Dottor Giletti, non è l’arena, ma solo perché manca uno dei contendenti_di Giuseppe Germinario

Al dottor Massimo Giletti

conduttore della trasmissione “Non è l’arena”

Dottor Giletti,

ho seguito con attenzione la puntata di “Non è l’arena” del 20 dicembre scorso. Guardo ormai di rado la televisione, ma capita spesso di osservare la sua produzione quasi sempre interessante, incalzante, il più delle volte con una rappresentazione sufficientemente completa della realtà, altre volte con una intensità ed una partecipazione drammatica talmente forte da spingere ad una visione unilaterale, distorta, deleteria e spesso tribunizia dei problemi posti. Nella fattispecie mi riferisco alla parte di trasmissione dedicata ai problemi di inquinamento e sanitari legati al complesso industriale dell’ILVA di Taranto. Sono originario di quelle parti, ne sono andato via ormai da più di trenta anni, ci torno comunque molto volentieri in vacanza quasi ogni anno, conosco la radicale e particolare combattività di quella popolazione ma osservo anche il progressivo degrado di quell’area, simile purtroppo ad altre del paese e in particolare del Mezzogiorno. Negli anni ‘70 ho esercitato funzioni pubbliche relativamente a margine di quell’area, ma sufficientemente prossime da poter conoscere e nel mio piccolo influenzare la situazione sociopolitica del tarantino. Ho conosciuto il fervore, le aspettative generate dall’insediamento dell’acciaieria, ma anche le enormi problematiche che avrebbe generato progressivamente, ma allora già incipienti se non adeguatamente affrontate. Oggi siamo certamente di fronte forse nemmeno ancora all’epilogo, ma di sicuro all’agonia di una tragedia sanitaria ed ambientale certamente, ma anche economica di quella zona e di tutto il paese, in particolare nella fattispecie nella capacità di controllo delle leve economiche. Un dramma che però deve essere risolto positivamente di pari passo con l’altro. Lascio perdere la narrazione a buon mercato e facilona di un paese intero, ma anche di un territorio così esteso e popolato che possa vivere di solo turismo ed agricoltura. Di quale turismo e di quale agricoltura ci sarebbe comunque da discutere, viste le luci e le ombre che caratterizzano quelle attività in quell’area, come in tante altre per la verità. Non è questo il cuore del problema. Ci sono ormai innumerevoli esperienze di paesi di una certa importanza e dimensione che hanno scelto questa strada e che sono finite velocemente nell’irrilevanza politica e nella tragedia economica e sociale. Un paese che abbia a cuore il proprio benessere, la propria autonomia, la propria indipendenza, la propria coesione e progressione sociale non può rinunciare all’industria.

Non voglio dilungarmi eccessivamente; ci sarebbe da scrivere interi tomi e il blog di Italiaeilmondo.com nel suo piccolo ritiene di aver dato un proprio contributo al tema.

In sintesi cerco di affrontare il tema e rispondere ad alcuni luoghi comuni ricorrenti ed apparsi in modo unilaterale e senza contraddittorio nella sua trasmissione:

  • L’ILVA di Taranto, ex Italsider, è una delle attività superstiti che fornisce il prodotto di base all’industria cantieristica, meccanica, di utensileria, mezzi di produzione e quant’altro in Italia. Rappresenta l’esito di una grande battaglia politica simboleggiata da personaggi come Mattei, condotta da vari esponenti degli schieramenti politici sin dagli anni ‘50 contro altri ben insinuati nei gangli vitali; battaglia che pose le basi dello sviluppo industriale del paese

  • il IV centro siderurgico di Taranto non è nato in una fase di sovrapproduzione dell’acciaio, precisando che quando si parla di acciaio non si parla di un prodotto di base indistinto buono per tutti gli usi. Esistono delle precise e finalizzate specializzazioni di prodotto. Fuori dal contesto economico apparvero invece in parte il V e soprattutto il VI centro, del resto mai sorto a Gioia Tauro non ostante la costruzione del porto ad esso finalizzata

  • il fatto che un paese disponga di una propria industria di base non è affatto un fattore irrilevante e lo sarà sempre meno in una fase di crescente multipolarismo e di incipiente costruzione di diverse e tendenzialmente contrapposte sfere di influenza politiche ed economiche. Il parametro di sovrapproduzione su cui hanno più volte insistito tutti i partecipanti alla trasmissione sottende un contesto geopolitico e geoeconomico del tutto sorpassato se mai esistito

  • il gruppo Arcelor-Mittal non è un gruppo indiano; è un gruppo franco-indiano. La sua attività, il suo comportamento predatorio e i condizionamenti posti in essere e subiti da esso rientrano a pieno titolo per altro nel sordido scontro tutto interno all’Europa, in particolare alla Francia, alla Germania e all’Italia riguardo alla ripartizione delle quote di produzione di acciaio che vedeva l’Italia nei tempi andati detenere ampiamente il primato di produzione ed ora subire pesantemente la riduzione proporzionalmente maggiore delle quote sino a posizionarsi nelle retrovie tra i produttori europei

  • sulle vicende dell’ILVA agiscono sotto traccia dinamiche geopolitiche e logiche di posizionamento militare legate alla presenza dell’Arsenale, del porto militare e delle vicine basi aeree e di osservazione

  • i problemi di ristrutturazione e risanamento dello stabilimento si sono cumulati, acuiti progressivamente e di fatto saturati con la dissennata privatizzazione, purtroppo nemmeno l’unica, in favore della famiglia Riva, con il discutibile nelle modalità e tardivo intervento della magistratura e con l’insipienza politica legata alla scelta dell’affidatario, alle clausole e alle modalità di affidamento dello stabilimento al gruppo Arcelor-Mittal, alla gestione da parte del Governo e dei vari pesci in barile della Regione Puglia a dir poco dilettantesca la quale ha offerto all’impresa numerosi pretesti per la sua condotta predatoria e dilatoria

  • i problemi ambientali e sanitari di Taranto sono legati, oltre alle attività predominanti dell’ILVA, alla combinazione delle attività prospicienti della raffineria, del tutto passate sotto silenzio anche dalla stampa e dai contestatori; sono problemi cumulativi che riguardano la responsabilità a vari livelli, diretta ed indiretta, dei vari imprenditori avvicendatisi, degli organi di controllo e delle autorità politiche

  • buona parte dei problemi sanitari ed ambientali sulle popolazioni sono determinate anche dalla criminale vicinanza di insediamenti urbani sviluppatisi successivamente a quello industriale, in particolare il quartiere Tamburi, più che prossimi, praticamente all’interno dello stabilimento e delle correnti d’aria metereologiche peculiari della zona. Su questa prospicienza si dovrebbe in realtà agire per cominciare quantomeno a ridurre gli effetti immediati dell’inquinamento

  • la chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe una sconfitta tragica del paese e della popolazione locale, per altro nient’affatto compatta nella richiesta di chiusura dello stabilimento e la conferma e consolidamento purtroppo duraturi nel tempo ai danni di una intera nazione di un ceto politico e di una classe dirigente miserabilmente ignavi

  • Ritengo non sia cinismo, ma realismo ed esperienza di chi in altri tempi qualche ruolo positivo pensa di averlo avuto. La chiusura dello stabilimento rappresenterebbe di fatto e purtroppo, mi duole il cuore dirlo, una sconfitta sonora anche dello stesso movimento ambientalista e di denuncia e contrasto dell’emergenza sanitaria che non è stato in grado nemmeno di pretendere con successo in questi anni la banale copertura dei depositi di minerali, figuriamoci di promuovere uno sviluppo alternativo e controllato dell’area, di un attivo processo di risanamento ambientale pur a spese degli interessi strategici di una nazione. Il miraggio della monocoltura del turismo e dell’agricoltura è l’ennesimo esempio dell’abitudine, purtroppo sempre più presente in quelle aree, ad affidare alle parole e agli slogan un valore taumaturgico destinato ad ingannare ed illudere in cambio del nulla o quasi

Dottor Giletti,

la concretezza e la verità, almeno a mio parere, è alla fine apparsa nella sua trasmissione, ma sul suo finire. Non la hanno proferita gli esperti, i giornalisti e i politici cosi animati, ben motivati ed animosi in quella trasmissione; l’ha espressa Vittorio, nel modo ingenuo, elementare e diretto proprio di un ragazzino: la salute, un ambiente vivibile ed una vita sociale serena devono convivere con l’esistenza ed il risanamento di quella industria. Evidentemente Vittorio ha saputo esprimere l’angoscia di una tragedia sanitaria ed ambientale che deve essere risolta con l’esistenza di una attività produttiva altrettanto indispensabile e propedeutica al benessere di una comunità e aggiungo io alla solidità di una nazione,

Giuseppe Germinario

https://www.la7.it/nonelarena/rivedila7/non-e-larena-puntata-del-20122020-21-12-2020-356659

NB_ l’intera trasmissione è interessante; l’argomento trattato parte dall’ora 1:45 della registrazione

La dottrina Trump, di Maya Kandel

La prima parte di un articolo tratto da “Le Grand Continent” su Trump e il prosieguo dello scontro politico negli Stati Uniti. Ho detto prosieguo, non ho parlato di eredità. Per il resto affidatevi agli ormai innumerevoli scritti e podcast del sito_Giuseppe Germinario

Trump è solo un sintomo di tendenze più profonde è probabilmente la frase che sentiamo più spesso su questo straordinario presidente. È corretto, se capiamo anche che è un sintomo di uno stadio avanzato, ma di cosa? Non è un presidente “normale”, al di là anche del carattere e dei suoi eccessi, nel senso dell’arrivo attraverso di lui dell’estrema destra alla Casa Bianca. Ma rappresenta effettivamente il risultato logico.di due sviluppi americani: quello del connubio tra politica e “spettacolo” mediatico, e quello del Partito Repubblicano per 40 anni, prodotto di una strategia teorizzata in particolare da Newt Gingrich per rilevare il Congresso negli anni ’80, e i cui segni distintivi sono un discorso sempre più disinibito “anti-sistema e anti-élite”.

