affrontare efficacemente l’esercito del Secondo Reich tedesco, che all’epoca era la forza militare terrestre più forte d’Europa. I primi giorni di entusiasmo bellico nell’esercito russo cominciarono a svanire dopo la pesante sconfitta di Tannenberg nell’estate del 1914, durante il primo mese dell’offensiva tedesca sul fronte orientale (la cosiddetta seconda battaglia di Tannenberg o Grünwald, 23-30 agosto 1914).

In Russia, a quel tempo, solo i bolscevichi si opposero risolutamente alla guerra e furono accusati dalle autorità della Russia zarista e dai patrioti russi di essere mercenari tedeschi. Pertanto, cinque deputati bolscevichi della Duma (il parlamento russo) furono esiliati in Siberia dalle autorità zariste. Il leader dei bolscevichi, Vladimir Ilyich Lenin (1870-1924), vide nella sconfitta militare della Russia l’unico e più sicuro modo per raggiungere gli obiettivi rivoluzionari dei bolscevichi, che lottavano con fervore per la distruzione della Russia zarista con ogni mezzo necessario.

Rivoluzione di febbraio/marzo

Man mano che la guerra si protraeva, divenne chiaro che più le ostilità duravano, meno il governo zarista russo era in grado di porre fine alla guerra a proprio favore. C’era anche la possibilità che il governo zarista firmasse una pace separata con le potenze centrali, dato che il fronte occidentale non si era mosso e che si stava combattendo una guerra di trincea stazionaria senza risultati significativi per entrambe le parti. In questo contesto, la Russia riteneva che gli alleati occidentali (Francia e Gran Bretagna con tutte le loro ricche colonie d’oltremare) non fossero pienamente disposti a sfondare il fronte occidentale, lasciando così la Russia in una posizione difficile sul fronte orientale. Qualcosa di simile accadde nella seconda guerra mondiale. Vale a dire, solo quando J. V. Stalin, dopo le vittoriose battaglie dell’Armata Rossa contro l’esercito tedesco nel 1943 (Stalingrado, Kursk), minacciò di avviare negoziati con i tedeschi con la possibilità di firmare una pace separata con Berlino, a meno che gli Alleati occidentali non avessero lanciato un’invasione terrestre della Germania, aprendo così il fronte occidentale. Questo stesso fronte, concordato alla Conferenza di Teheran nell’autunno del 1943, fu finalmente aperto il 6 giugno 1944 con lo sbarco degli Alleati in Normandia, Francia (D-Day).

Oltre a quanto sopra, l’operazione di Gallipoli del 1915 da parte dei membri occidentali dell’Intesa fallì e le potenze centrali invasero la Serbia nell’autunno dello stesso anno, creando in tal modo un collegamento diretto con l’Impero ottomano attraverso la Serbia e la Bulgaria. In ogni caso, il governo zarista fu spiacevolmente sorpreso dalla rivoluzione del marzo (febbraio, secondo il vecchio calendario) 1917, così come lo furono i suoi oppositori. Lo zar Nicola II (1868-1918), costretto ad abdicare il 15 marzo, fu rovesciato dal potere da contadini affamati, da un’aristocrazia disillusa e insoddisfatta e da un esercito ribelle. Il potere a San Pietroburgo fu trasferito a un governo provvisorio il cui compito era quello di governare il paese fino all’adozione di una nuova costituzione da parte dell’Assemblea costituente e, sulla base di essa, alla formazione di un governo legale. Il primo governo provvisorio non voleva far uscire la Russia dalla guerra e quindi aveva il sostegno degli Alleati occidentali, ma allo stesso tempo, d’altra parte, cadde perché non riuscì a porre fine alla guerra, che nel 1917 si stava svolgendo in modo sfavorevole per la Russia.

A quel tempo, la pace (cioè il ritiro della Russia dalla guerra) e la ridistribuzione della terra (cioè la riforma agraria) erano strettamente collegate. Va sottolineato che a quel tempo la Russia aveva pagato un prezzo enorme in termini di vittime umane a causa della sua impreparazione alla guerra e della sua incapacità di condurre una guerra moderna lunga ed estenuante, a differenza, ad esempio, della Germania. A metà del 1917, più di 15 milioni di persone erano state mobilitate in Russia. Circa 1,7 milioni di persone erano scomparse sul campo di battaglia, 4,9 milioni erano state ferite e 2,4 milioni erano state catturate. Da un lato, durante la guerra, la Russia era superiore all’Impero ottomano, alla Bulgaria e all’Austria-Ungheria, ma si rivelò una parte inferiore sul campo di battaglia principale contro il suo principale nemico, la Germania. Se la Russia si fosse ritirata dalla guerra a qualsiasi condizione, i soldati, cioè per lo più contadini in uniforme, avrebbero chiesto che venisse loro data più terra da coltivare. Se ai contadini fosse stata data la terra come parte della riforma agraria in tempo di guerra, i soldati-contadini avrebbero disertato per prendere la loro parte. Allo stesso tempo, il governo provvisorio russo dovette combattere contro nuove forme di governo: i soviet (consigli). I soviet più influenti e famosi si trovavano a Mosca e San Pietroburgo, ma altri sorsero in tutta la Russia dopo la Rivoluzione di marzo.

Le manifestazioni contro la guerra dell’aprile 1917 portarono alla caduta del primo governo provvisorio e alle dimissioni del ministro degli Esteri Milyukov (1859-1943). Tuttavia, la Russia continuò il suo sforzo bellico e i sovietici sostennero sempre più i bolscevichi, che erano favorevoli al ritiro della Russia dalla guerra, il che indubbiamente andava a vantaggio delle potenze centrali e in particolare della Germania. V. I. Lenin, che viveva all’estero dal 1900, tornò dalla Svizzera in un treno blindato con l’aiuto dei tedeschi in aprile e espose le sue richieste di una rivoluzione socialista e le sue opinioni sul socialismo nelle Tesi di aprile.

Chiedendo la pace e un graduale trasferimento del potere dal governo provvisorio ai soviet, i manifestanti nel giugno 1917 dimostrarono che, da un lato, l’influenza dei bolscevichi stava crescendo e, dall’altro, il sostegno al governo provvisorio stava rapidamente diminuendo. Nonostante il sostegno dei socialisti moderati (menscevichi e socialisti rivoluzionari), il governo provvisorio fu risolutamente osteggiato dai bolscevichi, guidati da Lenin. Dal 16 al 18 luglio 1917 a San Pietroburgo scoppiarono manifestazioni armate di operai e soldati, durante le quali i manifestanti chiesero che tutto il potere fosse trasferito ai soviet e tentarono di prendere il potere, ma il governo provvisorio represse questa ribellione. Il governo provvisorio accusò ufficialmente V. I. Lenin di essere un agente tedesco, di essere finanziato dalla Germania e di voler organizzare una rivoluzione per prendere il potere in modo illegittimo e poi concludere una pace separata con le potenze centrali a danno della Russia, facendo così uscire la Russia dalla guerra, il che avrebbe permesso alla Germania di trasferire tutti i suoi eserciti dall’est al fronte occidentale contro i francesi e gli inglesi, dando ai tedeschi un vantaggio militare cruciale sul fronte occidentale, che avrebbe probabilmente portato alla fine della guerra a favore della Germania.

Dopo il fallimento delle manifestazioni di luglio e un colpo di Stato di piazza a San Pietroburgo, Lenin fu costretto a fuggire in Finlandia (che all’epoca era di fatto separata dalla Russia), e Alexander Kerensky (1881-1970) divenne primo ministro il 22 luglio 1917 e tentò di ristabilire l’ordine nella capitale. Kerensky stesso ebbe un ruolo importante nell’attuazione delle politiche di tutti i governi provvisori della rivoluzione del 1917. Fu ministro nei primi due governi provvisori, primo ministro da luglio in poi e, dopo la repressione di una rivolta militare in settembre, divenne comandante in capo dell’esercito. Tuttavia, l’incapacità di Kerensky di risolvere i principali problemi del Paese aprì la strada a Lenin e ai suoi bolscevichi per prendere il potere nel novembre 1917 (Rivoluzione di ottobre/novembre). Lo stesso Kerenskij commise un errore fondamentale nel settembre 1917 che, più tardi, nel novembre dello stesso anno, facilitò ulteriormente il percorso dei bolscevichi verso il potere. Infatti, il generale L. G. Kornilov (1870-1918), comandante in capo del governo di Alexander Kerenskij, marciò con le sue truppe su San Pietroburgo nell’agosto 1917. Kerenskij percepì questa azione militare come un tentativo di colpo di Stato contro di lui e il governo provvisorio e, per opporsi ai golpisti, si rivolse ai bolscevichi di Lenin per ottenere assistenza armata. Questa manovra politica indicava chiaramente che Kerenskij non era in grado di superare i problemi e le sfide cruciali del momento con il solo governo provvisorio, e che doveva persino fare affidamento sui bolscevichi, che riuscirono a sfruttare questa manovra poco dopo per i loro obiettivi politici nella Rivoluzione d’Ottobre.

Rivoluzione di ottobre/novembre

V. I. Lenin tornò segretamente dalla Finlandia (così come dalla Svizzera in aprile) il 7 novembre1917 (25 ottobre secondo il calendario giuliano) a San Pietroburgo, dove organizzò una rivolta armata in cui i soldati e gli operai ribelli sotto la guida dei bolscevichi rovesciarono il governo Kerenskij e compirono un cambiamento rivoluzionario del potere e, come si scoprì in seguito, un cambiamento dell’intero sistema socio-politico dopo la guerra civile che seguì. Il Palazzo d’Inverno dello zar fu conquistato dai bolscevichi il 7 novembre, quasi senza spargimento di sangue, mentre A. Kerensky fuggiva e gli altri membri del governo provvisorio venivano arrestati. Ora i bolscevichi dovevano combattere per consolidare il loro potere contro i reazionari filo-zaristi (“bianchi”) e gli eserciti invasori occidentali. Durante la guerra civile che seguì tra i “rossi” e i “bianchi”, i bolscevichi riuscirono a usare la propaganda per presentarsi come combattenti per la salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità della Russia contro gli occupanti stranieri (occidentali) (gli americani, ad esempio, avevano occupato Vladivostok nell’agosto 1918 e l’area circostante fu mantenuta fino alla primavera del 1920, ecc.

Durante la Rivoluzione di ottobre/novembre, i lavoratori speravano che la nuova Russia sarebbe stata governata dai soviet, ma il corso degli eventi prese molto rapidamente una direzione diversa. Va notato che i contadini non parteciparono alla rivoluzione, né Lenin fece alcun tentativo cruciale durante la rivoluzione a San Pietroburgo per animare i contadini e attirarli dalla parte dei bolscevichi. La rivoluzione era marxista, e i contadini non erano visti di buon occhio dal marxismo, dato che tutta l’attenzione era concentrata sulla classe operaia (urbana-industriale) dei produttori. In molti casi i contadini erano addirittura etichettati come un elemento conservatore-reazionario. Tuttavia, il problema fondamentale dei contadini era che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione russa, ben l’80%, e senza di loro la vittoria nella guerra civile era praticamente impossibile.

A causa della base rivoluzionaria-politica molto limitata, dato che nel novembre 1917 c’erano poco meno di 300.000 bolscevichi in tutta la Russia, Lenin e i suoi compagni dovettero affrontare una forte opposizione su tutti i fronti. Al fine di espandere la base rivoluzionaria subito dopo la rivoluzione a San Pietroburgo, quando i risultati della rivoluzione dovevano essere difesi sotto la minaccia di una grave guerra civile, Lenin promise alle grandi masse popolari due cose:

1) la pace (cioè l’uscita della Russia dalla guerra in condizioni estremamente sfavorevoli dal punto di vista degli interessi nazionali) e

2) la distribuzione della terra ai contadini, che all’epoca costituivano l’80% della popolazione (cioè una riforma agraria che allo stesso tempo avrebbe provocato una contro-reazione di opposizione da parte dell’aristocrazia e dei grandi proprietari terrieri ai quali sarebbe stata confiscata la terra per distribuirla ai contadini).

I bolscevichi, per ragioni puramente politiche e non ideologiche, attuò una riforma agraria, cioè una nuova politica fondiaria, che adottò dai socialisti rivoluzionari, dato che la rivoluzione doveva essere difesa a tutti i costi. Naturalmente, sulla base dei principi del programma marxista, la terra fu nazionalizzata e collettivizzata (aziende agricole statali e collettive) poco dopo il successo della rivoluzione difensiva durante la guerra civile, cosicché alla fine i contadini furono ingannati. Tuttavia, nell’anno rivoluzionario del 1917 e negli anni successivi della guerra civile, i contadini consideravano la terra acquisita come propria.

Durante la guerra civile russa (1918-1920), il grano e alcuni altri prodotti alimentari furono requisiti con la forza dalle autorità bolsceviche per sfamare i soldati dell’Armata Rossa al fronte e la popolazione urbana nelle retrovie. Tuttavia, in risposta a questa politica, i contadini cominciarono a seminare meno grano, il che portò alla carestia e alle malattie. Alla fine, lo stesso Lenin fu costretto a cedere e, subito dopo la guerra civile, nel 1921, introdusse la NEP (Nuova Politica Economica), che favoriva i contadini, poiché si basava in parte sull’economia di mercato. L’obiettivo politico di questa politica economica, almeno per un certo periodo, era quello di non mettere i contadini contro la nuova Russia sovietica, che il 30 dicembre 1922 divenne l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’URSS.

Durante la rivoluzione bolscevica e la guerra civile (1917-1920), c’erano sostenitori di una guerra rivoluzionaria per accelerare lo sviluppo del socialismo su basi marxiste in Europa. Ciò significava in particolare esportare la rivoluzione bolscevica oltre i confini della Russia sovietica. Lenin stesso voleva prima consolidare il potere rivoluzionario bolscevico in Russia e quindi sosteneva la firma di una pace separata con le potenze centrali che avrebbe portato la Russia fuori dalla guerra e facilitato la posizione dei bolscevichi nella lotta contro la reazione zarista “bianca”. In quel periodo rivoluzionario, alcuni bolscevichi sostenevano l’abolizione del denaro, che doveva essere distrutto, e l’introduzione immediata di un’economia socialista, mentre i contadini volevano che il nuovo governo li lasciasse in pace e li lasciasse tenere le terre appena acquisite nell’ambito della riforma agraria. Tuttavia, la resistenza più feroce al governo bolscevico fu opposta dai sostenitori del sistema zarista, noti come “Guardie Bianche”.

Il trattato di Brest-Litovsk del 1918

Con la firma di una pace separata a Brest-Litovsk il 3 marzo 1918 con le potenze centrali (Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Impero ottomano), V. I. Lenin pose fine alla guerra con il principale nemico della Russia, la Germania, ma il prezzo della pace era troppo alto per la Russia. Dopo la vittoria della Rivoluzione bolscevica dell’ottobre/novembre 1917, il governo sovietico adottò immediatamente misure diplomatiche per garantire che la Russia sovietica si ritirasse dalla Grande Guerra e creare così condizioni favorevoli al consolidamento del nuovo governo bolscevico e alla ricostruzione economica del Paese. L’8 novembre 1917, il governo emanò il Decreto sulla pace, in cui si rivolgeva a tutte le parti in guerra con un appello a concludere una pace generale senza annessioni e contributi, sul principio dello status quo ante bellum. In questo modo, la mappa geopolitica dell’Europa non sarebbe cambiata, cioè sarebbe rimasta la stessa di prima della guerra. Questa proposta di pace era del tutto adeguata alla Russia, dato che a quel tempo i territori baltici della Russia a ovest erano già occupati dalla Germania e, se la guerra fosse continuata, c’era il pericolo reale che le potenze centrali occupassero presto la Bielorussia e l’Ucraina.

Le potenze dell’Intesa respinsero la proposta di Lenin e offrirono alla Russia sovietica fondi e assistenza per prolungare la guerra, considerando che il ritiro della Russia dalla guerra avrebbe dato un grande vantaggio alle potenze centrali, anche se gli Stati Uniti erano entrati in guerra nell’aprile 1917. Tuttavia, Lenin respinse risolutamente questa proposta dell’Intesa, sostenendo che l’ulteriore partecipazione della Russia alla guerra l’avrebbe trasformata in un agente dell’imperialismo anglo-francese. Tuttavia, le cose andarono più facilmente con le potenze centrali, perché la Germania era essenzialmente interessata al ritiro della Russia dalla guerra. Così, la Russia sovietica firmò un armistizio con le potenze centrali il 15 dicembre 1917 a Brest-Litovsk e il 22 dicembre iniziarono i negoziati finali per la firma di un trattato di pace separato tra le potenze centrali e la Russia sovietica. A quel punto, la Russia aveva perso un vasto territorio a ovest, dall’Estonia al Mar Nero, e le truppe tedesche avevano sfondato sul fiume Dnieper. Kiev fu occupata all’inizio di gennaio del 1918. Il 18 gennaio 1918, una delegazione delle potenze centrali chiese alla Russia di rinunciare a tutti i territori occupati a ovest come condizione per la firma della pace. Contemporaneamente a questi negoziati, il governo controrivoluzionario ucraino, protetto dalla Germania, avviò dei negoziati e il 9 febbraio 1918 concluse una pace separata con le potenze centrali, che ora chiedevano in modo intransigente e con un ultimatum che Mosca accettasse i termini dettati per la pace. Il capo della delegazione negoziale della Russia sovietica, Leon Trotsky (vero nome Lev Davidovich Bronstein, 1879-1940), contrariamente alle istruzioni di Lenin, interruppe i negoziati il 10 febbraio con una dichiarazione di rifiuto di firmare il trattato di pace, annunciò la fine della guerra e la smobilitazione dell’esercito russo.

L’esercito tedesco decise di approfittare della nuova situazione sul fronte orientale e il 18 febbraio 1918 lanciò un’offensiva lungo l’intera linea del fronte. Il governo sovietico dovette quindi richiedere la ripresa dei negoziati e la pace fu finalmente firmata il 3 marzo, ma a condizioni ancora più difficili di quelle rifiutate da Trotsky. In particolare, con il trattato di Brest-Litovsk, la Russia sovietica rinunciò alla Polonia, alla Lituania e alla Curlandia (le regioni occidentali della Livonia/Lettonia) e riconobbe l’indipendenza dell’Ucraina, dell’Estonia, della Livonia/Lettonia e della Finlandia. Queste aree dovevano essere evacuate immediatamente. La Russia dovette cedere Ardahan, Kars e Batumi all’Impero ottomano. Le truppe tedesche e austro-ungariche occuparono anche parte del territorio russo oltre il confine stabilito dal trattato di pace (insieme all’Ucraina) fino a Rostov sul Don a sud e Narva a nord. Il trattato di Brest-Litovsk ebbe vita breve, poiché la Germania capitolò l’11 novembre e il governo sovietico annullò il trattato due giorni dopo. Tuttavia, la firma di questo trattato diede inizio alla guerra civile russa, poiché i bolscevichi furono dichiarati traditori e agenti tedeschi dai reazionari zaristi.

La guerra civile russa, che durò dal 1918 alla fine del 1920, divise il paese tra i sostenitori della rivoluzione bolscevica e del loro governo e i loro oppositori, che sostenevano l’ex regime zarista. Dopo la firma del trattato di Brest-Litovsk, le forze dell’Intesa entrarono in Russia per impedire ai tedeschi di occupare i centri chiave. Dopo la capitolazione tedesca nel novembre 1918, le truppe alleate rimasero in Russia per aiutare i Bianchi a combattere il peso della guerra civile. Lenin sfruttò questa situazione a fini propagandistici per presentare il governo sovietico come combattente contro l’occupazione straniera e per l’indipendenza russa. I bolscevichi, che avevano sciolto l’esercito zarista, dato la terra ai contadini e chiesto una pace separata, dovettero creare rapidamente una nuova forza militare per opporsi ai Bianchi e agli Alleati. Fu così che nacque l’Armata Rossa bolscevica, di cui Trotsky fu il principale artefice. I soldati dell’Armata Rossa dovettero combattere contro i “Verdi” (anarchici), i polacchi e i dissidenti in tutta la Russia, da San Pietroburgo a Vladivostok. Nell’Estremo Oriente russo combatterono contro le invasioni americane e giapponesi. Durante la guerra civile russa, il 17 luglio 1918 i bolscevichi giustiziarono tutti i membri della dinastia zarista dei Romanov per motivi politici e di sicurezza. Alla fine della guerra civile, i bolscevichi con la loro Armata Rossa vinsero.

La nuova Russia sovietica post-rivoluzionaria

Dopo il trattato di Brest-Litovsk e la fine della guerra civile, la Russia sovietica bolscevica dovette accontentarsi di un territorio più piccolo rispetto al vecchio Impero russo. Le zone di confine a ovest – Finlandia, Estonia, Livonia/Lettonia, Lituania, parti della Bielorussia e dell’Ucraina, Polonia e Bessarabia/Moldavia – furono perse, almeno per un certo periodo. Tuttavia, nelle tre repubbliche indipendenti della Transcaucasia – Georgia, Armenia e Azerbaigian – la strada verso il potere era aperta per i bolscevichi dopo l’evacuazione degli inglesi dalla Transcaucasia nel dicembre 1919. Grazie all’intervento dell’Armata Rossa, la Transcaucasia tornò ai confini della Russia nell’aprile 1921.

Il primo grande problema che il nuovo governo sovietico dovette affrontare dopo la vittoria nella guerra civile fu la carestia che imperversò durante l’inverno del 1921/1922 e causò circa 5 milioni di vittime. Fu anche la ragione principale del crollo dell’economia russa nel 1921. Alla fine del 1920, le Guardie Bianche furono completamente sconfitte e gli Alleati si ritirarono dalla Russia. I sette anni di guerra dal 1914 alla fine del 1920 portarono la Russia in uno stato di vero caos. L’insoddisfazione della popolazione era causata dall’inflazione, dalla carenza di cibo e combustibile, ma anche dalle misure autocratiche sempre più severe delle nuove autorità sovietiche, introdotte per superare le minacce interne ed esterne che incombevano sul giovane Stato sovietico. Nel 1921 Lenin introdusse la Nuova Politica Economica (NEP) per incoraggiare la ripresa economica ma anche per placare i contadini, consentendo così un’economia di mercato limitata e una produzione più libera. Il periodo della NEP fu anche un periodo di significativa libertà, che si espresse anche nelle arti.

Il problema della successione di Lenin rimaneva. Lenin stesso preferiva Trotsky come suo successore, ma alla fine Joseph Stalin (1879-1953) si rivelò il politico più capace di prendere il potere dopo la morte di Lenin nel 1924, in seguito a una malattia nel 1922. Fu quindi formato un triumvirato per governare il paese: Zinoviev (1883-1936), Kamenev (1883-1936) e Stalin. Lenin non si fidava di Stalin, il cui principale rivale per il potere era Trotsky. Grazie ad abili manovre politiche e al controllo dell’apparato del partito, Stalin riuscì ad eliminare Trotsky, ad assumere la guida sia del partito che dello Stato e infine a instaurare una dittatura personale e un culto della personalità. La seconda metà degli anni ’30 fu il periodo delle purghe politiche di Stalin, quando la Rivoluzione di ottobre/novembre divorò i suoi figli, tranne Stalin.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre

Revolutions in Russia in 1917: February and October

Russia in the Great War

Both revolutions of 1917 in Russia, the so-called February and the so-called October, took place during World War I (the Great War) when Russia fought against the Central Powers and their allies as a full member of the Entente powers together with France and Great Britain and their allies (i.e. associated members), including the Kingdom of Serbia, for which Tsarist Russia selflessly and self-sacrificing entered the war, even though in the summer of 1914 it was not sufficiently prepared for war against the Central Powers, especially in terms of purely military parameters. However, in August 1914, in St. Petersburg, moral and cultural-historical reasons prevailed rather than purely military-political ones, given that Russia, i.e., its Tsar Nicholas II, decided to defend Serbia’s independence at all costs against Pan-German imperialism and Berlin’s policy of Drang nach Osten (driving through the Balkans to Basra and the Persian Gulf).

Although Russia reluctantly entered the Great War in 1914, it entered it with great enthusiasm and faith in a final victory. However, soon after the initial military successes, it became clear that the Russian army was unable to effectively confront the army of the Second German Reich, which was then the strongest military land force in Europe. The first days of war enthusiasm in the Russian army began to disappear after the heavy defeat at Tannenberg in the summer of 1914, during the first month of the German offensive on the Eastern Front (the so-called Second Battle of Tannenberg or Grünwald, August 23rd–30th, 1914).

In Russia at that time, only the Bolsheviks resolutely opposed the war, and they were accused by the authorities of Tsarist Russia and Russian patriots of being German mercenaries. Therefore, five Bolshevik deputies in the Duma (Russian parliament) were exiled to Siberia by the Tsarist authorities. The leader of the Bolsheviks, Vladimir Ilyich Lenin (1870‒1924), saw in the military defeat of Russia the only and surest way to achieve the revolutionary goals of the Bolsheviks, who were fighting fervently for the destruction of Tsarist Russia by any means necessary.

February/March Revolution

It became clear as the war dragged on that the longer the hostilities lasted, the less capable the Tsarist Russian government was of bringing the war to an end in its favor. There was also the possibility that the Tsarist government would sign a separate peace with the Central Powers, given that the Western Front had not moved and that a stationary trench war was being waged without any major results for either side. In this context, Russia believed that the Western Allies (France and Britain with all their rich overseas colonies) were not fully willing to break through the Western Front, thus leaving Russia in a difficult position on the Eastern Front. Something similar happened in World War II. Namely, only when J. V. Stalin, after the successful battles of the Red Army against the German army in 1943 (Stalingrad, Kursk), threatened to begin negotiations with the Germans with the possibility of signing a separate peace with Berlin unless the Western Allies launched a ground invasion of Germany, thus opening the Western Front. This same front, agreed upon at the Tehran Conference in the fall of 1943, was finally opened on June 6th, 1944, with the Allied landings in Normandy, France (D-Day).

In addition to the above, the Gallipoli Operation of 1915 by the Western members of the Entente failed, and the Central Powers overran Serbia in the autumn of that year making at such a way a direct connection with the Ottoman Empire via Serbia and Bulgaria. In any case, the Tsarist government was unpleasantly surprised by the revolution in March (February, according to the old calendar) 1917, as were its opponents. Tsar Nicholas II (1868–1918), who was forced to abdicate on March 15th, was overthrown from power by hungry peasants, a disillusioned and dissatisfied aristocracy, and a rebel army. Power in St. Petersburg was transferred to a provisional government whose task was to govern the country until a new constitution could be adopted by the Constituent Assembly, and based on it, a legal government would be formed. The first provisional government did not want to take Russia out of the war and therefore had the support of the Western Allies, but at the same time, on the other hand, it fell because it failed to end the war, which in 1917 was unfolding unfavorably for Russia.

At that time, peace (i.e., Russia’s withdrawal from the war) and land redistribution (i.e., agrarian reform) were in the closest connection. It must be emphasized that by that time, Russia had paid a huge price in human casualties due to its unpreparedness for war and its inability to wage a long and exhausting modern war, unlike, for example, Germany. By mid-1917, more than 15 million people had been mobilized in Russia. About 1.7 million people had disappeared on the battlefield, 4.9 million were wounded, and 2.4 million were captured. On the one hand, during the war, Russia was superior to the Ottoman Empire, Bulgaria, and Austria-Hungary, but it proved to be an inferior side on the main battlefield against its main enemy, Germany. If Russia had withdrawn from the war under any conditions, the soldiers, i.e., mostly peasants in uniform, would demand that they be given more land to cultivate. If peasants were given land as part of the wartime agrarian reform, the soldier-peasants would desert to take their share. At the same time, the Russian provisional government had to fight against new forms of governing – ​​the soviets (councils). The most influential and famous soviets were located in Moscow and St. Petersburg, but others sprang up throughout Russia after the March Revolution.