La presidenza Trump rappresenta anche un momento specifico per la politica estera americana, di cui cristallizza una doppia crisi: crisi interna, perché la politica estera non è più sostenuta dal popolo americano, e in particolare dalle classi medie e popolari; crisi esterna, che è allo stesso tempo crisi di mezzi, credibilità e legittimità della politica estera, legata al relativo declino del potere e della capacità di influenza degli Stati Uniti. Questa crisi è germogliata dalla fine della Guerra Fredda, e qui va ricordato che lo slogan America First , che risale alla fine degli anni ’30, era già riapparso nel 1992 con la candidatura di Pat Buchanan, considerato il padre spirituale. Trumpismo. Ma Trump, dopo Bush e Obama, sta in qualche modo portando a compimento il processo. E la prima cosa da riconoscere è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui anche ambizione, non era riuscita. Nel 2016 ci siamo chiesti se la “moderazione strategica” di Obama, il suo desiderio di disimpegnarsi e rinnovare la leadership americana fosse un’eccezione, un semplice riequilibrio dopo l’eccessiva espansione degli anni di Bush, o una nuova tendenza nella politica estera americana: con Trump che segue Obama, abbiamo la conferma che c’è una forte tendenza al lavoro.

La prima cosa che dobbiamo riconoscere in Trump è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui era anche ambizione, non era riuscita.

MAYA KANDEL

Ciò solleva la questione della natura e della portata della rottura di Trump in politica estera, e in particolare del suo punto di riferimento: fine del periodo aperto dalla fine della Guerra Fredda, messa in discussione delle basi della Pax Americana. post-1945, o addirittura indietro nel diciannovesimo secolo politico e … il dibattito non è ancora risolto, e per tutto il suo mandato, le grandi linee guida sono state oggetto di intense lotte all’interno del amministrazione come tra la Casa Bianca e il Congresso. Analisi del processo decisionalefa luce su questa lotta costante tra il presidente populista e il “sistema”, definito come il gruppo formato dagli alti funzionari della pubblica amministrazione e dalle nomine politiche (più di 8.000), e più in generale dall’insieme della burocrazia e da altri istituzioni che partecipano alla politica estera, in primo luogo il Congresso. Tieni presente che la macchina della politica estera degli Stati Uniti è una nave di linea enorme e un cambio di direzione richiede tempo. Oltre a ciò, è anche necessario interessarsi alla battaglia delle idee, perché se Trump non è un intellettuale, è circondato da ideologi che hanno teorizzato per lui e hanno partecipato alla definizione di una nuova visione del mondo, ancora in gestazione.

Foto ritratto Donald Trump Kim Jong-un La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Questa domanda è cruciale anche perché la ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane centrale nelle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere al mondo. immigrazione e commercio, questione delle alleanze o modalità dell’azione internazionale del Paese. Con l’idea che la politica estera non fosse più al servizio degli americani, che gli alleati come avversari stessero “approfittando” dell’America, con un fortissimo rifiuto dell’istituzione della politica estera, dei Democratici repubblicani e in particolare della neoconservatori, considerati colpevoli delle guerre costose e “infinite” (e infruttuose).

La ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane al centro delle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere all’immigrazione e al commercio, la questione delle alleanze, ovvero le modalità dell’azione internazionale del Paese.

MAYA KANDEL

L’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, in particolare della classe media e operaia, di riconciliare la politica estera e quella interna, è presente anche su entrambi i lati dello spettro politico americano, e soprattutto ai suoi estremi, una base trumpista. come base progressista dei Democratici. L’evoluzione del contesto internazionale sotto il doppio effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati. Si legge spesso, come nel 2016, che la politica estera non conta nelle elezioni: ma anche affrontata dal punto di vista della politica interna, questioni come la Cina, la Russia, il commercio o il clima rimangono soggetti internazionali, oggetto di politica estera. Infine, la polarizzazione si è estesa alla politica estera, comprese le questioni regionali, rendendo definitivamente obsoleto il classico adagio americano secondo cui “la politica si ferma in riva al mare” (la politica si ferma in riva al mare ), un detto rivelatore pronunciato dal senatore Vandenberg all’alba della Guerra Fredda: questo è anche ciò che oggi viene messo in discussione, e lo testimonia la polarizzazione della politica estera.

Ciò che colpisce di più alla fine del primo mandato di Trump, quando si guarda all’opinione americana, non è solo l’estrema polarizzazione, ma anche l’estrema stabilità del suo sostegno: qualunque cosa faccia o dica, Trump mantiene un base del 40% di parere favorevole; la sua popolarità tra l’elettorato repubblicano ha raggiunto il 90%, anche se nel 2020 risente della gestione della pandemia. Questa base elettorale del Trumpismo non scomparirà, anche se perde le elezioni. Ci costringe a mettere in discussione ciò che dice del Trumpismo, della sua visione del mondo in particolare e del suo peso nelle future ridefinizioni del Partito Repubblicano.

L’evoluzione del contesto internazionale sotto il duplice effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati.

MAYA KANDEL

Trump e la fine del periodo post-guerra fredda

La presidenza di Donald Trump segna la fine dell’era post-Guerra Fredda. La politica estera americana di questo periodo potrebbe essere riassunta da un doppio paradigma. Il primo è quello della globalizzazione, che caratterizza un’evoluzione globale ma che designa anche la linea guida della dottrina Clinton di “estensione delle democrazie di mercato”, e più in generale la globalizzazione dell’ordine internazionale creato e sostenuto dagli Stati Uniti. all’indomani della seconda guerra mondiale, le cui istituzioni, norme e principi sembravano quindi poter essere estesi a tutto il globo con la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco omonimo. Il secondo, dall’11 settembre 2001, è quella della “guerra mondiale al terrore” di Bush, portata avanti anche se con mezzi più discreti da Obama.

Foto ritratto Melania Donald Trump Regina Elisabetta II La dottrina Trump Trumpismo politica estera populismo stile populismo Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Trump voleva rivoluzionare la politica estera americana e questo desiderio di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo era al centro delle sue promesse elettorali. Quattro anni dopo, sembra che il cambio di paradigma sia effettivamente avvenuto: la competizione strategica e più precisamente la rivalità “sistemica” con la Cina.ha sostituito la lotta al terrorismo come obiettivo principale della politica estera; la pagina sull’estensione delle democrazie di mercato è voltata. La sua presidenza ha sancito il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici degli Stati Uniti. L’amministrazione si apre sull’osservazione del fallimento di questa politica. Mettendo in discussione il multilateralismo e le sue istituzioni, l’America di Trump sembra trasformarsi in un “partner irresponsabile” che rifiuta questo ordine internazionale che aveva finora garantito,

L’era Trump sancisce il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici dell’amministrazione Trump aperta all’osservazione del fallimento di questa politica.

MAYA KANDEL

Tuttavia, resta difficile definire il “trumpismo” in politica estera: mettere in discussione i principi guida della politica estera non significa tornare all’isolazionismo degli anni Trenta, o alla politica estera essenzialmente commerciale del XIX secolo. secolo. La difficoltà nell’interpretare la politica estera di Trump deriva dalle molteplici contraddizioni di questa politica su più temi, legati al caotico processo decisionale, oggetto di continue lotte, ma anche alla personalità del presidente; soprattutto il trumpismo, che qui caratterizza la mutazione del Partito Repubblicano sotto l’influenza della base elettorale di Trump, è ancora in gestazione, oggetto di lotte interne che si intensificheranno dopo le elezioni e di un vivace dibattito di idee, che non può prescindere dall’evoluzione demografica dell’America.