The April 1917 demonstrations against the war led to the fall of the first provisional government and the resignation of Foreign Minister Milyukov (1859–1943). However, Russia continued its war effort, and the soviets increasingly supported the Bolsheviks, who were in favor of Russia’s withdrawal from the war, which undoubtedly suited the Central Powers and especially Germany. V. I. Lenin, who had lived abroad since 1900, returned from Switzerland in an armored train with the help of the Germans in April and set out his demands for a socialist revolution and his views on socialism in the April Theses.

Demanding peace and a gradual transfer of power from the provisional government to the soviets, the demonstrators in June 1917 showed that, on the one hand, the influence of the Bolsheviks was growing, and on the other hand, support for the provisional government was rapidly declining. Despite the support of moderate socialists (Mensheviks and social revolutionaries), the provisional government was resolutely opposed by the Bolsheviks, led by Lenin. Armed demonstrations of workers and soldiers broke out in St. Petersburg on July 16th‒18th, 1917, when the demonstrators demanded all power from the soviets and tried to seize power, but the provisional government suppressed this rebellion. The provisional government officially accused V. I. Lenin of being a German agent, of being financed by Germany, and of aiming to stage a revolution in order to seize power illegitimately and then conclude a separate peace with the Central Powers to the detriment of Russia, thus taking Russia out of the war, which would allow Germany to transfer all of its armies in the east to the Western Front against the French and British, which would give the Germans a crucial military advantage on the Western Front, which would likely lead to the end of the war in Germany’s favor.

After the failed July demonstrations and a street coup in St. Petersburg, Lenin was forced to flee to Finland (which was then effectively separated from Russia), and Alexander Kerensky (1881–1970) became Prime Minister on July 22nd, 1917, and attempted to restore order in the capital. Kerensky himself played an important role in implementing the policies of all the provisional governments of the revolutionary 1917. He was a minister in the first two provisional governments, Prime Minister from July onwards, and after the suppression of a military uprising in September, he became Commander-in-Chief of the Army. However, Kerensky’s failure to resolve the country’s major problems paved the way for Lenin and his Bolsheviks to seize power in November 1917 (October/November Revolution). Kerensky himself made a cardinal mistake in September 1917 that, later in November, further facilitated the Bolsheviks’ path to power. Namely, General L. G. Kornilov (1870–1918), commander-in-chief in the government of Alexander Kerensky, marched with his troops on St. Petersburg in August 1917. Kerensky actually perceived this military action as an attempted coup against him and the Provisional Government, and in order to oppose the putschists, he turned to Lenin’s Bolsheviks for armed assistance. This political maneuver clearly indicated that Kerensky was unable to overcome the crucial problems and challenges at the given moment with the Provisional Government alone, and he even had to rely on the Bolsheviks, who were able to exploit this maneuver somewhat later for their political goals in the October Revolution.

October/November Revolution

V. I. Lenin secretly returned from Finland (as well as from Switzerland in April) on November 7th, 1917 (October 25th according to the Julian calendar) to St. Petersburg, where he organized an armed uprising in which the rebel soldiers and workers under the leadership of the Bolsheviks overthrew the Kerensky government and carried out a revolutionary change of power and, as it later turned out, a change of the entire socio-political system after the civil war that followed. The Tsar’s Winter Palace was captured by the Bolsheviks on November 7th, almost bloodlessly, while A. Kerensky fled, and the other members of the Provisional Government were arrested. Now the Bolsheviks were left to fight to consolidate their power against the pro-tsarist reactionaries (“Whites”) and the Western invading armies. During the ensuing civil war between the “Reds” and “Whites”, the Bolsheviks managed to use propaganda to present themselves as fighters for preserving the independence and integrity of Russia against the foreign (Western) occupiers (the Americans, for example, had occupied Vladivostok in August 1918 and the area around was kept till spring 1920, etc.).

During the October/November Revolution, the workers hoped that the new Russia would be ruled by the soviets, but the course of events very quickly took a different course. It should be noted that the peasantry did not participate in the revolution, nor did Lenin make any crucial attempts during the revolution in St. Petersburg to animate the peasants and attract them to the side of the Bolsheviks. The revolution was Marxist, and the peasantry was not viewed very favorably in Marxism, given that all attention was focused on the working (urban-industrial) class of producers. The peasantry was even labeled in many cases as a conservative-reactionary element. However, the basic problem with the peasantry was that the peasants constituted the overwhelming majority of the population of Russia, as much as 80%, and without them, victory in the civil war was practically impossible.

Due to the very limited revolutionary-political base, given that in November 1917 there were slightly less than 300,000 Bolsheviks in all of Russia, Lenin and his comrades faced great opposition on all fronts. In order to expand the revolutionary base immediately after the revolution in St. Petersburg, when the achievements of the revolution had to be defended under the threat of a severe civil war, Lenin promised the broad masses of the people two things:

1) Peace (i.e., Russia’s exit from the war under extremely unfavorable conditions from the point of view of national interests), and

2) The distribution of land to the peasants, who at that time constituted 80% of the population (i.e., an agrarian reform that at the same time would provoke an oppositional counter-reaction of the aristocracy and large landowners from whom the land was to be confiscated for distribution to the peasants).

The Bolsheviks, for purely political reasons, but not ideological ones, implemented an agrarian reform, i.e., a new land policy, which they adopted from the social revolutionaries, given that the revolution had to be defended at all costs. Of course, based on Marxist program principles, the land was nationalized and collectivized (state farms and collective farms) shortly after the successful defense revolution during the civil war, so that in the end, the peasants were cheated. However, in the revolutionary year of 1917 and in the following years of the civil war, the peasants considered the acquired land their own.

During the Russian Civil War (1918‒1920), grain and some other food products were forcibly requisitioned by the Bolshevik authorities in order to feed the Red Army soldiers at the military front and the urban population in the background. However, in response to this policy, the peasants began to sow less grain, which led to famine and disease. Finally, Lenin himself was forced to give in, and immediately after the Civil War, in 1921, he introduced the NEP – the New Economic Policy, which was in favor of the peasants, since it was based partly on a market economy. The political goal of this economic policy, at least for a while, was not to turn the peasants against the new Soviet Russia, which on December 30th, 1922, became the Union of Soviet Socialist Republics – the USSR.

During the Bolshevik Revolution and the Civil War (1917–1920), there were supporters of a revolutionary war in order to accelerate the development of socialism on Marxist foundations in Europe. This specifically meant exporting the Bolshevik revolution beyond the borders of Soviet Russia. Lenin himself wanted to first consolidate Bolshevik revolutionary power in Russia and therefore advocated signing a separate peace with the Central Powers that would take Russia out of the war and make the Bolsheviks’ position easier in the fight against the “white” tsarist reaction. At that revolutionary time, some Bolsheviks advocated the abolition of money, which should be destroyed, as well as the overnight introduction of a socialist economy, while the peasants wanted the new government to leave them alone and their newly acquired land within the framework of agrarian reform. However, the fiercest resistance to the Bolshevik government was provided by supporters of the tsarist system known as the “White Guards”.

The Treaty of Brest-Litovsk in 1918

By signing a separate peace in Brest-Litovsk on March 3rd, 1918, with the Central Powers (Germany, Austria-Hungary, Bulgaria, and the Ottoman Empire), V. I. Lenin ended the war with Russia’s main enemy, Germany, but the price of peace was too high for Russia. After the victory of the October/November Bolshevik Revolution in 1917, the Soviet government immediately took diplomatic measures to ensure that Soviet Russia would withdraw from the Great War and thus create favorable conditions for the consolidation of the new Bolshevik government and the economic reconstruction of the country. On November 8th, 1917, the government issued the Decree on Peace, in which it addressed all warring parties with an appeal to conclude a general peace without annexations and contributions on the principle of status quo ante bellum. Thus, the geopolitical map of Europe would not change, i.e., it would remain the same as before the war. This peace proposal was entirely suitable for Russia, given that at that time the Baltic territories of Russia in the west were already occupied by Germany, and if the war were to continue, there was a real danger that the Central Powers would soon occupy Belarus and Ukraine.

The Entente powers rejected Lenin’s proposal and offered Soviet Russia funds and assistance to prolong the war, considering that Russia’s withdrawal from the war would give a great advantage to the Central Powers, even though the United States had entered the war in April 1917. However, Lenin resolutely rejected this Entente proposal, arguing that Russia’s further participation in the war would turn it into an agent of Anglo-French imperialism. However, things went more easily with the Central Powers, because Germany was essentially interested in Russia’s withdrawal from the war. Thus, Soviet Russia signed an armistice with the Central Powers on December 15th, 1917, in Brest-Litovsk, and on December 22nd, final negotiations began for the signing of a separate peace treaty between the Central Powers and Soviet Russia. By then, Russia had lost a huge territory in the west from Estonia to the Black Sea, and German troops had broken out on the Dnieper River. Kiev was occupied in early January 1918. On January 18th, 1918, a delegation of the Central Powers demanded that Russia renounce all occupied territories in the west as a condition for signing a peace. Simultaneously with these negotiations, the Ukrainian counter-revolutionary government, which was patronized by Germany, began negotiations and on February 9th, 1918, concluded a separate peace with the Central Powers, which now uncompromisingly and ultimatum-wise demanded that Moscow accept the dictated terms for peace. The head of the negotiating team of Soviet Russia, Leon Trotsky (real name Lev Davidovich Bronstein, 1879–1940), contrary to Lenin’s instructions, broke off the negotiations on February 10th, with a declaration of refusal to sign the peace treaty, announced the end of the war, and the demobilization of the Russian army.

The German army decided to take advantage of the new situation on the Eastern Front, and on February 18th, 1918, the Germans launched an offensive along the entire front line. The Soviet government, therefore, had to request the renewal of negotiations, and peace was finally signed on March 3rd, but now under even more difficult conditions than those rejected by Trotsky. Specifically, with the Treaty of Brest-Litovsk, Soviet Russia renounced Poland, Lithuania, and Courland (the western regions of Livland/Latvia), and recognized the independence of Ukraine, Estonia, Livland/Latvia, and Finland. These areas had to be evacuated immediately. Russia had to hand over Ardahan, Kars, and Batumi to the Ottoman Empire. German and Austro-Hungarian troops also occupied part of Russian territory beyond the border stipulated by the peace treaty (along with Ukraine) as far as Rostov-on-Don in the south and Narva in the north. The Treaty of Brest-Litovsk was short-lived, as Germany capitulated on November 11th, and the Soviet government annulled the treaty two days later. However, the signing of this treaty initiated the Russian Civil War, as the Bolsheviks were declared traitors and German agents by the tsarist reactionaries.

The Russian Civil War, which lasted from 1918 to the end of 1920, divided the country into supporters of the Bolshevik revolution and their government and their opponents, who supported the former tsarist regime. After the signing of the Treaty of Brest-Litovsk, the Entente forces entered Russia to prevent the Germans from occupying key centers. After the German capitulation in November 1918, Allied troops remained in Russia to help the Whites fight the burden of the civil war. Lenin used this for propaganda purposes to present the Soviet government as fighting against foreign occupation and for Russian independence. The Bolsheviks, who had disbanded the tsarist army, given land to the peasants, and demanded a separate peace, had to quickly create their new military force to oppose the Whites and the Allies. Thus was created the Bolshevik Red Army, for which Trotsky was the most deserving. The Red Army soldiers had to fight with the “Greens” (anarchists), Poles, and dissidents throughout Russia from St. Petersburg to Vladivostok. In the Russian Far East, they fought against the American and Japanese invasions. During the Russian Civil War, the Bolsheviks on July 17th, 1918 executed all members of the Romanov tsarist dynasty for political and security reasons. At the end of the civil war, the Bolsheviks with their Red Army won.

The New Post-Revolutionary Soviet Russia

After the Treaty of Brest-Litovsk and the end of the Civil War, Bolshevik Soviet Russia had to be satisfied with a smaller territory than the old Russian Empire. The borderlands in the west – Finland, Estonia, Livland/Latvia, Lithuania, parts of Belarus and Ukraine, Poland, and Bessarabia/Moldova – were lost, at least for a time. However, in the three independent Transcaucasian republics – Georgia, Armenia, and Azerbaijan – the path to power was open for the Bolsheviks after the evacuation of the British from Transcaucasia in December 1919. Thanks to the intervention of the Red Army, Transcaucasia returned to the borders of Russia in April 1921.

The first major problem that the new Soviet government had to face after the victory in the civil war was the famine that raged during the winter of 1921/1922 and claimed about 5 million lives. It was also the main reason for the collapse of the Russian economy in 1921. By the end of 1920, the White Guards were completely defeated, and the Allies withdrew from Russia. The seven years of war from 1914 to the end of 1920 brought Russia into a state of true chaos. The people’s dissatisfaction was caused by inflation, food and fuel shortages, but also by the increasingly harsh autocratic measures of the new Soviet authorities, which were introduced to overcome the internal and external threats that threatened the young Soviet state. In 1921, Lenin introduced the New Economic Policy (NEP) to encourage economic recovery but also to appease the peasants, thus allowing a limited market economy and freer production. The NEP period was also a period of significant freedom, which was also expressed in the arts.

The problem of the succession of Lenin remained. Lenin himself favored Trotsky as his successor, but in the end, Joseph Stalin (1879–1953) proved to be the most capable politician to seize power after Lenin’s death in 1924, following an illness in 1922. A triumvirate was then formed to rule the country: Zinoviev (1883–1936), Kamenev (1883–1936), and Stalin. Lenin did not trust Stalin, whose main rival for power was Trotsky. Through skillful political maneuvering and control of the party machinery, Stalin managed to eliminate Trotsky, take over leadership of both the party and the state, and finally establish a personal dictatorship and a cult of personality. The period of the second half of the 1930s was the time of Stalin’s political purges when the October/November Revolution ate its children except Stalin.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

USA vs CINA_di Cesare Semovigo

Le relazioni tra Stati Uniti e Cina nel 2025 incarnano quella che gli analisti del Council on Foreign Relations definiscono una competizione gestita, un eufemismo per un duello geopolitico dove ogni concessione cela una mossa calcolata. Con il ritorno di Donald Trump alla presidenza, si osserva un pragmatismo commerciale evidente nella riduzione del dieci per cento sulle tariffe cinesi in cambio di importazioni agricole e una moratoria sui controlli alle terre rare, ma la traiettoria sottesa rimane immutata: Pechino persegue una multipolarità attraverso la fusione civile-militare, mentre Washington un contenimento tecnologico mediante alleanze come quella denominata AUKUS. Tali accordi, tuttavia, esibiscono una fragilità intrinseca, con una probabilità di sopravvivenza oltre il 2026 stimata tra il cinquanta e il sessanta per cento, influenzata dalla volatilità interna statunitense e dalla resilienza economica cinese, che ha incrementato la produzione domestica di semiconduttori del venticinque per cento dal 2023, mitigando dipendenze da fornitori esteri. Nel contesto post-pandemia, le interruzioni nelle catene di fornitura hanno accelerato questo decoupling, con proiezioni economiche che anticipano un calo del cinque-otto per cento nella crescita globale in caso di escalation. Integrando elementi dal complesso militare-industriale di entrambe le parti, rapporti recenti evidenziano come aziende cinesi occultino legami con il complesso militare-industriale per eludere divieti statunitensi sugli investimenti, mentre rumors su ritardi in progetti statunitensi – come quello dell’F-35 e dei sottomarini nucleari – derivano da restrizioni cinesi su minerali critici. Competizioni emergono nell’intelligenza artificiale militare, con la Cina che sfrutta modelli come DeepSeek per erodere profitti statunitensi, e un mega-comando cinese occidentale che supera di dieci volte il Pentagono in scala operativa. Contesti passati rivelano radici nella normalizzazione del 1979, quando Deng Xiaoping e Jimmy Carter posero le basi per un’integrazione economica che ha visto il commercio bilaterale superare i seicentonovanta miliardi di dollari nel 2023, prima delle tariffe; scenari futuri, come delineato dal RAND Corporation, prevedono una stabilizzazione parziale attraverso dialoghi militari, ma con rischi di confronto ibrido nel Pacifico entro il 2030, dove la Cina potrebbe raggiungere parità nucleare. Nella sfera difensiva, l’Esercito Popolare di Liberazione cinese prosegue una modernizzazione che il Pentagono qualifica come sfida primaria, con un arsenale nucleare superiore alle seicento testate e proiezioni verso le mille entro il 2030, sostenuto da una triade integrata composta da missili DF-41, sottomarini JL-3 e bombardieri H-20. Questa evoluzione, spesso presentata da Pechino come deterrenza minima contro interventi statunitensi su Taiwan, cela un’ambizione più ampia, come nota il Brookings Institution: un riequilibrio asimmetrico che privilegia armi ipersoniche e sistemi anti-accesso/area-denial. L’accordo del novembre 2025 tra i ministri della Difesa – Pete Hegseth e Dong Jun – per canali diretti mira a mitigare rischi di incidenti, con riduzione stimata del venti-trenta per cento, ma non affronta le divergenze sostanziali, inclusa la critica cinese alle vendite armate statunitensi a Taiwan per oltre quattrocento milioni di dollari non autorizzati. Gli Stati Uniti mantengono una superiorità convenzionale, ma la Cina eccelle in domini ibridi, con rischi di escalation non intenzionale al quaranta per cento nei prossimi cinque anni. Paralleli storici con l’espansione sovietica negli anni Ottanta emergono, ma con enfasi su cyber e spazio: la Cina ha intensificato esercitazioni nel Pacifico del trentacinque per cento dal 2024. Dal complesso militare-industriale, rumors indicano ritardi statunitensi in programmi come F-35, sottomarini e F-47 dovuti a dipendenze da componenti cinesi per il quarantuno per cento delle armi statunitensi, mentre Pechino accelera su portaerei di quinta generazione, sottomarini nucleari e jet stealth con incrementi del quaranta per cento. Competizioni si acuiscono in missili ipersonici, con il Pentagono che testa sistemi Typhon nelle Filippine, e voci di simulazioni high-tech warfare che isolano zone cinesi, come riportato dal Wall Street Journal. Contesti passati includono il pivot to Asia dell’amministrazione Obama nel 2011, che ha spostato il sessanta per cento delle forze navali statunitensi nel Pacifico, mentre proiezioni future dal Center for Strategic and International Studies suggeriscono che entro il 2035 la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti in capacità di proiezione di potenza regionale, rendendo Taiwan un flashpoint con probabilità di conflitto al trenta per cento. La sicurezza energetica cinese, con il settanta per cento del petrolio e il quarantuno per cento del gas importati, rappresenta una leva per Washington, che impiega sanzioni su semiconduttori per ostacolare la transizione rinnovabile di Pechino, con ritardo del dieci-quindici per cento. Eppure, come osserva l’International Energy Agency, la Cina ha raggiunto il cinquanta per cento di capacità rinnovabile nel 2024, superando obiettivi del 2030, diversificando via pipeline con Russia e Kazakhstan e riducendo esposizione allo Stretto di Malacca del quindici-venti per cento. L’espansione nucleare, inclusi reattori CFR-600, solleva interrogativi dual-use, con potenziale produzione di plutonio per applicazioni militari. L’accordo Trump-Xi incorpora elementi energetici, ma persiste il rischio di disruption al venticinque per cento da instabilità mediorientali, come gli attacchi Houthi. Importazioni cinesi dal Golfo per il quarantasei per cento e dalla Russia per il diciannove per cento riflettono alleanze opportunistiche. Dal complesso militare-industriale, restrizioni cinesi su minerali critici impattano progetti energetici statunitensi, come batterie per sottomarini nucleari, mentre Pechino integra Made in China 2025 con fusione complesso militare-industriale-energia, accelerando reattori per usi ibridi. Competizioni: gli Stati Uniti spingono su litio africano, la Cina domina fornitori globali. Rumors indicano concessioni statunitensi su chip intelligenza artificiale e motori jet per COMAC cinese, rivelando dipendenze reciproche. Contesti passati tracciano alla guerra commerciale del 2018, che ha imposto tariffe su trecentosessanta miliardi di beni cinesi, mentre futuri scenari dall’Energy Information Administration proiettano che entro il 2040 la Cina potrebbe controllare il sessanta per cento della transizione energetica globale, esacerbando dipendenze statunitensi su batterie e rinnovabili. Lo spazio si configura come arena di rivalità raffinata, con Pechino che contesta il Golden Dome statunitense come violazione del Trattato sullo Spazio Esterno. I sessantasette lanci satellitari cinesi nel 2023 segnano un avanzamento verso superiorità in intelligence, reconnaissance e sorveglianza, con armi anti-satellite capaci di neutralizzare asset avversari. L’economia spaziale globale, valutata seicento miliardi di dollari con proiezioni a novecentoquarantaquattro entro il 2033, suggerisce potenzialità collaborative, ma i rischi di arms race persistono al settanta per cento in assenza di regolamentazioni, come avverte l’Economist Intelligence Unit. Gli Stati Uniti rispondono con la Space Force e partnership come Starlink, mentre la Cina esporta tecnologie spaziali a trentasei paesi e amplia capacità dual-use attraverso cinque stazioni antartiche. L’integrazione spaziale nell’Esercito Popolare di Liberazione ha visto un incremento del quaranta per cento in satelliti intelligence, reconnaissance e sorveglianza dal 2022, parallelo ai programmi Artemis statunitensi. Dal complesso militare-industriale, rumors su inefficacia del Golden Dome contro ipersonici cinesi, russi e iraniani, con costi trilionari che alimentano dibattiti sul ritorno degli investimenti statunitensi. Competizioni: la Cina mira a rivedere il Trattato Antartico nel 2048, gli Stati Uniti rafforzano strategia Artica 2024. Contesti passati richiamano il lancio Sputnik del 1957, che ha innescato la corsa spaziale Stati Uniti-Unione Sovietica, mentre futuri dal Center for Strategic and International Studies indicano che entro il 2035 la Cina potrebbe dominare il trenta per cento dell’economia spaziale, con rischi di conflitto orbitale al cinquanta per cento. La Cina aderisce a una politica no-first-use e promuove zone libere da armi nucleari, criticando potenziali resumption di test nucleari statunitensi sotto Trump. Come quarto esportatore globale di armi con UAV e missili a Algeria, Pakistan, fornisce beni dual-use a Russia per il conflitto ucraino, con un incremento del venti per cento nelle esportazioni dal 2023 secondo SIPRI. Il rischio di un accordo bilaterale sul controllo armi è stimato al quarantacinque per cento entro il 2027, ma tali dinamiche alimentano tensioni indirette. Gli Stati Uniti enfatizzano la prevenzione di armi di distruzione di massa, percependo l’espansione cinese come destabilizzante. Dal complesso militare-industriale, voci su proliferazione indiretta cinese attraverso vendite in Medio Oriente e Africa alterano equilibri regionali, mentre proposte bilaterali includono divieti su armi nucleari in orbita. Contesti passati risalgono al Trattato di Non Proliferazione del 1968, che entrambi hanno firmato, mentre futuri dal RAND Corporation proiettano che entro il 2040 la Cina potrebbe esportare il venticinque per cento delle armi globali, sfidando il dominio Stati Uniti. Il dominio cinese sull’ottantacinque per cento delle terre rare, con licenze restrittive su gallio al novantotto per cento e germanio al sessantotto per cento, funge da strumento di ritorsione contro controlli statunitensi. Investimenti statunitensi in Africa per un virgola cinquantacinque miliardi in litio RD Congo mirano a ridurre dipendenza del venti per cento entro il 2030, ma la sospensione cinese del 2025 appare transitoria, impattando catene high-tech con costi globali del cinque-dieci per cento. Estrazioni cinesi a duecentoquarantamila tonnellate metriche nel 2024 contro quarantatremila statunitensi evidenziano un divario persistente. Dal complesso militare-industriale, queste risorse critiche strangolano progetti militari statunitensi, come notano rapporti dell’Information Technology and Innovation Foundation su occultamento di legami aziendali cinesi. Contesti passati includono l’embargo cinese del 2010 su terre rare verso il Giappone, che ha innescato diversificazioni globali, mentre futuri dall’US Geological Survey prevedono che entro il 2040 la Cina controllerà il settanta per cento del mercato, con rischi di shortage per l’elettronica militare Stati Uniti. La Cina consolida estrazioni in Africa con cobalto RD Congo, con investimenti Belt and Road raddoppiati nel 2023, base a Gibuti e duemiladuecento peacekeeper ONU. Gli Stati Uniti controbilanciano con partenariati, riducendo dipendenza cinese del dieci-quindici per cento. Accordi cinesi per cinquanta miliardi nel 2024 contro venti statunitensi generano soft power, ma sollevano dibattiti su debt-trap. Dal complesso militare-industriale, competizione intensifica instabilità, con Cina che integra risorse in strategie ibride. Contesti passati tracciano alla Belt and Road Initiative del 2013, che ha investito oltre un trilione in infrastrutture, mentre futuri dal Center for Strategic and International Studies indicano che entro il 2035 la Cina potrebbe controllare il quaranta per cento delle risorse africane critiche, con rischi di conflitti proxy. La fusione civile-militare cinese integra intelligenza artificiale e droni, con controlli Stati Uniti che estendono divieti su chip, ritardando Pechino del quindici per cento ma stimolando innovazione interna. Esportazioni dual-use cinesi più diciotto per cento nel 2025, impattando robotica e biotech. Dal complesso militare-industriale, legami intelligenza artificiale civile-militare cinesi sfidano Stati Uniti, con centinaia di aziende coinvolte, come avverte un think tank statunitense. Contesti passati risalgono al Made in China 2025 del 2015, che ha fuso settori, mentre futuri dal MIT Technology Review proiettano che entro il 2030 la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti in intelligenza artificiale militare, con rischi di arms race al settanta per cento. Escalation Stati Uniti contro Maduro, con dispiegamenti nel Caribe; Russia rafforza trattati, Venezuela cerca Cina. Pechino evita intervento militare: manca proiezione emisferica, rischi sanzioni, BRICS è forum economico non patto bellico. Prestiti cinesi oltre sessanta miliardi privilegiano diplomazia per petrolio. Dal complesso militare-industriale, supporto indiretto cinese con armi, prestiti contrasta Stati Uniti senza escalation. Contesti passati includono l’alleanza Chavez-Xi del 2000, con investimenti energetici, mentre futuri dal Center for American Progress indicano che entro il 2030 la Cina potrebbe controllare il trenta per cento del petrolio venezuelano, influenzando mercati globali. Le relazioni persistono in un equilibrio instabile, con canali che attenuano rischi. Per l’Italia, diversificare supply chain è imperativo. Modelli bayesiani suggeriscono sessanta per cento di continuità rivalitaria; vigilanza OSINT rimane essenziale.

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Come era verde la mia valle_di WS

 Come Monahan,l’ autore  di questo  articolo,  anche io,  proprio qui  non molto tempo  fa , ho  scritto  un mio “come  era  verde la mia valle”. Infatti il malinconico  rimpianto  del passato  è  un  sottoprocesso inevitabile dell’ invecchiamento.

Ma  in  entrambi   i casi    “le valli”   erano davvero  “verdi”   e bisognerebbe  capire  il perché poi  siano diventate  “grigie”,  essendo l’ odierno  declino    della “classe operaia”    solo una parte   del declino  della classe   di  chi “ deve lavorare per vivere”  , cioè  “i lavoratori” come  erano chiamati allora, una classe in  gran parte   formata   da “salariati”  ( ma  non solo ) e  che ha avuto  i suoi “verdi giorni”     nel secondo dopoguerra 

Su   questi  “giorni  verdi” molti  diranno   che      siano  stati  conquistati   con le   lotte per   “la democrazia”  ,  “le lotte  sindacali “    ect  ect . Ma  ovviamente   non è vero,   come  sa   chi  quella  “estate” l’ ha vissuta;  perché   a quella  “classe”      allora    si   aprivano   facilmente  “ ascensori   sociali ”   che oggi  le vengono  chiusi    nonostante  noi   siamo ancora  “in  democrazia”  e ben forniti  di “sindacati”.