Trump non è un ideologo o un intellettuale ma ha istinti e ossessioni, e ha governato per la sua base elettorale, che fa luce sulle motivazioni interne di molte decisioni di politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Soprattutto altri hanno teorizzato per lui, se sono ancora alla Casa Bianca dopo quattro anni, come Stephen Miller, Pete Navarro o Matt Pottinger, o sono stati solo un compagno di viaggio, come Steve Bannon o John Bolton. La longevità di Miller, Navarro e Pottinger dà già indicazioni sull’eredità: nazionalismo “giudeo-cristiano”, governance anti-global e anti-multilateralismo ( anti-immigration); politica commerciale anti-libero e anti-cinese; adottare una posizione dura contro la Cina. La   dichiarata “   nuova guerra fredda ” contro la Cina è stata avallata ai massimi livelli nell’ottobre 2018 con il discorso del vicepresidente Mike Pence: ma per farlo ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni per Trump. si è ripreso nel marzo 2020, approvando il consenso.

Ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni affinché Trump si radunasse nel marzo 2020 sulla dottrina della “nuova guerra fredda”, approvando il consenso.

MAYA KANDEL

Mirare e premiare i gruppi identificati ha portato ad alcune decisioni soprattutto su Israele, a causa del patto fatto tra Trump e gli evangelici nel 2016, ovvero il clima, con la scelta del “primato energetico” visualizzato come obiettivo strategico, sempre determinato in buona parte da un accordo concluso nel 2016 con i maggiori gruppi petroliferi. Alcune scelte di politica industriale e commerciale hanno soddisfatto anche le aspettative degli elettori chiave che hanno vinto Trump nella Rust Belt (Michigan, Pennsylvania), una regione più colpita dalle delocalizzazioni ma anche dall’abbandono del carbone. L’agenda anti-Obama risponde a un’ossessione personale di Trump, ma anche al movimento del Tea Party (di cui l’elezione di Trump è anche l’espressione di maggior successo), e ha portato alla distruzione metodica dell’eredità La politica estera di Obama (uscita dall’accordo di Parigi, accordo sul nucleare iraniano, apertura a Cuba e ovviamente denuncia immediata del TPP). Mentre alcuni elementi avrebbero potuto trovare il loro posto in un’amministrazione repubblicana più classica (Iran, clima), altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Ciò spiega la natura schizofrenica, anche la duplice politica estera che ha colpito principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: è stato il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, in particolare tra la Casa Bianca e il Congresso. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca.

Queste contraddizioni illustrano la sostenibilità di diverse correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano, anche se il partito si è schierato con Trump (hanno gli stessi elettori), segno di tensioni persistenti all’interno della nuova alleanza portata da Trump tra isolazionisti. e nazionalisti, a scapito degli interventisti assimilati ai neoconservatori e respinti dagli elettori trumpisti. Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e il controllo della corrente sovranista sul Partito Repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.America Firstin una parola sarebbe nazionalismo (o nazional-populismo per evocare la circolazione transatlantica e l’importanza del contesto). Troviamo qui l’influenza di Bannon e Miller, ma anche del Claremont Institute, think tank sulla West Coast e fornitore ufficiale di idee al Trumpismo, che si è mobilitato molto presto alla candidatura di Trump, con Michael Anton, appunto. sulla politica estera. Altri si sono mobilitati, con obiettivi meno chiari (sintesi difficile) come l’Hudson, dove Pence ha tenuto il discorso di apertura delle ostilità sulla Cina nell’ottobre 2018 – ma ci sono voluti meno la pandemia e un’improvvisa scadenza elettorale ben avviato affinché Trump si mobiliti dietro il consenso tra agenzie della sua stessa amministrazione. Una “nuova guerra fredda” contro la Cina permette anche di mobilitare gli internazionalisti, compresi i primi e ancora neoconservatori. Tuttavia, sul piano della politica estera appunto, la sintesi intellettuale non è completata – e il dibattito non è risolto: permane una forte tensione tra la tentazione isolazionista, favorevole a un trinceramento degli Stati Uniti dietro i loro confini, e tendenza egemonica in cui la supremazia militare rimane essenziale.

Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e la morsa della corrente sovranista sul partito repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.

MAYA KANDEL

Una nuova sintesi repubblicana: il ritorno degli isolazionisti

Il politologo americano Colin Dueck, specializzato nello studio della politica estera del Partito Repubblicano, ha dimostrato che ci sono tre principali correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano. La prima corrente, dominante nelle élite del partito dal 1945, è la corrente internazionalista. Tutti i presidenti repubblicani, da Eisenhower a Trump, erano internazionalisti, favorevoli a un’attivista politica estera americana, che difendevano l’ordine internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale e si affidavano soprattutto alle istituzioni internazionali e ad un sistema di alleanze tra Stati Uniti al centro e in posizione di leadership. Questa corrente è composta da realisti e neoconservatori, questi ultimi che hanno ottenuto l’ascesa con la presidenza Reagan.

La seconda corrente può essere definita isolazionista e ha dominato il Partito Repubblicano in particolare negli anni ’20 e ’30. È particolarmente contrario alle alleanze vincolanti e agli interventi militari non difensivi (si pensi, ad esempio, alla mancata ratifica del Trattato di Versailles nel 1919 e alla non partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni). Di ispirazione libertaria, è stata ancorata nel DNA americano sin dall’inizio ma è stata emarginata durante la Guerra Fredda a causa dell’imperativo di combattere il comunismo. È riemerso con forza alla fine della Guerra Fredda, con una pausa dopo gli attacchi del 2001, ed è rappresentato tra gli altri da Rand Paul (e suo padre Ron prima di lui), oggi uno dei convinti sostenitori di Trump. al Senato.

Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, a favore di un alto livello di spesa militare e di un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump.

MAYA KANDEL

Infine, la terza corrente è soprattutto nazionalista, e fino a quando Trump è rimasto poco rappresentato a livello di élite e nei think tank , un vuoto che il Claremont Institute è venuto a colmare, cui si sono aggiunti altri che si sono uniti al Trumpismo abbracciando la lotta contro la sfida cinese alla supremazia americana (Hudson). Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, favorevole ad un alto livello di spesa militare e ad un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump. I nazionalisti non sono né pacifisti né isolazionisti, ma sono davvero ostili agli interventi umanitari o di costruzione della nazione , agli aiuti esteri, alle istituzioni internazionali in generale e allel’idea di governance globale   : sono feroci difensori della sovranità americana.

Storicamente, i nazionalisti sono stati la spina dorsale del Partito Repubblicano sulle questioni internazionali, un gruppo il cui sostegno era indispensabile per qualsiasi intervento militare importante e duraturo. La loro alleanza con gli internazionalisti ha sostenuto l’attivismo americano durante la Guerra Fredda, così come nell’immediato periodo successivo all’11 settembre 2001. In tutto questo periodo, gli internazionalisti hanno dominato ei non interventisti sono stati emarginati. Ma Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta marginalizzando gli internazionalisti, identificati con i neoconservatori e quindi con le élite di partito in politica estera. È questa alleanza che non ha precedenti dagli anni ’30. Dopo quattro anni del presidente Trump, sembra aver prodotto una nuova postura se non una dottrina, articolata attorno a una politica estera soprattutto economico-legale (sanzioni), e una nuova guerra fredda almeno in campo commerciale e tecnologico con la Cina . L’ultimo libro di Colin Dueck è intitolato altroveAge of Iron: sul nazionalismo conservatore .

Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta emarginando internazionalisti, identificati con neoconservatori e quindi con élite di partito in politica estera.

MAYA KANDEL

Una politica estera “jacksoniana”: sovranità e bilateralismo

Molti osservatori insistono giustamente sugli elementi di continuità tra la politica estera di Trump e quella del suo predecessore democratico, Barack Obama, in particolare il duplice desiderio di disimpegnarsi dal Medio Oriente e di orientarsi verso l’Asia. A questo potremmo aggiungere il rifiuto di essere il “poliziotto del mondo”, cioè il garante dell’ordine internazionale, per Obama perché gli Stati Uniti non avrebbero più i mezzi, per Trump perché che non sarebbe più nel loro interesse: in entrambi i casi gli alleati sono chiamati a fare di più, gli avversari trovano nuove opportunità. Ma questi elementi non dovrebbero mascherare la vera rottura, il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nell’architettura internazionale (istituzioni e regole) dovrebbe renderli “partner responsabili” degli Stati Uniti nella difesa della sicurezza e della prosperità globali (Cina all’OMC, Russia al G7). Ildocumenti  strategici dell’amministrazione Trump aperti sull’osservazione del fallimento di questo approccio. La sua amministrazione ritiene che questa architettura internazionale non sia più adatta all’attuale sistema internazionale e intende aggiornare i suoi elementi principali per adattarli al nuovo contesto, quello della rivalità americano-cinese: si tratta infatti di reinventare le istituzioni, alleanze e determinate regole, in particolare a livello commerciale e tecnologico.