E sono  pochi   quelli che  si chiedono  un  perché   che in realtà è molto  semplice   da capire.  ALLORA,  “  l’altra classe”, quella  che “può  vivere  senza dover lavorare” , aveva  bisogno  della  collaborazione    dei “lavoratori”  per  vincere lo scontro  con  “il comunismo”; un’ altro sistema   composto ovviamente dalle  solite “due classi”  ma in  cui    “la misura  di tutte le cose”  non  era “il danaro”   ma  “l’ appartenenza  ”.

Se infatti il sistema “occidentale ” avesse  nel  1945  conseguito  una vittoria  ANCHE    sull’ URSS, la borghesia  “occidentale” , per usare  termini “marxisti” ,  non avrebbe   poi  dovuto blandire  la sua  “classe lavoratrice”    e si sarebbe presa tutta per  sé     la  ricchezza prodotta,  come in effetti  ha cominciato a fare una volta  crollato “il comunismo”.

Come  spiega  la marxista  “legge ferrea  dei salari” , se niente  glielo impedisce , un  “capitalista”   può  sequestrare  tutto  “il plusvalore”  pagando  ai suoi  salariati  solo il salario minimo  necessario  alla  loro  sopravvivenza.

 Così  il  declino  dei “lavoratori ” americani,       è  comiciato     fin  da quando  a  “chi comanda in “ U$A   è apparso  evidente  che  il  sistema americano”   avrebbe  vinto la “guerra  fredda”  e questa cosa   poi è stata  estesa  anche  a tutte  le province   dell’ Impero.

 E  quel che è peggio, oggi ,  l’ automazione e la  digitalizzazione    riducono progressivamente   il numero  dei   salariati necessari , ponendo la classe  dei “lavoratori”  in  un crescente  stato di necessità     che permette al “padronato”   di  comprimere   sempre più  i  salari in una crisi perenne  e funzionale  solo  a  LORO.

Monahan qui  infatti  parla  degli  effetti  della “crisi  del 2007”  ( o del 1999 ? )  ma non la  inquadra    storicamente . Ci sono  infatti state  prima,   nel 1907  e nel 1929,  altre  crisi    che hanno prodotto prima uno schiacciamento  dei  salari  e poi la  guerra.

Ad esempio , la crisi del ’29 espulse i contadini americani  dalle loro fattorie rastrellate dalle banche creditrici, creando  così milioni di disperati e  morti letteralmente di fame di cui nessuno mai parla , una cosa che mi sorprese leggere , da ragazzo , nell’ amarissimo “Furore” di Steinbeck.

La  gente moriva  di fame e i granai  erano pieni   di  grano invenduto!

Da noi in Europa non era successo niente di simile , nessuno era morto di fame, perché la solidarietà sociale aveva provveduto , saltando “l’ intermediazione del danaro”, con il baratto  di merci , lavoro e cibo . In  America invece la crisi fu  più  dura  perché   niente lì  si poteva  avere   senza   “il danaro”.

Allora  mentre l’ Europa  “andava a destra”  con  stati   divenuti  “imprenditori” , l’ America invece rischiò di “andare a sinistra”. Ma venne Roosevelt a salvare il Capitalismo ” da se stesso” copiando le ricette dei fascismi europei.

La soluzione veramente perseguita non era il tanto  celebrato”New Deal”, ma una guerra mondiale programmata  di soppiatto fin dall’ inizio; il  progetto del B17 l’ aereo di bombardamento strategico a lungo raggio con cui gli americani hanno poi vinto la loro guerra , partì proprio con l’ insediamento di Roosevelt.

La disoccupazione  in USA rimase alta  per  tutti i ‘30. Le  “opere pubbliche”  di Roosevelt  non  erano , come veniva allora  raccontato, realmente   finalizzate  a   “ dare lavoro” ,  ma a costruire  le infrastrutture  che sarebbero  state utili nelle  futura  guerra.

 Ad  esempio la Tennessee Valley Autority   non  restitui  “la terra ai  contadini”,  ma creò  l’  immensa   riserva  di elettricità  poi usata  per  arricchire l’ uranio.

L’essenza  degli USA infatti era già allora    quella   descritta  da Cogan   nel suo monologo  finale    del film  “ Killing  them softly” , un film  talmente penetrante  da non  essere  stato  volutamente   apprezzato.

 E    vale la pena riportare interamente qui  quel monologo  perché  da solo valeva il prezzo  del biglietto.

«“Siamo un solo popolo”: un mito creato da Thomas Jefferson. Amico mio, Jefferson è un santo americano perché ha scritto le parole “tutti gli uomini sono creati uguali“, cosa in cui evidentemente non credeva, visto che fece vivere i suoi figli in schiavitù. Era un ricco enologo stufo di pagare agli inglesi troppe tasse; così scrisse delle belle parole e aizzò la plebaglia, che andò a morire per quelle parole, mentre lui rimaneva a casa a bere il suo vino e a scoparsi la sua schiava. E quello [rivolto a Barack Obama, che sta tenendo un discorso alla nazione dopo la vittoria elettorale] viene a dirmi che viviamo in una comunità? Ma non farmi ridere! Io vivo in America… e in America tu sei solo. L’America non è una nazione, è soltanto affari: e adesso pagami!»

Quindi  quale  è la conclusione?     Che “ci risiamo”.  Anche  questa “crisi”  che intenerisce Monahan    sarà risolta nello  stesso  modo ,  con la differenza  che stavolta  LORO   , “i signori  del denaro”   porteranno  la gente  a morire  “  senza  incentivi”   perché   “il  popolo”   gli  è  ormai  diventato  superfluo   anche per  fare la guerra.

 

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Patria? Alcune idee in ordine sparso_di Ernesto

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovate qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stesse Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

Patria? Alcune idee in ordine sparso.

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovare qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stese Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

Il Pentagono ordina forze di reazione rapida a livello nazionale per “operazioni di disturbo civile”_ di Veronika Kyrylenko

Tre articoli di grande importanza che rappresentano la prima attuazione pratica della nuova strategia militare statunitense, per ora adombrata dall’autorevole E. Colby, ma che sarà sistematizzata e formalmente approvata, presumibilmente, nei prossimi mesi, a partire dagli otto punti già illustrati, qualche settimana fa, su questo sito. Importanti sotto vari aspetti:

  1. Lo sfilacciamento del corpo politico demo-neocon sta producendo il passaggio progressivo ad uno scontro politico sempre più interno alla amministrazione trumpiana, con tutti gli ondeggiamenti, le contraddizioni stridenti e le ambiguità che ne conseguono e ne conseguiranno
  2. Il confronto politico sta assumendo sempre più le caratteristiche di uno scontro frontale man mano che l’amministrazione Trump sta assumendo progressivamente il controllo di numerose leve dello stato centrale e/o che numerosi centri decisori e di potere si stanno spostando nella sua compagine
  3. Grazie al progressivo sfilacciamento delle connessioni organiche tra centri di potere di orientamento demo-neocon, più visibile e marcato all’interno degli Stati Uniti, il confronto sta assumendo sempre più l’aspetto di un conflitto e di una sovrapposizione potenzialmente violenta tra competenze dello stato centrale, paradossalmente sempre più detenuta dalle componenti federaliste e decentraliste, e competenze di buona parte degli stati federati, alcuni dei quali di particolare importanza e peso politico
  4. è evidente che l’attenzione e la priorità assoluta dell’azione della amministrazione è rivolta alla situazione interna, sia nelle politiche economico-sociali che di ordine pubblico, in previsione di disordini interni facilmente fomentabili in una situazione di “anarchia sociale” e di attuazione delle politiche antiimmigratorie in un contesto nel quale sarà difficile distinguere un conflitto sociale “genuino” dalle pesanti strumentalizzazioni, per altro già verificatesi nel recente passato. Tanto più che le previsioni economiche lasciano presagire, in questa fase di transizione, condizioni di instabilità e di crisi acuta.
  5. Quasi ogni atto ed evento in politica estera, sia esso riconducibile alla ispirazione demo-neoconservatrice che a quella più affine al nuovo corso, vedi la presenza assertiva nei Caraibi e la minaccia al Venezuela, ma anche alla Colombia, è perpetrato e attuato in funzione dello scontro politico interno agli Stati Uniti. Da questo, però, non scaturisce una sufficiente consapevolezza della impossibilità di scindere la politica interna dalle dinamiche geopolitiche e una maggiore coerenza ed interazione tra di essa, vista la vitale necessità di arrivare ad una regolazione accettabile del confronto geopolitico almeno con i principali attori dell’agone

Stiamo assistendo, di fatto, alla costruzione strisciante di uno “stato di eccezione” i cui strumenti, finalizzati in prospettiva alle nuove politiche e al nuovo corso, potrebbero, secondo le alterne vicende, però ritorcersi nel corso del loro utilizzo. La storia offre innumerevoli esempi in proposito. Tutto dipenderà dal successo dell’almeno parziale rinnovamento dei centri di potere e dalla solidità e genuinità della loro adesione al nuovo corso. Il “Gattopardo” alligna dappertutto, non solo in Sicilia. Mai come adesso il movimento isolazionista, ma che isolazionista in senso letterale non è, ha assunto, negli Stati Uniti, un peso politico ed una chiarezza politica così rilevante; è anche vero che, storicamente, questa area politica è stata alla fine regolarmente sconfitta o relegata ad una condizione di testimonianza. Si vedrà. I segnali inquietanti non mancano; all’interno di MAGA, però, vi è una crescente consapevolezza della situazione e della necessità di costruire un ceto politico dirigenziale ed una classe dirigente in grado di sostenere il confronto e di gestire la costruzione di un nuovo assetto._Giuseppe Germinario

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Il Pentagono ordina forze di reazione rapida a livello nazionale per “operazioni di disturbo civile”

 di Veronika Kyrylenko 31 ottobre 2025    

Pentagon Orders Nationwide Quick Reaction Forces for “Civil Disturbance Operations”
AP Images

Audio dell’articolo sponsorizzato da The John Birch Society

Il National Guard Bureau (NGB), un organo del Dipartimento della Guerra, ha ordinato a tutti gli Stati e territori degli Stati Uniti di creare una “forza di reazione rapida” (QRF) composta da truppe pronte a essere dispiegate entro il 1° gennaio 2026.

Secondo una nota riservata trapelata e visionata da Task & Purpose, ogni Stato schiererà circa 500 soldati. Secondo il rapporto,

Tutti i 50 stati, Porto Rico e Guam avranno una propria forza di reazione rapida, o QRF. I promemoria del National Guard Bureau mostrano che la maggior parte degli stati avrà 500 soldati assegnati a queste unità, ad eccezione di quelli con una popolazione più ridotta come il Delaware, che avrà 250 soldati nella sua QRF, l’Alaska con 350 e Guam con 100 soldati. La Guardia Nazionale di Washington, D.C. ha ricevuto l’ordine di mantenere un battaglione di polizia militare “specializzato” con 50 soldati della Guardia Nazionale in servizio attivo.

Lo sviluppo fa seguito a un ordine esecutivo firmato dal presidente Trump il 25 agosto, intitolato “Misure aggiuntive per affrontare l’emergenza criminalità nel Distretto di Columbia”. L’ordine ha disposto la creazione di nuove “unità specializzate” federali e militari per un rapido dispiegamento in tutto il territorio nazionale. Trump lo ha definito una necessità per garantire la sicurezza pubblica a Washington, D.C. e oltre.

Come funzionerà

Secondo gli screenshot del promemoria pubblicato da The Guardian, la nuova Forza di reazione rapida della Guardia Nazionale (NGQRF) sarà integrata nell’Elemento di supporto e assistenza CBRN (CASE), una sottounità della Forza di risposta interna (HRF) di ogni Stato.

Nel linguaggio militare, CBRN sta per “Chemical, Biological, Radiological, and Nuclear” (chimico, biologico, radiologico e nucleare), ovvero la gamma di disastri che queste squadre erano state originariamente create per contenere. Il memorandum designa la nuova QRF come una “serie di missioni aggiuntive” composta da 200 membri “addestrati in operazioni di gestione dei disordini civili”.

In effetti, le nuove unità all’interno di una struttura un tempo progettata per gestire fuoriuscite di sostanze chimiche e fughe radioattive ora si prepareranno a gestire le folle.

L’NGB fornirà a ogni Stato 100 set di equipaggiamento antisommossa e assegnerà due soldati a tempo pieno per supervisionare il personale, l’addestramento e le attrezzature. Ogni unità dovrà presentare mensilmente dei “rapporti di prontezza”. Ciò dovrà essere fatto tramite il Defense Readiness Reporting System-Strategic (DRRS). Si tratta di un database riservato del Pentagono utilizzato per monitorare lo stato operativo delle forze militari statunitensi, ora ampliato per includere controlli digitali per la preparazione alle rivolte civili.

Sulla base delle assegnazioni statali, la forza totale potrebbe superare i 23.000 soldati a livello nazionale. Il promemoria stabilisce tempi di risposta rapidi. Un quarto di ogni squadra dovrebbe essere dispiegato entro otto ore, metà entro 12 ore e l’intera unità entro 24 ore.

Il promemoria è stato firmato l’8 ottobre dal maggiore generale Ronald Burkett, direttore delle operazioni dell’NGB.

Forza contro il “dissenso”

Task & Purpose descrive come le QRF saranno unità “completamente nuove” all’interno della Guardia, citando un membro della Guardia che ha familiarità con il piano.

Tradizionalmente, le truppe della Guardia Nazionale vengono mobilitate per assistere le forze dell’ordine o rispondere a calamità naturali. Al contrario, le QRF saranno pronte per “attività civili”, ha affermato il membro della Guardia Nazionale:

Questo è diverso perché stiamo essenzialmente creando un’unità per lo spazio che risponda alle attività civili… Siamo pronti a intervenire quando ci viene richiesto. Non ci viene chiesto di mettere in piedi un’intera unità pronta a sedare il dissenso in qualsiasi momento.

Citando il promemoria, il giornale descrive inoltre come verrà gestita la “dissidenza”:

Gli Stati sono tenuti a utilizzare il “Corso interservizi per istruttori di armi individuali non letali”. Forniranno inoltre una formazione di “Livello I” e “Livello II” in materia di disordini civili, che comprende corsi sulle tecniche di de-escalation della forza, controllo della folla, comunicazioni radio portatili, uso corretto di scudi protettivi, manganelli e taser, spray al peperoncino e sicurezza pubblica, secondo quanto riportato nelle note.

Il Guardsman ha affermato che le nuove attrezzature e le nuove istruzioni “portano [l’addestramento normale] a un livello superiore”, precisando che includerebbe

Ciò che occorre per i posti di blocco improvvisati e per le operazioni relative ai detenuti[,] nonché l’addestramento che riceveranno, è molto più approfondito rispetto a quello che facciamo generalmente quando addestriamo il personale per assistere le autorità civili.

I corsi di formazione si svolgeranno in cicli di cinque giorni, nei mesi di ottobre, novembre e dicembre.

Supervisione e ambiguità

Il memorandum non definisce le condizioni che determinerebbero il dispiegamento, lasciando incerta la linea di demarcazione tra il controllo statale e quello federale. Storicamente, le truppe della Guardia Nazionale operano sotto l’autorità del Titolo 32. Tale quadro normativo consente ai governatori di dispiegare le proprie forze in caso di emergenza, mentre Washington si fa carico dei costi. Quando le truppe vengono “federalizzate” ai sensi del Titolo 10, passano sotto il pieno controllo federale e diventano, a fini legali, parte dell’esercito degli Stati Uniti. La distinzione è importante perché alle forze del Titolo 10 è generalmente vietato svolgere funzioni di polizia interna ai sensi del Posse Comitatus Act. Il memorandum non specifica quale autorità governerà le nuove unità. Ha anche lasciato aperta la questione se i futuri dispiegamenti risponderanno ai governatori o al Pentagono.

Gli obblighi di rendicontazione offrono una supervisione limitata. I comandanti devono aggiornare mensilmente i dati relativi alla prontezza operativa, ma il sistema tiene traccia principalmente dei numeri, non degli standard relativi all’uso della forza o della giustificazione delle missioni.

Anche la definizione di “mobilitazione rapida” rimane vaga. La maggior parte degli Stati dispone già di forze di reazione rapida o forze di risposta rapida (RRF). Si tratta di piccoli contingenti composti da circa 50-125 soldati addestrati a intervenire entro quattro-otto ore in caso di emergenze quali calamità naturali o incidenti di sicurezza localizzati. Il nuovo piano sembra semplicemente ampliare tale modello, dotandolo di una struttura permanente e di una nuova attenzione ai disordini civili.

Tali ambiguità potrebbero mettere alla prova sia i limiti costituzionali che quelli politici. I governatori potrebbero opporsi agli ordini che ritengono eccessivi da parte del governo federale. Le forze di polizia locali potrebbero mettere in discussione il modo in cui la Guardia Nazionale si integrerà nelle operazioni di controllo della folla già regolate dalla legge statale.

Contesto politico

L’iniziativa fa seguito a una serie di interventi interni di alto profilo sotto l’amministrazione Trump. Negli ultimi mesi, le truppe della Guardia Nazionale sono apparse a Los Angeles, Washington, Chicago, Memphis e Portland, spesso nel mezzo di controversie tra funzionari federali e locali su chi dovesse controllare la risposta a eventi che andavano dalle proteste legittime alle rivolte.

I critici sostengono che il nuovo programma QRF crei un meccanismo permanente per un rapido dispiegamento interno che si presta ad abusi. Janessa Goldbeck, ex capitano del Corpo dei Marines, ha dichiarato al The Guardian che

L’ordine rappresentava “un tentativo da parte del presidente di normalizzare una forza di polizia nazionale militarizzata”.

La Casa Bianca ha respinto tale interpretazione. Abigail Jackson, portavoce, ha dichiarato:

Il presidente ha legittimamente dispiegato la Guardia Nazionale in diverse città, sia in risposta a violente rivolte che i leader locali si sono rifiutati di sedare, sia su invito delle forze dell’ordine locali per fornire assistenza, ove opportuno.

Il modello è difficile da ignorare. I disordini, spontanei o orchestrati che siano, sono seguiti da un aumento della sicurezza federale.

Il momento è particolarmente critico in vista del ciclo elettorale del 2026. L’espansione della preparazione militare per le “operazioni di disturbo civile” rischia di accentuare la normalizzazione del coinvolgimento militare nella vita politica, in particolare perché i malintenzionati potrebbero cercare di incanalare la legittima frustrazione dell’opinione pubblica in manifestazioni distruttive e illegali. Tuttavia, l’interazione tra i campi del “caos” e dell'”ordine” funziona meno come un conflitto che come una coreografia, un meccanismo ricorrente attraverso il quale entrambe le parti promuovono il consolidamento del potere statale.

“Invasione dall’interno”: il piano di Trump di usare l’esercito nelle città degli Stati Uniti

 di Veronika Kyrylenko 1 ottobre 2025    

“Invasion From Within”: Trump’s Plan to Use the Military in U.S. Cities
AP Images

Audio dell’articolo sponsorizzato da The John Birch Society

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Martedì, il presidente Trump si è rivolto ai capi di Stato Maggiore congiunti, al suo segretario alla guerra e agli alti comandanti (la trascrizione è disponibile qui) presso la base dei Marine Corps di Quantico, in Virginia. La sessione è stata convocata per esaminare la prontezza militare, le priorità di bilancio e le iniziative imminenti. L’ordine del giorno comprendeva nuovi programmi di armamento, l’ampliamento della struttura delle forze armate e il cambiamento di dottrina dell’amministrazione sotto il nome ripristinato di “Dipartimento della Guerra“. Si è trattato sia di un briefing politico che di una direttiva, che ha delineato le missioni che Trump si aspetta che le forze armate intraprendano nel prossimo anno.

Tuttavia, l’elemento più sorprendente del discorso non sono state le cifre del bilancio o gli annunci relativi alle attrezzature, ma il linguaggio utilizzato da Trump per descrivere la situazione interna della nazione. Egli ha avvertito che l’America è sotto attacco, non dall’estero ma dall’interno:

Siamo sotto invasione dall’interno, non diversamente da un nemico straniero, ma in molti modi è ancora più difficile…

L’esercito, ha sottolineato, dovrebbe difendere non solo i confini della nazione, ma anche le sue strade, trattando i disordini interni come un teatro di guerra.

Washington D.C. come caso di studio

Trump ha indicato Washington, D.C., come prova della validità della sua visione di un intervento militare nelle città americane. L’11 agosto ha firmato l’Ordine Esecutivo 14333 che pone il Dipartimento di Polizia Metropolitana (MPD) sotto il controllo federale. L’ordine ha anche mobilitato la Guardia Nazionale di Washington sotto il comando federale e ha chiamato unità della Guardia da altri stati per “rafforzare la missione“. Trump ha giustificato la presa di potere citando una “emergenza criminale”, anche se sia i dati indipendenti che quelli ufficiali (vedi qui e qui) mostravano che i crimini violenti nella capitale erano già ai minimi storici degli ultimi 30 anni o quasi.

Davanti ai generali, ha descritto l’operazione come un successo travolgente:

Washington D.C. era la città più insicura e pericolosa degli Stati Uniti d’America… E ora… dopo 12 giorni di grande, grande intensità, abbiamo arrestato 1.700 criminali recidivi… Ci sono passato in macchina due giorni fa, era bellissima… Washington D.C. ora è una città sicura.

Ma questa affermazione contiene una contraddizione. Se Washington è ora “la nostra città più sicura”, perché mantenere la polizia federale e la Guardia Nazionale militarizzata nelle strade? Trump presenta la repressione come un successo compiuto e una necessità continua. Secondo lui, 1.700 criminali sono stati eliminati, ma l’emergenza rimane, per ora prorogata fino a dicembre. La capitale diventa non solo la prova del “ripristino dell’ordine”, ma anche una giustificazione permanente per esportare il modello altrove.

Le “zone di guerra” dei democratici

Partendo dall’esempio di Washington, Trump è passato a un quadro urbano più ampio. Ha criticato aspramente il governo democratico:

I democratici governano la maggior parte delle città che versano in cattive condizioni… Ma sembra che quelle governate dai democratici di sinistra radicale, come hanno fatto a San Francisco, Chicago, New York, Los Angeles, siano luoghi molto insicuri e noi le rimetteremo in sesto una per una.

Ha reso esplicita la sua visione militarizzata:

E questo sarà un aspetto importante per alcune delle persone presenti in questa sala. Anche questa è una guerra. È una guerra dall’interno.

Da quel momento in poi, il discorso è degenerato in ripetizioni e improvvisazioni. Trump ha mescolato avvertimenti sulla criminalità urbana con un discorso sull’immigrazione:

Ne sono arrivati milioni, a fiumi. 25 milioni in tutto… Molti di loro non dovrebbero nemmeno trovarsi nel nostro Paese. Prendono le persone peggiori… Le mettono su un camion e le fanno arrivare.

Poi arrivò la proposta sorprendente:

Ho detto al [Segretario alla Difesa] Pete [Hegseth] che dovremmo usare alcune di queste città pericolose come campi di addestramento per la nostra Guardia Nazionale militare, ma militare, perché molto presto entreremo a Chicago.

Chicago

Chicago era l’esempio principale di Trump. Ha ridicolizzato la leadership dello Stato con parole crude:

È una grande città, con un governatore incompetente, uno stupido governatore… La settimana scorsa ci sono stati 11 omicidi e 44 persone ferite da arma da fuoco… Ogni fine settimana ne perdono cinque, sei. Se ne perdono cinque, considerano che sia stata una settimana fantastica. Non dovrebbero perderne nessuna.

Il linguaggio era stato studiato per dipingere l’immagine di una città in totale collasso, un campo di battaglia che invocava l’intervento delle truppe federali. Ma i fatti raccontano una storia più complessa. Nella prima metà del 2025, le sparatorie e gli omicidi a Chicago erano diminuiti di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. I funzionari della città hanno celebrato quell’estate come la più sicura dal 1965.

Ciò non significa che Chicago sia immune da tragedie. La città continua a vivere weekend violenti: durante il Labor Day, 58 persone sono state colpite da arma da fuoco, otto delle quali mortalmente. A luglio, una sparatoria di massa durante una festa per il lancio di un album ha causato quattro morti e 14 feriti. La violenza nei quartieri, concentrata in poche zone, rimane persistente e devastante.

Ma questo non significa che la città sia “fuori controllo”. Eppure Trump propone di inviare l’esercito in una città dove, a quanto pare, la criminalità violenta è gestibile, solo perché ritiene che il governatore sia “stupido”. Trattare una delle più grandi città americane come una “zona di guerra” serve soprattutto a dimostrare chi, secondo lui, è “il capo”.

Portland

Trump ha poi preso di mira Portland:

Portland, Oregon, dove sembra una zona di guerra… A meno che non stiano trasmettendo registrazioni false, sembrava la Seconda Guerra Mondiale. Il tuo posto sta andando a fuoco… Questo posto è un incubo.

Trump lo ha collegato direttamente all’opposizione all’applicazione delle leggi sull’immigrazione:

Se la prendono con i nostri agenti dell’ICE, che sono grandi patrioti.

Le proteste si sono concentrate fuori dalla struttura dell’ICE in Macadam Avenue, a partire dai primi di giugno. I manifestanti hanno organizzato sit-in e marce, accusando l’agenzia di pratiche di detenzione abusive e chiedendo la chiusura della struttura. Il 12 giugno, la polizia ha arrestato 10 manifestanti. Allo stesso tempo, è stato riferito che agenti federali hanno sparato palline al pepe e altri proiettili dal tetto dell’edificio contro i manifestanti che bloccavano il vialetto. La città ha registrato diversi casi di utilizzo di proiettili chimici nei quartieri vicini, sollevando preoccupazioni in materia di salute pubblica, sicurezza e costituzionalità.

Dal punto di vista legale, la linea è chiara: interrompere o ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine federali è un reato federale. Alcuni manifestanti a Portland sono stati arrestati proprio per questo motivo. Tuttavia, gran parte delle attività sono rimaste legittime forme di dissenso ai sensi del Primo Emendamento.

Trump ha cancellato questa distinzione. Un movimento di protesta – caotico, controverso e talvolta al limite dell’illegalità – è diventato, secondo lui, un campo di battaglia degno di un’occupazione militare.

“Loro sputano, noi colpiamo”

Trump ha trasformato il controllo della folla in una dottrina di combattimento. Ha descritto i manifestanti che sputavano in faccia ai soldati e ha annunciato una nuova regola: “Loro sputano, noi colpiamo”.

Ha poi descritto pietre e mattoni che distruggevano veicoli federali e ha dichiarato:

Esci da quella macchina e fai quello che ti pare.

Ovviamente, sputare addosso a un ufficiale è un gesto spregevole e a volte criminale, ma non è un permesso per “colpire”. Allo stesso modo, ordini vaghi come “fai quello che cavolo ti pare” in situazioni percepite come pericolose per la vita invitano all’eccesso, alla responsabilità civile e all’abuso politico. Il pericolo non è solo quello che i civili potrebbero fare per strada, ma anche quello che i soldati potrebbero arrivare a credere di poter fare in risposta.