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Il “trumpismo” in politica estera è stato chiamato Jacksonian: nella tipologiadefinito dallo storico Walter Russell Mead, Jacksonism, in riferimento ad Andrew Jackson, un presidente populista e nazionalista che ha ampliato il voto popolare e accelerato la “pulizia etnica” dei nativi americani, descrive una politica estera basata su una ristretta ridefinizione degli interessi americani , sollevando soprattutto l’imperativo della sovranità, necessaria per preservare la libertà d’azione americana: la politica estera jacksoniana rifiuta ogni missione universale a favore della sola realpolitik. Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è tradotto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentati da americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a vantaggio di una “élite globalizzata” vista come il nemico, anche come anti-americano. Si è manifestato attraverso gli attacchi sistematici contro le alleanze e le istituzioni internazionali – dalla NATO all’ONU, al G7 e all’OMC , il cui meccanismo di risoluzione delle controversie è stato reso de facto inoperante da Washington, o oggi contro l’OMS; o anche attraverso il ritiro definitivo dell’UNESCO o della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il tutto riflette questo assalto generalizzato a ciò che Trump e la sua base chiamano “globalismo” e al quale si oppongono al nazionalismo dell’America First line .

Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è risolto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentata dagli americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a favore della una “élite globalizzata” considerata come il nemico, anche come anti-americano.

MAYA KANDEL

Gli americani erano soliti chiamarsi “multilateralisti quando possiamo, unilateralisti quando dobbiamo”. L’attuale rifiuto del multilateralismo riflette anche il relativo declino del potere americano, dovuto all’ascesa della Cina, molto visibile all’interno delle organizzazioni internazionali. Gli Stati Uniti erano multilateralisti, o perché erano abbastanza potenti perché la loro volontà si imponesse, o perché potevano permettersi un risultato meno ottimale, ma alla fine giustificato dall’imperativo superiore. per mantenere la stabilità egemonica. Questo margine di manovra è ormai scomparso e gli Stati Uniti sono unilateralisti soprattutto perché non sono più così potenti relativamente. Sono anche piuttosto “bilaterali”, per usare l’ analisi di David Haglund, gestione ottimale di un potere che ancora domina qualsiasi rapporto bilaterale.

Questa scelta è inseparabile dall’evoluzione ideologica del Partito Repubblicano in un partito sovranista, uno dei cui slogan è l’opposizione viscerale al governo mondiale in nome dell’indipendenza nazionale, della libertà di azione e legittimità unica della Costituzione degli Stati Uniti. Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati. Pertanto, anche trattati come quello delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o il trattato sui diritti delle persone disabili ( Disability Treaty), tuttavia un’iniziativa americana, non poteva essere ratificata dal Senato americano.

Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati.

MAYA KANDEL

Dobbiamo tornare a un articolo pubblicato nel 2000 da John Bolton (allora vicepresidente del think tank American Enterprise Institute), che ha respinto il progetto di “governance mondiale” simbolo della “globalizzazione felice” degli anni ’90, rappresentato negli Stati Uniti dalla dottrina Clinton dell’espansione delle democrazie di mercato e dall’intervento umanitario sotto l’egida della ONU (o almeno NATO). Questo progetto multilateralista assimilato ai Democratici è denunciato dal Partito Repubblicano del dopo Guerra Fredda come una minaccia per la sovranità e la libertà di azione degli Stati Uniti. È in nome della difesa dell’identità americana che la governance mondiale e ciò che ne consegue – diritto internazionale, multilateralismo – sono qui considerati anti-americani. Questa frattura è ora ampiamente familiare, soprattutto perché si è diffusa in tutto il mondo, contrapponendo i nazional-populisti ai “globalisti”,

Il trumpismo è nazionalismo 

Il movimento conservatore, colonna portante intellettuale del Partito Repubblicano, ha cercato, dopo tre anni di presidenza Trump e l’avvicinarsi di una nuova scadenza elettorale, di “teorizzare gli istinti” di questo presidente straordinario, in accordo con la nuova base campagna elettorale, al fine di trattenere questi nuovi elettori che hanno portato al potere Trump e il Partito Repubblicano, sia il Presidente che il Congresso. Questa ”   teorizzazione inversa   ” del trumpismo in “conservatorismo nazionale” getta luce sull’evoluzione di questo nazional-populismo in stile americano, le cui risonanze sono numerose con i populismi europei e in particolare con la teorizzazione orbaniana della democrazia cristiana “illiberale”.. Ma questo revival nazionalista americano ha anche le sue specificità, legate alla storia degli Stati Uniti, alla costruzione della sua identità e del suo rapporto con il mondo. Il rifiuto della recente politica estera americana occupa infatti un posto centrale: ma la questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro lo scontro con la Cina. Soprattutto, è solo uno dei movimenti di idee che stanno combattendo per la base elettorale di Trump – e l’eredità del Trumpismo.

La questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro il confronto con la Cina.

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Tra i conservatori nazionali troviamo una visione del mondo che mescola la lettura civilizzazionista di Samuel Huntington , il prisma dei “nazionalisti contro i globalisti” ripreso da Trump nei testi scritti da Stephen Miller, ma anche l’ossessione sovranista di lunga data di alcuni. Settori repubblicani e intellettuali come quelli del Claremont Institute, il cui principio fondante, ricordiamolo, è che è necessario “ripristinare i principi di fondazione del Paese”: la Costituzione americana è considerata come unica fonte di legittimità e di diritto, il che spiega anche perché l’Unione Europea figura a tal punto da eresia, nemico da distruggere. La politica estera di Mike Pompeo, vicino a Claremont, va quindi spesso intesa nelle sue due dimensioni, interna ed esterna, nel quadro di un doppio confronto, interno e globale: contro un’élite internazionalista favorevole alla governance mondiale e multilateralismo (“globalista”), ma anche multiculturalismo interno (“cosmopolita”); e contro chi vuole la fine dell’Occidente (Cina e Islam politico). Ma dove Pompeo (come Yoram Hazony, autore di The Virtue of Nationalism ) parla di ridefinire le alleanze in conformità con questi principi e di incoraggiare i nazionalisti di tutti i paesi, altri, come Tucker Carlson, vicino a Trump e conduttore di Fox News , il cui spettacolo è il secondo più visto a livello nazionale, difendere un autentico isolazionismo che vede nella politica estera la difesa dell’interesse americano ridefinito al minimo  : sicurezza territoriale, protezione delle frontiere, difesa delle aziende americane dalla concorrenza cinese; con questo in mente, non dobbiamo solo lasciare il Medio Oriente ma anche la Corea del Sud e l’Europa, l’idea di fare la guerra per difendere Taiwan non viene presa sul serio e la NATO è obsoleta (e “Perché non dovremmo essere amici della Russia”). In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

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Un “blocco nazionalista”, base elettorale del Trumpismo

Un fl nel 2019 think tank di sinistra Center for American Progress sullo sviluppo dell’opinione americana sulla politica estera ha indicato l’esistenza di un “blocco nazionalista” secondo l’opinione: un terzo degli elettori , il gruppo più numeroso individuato dallo studio, potrebbe essere definito un blocco nazionalista, definito dal desiderio di ritirarsi dal mondo e dall’adesione alle posizioni di Trump su immigrazione e commercio. Uno dei marker più importanti è stata la dimensione generazionale, evidenziata anche da altri studi., dimostrando che la maggior parte degli internazionalisti sono nella popolazione che invecchia, mentre la maggioranza degli under 40 pensa che gli Stati Uniti dovrebbero “stare alla larga dagli affari mondiali”. Senza giustificarli, i cambiamenti demografici fanno luce su queste posizioni segnate dalla paura. Secondo uno studiodal Pew Research Center nel 2017, la popolazione statunitense nata all’estero ha raggiunto i 44,4 milioni; la percentuale di immigrati residenti negli Stati Uniti era del 13,6% della popolazione, appena sotto il record del 1890 al 14,8%. Dal 1990 al 2007, la popolazione di immigrati clandestini è triplicata, raggiungendo i 12,2 milioni nel 2007. Attualmente è stimata in 10,5 milioni. Queste cifre sono vicine al livello storico più alto del 1890 e del 1910, due momenti che preludono alle febbri del nazionalismo, all’approvazione delle leggi sulle quote (1923 e 1924) e al periodo più isolazionista della politica estera americana (1920 e 1930).

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Ci sono fondamentali che non cambieranno con o senza Trump: l’osservazione di un ordine internazionale che non serve più gli interessi americani e che necessita di essere riformato (dinamite, secondo Trump); la necessità di rinnovare il legame con la politica interna; il rifiuto degli interventi militari a meno che l’interesse nazionale non sia direttamente minacciato; una rivalutazione delle alleanze e degli alleati. Ma la politica estera è al centro del conservatorismo nazionale, mentre costituisce la grande debolezza di questo movimento, a causa della confusione che vi regna, e le questioni esistenziali che il suo sviluppo pone al Paese. Perché gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere nel mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica internazionale. Non è certo che il Paese e le sue élite siano pronte: rifiutando l’eccezionalismo, gli Stati Uniti diventerebbero un Paese come un altro, una “potenza normale”. Questo punto interroga profondamente l’identità americana, la cui crisi èlegato a quello della politica estera e illumina il momento attuale negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere al mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica sulla scena internazionale.

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Potere normale o potere egemonico: la questione dell’eccezionalismo

Per il Claremont Institute, come per i nazionalisti e gli isolazionisti che intendono tornare alle origini del Paese, è opportuno riallacciarsi a George Washington e al suo rifiuto delle “alleanze vincolanti”; oltre a ciò, si tratterebbe di tornare alla politica estera americana del I secolo, fondata sulla necessità di potere economico e quindi su una politica commerciale aggressiva, con l’obiettivo di difendere la base manifatturiera americana e l’occupazione, ma anche su un imperialismo economico a McKinley che mette il potere dello stato per il salvataggio di imprese americane, all’interno e all’estero – questo “imperialismo privato” strettamente americano, simboleggiata dalla politica asiatica nel XIX ° secolo , di United Fruitin America Latina fino alla seconda guerra mondiale – fino alle sanzioni extraterritoriali di oggi.

Ma non tutti vedono la politica internazionale come una semplice “competizione geoeconomica”. Così, il senatore Josh Hawley, il più giovane eletto al Senato, figura in ascesa e fedele trumpista – almeno finora – ha denunciato in un discorsorecente “l’ideologia globalista dominante in molti paesi europei, in particolare Germania e Francia di Emmanuel Macron”, ideologia designata come “progressismo transnazionale”, visione “post-sovranista” o “universalismo progressista”. Ribadendo che l’obiettivo della politica estera americana non è più quello di trasformare il mondo, ha sottolineato la fondazione del paese, “costruito e sviluppato dai lavoratori, le classi medie”, sostenendo un “ordine internazionale rispettoso del nostro carattere nazionale, che deve essere una nazione prima di tutto commerciale ”. Ora, “una nazione commerciale che necessita di accesso ai mercati in tutte le regioni del mondo”, ha concluso Hawley indicando che ciò era possibile solo “se nessuna regione è controllata o sviluppata da un’altra potenza”,

Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un netto ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto interessati al “controllo dell’Eurasia”.

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Questa frase richiama il documento strategico del 1992, il primo documento del Pentagono dopo la fine della guerra fredda di Dick Cheney e Paul Wolfowitz (due uomini che si troveranno nell’amministrazione di George W. Bush nel 2001), che ribadiva uno dei fondamenti dell’atteggiamento americano nei confronti del mondo, “per impedire l’emergere di una superpotenza rivale” in grado di dominare una regione del mondo. Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un marcato ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto preoccupati per il “controllo dell’Eurasia”. Hawley ha concluso il suo discorso di fondazione con una strategia di contenimento, questa volta contro la Cina, la cui “volontà di dominare costituisce la più grave minaccia alla sicurezza per gli Stati Uniti in questo secolo”. Questo discorso è vicino a quello di Tom Cotton o Nikki Haley, altre figure emblematiche della giovane guardia repubblicana e contendenti alla successione di Trump. Questo approccio sta per imporsi da parte repubblicana e potrebbe riunire le diverse correnti descritte da Dueck. Consente inoltre di invocare l’eccezionalità, in un contesto sempre più marcato di confronto dei modelli con la Cina.

Gli Stati Uniti, potenza insulare: fine della centralità delle relazioni transatlantiche 

Walter Russell Mead era al momento della pubblicazione della strategia di difesa nazionale di Amministrazione nel 2018 Trump illuminante parallelo con il dibattito politico del Regno Unito agli inizi del XX ° secolo. Alla fine del XIX E secolo in Gran Bretagna, il dibattito strategico opposti, da una parte i partigiani di una strategia di “continentale” dando priorità alle alleanze e ad una stretta collaborazione con gli Stati europei principali, e del un altro i difensori di una strategia marittima ( la politica dell’acqua blu ), che voleva allontanarsi dall’Europa per abbracciare una strategia globale, utilizzando la posizione geografica e l’impero per massimizzare il potere britannico.

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945.

MAYA KANDEL

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945: vedono ancora il mondo atlantico, con la sua fitta rete istituzionale sviluppata all’interno degli alleati della Guerra Fredda, come il modello su cui si può e si deve costruire una società pacifica globale, e quindi difendere sempre una politica americana basata soprattutto sulla collaborazione occidentale. Ma l’amministrazione Trump sembra aver fatto la scelta di una “strategia marittima”, nel senso della blue water policy del dibattito britannico: come ai tempi della Pax Britannica, i sostenitori di questa strategia intendono accumulare potere e ricchezza promuovendo i loro interessi in tutto il mondo, vedendo in questo una ricetta migliore per il successo che nelle complicazioni europee e transatlantiche. Ricordiamo, per usare la metafora di Mead, che per gli inglesi dell’epoca una Gran Bretagna forte poteva allora intervenire se necessario in Europa per mantenere o ristabilire un equilibrio di potere, e garantire così una dominazione britannica globale. Questa visione informa molte decisioni della squadra al potere a Washington. L’amministrazione Trump, ad esempio, vede l’accordo di Parigi soprattutto come un ostacolo allo sfruttamento da parte degli Stati Uniti del proprio potenziale energetico. Sopprattuto, gli Stati Uniti si vedono in una competizione geopolitica globale con la Cina che non può essere vinta invocando il multilateralismo e il diritto internazionale. La “dottrina Trump” esprimerebbe queste scelte: Asia prima dell’Europa, “realismo” piuttosto che internazionalismo liberale, prosperità americana prima del multilateralismo e cooperazione internazionale.

Questa visione ha il pregio di avvicinare sia il focus del Pentagono, già da diversi anni, sulla sfida cinese, sia alcuni istinti dello stesso presidente. Un tale approccio non volta le spalle al campo occidentale e non rifiuta le relazioni transatlantiche, ma presuppone che sia il potere americano, e non le istituzioni transatlantiche, a consentire queste stesse istituzioni, e quindi l’Occidente. esistere. Le fasi della politica estera americana e le principali rotture sono sempre legate agli sviluppi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa e più precisamente agli equilibri transatlantici. Si tratta quindi di un profondo cambiamento di status per le relazioni transatlantiche e forse, per quanto ci riguarda, la principale differenza tra la visione del mondo trumpista e la riflessione avviata da un campo democratico anche in piena riorganizzazione. Ma questo è solo uno dei campi di interrogazione aperti da Trump sulla politica estera. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera realmente al servizio degli americani, soprattutto della classe media e operaia, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto della sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e trasformare il rapporto americano con il mondo.

https://legrandcontinent.eu/fr/2020/10/23/la-doctrine-trump-1/

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

piani a confronto…da recovery, di Giuseppe Germinario

I Next Generation EU (recovery fund), in via di presentazione ed elaborazione da parte dei vari paesi aderenti alla UE, sono una straordinaria occasione per tentare di comprendere il punto di vista delle diverse classi dirigenti europee, riguardo al tipo di rappresentazione della crisi in corso, alle scelte strategiche per affrontare i mutamenti ed i riposizionamenti, alla consapevolezza dell’adeguatezza degli strumenti operativi necessari e disponibili rispetto agli obbiettivi.

Una occasione straordinaria, appunto, ma a condizione di non cadere nella trappola della fiera delle mirabilie nella quale ci stanno trascinando quelle classi dirigenti e quei ceti politici nazionali europei, in prima fila pateticamente gli italiani, i quali stanno puntando tutto ed univocamente su un intervento europeo dal carattere salvifico.

L’entità reale delle cifre non è ancora affatto scontata. La loro ripartizione tra indebitamento e sussidio ai beneficiari è ancora tutta da consolidare. Lo stesso vale per la effettiva composizione del carnet secondo la ripartizione dei fondi accumulati derivanti dall’inedita imposizione diretta degli organismi amministrativi comunitari, dall’emissione di titoli di indebitamento comuni e dalla contribuzione diretta degli stati nazionali. Per non parlare di una tempistica e di una diluizione degli interventi agli antipodi di un efficace intervento anticiclico. La consueta piega che sta prendendo l’istruzione della pratica NGEU, destinato a seguire pedissequamente il canovaccio delle collaudate procedure decisionali comunitarie, lascia presagire l’introduzione di condizionalità variabili in corso d’opera in funzione del grado di dipendenza da NGEU degli interventi nazionali. Se infatti per l’Italia il peso relativo di NGEU, unito ad altri importi residuali, si avvicina nella spesa di investimento pericolosamente al 100% dell’intervento complessivo, per la Germania ad esempio non arriva, secondo stime attendibili, nemmeno al 30%. Gli stessi fondi NGEU tra l’altro potranno assorbire e sostituire investimenti già in corso. Tutte dinamiche ed inerzie in grado di acuire come si vedrà il divario tra ambizioni dichiarate e risultati effettivi; per meglio dire in grado di mettere a nudo i reali obbiettivi strategici di fondo.