Matematica elastica

Va brevemente sottolineato con quanta disinvoltura Trump manipoli i numeri per giustificare l’intervento militare nella vita interna, specialmente in materia di immigrazione. Durante la campagna elettorale, il suo team ha avvertito gli anziani della presenza di “10 milioni di clandestini” che avrebbero avuto diritto alla previdenza sociale. Quel numero proveniva dai controlli alle frontiere, una misura che include i passaggi ripetuti e le espulsioni.

Persino alleati come il rappresentante Chip Roy (R-Texas) hanno utilizzato cifre inferiori. Il suo rapporto del 2024 citava 8,5 milioni di attraversamenti, con 5,6 milioni di persone rilasciate e due milioni di “fuggitivi”.

Tornato in carica, Trump ora sostiene che siano “25 milioni in totale”. La cifra cresce ogni volta che viene ripetuta.

Non c’è dubbio che l’immigrazione clandestina comporti dei costi, dai bilanci locali alla droga e al traffico illegale. Ma la distorsione di Trump non riguarda la precisione. È studiata per trasformare un problema legittimo in un pretesto per trattare le città statunitensi come campi di battaglia militari.

Una nuova unità domestica

Trump ha ricordato al suo pubblico che il meccanismo è già in moto:

Il mese scorso ho firmato un ordine esecutivo per fornire addestramento a una forza di reazione rapida in grado di aiutare a sedare i disordini civili.

L’ordine impone al segretario alla guerra di creare un nuovo corpo di polizia all’interno della Guardia Nazionale di Washington, “dedicato a garantire la sicurezza pubblica e l’ordine nella capitale della nazione”, “in altre città” e persino “a livello nazionale”. I membri possono essere delegati dal procuratore generale, dal segretario degli interni o dal segretario della sicurezza interna per far rispettare la legge federale: una combinazione di ruoli che cancella il confine tra soldati e polizia.

Trump ha citato i presidenti del passato che hanno utilizzato le truppe per mantenere l’ordine interno. Richiamandosi al giuramento contro “tutti i nemici, stranieri e interni”, ha chiarito che ora anche il “interno” fa parte della missione militare.

Campi di allenamento

I commentatori spesso liquidano la retorica di Trump come semplice spacconata. Ma quando il comandante in capo dice ai generali che le città americane dovrebbero fungere da “campi di addestramento”, non si può ignorare la cosa.

Nella pratica militare, i campi di addestramento sono spazi controllati con regole di sicurezza e supervisione legale. Trump li ha ridefiniti come città reali, trattando le comunità come campi di battaglia piuttosto che luoghi in cui vivono milioni di persone.

Questo cambiamento non è simbolico. Pronunciato dalla massima autorità militare della nazione, sembra più un ordine che una metafora. Il divario tra retorica e politica è pericolosamente sottile quando chi parla può impartire ordini. Quello che Trump ha definito “prontezza” è, in effetti, un invito a militarizzare la vita civile.

Legge e Costituzione

Il fondamento giuridico dell’approccio di Trump è instabile. Il Posse Comitatus Act vieta alle truppe federali di svolgere attività di polizia civile. L’Insurrection Act consente delle eccezioni, ma solo in casi di emergenza specifici, come insurrezioni o il collasso dell’autorità statale. Utilizzare le città come “campi di addestramento” significherebbe estendere la portata della legge oltre ogni limite riconoscibile.

La Guardia Nazionale è il perno. Sotto l’autorità dello Stato, i membri della Guardia possono far rispettare la legge. Una volta federalizzati, non possono più farlo. Una “forza di reazione rapida” controllata a livello federale per sorvegliare le proteste offusca questo confine e invita all’abuso.

È difficile sopravvalutare la gravità delle mosse di Trump. Esse rischiano di trasformare l’esercito da scudo contro gli attacchi stranieri a strumento di controllo interno, erodendo proprio quei limiti che dovrebbero preservare una repubblica libera e creando un precedente che i futuri presidenti potrebbero sfruttare.

Abbiamo messo in sicurezza il confine, ma “non abbiamo ancora finito”

Rodney Scott, commissario dell’agenzia doganale e di protezione delle frontieresi è seduto con Il conservatore americanoper discutere dei recenti successi e dei piani a lungo termine per proteggere gli americani.

Rodney Scott Testifies In His Senate Nomination Hearing To Be Customs And Border Protection Commissioner

(Foto di Chip Somodevilla/Getty Images News)

Joseph Addington Headshot

Joseph Addington

26 ottobre 202512:05

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Poche agenzie governative sono state coinvolte così profondamente nelle priorità dell’amministrazione Trump come la U.S. Customs and Border Protection (CBP), che si occupa non solo della sicurezza delle frontiere, ma anche delle tariffe doganali e delle normative commerciali. Il commissario della CBP Rodney Scott ha incontrato The American Conservative per discutere di come l’agenzia sta affrontando queste priorità e di ciò che gli americani dovrebbero sapere sulle frontiere del nostro Paese.

Una delle cose che abbiamo visto dall’amministrazione Trump è stato un aumento piuttosto drastico dell’importo dei dazi doganali applicati. L’Ufficio doganale e di protezione delle frontiere degli Stati Uniti (CBP) ha un ruolo piuttosto importante nella gestione e nell’applicazione di tali dazi. In che modo ciò ha influito sulle operazioni qui al CBP?

Penso che l’aspetto più importante che le persone devono comprendere è che la sicurezza economica degli Stati Uniti è fondamentale per la sicurezza nazionale tanto quanto gli aspetti più tradizionali a cui si pensa, come la sicurezza delle frontiere o l’esercito. Il compito dell’Ufficio doganale e di protezione delle frontiere degli Stati Uniti è semplicemente quello di sapere chi e cosa entra nel Paese. Ci occupiamo già delle attività doganali relative alla riscossione e all’imposizione dei dazi. 

All’interno del CBP abbiamo due uffici dedicati a questo compito. L’Ufficio Commercio si occupa degli aspetti normativi. L’Ufficio Relazioni Commerciali collabora con gli intermediari, ovvero con il settore, per garantire che la comunicazione sia fluida e che i processi funzionino senza intoppi. Entrambi questi uffici collaborano con l’Ufficio Operazioni sul Campo, dove si svolge il lavoro visibile: gli addetti con le uniformi blu che ispezionano le merci in arrivo e verificano che corrispondano a quanto dichiarato.

C’erano molte persone che gridavano che il cielo stava cadendo, che tutto sarebbe crollato, che non avremmo ricevuto la posta, che l’economia sarebbe crollata. Niente di tutto ciò è successo, perché dietro le quinte ci sono molti professionisti che si assicurano che queste cose vadano avanti e funzionino senza intoppi. E la Customs and Border Protection è uno degli ingranaggi più importanti di quella macchina. Collaboriamo con il Dipartimento del Commercio e con la Casa Bianca per garantire che tutto funzioni correttamente. E penso che stiamo facendo un ottimo lavoro.

In effetti, stavo proprio guardando i numeri poco fa, e c’è un aumento delle entrate pari a 174 miliardi di dollari per gli Stati Uniti grazie ai dazi. Ma penso che anche questo non colga il punto. Non era quello l’intento. L’intento è ricostruire l’America e assicurarci di poter sostenere l’America, l’America in cui siamo cresciuti, e riportare l’industria e la produzione in America. Durante la pandemia di Covid e la crisi dei chip abbiamo capito che avevamo esportato troppo della nostra capacità produttiva al di fuori degli Stati Uniti. Dobbiamo riportarla indietro. Dobbiamo ristabilire la nostra capacità intrinseca di produrre beni, in modo che se dovessimo entrare in guerra o subire un attacco da parte di un avversario, non dovremmo dipendere da terzi per ottenere gli strumenti di cui abbiamo bisogno.

Ci sono state particolari preoccupazioni in materia di sicurezza nazionale per il CBP per quanto riguarda le dogane? Abbiamo visto, ad esempio, la Cina spedire merci illecite sotto mentite spoglie o effettuare operazioni di transito per eludere i dazi doganali.

Una delle missioni principali della CBP è proprio quella di sapere chi e cosa entra negli Stati Uniti. E io sostengo che, al di fuori di un contesto accademico, politico o mediatico, non è possibile separare le minacce. Per la CBP, che si tratti di uno Stato che cerca di introdurre clandestinamente merci o persone negli Stati Uniti, o di un’azienda che cerca di eludere i dazi doganali effettuando trasbordi o etichettando in modo falso merci diverse, dobbiamo occuparci di tutto questo.

Uno dei motivi principali per cui abbiamo eliminato l’esenzione de minimis è stata l’identificazione di minacce in arrivo negli Stati Uniti che non potevamo controllare efficacemente senza modificare l’intera infrastruttura e il processo. L’e-commerce ha creato un enorme volume di importazioni al di sotto della soglia de minimis, che non avevamo realmente la possibilità di ispezionare. Eravamo in ritardo su questo fronte, il che aumentava drasticamente il rischio per la sicurezza nazionale, e abbiamo affrontato il problema eliminando l’esenzione de minimis. Ora disponiamo di molte più informazioni che ci consentono di prendere decisioni informate su quali pacchi aprire in base alle minacce che abbiamo individuato, che in molti casi sono minacce alla sicurezza nazionale.

Tra un’amministrazione e l’altra abbiamo assistito a cambiamenti piuttosto drastici al confine sud-occidentale: durante l’amministrazione Biden abbiamo registrato un numero record di incontri al confine, mentre ora stiamo registrando un numero record di incontri. Quali sono stati i cambiamenti più importanti tra le due amministrazioni e in che modo hanno influito sulle operazioni della CBP?

Le questioni politiche sono importanti. L’amministrazione Trump crede nello Stato di diritto e nelle conseguenze che derivano dalla violazione della legge, indipendentemente dal contesto: immigrazione, dogane o commercio, come abbiamo appena discusso. Crediamo nelle leggi approvate dal Congresso. Crediamo nella loro applicazione.

L’amministrazione Biden era concentrata al 100% sull’obiettivo di far entrare nel Paese il maggior numero possibile di persone, senza curarsi delle conseguenze. Non abbiamo parlato di sicurezza nazionale. Non ci era permesso farlo. L’amministrazione Trump mette l’America al primo posto, garantendo prima di tutto la sicurezza dell’America. 

E tutto ciò significa semplicemente che si dà ai funzionari delle forze dell’ordine il potere di fare il loro lavoro. Da un giorno all’altro, non appena sono state introdotte delle conseguenze per l’ingresso illegale negli Stati Uniti e non ci siamo più limitati a rilasciare le persone, quel flusso si è ridotto. 

Quasi dall’oggi al domani siamo riusciti a sottrarre 400 funzionari della CBP dalle attività amministrative relative all’immigrazione e a reinserirli nel loro ruolo originario, ovvero quello di controllare le persone e le merci che entrano negli Stati Uniti, in modo da poter identificare tutte le altre minacce. Questi effetti a cascata derivanti dalla semplice applicazione della legge e dalla garanzia che vi siano conseguenze in caso di violazione della stessa scoraggiano una quantità enorme di attività illegali. 

Ora abbiamo più tempo per concentrarci su ciò che entra legalmente, identificare il fentanil, identificare i trasbordi, identificare tutte le minacce che incombono sul Paese e rispondere in modo molto più appropriato. E non abbiamo ancora finito. 

Negli ultimi nove mesi abbiamo apportato miglioramenti significativi, ma la sicurezza delle frontiere migliorerà ulteriormente con la costruzione del muro di confine intelligente, l’introduzione di apparecchiature di ispezione non invasive e l’aggiornamento di alcuni dei nostri sistemi di individuazione all’interno del CBP, per garantire che quando un agente o un funzionario individua una minaccia, questa possa essere rapidamente neutralizzata.

Uno dei grandi cambiamenti che abbiamo visto per il CBP nell’ambito di questa amministrazione è stato un notevole aumento dei finanziamenti e del sostegno attraverso il One Big Beautiful Bill. Quali sono i cambiamenti più importanti che il CBP intende attuare in risposta a ciò?

Personale e infrastrutture a lungo termine. 

C’è stato un aumento significativo sia per la polizia di frontiera che per le operazioni sul campo e il personale, perché alla fine dei conti la “tecnologia” si limita a indirizzare un essere umano verso qualcosa. La tecnologia non trova il fentanil, la tecnologia non interroga un individuo per scoprire se ha intenzioni terroristiche o se è venuto negli Stati Uniti come turista. Ci vuole un essere umano per farlo. Quindi abbiamo dovuto aumentare il personale. Ma gran parte delle infrastrutture e dei fondi sono destinati anche al sistema di muri di confine intelligenti, a nuovi aerei e ad alcune tecnologie aggiuntive nei porti di ingresso.

Lasciatemi spiegare perché anche questo è così importante. Credo che spesso si trascuri il fatto che il muro è un vero e proprio investimento progettato dagli agenti di frontiera in prima linea per uno scopo specifico. Abbiamo dimostrato la validità di questo concetto a San Diego negli anni ’90 e da allora è stato notevolmente migliorato. Nel tratto di 12 miglia in cui l’abbiamo testato e dimostrato, ci ha permesso di migliorare notevolmente, notevolmente la sicurezza delle frontiere, passando da una situazione in cui credevamo di non avere alcun controllo e non sapevamo nemmeno quante persone attraversassero il confine, a una situazione in cui abbiamo raggiunto un’efficacia del 96-98%. Abbiamo visto tutto e abbiamo intercettato il 98% dei casi (oggi direi che intercettiamo circa il 99% dei casi di attraversamento del confine). 

Ma, cosa ancora più importante, siamo riusciti a ritirare 150 agenti da quella zona e a riassegnarli ad altre aree dove non disponevamo delle infrastrutture necessarie per condurre interrogatori, per sequestrare le imbarcazioni che approdavano sulla costa o per svolgere altre attività che la tecnologia non era in grado di svolgere. Ciò ha comportato un ritorno sull’investimento di 28 milioni di dollari all’anno, anno dopo anno, per tutto il ciclo di vita di quella sezione del muro di confine.

E quello che stiamo costruendo ora è in realtà più tecnologico e migliore di quello che abbiamo costruito finora. Man mano che lo espandiamo, i contribuenti americani ottengono un ritorno diretto e immediato sul loro investimento, poiché la risorsa più costosa che abbiamo, ovvero gli esseri umani, viene impiegata per concentrarsi su cose che solo gli esseri umani possono fare. Uno o due agenti possono coprire una porzione di confine significativamente più ampia rispetto a prima. Possiamo anche destinare una parte maggiore dei nostri fondi ai porti di ingresso, dove disponiamo di tecnologie di ispezione non invasive, che consentono agli agenti di svolgere solo le attività che solo loro possono svolgere. Stiamo utilizzando la tecnologia per filtrare il disordine, per così dire, e accelerare il flusso del commercio e dei viaggi legali, in modo che la nostra economia continui a riprendersi.

So che in passato il CBP ha avuto alcuni problemi di reclutamento e fidelizzazione. Come vede cambiare questi parametri? Immagino che l’effettivo sostegno dell’amministrazione Trump all’applicazione delle leggi alle frontiere abbia fatto miracoli per il morale qui all’agenzia.

È incredibile l’effetto che hanno i messaggi. Quando vieni costantemente criticato, insultato e umiliato in pubblico, il reclutamento cala. Ma in questo momento abbiamo più reclute in arrivo che posti disponibili nell’accademia. Tutti i posti della nostra accademia sono occupati. Stiamo ampliando la nostra accademia. Stiamo andando alla grande, e gran parte del merito va all’amministrazione che ha detto alle forze dell’ordine: “Vi copriamo le spalle. Se fate il vostro lavoro, se fate rispettare le leggi che il Congresso vi ha chiesto di far rispettare, noi vi copriamo le spalle”.

Questo semplice messaggio ha avuto grande risonanza in tutto il Paese, perché ora la nostra sfida più grande è convincere le persone a entrare nella CBP invece che nell’ICE, nell’FBI o nella DEA, perché le persone vogliono una missione. La missione della CBP è fantastica. È incredibile. Quindi al momento non abbiamo alcun problema di reclutamento.

Tornando alla situazione al confine, gli attraversamenti sono diminuiti drasticamente e la sicurezza è aumentata notevolmente. Ci sono tendenze significative di cui il pubblico dovrebbe essere a conoscenza? Esistono rischi particolari o tendenze interessanti nelle statistiche, come il paese di origine delle persone fermate al confine, che vale la pena sottolineare?

Me ne vengono in mente diversi, ma vorrei partire dall’inizio, perché credo che la gente non capisca quanto sia importante questo aspetto. I cartelli hanno bisogno dell’immigrazione clandestina per ridurre i costi e i rischi legati al contrabbando di merci di alto valore negli Stati Uniti. Quando parlo di merci di alto valore, la gente pensa immediatamente alla droga, e non ha torto. Il fentanil, la droga, sono cose che perderanno quando le sequestreremo. Li bruciamo e li distruggiamo, e scompaiono. Ma con l’immigrazione clandestina, la persona viene espulsa e il cartello può creare un mercato per cercare di riaverla. Considerano gli esseri umani una sorta di risorsa rinnovabile.

Quello che abbiamo visto nell’amministrazione Biden è che molte persone hanno attraversato il confine e sono rimaste lì ad aspettare di essere arrestate, perché l’amministrazione Biden ha creato questo processo in cui venivano catturate e poi rilasciate. Ciò ha ridotto la necessità dei cartelli di spendere soldi in marketing. L’amministrazione Biden ha fatto marketing per conto dei cartelli. 

Perché i cartelli hanno bisogno degli immigrati clandestini? Non è per i soldi che pagano. Decidono in modo molto strategico quante persone attraversano il confine alla volta e dove, in modo da esaurire le risorse delle forze dell’ordine nella zona, così che chiunque sia disposto a pagare di più per non essere identificato e fotografato, per non essere catturato, o qualsiasi merce di alto valore – ancora una volta, narcotici, ma anche animali selvatici in via di estinzione (abbiamo sequestrato cuccioli di tigre e scimmie, tutti tipi di specie in via di estinzione contrabbandate), qualsiasi cosa per cui la gente sia disposta a pagare molto denaro per contrabbandare, il cartello la trattiene fino a quando non fa passare tutti i clandestini. A quel punto noi siamo occupati e loro possono portare le cose di maggior valore che non vogliono rischiare di essere catturate. Riducendo drasticamente il flusso di immigrazione clandestina, abbiamo tolto loro questa possibilità. Ora devono uscire e spendere soldi per fare marketing e cercare di convincere le persone ad attraversare illegalmente il confine per creare quella distrazione.

Questo messaggio è stato diffuso a livello globale. Quindi ora siamo tornati a quelle che definirei le norme tradizionali alla frontiera, dove la maggior parte delle persone che arrestiamo proviene dal Messico. I paesi esotici, quelli con un rischio molto elevato di terrorismo in tutto il mondo, sono tutti scomparsi. Non compaiono quasi più nei miei rapporti. La situazione è cambiata radicalmente: durante l’amministrazione Biden, ogni giorno c’erano persone provenienti da circa 150 paesi diversi che attraversavano il confine sud-occidentale. In questo momento provengono solo da tre o quattro paesi e i nostri agenti sono lì per catturarli.

Come hanno reagito i cartelli a queste nuove tendenze nella sicurezza delle frontiere? Le frontiere sicure devono essere molto più difficili da attraversare per loro, ma sono sicuro che hanno dei modi per aggirarle. Quali sono i modi più evidenti con cui ha visto reagire la criminalità organizzata e cosa ha fatto la CBP per contrastare queste operazioni?

Non è la prima volta che ci capita. Stiamo vedendo ciò che avevamo previsto. 

Abbiamo fatto alcune previsioni informate basandoci sulla nostra esperienza precedente. Nel corso della storia, ci sono stati periodi in cui abbiamo effettivamente migliorato la sicurezza dei confini e abbiamo assistito a dei cambiamenti. Trump 45 ne è un buon esempio. Abbiamo ridotto l’immigrazione clandestina come mai prima d’ora. Abbiamo iniziato a costruire il muro di confine. Abbiamo visto cambiare le cose. 

Prima di tutto, vi sfido a ripensare agli ultimi quattro anni dell’amministrazione Biden e a trovare un solo caso in cui avete visto o sentito parlare della scoperta di un tunnel sofisticato lungo il confine. Il cartello non ha dovuto spendere tutti quei soldi né fare tutti quegli sforzi. Ha semplicemente attraversato il confine a piedi. Crediamo quindi che torneranno indietro e proveranno altre tecniche collaudate in passato, come i tunnel sofisticati. Noi siamo pronti. Abbiamo task force molto preparate e ben informate in luoghi specifici. Abbiamo a disposizione tecnologie che non avevamo in passato, ma affronteremo questa minaccia. Non mi addentrerò troppo nei dettagli, ma ci stiamo lavorando attivamente.

Sappiamo che si spingeranno nell’ambiente marittimo e inizieranno a risalire la costa della California e del Golfo. In questo momento, abbiamo collaborato con la Guardia Costiera degli Stati Uniti e il Dipartimento della Guerra per dispiegare navi e risorse marittime in un modo che non abbiamo mai fatto prima. Quindi quello che state vedendo al confine terrestre è una cosa importante, ma non ci siamo fermati qui. Stiamo già mettendo a frutto tutte le lezioni apprese in passato e stiamo apportando le opportune modifiche.

Abbiamo assistito a un aumento dell’attività dei droni, non solo per sorvegliare le nostre attività, ma anche per trasportare droga. Stiamo anche osservando ciò che accade in Messico, che non viene riportato molto pubblicamente. I cartelli messicani hanno armato i droni e li stanno letteralmente usando gli uni contro gli altri, contro la polizia messicana e contro l’esercito messicano. Il loro uso della violenza per commettere crimini è aumentato a dismisura, soprattutto in Messico, ma anche a sud di alcune delle nostre stazioni, in particolare in Texas, a Laredo e nella valle del Rio Grande, dove gli agenti sentono effettivamente gli spari. Gli scontri a fuoco sono continui. Abbiamo avuto proiettili vaganti calibro .50 che sono arrivati a nord, negli Stati Uniti. 

Quindi ora stiamo tenendo riunioni di pianificazione chiedendoci: come affrontiamo la questione? Perché sappiamo che la violenza aumenterà. Non se ne andranno semplicemente a casa. Vogliono continuare a fare soldi. Stiamo intaccando i loro profitti e loro si sentiranno frustrati. Ma noi siamo preparati. Questo è uno dei motivi principali per cui abbiamo impiegato molte risorse del Dipartimento della Guerra per aiutarci, non solo per quanto riguarda lo schieramento e le operazioni di alto profilo, ma anche per la pianificazione, per determinare quali strumenti e quali tecniche dobbiamo mettere in atto al confine per garantire la sicurezza dell’America in futuro.

A proposito del Messico, che tipo di collaborazione ha la CBP con questo Paese? Il governo messicano è collaborativo? Che tipo di collaborazione con il governo messicano vorresti vedere in futuro?

Per stare sul sicuro, potresti sostituire il Messico con qualsiasi altro Paese e io vorrei sempre che la cooperazione fosse migliore, che la condivisione delle informazioni fosse migliore e che le operazioni integrate fossero migliori. Con il Messico, ora sono dieci volte migliori rispetto agli ultimi quattro anni. Il Messico sta effettivamente intensificando i propri sforzi e ci sta aiutando. Sta effettuando pattugliamenti congiunti con noi, in cui le forze dell’ordine statunitensi operano sul lato americano del confine e quelle messicane sul lato sud, lavorando in tandem. Condividiamo informazioni e collaboriamo molto meglio che in passato.

Non dirò che è perfetto, non dirò che vorrei di più; riserverò queste conversazioni per i colloqui individuali con il Dipartimento di Stato e con il Messico. Ma penso che anche questo sia un aspetto importante. Queste conversazioni sono in corso. Finché siamo nella stessa stanza a discutere e a lavorare per migliorare le cose, penso che stiamo andando nella direzione giusta, ed è così.

A proposito di cooperazione, un altro sviluppo che abbiamo visto negli sforzi dell’amministrazione Trump in materia di frontiere è la dichiarazione di aree di difesa nazionale lungo il confine, che consente l’uso delle risorse del Dipartimento della Guerra nella protezione delle frontiere. Pensa che sia stata una misura efficace? È qualcosa che vorrebbe vedere più spesso? O pensa che ci sia un approccio diverso che possa utilizzare in modo più efficace le risorse del Dipartimento della Guerra per la sicurezza delle frontiere?

Penso che sia molto, molto efficace. Tutti gli altri paesi considerano una forza invasiva proveniente dall’esterno come un rischio per la sicurezza nazionale, ma per qualche motivo, in questo paese abbiamo deciso che si trattava esclusivamente di una questione di applicazione della legge. Le aree di difesa nazionale ci offrono un’area mista. Sono tutte collegate a una base militare, ma consentono alle forze armate di fare sostanzialmente ciò che farebbero in qualsiasi base militare degli Stati Uniti, ovvero contribuire a proteggere il perimetro. Per noi è stato un enorme moltiplicatore di forza.

Ma vorrei anche sottolineare che durante la mia carriera come agente di pattuglia di frontiera, prima di diventare commissario, poco più di 29 anni, non c’è mai stato un momento in cui non abbiamo collaborato con l’esercito al confine in modi diversi. Le diverse amministrazioni hanno consentito diversi livelli di cooperazione e dispiegamenti. Direi che ora la situazione è migliore che mai. In parte ciò è dovuto al fatto che, senza entrare troppo nei dettagli, sei giorni alla settimana ho una telefonata in cui parlo con i miei omologhi del Dipartimento della Guerra e di molte altre organizzazioni. Sono telefonate in cui ci chiediamo: come vanno le cose? Cosa funziona? Cosa non funziona e come possiamo migliorare? 

Questo tipo di chiamate integrate sono state promosse dalla Casa Bianca e, sebbene abbiamo sempre parlato in precedenza, non lo abbiamo mai fatto in questa misura.

Vorrei anche porre una domanda più attuale. Quest’estate abbiamo assistito all’arresto di due ricercatori cinesi che trasportavano un fungo che avrebbe potuto causare danni significativi all’industria agricola americana. Esiste un rischio particolare di ulteriori atti di agroterrorismo cinese o altre minacce simili? Qual è l’approccio della CBP per contrastarli?

Sono davvero contento che tu abbia sollevato questo argomento, perché è una delle altre questioni di cui parliamo che non riceve molta attenzione. 

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Abbiamo una capacità di ispezione agricola completa. All’interno di questa organizzazione, abbiamo specialisti agricoli che si occupano specificamente di questo tipo di cose. Abbiamo un altro componente chiamato Laboratorio dei Servizi Scientifici. Pensatelo come una sorta di CSI per questo tipo di cose. Lavoriamo direttamente con il Dipartimento dell’Agricoltura e cerchiamo specie invasive, determinati semi, persino i pallet su cui arrivano altre merci vengono ispezionati alla ricerca di insetti, tarli o persino ragni che non appartengono agli Stati Uniti.

È una cosa che succede ogni giorno. Mentre cerchiamo il fentanil, mentre cerchiamo i terroristi cinesi che entrano negli Stati Uniti, o gli iraniani, o qualunque altra minaccia ci sia quel giorno, è un’operazione continua. Grazie per averlo sottolineato, perché molte persone, me compreso, a volte dimenticano di metterlo in evidenza. Ma è un aspetto fondamentale, che riguarda la sicurezza economica degli Stati Uniti. Riuscite a immaginare la scomparsa dell’industria del grano? È una parte importante del nostro lavoro che spesso passa inosservata.

Questa intervista è stata modificata per motivi di concisione e chiarezza.

Informazioni sull’autore

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Joseph Addington

Joseph Addington è redattore associato presso The American Conservative. Si è laureato alla Brigham Young University. Potete seguirlo su Twitter all’indirizzo @JosephAddington.

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