Paradossalmente tutte incognite, inerzie, logiche che fungono da ulteriore cartina di tornasole nel valutare la qualità dei ceti politici e delle classi dirigenti italici ed europei.

I piani esaminati sono quelli tedesco, francese ed italiano. Al momento quello tedesco è il più scarno ed essenziale negli indirizzi, anche se il giudizio è fondato sulla lettura di una mera sintesi della quale si offre uno schema predisposto da un collaboratore del sito:

IL PIANO TEDESCO

130 Miliardi totale

  1. 80 Miliardi nel breve termine, 50 miliardi investimenti a medio-lungo termine

  2. 35 miliardi sono dedicati alla voce greem automotive, H2

  3. riduzione IVA del 3% per sostenere il potere d’acquisto

  4. riduzione del costo dell’energia elettrica alle famiglie PMI

  5. introduzione della tassa sulla CO2

  6. niente bonus alle auto con motori a combustione interna

  7. sviluppo delle stazioni stradali di e.e. e filiera delle batterie per auto

  8. aumento di capitale delle ferrovie statali

  9. pochi soldi sul risparmio energetico negli edifici

  10. pochi soldi, quasi nulla per le politiche attive del lavoro

In breve importi non disdicevoli, ma largamente sottodimensionati rispetto alle potenzialità dell’economia tedesca; investimenti diretti indirizzati prevalentemente nel settore dei trasporti ferroviari e soprattutto delle infrastrutture stradali e industriali legate alla trazione elettrica, in un paese che a dispetto degli attivi commerciali stratosferici, ha lasciato languire malinconicamente il livello di efficienza delle infrastrutture. Per il resto si cade nella più tradizionale e generica politica di sostegno della domanda attraverso riduzioni fiscali e di tributi, tassazione mirata sulle emissioni ed incentivi agli acquisti e alla ricerca nel più tradizionale e più importante dei settori, dal punto di vista delle dimensioni economiche e delle implicazioni sociali, quello automobilistico. Si direbbe un classico esempio di perfetta ed anonima efficienza tedesca. E tuttavia il piano, preso a se stante, assume dimensioni ingannevoli in due sensi. Le dimensioni dell’intervento diretto del Governo Centrale tedesco e dei suoi laender vanno ben oltre quelle legate all’intervento europeo e soprattutto sfuggono in gran parte ai criteri di controllo ed applicazione europei. Il sistema neocorporativo che lega i destini e le strategie dello Stato, in particolare dei laender, dell’industria manifatturiera, del sistema bancario-finanziario e delle associazioni garantisce un indirizzo e pilotaggio delle risorse massiccio e capillare. Tutto bene quando si tratta di proseguire nello statu quo, sia pure dorato, attraverso il controllo sempre più stretto e ferreo delle catene di valore e di produzione, degli stessi standard di esecuzione resi possibili dai processi di digitalizzazione di secondo e terzo livello e da una intermediazione bancaria e finanziaria resa sempre più accessibile a tutto il settore grazie soprattutto alle garanzie offerte dalle aziende capofila del prodotto finale e alle coperture politiche-economiche ad esse garantite.

Una prospettiva, nelle more, che lascia entusiasti i giornalisti e scribacchini benpensanti del Corriere della Sera, i quali al pari della quasi totalità del ceto politico e della classe dirigente nazionali ritengono del tutto irrilevante ed ininfluente il livello di autonomia decisionale e di controllo gestionale delle aziende rispetto alla sovranità e alla coltivazione degli interessi nazionali. Irrilevante ed ininfluente, tranne che nella forma puerile e cialtrona di una tifoseria calcistica alla quale spesso ci hanno abituato ed indotti le classi dirigenti sorte dall’Unità Nazionale.

L’altro senso rappresenta il vero lato oscuro di un paese, la Germania che non ostante e proprio grazie alla sua potenza economica rischia di essere sempre più la zavorra in grado di annichilire le volontà e le velleità di indipendenza politica di un continente. Una conformazione e una dinamica di esercizio di potere interni in una collocazione geopolitica e geoeconomica che inibisce ogni seria ambizione di sviluppo nei settori strategici del controllo e gestione del digitale di primo livello, dell’aerospaziale, delle biotecnologie. Il poco che si riesce o si tenterebbe di fare (il progetto Gaya nel digitale, il progetto Galileo nel controllo dei posizionamenti, il Consorzio Airbus nell’aereonautica) nasce monco soprattutto nella sua parte militare, nasce spesso con ritardi incolmabili, sono frutto di fatto della esclusiva gestione cooperativa e conflittuale franco-tedesca, sono oggetto di mercimonio con la potenza egemone occidentale. In realtà la potenza tedesca continua ad essere un tramite di controllo geopolitico e di drenaggio di risorse, specie finanziarie, costretta a pagare pesantemente i propri radi sussulti di potenza di seconda se non di terza categoria. Lo si vedrà con la strisciante e possibilmente controllata distruzione di capitale legata alla crisi di Deutsch Bank e Commerzbank; lo si è visto nella trappola in cui è caduta il colosso della Bayer con l’acquisizione della americana Monsanto sino alla batosta nel settore automobilistico. Una propensione che si conferma e si accompagna ad un atteggiamento ottuso sul problema ambientale che accompagna il processo di decarbonizzazione a quello di denuclearizzazione. Una trappola ben conosciuta nell’Italia degli anni ‘80/’90, ma che evidentemente riesce a trovare nuovi emuli.

GLI ALTRI DUE PIANI IN PARALLELO

Si passa, quindi e ci si dilunga sui due piani esaminati dettagliatamente francese e italiano, senza entrare però troppo in particolari tecnici del tutto ridondanti rispetto alle finalità dello scritto.

Tutti i piani devono seguire obbligatoriamente due parametri stabiliti dalla Commissione Europea (CE) secondo un piano decennale di sviluppo; l’utilizzo di almeno un terzo delle risorse per la riconversione verde dell’economia e un’altra quota significativa nell’investimento massiccio nella digitalizzazione dei consumi, dei servizi e dei processi produttivi. Indirizzi i quali a loro volta rientrano pienamente nel filone del Grande Reset, inaugurato tre anni fa a Davos e ripreso in pompa magna in queste settimane anche in risposta all’emergere dei cosiddetti movimenti “nazionalisti e populisti”.

LA GREEN ECONOMY

L’investimento nell’economia verde è legata all’ideologia del catastrofismo ambientale che induce al contrasto ai cambiamenti climatici determinati dall’antropomorfizzazione del pianeta.

Una enfasi che comporta tre implicazioni importanti di natura regressiva e velleitaria:

  • i cambiamenti climatici, in realtà determinati nella più gran parte da forze ed elementi superiori alle attuali possibilità di controllo dell’uomo, vanno contrastati piuttosto che di essi bisogna prendere atto per adeguare l’intervento umano sul territorio

  • il problema del cambiamento climatico, spesso e volentieri ridotto ad un problema di riscaldamento e quello dell’inquinamento, spesso e volentieri semplicisticamente e meccanicamente connesso al primo, sono visti come un problema generalista ed universale, piuttosto che come una serie di problemi locali, per quanto sempre più estesi, da affrontare pragmaticamente secondo le condizioni regionali

  • le massicce dosi durgenza e di allarmismo iniettate nell’opinione pubblica impediscono di vedere l’impegno di riconversione delle attività come un lungo processo di transizione dai risultati spesso sperimentali e tutt’altro che certi e definitivi. Le conseguenze cominciano a manifestarsi nella loro gravità e contraddittorietà: il problema ancora insoluto dell’intermittenza della produzione di energia elettrica verde ha generato in California, terra di elezione dell’ambientalismo radicale, estesi e prolungati black out; la soppressione improvvisa e senza alternative dell’utilizzo di alcuni fitofarmaci nella produzione di soia e cereali in Francia ha generato in pochi anni un crollo della produzione di quei prodotti, una diffusione delle malattie in quelle specie e la perdita repentina della sovranità alimentare.

Anche l’approccio più dogmatico deve però in qualche maniera fare i conti con la dura realtà. Tutti e tre i documenti tentano questo bagno di realismo introducendo il concetto di “economia circolare” inteso nel migliore dei casi ancora poco rigorosamente come sistema di recupero e riutilizzo di rifiuti, scarti e prodotti usurati e/o alternativamente come creazioni di economie territoriali tendenzialmente più autosufficienti; nel peggiore dei casi come una scatola vuota dal carattere apertamente reazionario.

Questa l’impostazione di fondo comune che accomuna i due piani, cementata dalla prospettiva di creazione di una tecnologia dei carburanti, l’idrogeno, più promettente e tecnologicamente e industrialmente praticabile nel giro di un paio di decenni.

Una impostazione comune che nasconde una serietà di approccio, una intenzione, se non una capacità operativa e di programmazione del tutto divergente.

In Francia nel piano è evidente il tentativo almeno dichiarato di recupero di territori depressi e periferici attraverso la creazione di una nuova rete di trasporto pubblico, il risanamento e la valorizzazione di territori attraverso la manutenzione resa accessibile e sensata nei costi dal ripopolamento e dalla costruzione di economie pluricolturali fondate su turismo, agricoltura di nicchia, artigianato e piccola industria. In esse, la tecnologia dell’idrogeno assume dichiaratamente un ruolo fondamentale nella costruzione di una rete di trasporti meno inquinanti.

Il piano italiano utilizza gli stessi termini di green economy e di economia circolare per coprire l’estemporaneità degli interventi dagli effetti di qualche utilità nella funzione di moltiplicatore keynesiano immediato, ma del tutto controproducente dal punto di vista della coesione della formazione sociale e delle possibilità di sviluppo serio e duraturo del paese.

Il potenziamento della rete fisica di comunicazione si riduce sostanzialmente alla conferma di tre reti di alta velocità, due delle quali al sud e con esclusione integrale della Sardegna, in un contesto in cui scompare totalmente un ruolo europeo e nazionale dei quattro porti principali del Meridione d’Italia e non si accenna minimamente ad una proiezione del paese e di questi verso le economie del Mediterraneo. È assodato, ma non evidentemente per i nostri, che le reti di comunicazione possono rivelarsi fattori di sviluppo ma anche di regresso e polarizzazione economica se non accompagnate da altre politiche. Grecia docet.

La ricostruzione dei territori degradati e abbandonati si risolve in una serie di manutenzioni e ricostruzione di opere destinate a degradarsi nuovamente in tempi rapidi se non accompagnati da un ripopolamento ed una valorizzazione diversificata di quei territori. Eppure in Italia, anche se pochi, esempi riusciti di salvaguardia e valorizzazione da cui attingere esistono, in particolare in Trentino, in Alto Adige, ma anche in Toscana e in Piemonte. Tutto in realtà sembra risolversi nel potere magico di parole come turismo, cultura, agricoltura quasi che da sole e singolarmente riescano ad assumere una funzione salvifica a prescindere tra l’altro dalla capacità stessa delle realtà economiche nazionali e territoriali di quei settori, in verità sempre più deficitaria di incentivare, attirare e controllare con politiche proprie i flussi.

Un approccio del tutto acritico pervade anche i propositi di ulteriore sviluppo degli impianti di produzione di energia verde, in gran parte intermittente. Nessuna riflessione sulla tempistica e sul sistema dissennato di incentivazione al consumo che ha impedito e nemmeno considerato nei tempi d’oro di inizio millennio l’eventualità di creazione di una industria nazionale dei pannelli e di sistemi di produzione diversificati e di un artigianato locale preparato professionalmente, venuto fuori quest’ultimo a fatica solo a tempi di esecuzione inoltrati dei programmi. Il segno di uno scollamento dalle realtà economiche ed imprenditoriali e di una strutturale incapacità politica di assumere nelle decisioni tutti gli aspetti dei cicli operativi. L’idrogeno è diventata la nuova terra promessa già bella e impacchettata per tutte le occasioni: per le auto, per i treni e le navi, ma anche per salvare e riconvertire la produzione di acciaio dell’Ilva di Taranto. La parola che di per sé si materializza in fatto concreto e tangibile. La tecnologia è in effetti promettente, ma ancora in gran parte da realizzare e da rendere industrialmente praticabile. Soffre soprattutto di un handicap pesante, la conferma che non esistono tecnologie e interventi umani che non abbiano comunque un costo ambientale: i pesanti fabbisogni e costi energetici elettrici necessari a garantire attraverso l’elettrolisi la produzione di batterie ad idrogeno. Fabbisogni dai costi praticabili solo con la presenza di centrali nucleari.

Quali sono i paesi in grado di garantire questi costi e quantità praticabili? La Francia e, in caso di improbabile rinsavimento, la Germania.

Quale è il paese che ha ceduto totalmente il controllo delle tecnologie delle batterie, in pratica del tanto sbandierato e agognato futuro verde dell’economia, quanto meno dei trasporti? L’Italia, ovvero la nostra lungimirante classe dirigente e il nostro preveggente ceto politico, abbagliati dal loro stesso eurolirismo ed ecolirismo e così sempiternamente ossequioso verso una famiglia ormai di predoni, colti ormai con le dita nella marmellata in episodi sempre più meschini, più che imprenditoriale alla quale non si è eccepito nulla riguardo la vendita della Magneti Marelli e di gran parte del patrimonio tecnologico costruito e finanziato pubblicamente in settant’anni. Una condizione ormai ricorrente di un paese disposto a sobbarcarsi entro certi limiti i costi e le incertezze della ricerca ma alla quale manca sempre più di offrire le piattaforme industriali necessarie alla valorizzazione economica e alla tutela delle proprie competenze. Una posizione che le impedisce di entrare a pieno titolo nei processi decisionali e di creazione di nuove realtà industriali e imprenditoriali almeno di livello europeo. Processi per nulla spontanei e per niente determinati da astratti principi di mercato.

Una condizione che risalta ancora più drammaticamente nelle parti dei due documenti che trattano di digitalizzazione, ricerca, applicazioni industriali.

SCIENZA, RICERCA, DIGITALIZZAZIONE, PIATTAFORME INDUSTRIALI

Il documento francese sull’argomento offre tre linee guida e un principio chiari:

  • la concentrazione e il coordinamento dell’attività di ricerca in sei grandi poli già in fase avanzata di sviluppo

  • il recupero della tradizione di un paese di ingegneri, matematici e tecnici di alto livello costruita nei tempi d’oro del gaullismo e smarrita drammaticamente negli ultimi due decenni

  • la creazione di sinergie che consentano la traduzione delle attività di ricerca in applicazioni, sperimentazione e in piattaforme industriali. Sinergie da mettere in pratica con la interazione e la collaborazione a vari livelli tra centri di ricerca, agenzie ibride militari-civili, sistema finanziario, pubblica amministrazione e complessi industriali che guidino le varie fasi ed in particolare quella delle applicazioni industriali attraverso la creazione di start-up e della resa economica attraverso l’offerta di piattaforme industriali adatte a garantire la resa economica su larga scala

  • il recupero della sovranità nel settore agroalimentare, della produzione di quello sanitario e dei settori strategici ad alta tecnologia laddove il controllo nazionale delle imprese e delle loro strategie assume un aspetto cruciale

Il documento italiano rappresenta l’apoteosi dell’estemporaneità e della schizofrenia, in pratica un collage di auspici e denunce sterili:

  • nessun accenno alla organizzazione e riorganizzazione dei pochi centri di ricerca e delle università come pure nessuna indicazione concreta sul punto cruciale della trasformazione della ricerca in applicazioni industriali sperimentali attraverso la promozione di start-up e soprattutto della creazione, con l’impegno diretto delle imprese di piattaforme industriali in grado di garantire la resa economica su larga scala dei risultati della ricerca. Il documento, denunciando la scarsità di investimenti, affronta il problema con delle tautologie pure e semplici: segnala la scarsa attrazione esercitata sui ricercatori e propone un incremento delle retribuzioni e dei corrispettivi economici senza alcun accenno alla carenza di attrezzature e materiali e soprattutto alla riorganizzazione dei centri di ricerca; segnala la crescente carenza, rispetto alla media europea e ancora più impietosa rispetto ai diversi paesi emergenti ed emersi, di personale tecnico-scientifico altamente qualificato, stigmatizza che il sistema economico italiano non è in grado di assorbire in buona parte quello stesso personale e alla fine si limita ad auspicare una maggiore qualificazione e corrispondenza alle esigenze delle università e delle scuole superiori. Un approccio classico del progressismo democratico che riesce a garantire sì spesso processi di emancipazione individuale, ma che riesce a far diventare le già scarse risorse destinate alla formazione e alla ricerca dei meri costi per la società di fatto sempre meno sostenibili e di fatto giustificabili

  • se si vuole, ancora più enfasi viene dedicata ai processi di digitalizzazione. Qui l’approfondimento va suddiviso in due parti. Il documento registra a ragione una grande difficoltà nell’implementazione dei processi di digitalizzazione nelle attività produttive, in particolare quelle industriali. Una remora già ampiamente segnalata dall’ex-ministro Calenda, fautore del programma “industria 4.0”. Attribuisce alla insufficiente dimensione e alla scarsa preparazione manageriale delle imprese la scarsa capacità di assimilazione delle nuove tecnologie. Ma anche in questo caso lo sforzo di elaborazione e propositivo si ferma qui o poco oltre. Glissa vergognosamente sulla vera e propria abdicazione della grandissima parte delle famiglie imprenditoriali medio-grandi italiane. In una condizione di pur oggettiva maggiore difficoltà di esercizio delle attività rispetto agli altri paesi e in una situazione nella quale la gestione scellerata delle privatizzazioni e dismissioni ha incentivato le più importanti di esse (Benetton, Agnelli, Pirelli, ………..) a trasformarsi in percettori di rendite da concessioni o in cavalieri di ventura per conto terzi, per lo più stranieri, si assiste ad un vero e proprio esodo biblico, per altro lucroso e ben ricompensato, dalle attività prettamente imprenditoriali a favore di soggetti esteri senza che nessun componente della classe dirigente e del ceto politico abbia e continui ad avere nulla da obbiettare e a maggior ragione senza che gli stessi fossero disposti ad utilizzare gli strumenti legislativi, normativi e finanziari, per altro in buona parte disponibili, tesi a compartecipare e condizionare le scelte delle imprese impegnate in questa fase di transizione. La conferma dei limiti e della grettezza di un ceto, sempre latente a partire dall’unità d’Italia e pronta ad emergere alla luce del sole nei momenti critici come negli anni ‘30, negli anni ‘50/’60, negli anni ‘90 e in maniera ormai endemica in questo ventennio. A questa generale abdicazione e complicità non corrisponde nessun tentativo adeguato di prendere atto della situazione, di conoscerne i meccanismi allo scopo di implementare al meglio i processi di digitalizzazione. La rete di aziende medie e piccole assume certamente queste caratteristiche, buone a garantire flessibilità ma poco adatte a sostenere i costi e le competenze necessari alla digitalizzazione e alla automazione, tanto più che buona parte delle competenze professionali e delle capacità innovative sono legate alla creatività e al patrimonio professionale personale degli operai e tecnici in buona parte fuori dal controllo e dalla standardizzazione manageriale. È altrettanto vero, però, che queste imprese per operare ed aggiornarsi devono disporre di una rete esterna di professionisti ineguagliata nella qualità e soprattutto nella quantità rispetto agli altri paesi europei. Questa rete, in qualche maniera organizzata, probabilmente potrebbe essere uno dei veicoli trainanti di promozione e gestione dei processi. Lo stesso dicasi per lo strumento dei distretti aziendali e per la funzione delle aziende capofila, non a caso nel mirino delle acquisizioni estere, altrimenti poco spiegabili dal punto di vista della redditività delle operazioni. Quanto più però la rete imprenditoriale è frammentata, tanto più occorre una gestione ed un indirizzo politico e strategico saldo e pervasivo, in pratica l’esistenza di un ceto politico e di una classe dirigente ancora più determinata e lungimirante. Una determinazione ed una lungimiranza ancora più incisiva quando deve necessariamente essere applicata all’estero sia nelle sedi istituzionali europee e nei rapporti bilaterali che decidono delle norme di regolazione, dei progetti di collaborazione nei settori, dei programmi ci compenetrazione e compartecipazione delle aziende sia in egual misura nei meandri amministrativi della UE, dove la fa da padrona l’attività lobbistica di imprese e gruppi di pressione, senza nemmeno la relativa trasparenza garantita dalla legislazione americana. Qualità e intraprendenza politiche tanto più necessarie quanto devono sopperire allo scarso peso lobbistico delle aziende e dei gruppi di pressioni italiani.

  • Le occasioni e gli esempi in corso vanno ancora una volta in controtendenza rispetto alle necessità e alle opportunità e a conferma di un ceto politico e dirigente italico passivo e in perenne attesa, complice. I processi di digitalizzazione della determinazione e regolazione dei flussi nella rete dei trasposti nazionale ed europea avrebbero potuto diventare l’occasione per mettere lo zampino o almeno l’occhio nella gestione dei flussi commerciali a cominciare dai fulcri dei porti di Amburgo, Anversa e Rotterdam, forti della posizione geografica dell’Italia e delle potenzialità dei porti di Trieste, Genova e Taranto. Ancora una volta i nostri non trovano di meglio che cedere, in cambio della digitalizzazione e della capacità gestionale, in condominio e probabilmente di fatto spesso in esclusiva la creazione e gestione digitale dei flussi. È già accaduto a Taranto con i turco-cinesi, pur nella incertezza delle dinamiche geopolitiche, sta accadendo a Trieste e a Genova. Ancora più sconcertante e deprimente l’esclusione e di fatto la rinuncia alla partecipazione ai progetti franco-tedeschi nell’aerospaziale e nel progetto Gaya di controllo, elaborazione e gestione di primo livello dei dati e comandi digitali in grado di mettere al sicuro il sistema di controllo e comando di industria 4.0. Progetti ancora allo stato intenzionale, dall’esito incerto e alquanto improbabile perché destinato a scontrarsi con gli interessi geopolitici strategici degli Stati Uniti e a subire l’indifferenza della potenza emergente cinese. In questo ambito l’Italia è stata semplicemente ignorata, pur potendo contribuire in maniera significativa con il proprio patrimonio di competenze. L’intenzione dei nostri è quella di subentrare a giochi fatti ma solo con l’apporto dei sistemi di sicurezza e gestione dei dati costruito nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA). Un proposito allo stesso tempo riduttivo e a ben pensare inquietante

  • e infatti l’unico obbiettivo realistico e a portata di mano, realmente impegnativo nell’ambito della digitalizzazione è proclamato a chiare lettere nella PA. Anche qui, però, il progetto soffre di una rigida impostazione deterministica. Il presupposto di questo programma è che l’informatizzazione, l’integrazione e la digitalizzazione dei servizi presuppongano meccanicamente un unico modello organizzativo. Chi conosce anche genericamente questi processi sa benissimo che non è così e che la determinazione di un modello organizzativo, quello più adatto ai sistemi digitali e più compatibile con un funzionamento ordinato delle istituzioni e delle amministrazioni. Un approccio fideistico non farà che creare conflitti, sovrapposizioni e intoppi che porteranno a conflitti di sistema, ridondanze e aggiornamenti tali da prolungare indefinitamente la fase di transizione. Una dinamica già conosciuta nella riorganizzazione di specifici settori come quelli delle Poste e destinata ad espandersi esponenzialmente in un progetto ben più complesso e articolato

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E IL DISORDINE ISTITUZIONALE E AMMINISTRATIVO

Un tema a parte ed originale riguarda la riforma e la riorganizzazione della gestione della giustizia italiana. Un capitolo dai contenuti accettabili sempre che il Governo presente e futuro abbia la forza di mettere mano alle modalità di funzionamento dell’ordinamento giudiziario e saper gestire le dinamiche ormai perverse e destabilizzanti dei gruppi di potere interno ad esso.

Rimane completamente rimosso il problema del disordine istituzionale e della pletora dei modelli organizzativi di gestione delle pubbliche amministrazione alimentati in particolare dal processo di regionalizzazione avviato al finire degli anni ‘90. Un problema la cui soluzione è in realtà propedeutica ad ogni altro provvedimento di riorganizzazione delle strutture statali e il cui procrastinarsi lascia spazio al lento processo di liquefazione delle strutture statali e alla invasività dell’Unione Europea nella sua continua ricerca di rapporto diretto con le strutture periferiche e decentrate, in particolare le regioni e i comuni, dello Stato Italiano. Una invasività strisciante nei vari paesi dell’Unione, che trova notevoli resistenze e paletti in alcuni Stati politicamente centrali e in quelli dell’Europa centro-orientale e autostrade aperte nell’area mediterranea, specie in Italia e Grecia

CONCLUSIONI

A questo punto della comparazione, il confronto potrebbe apparire assolutamente impietoso rispetto ad una classe dirigente e un ceto politico italici talmente remissivi ed approssimativi, perennemente in attesa di indicazioni esterne, concentrati ad assecondare un processo di trasferimento all’estero e di recupero per conto terzi di risorse politiche, di controllo ed economiche, a cominciare dal risparmio nazionale. È artefice e vittima di dinamiche ed inerzie che probabilmente faranno scivolare il programma NGEU italiano nella routine delle spese e degli investimenti ordinari, dalla resa immediata, dalla efficacia tuttalpiù immediata ed effimera dei moltiplicatori keynesiani, sempre che siano ormai in grado di individuarli vista la gestione disastrosa degli incentivi energetici e della pletora di bonus fiorita nell’emergenza pandemica. Non è un caso che questa classe dirigente individui nell’edilizia il moltiplicatore di sviluppo e di benessere. Con questa lungimiranza non farà che adattare surrettiziamente i programmi di investimento alle capacità tecnico-amministratice e agli interessi delle amministrazioni e dei centri di potere e di spesa residui sopravvissuti nel paese, in particolare i comuni e le regioni.

In realtà la situazione non presenta, purtroppo, nemmeno aspetti così marcati e distinti rispetto ai due paesi europei sotto esame ed in particolare la Francia.

Che dire di un ceto politico impersonato dalle ultime tre presidenze francesi ed in particolare da Macron che da ministro dell’economia ha consentito la cessione all’americana GE dell’intero settore strategico delle turbine, intimamente legato alla difesa e al settore nucleare salvo vedersi vaporizzare da Presidente a pochi anni di distanza il relativo intero centro di ricerche da 900 dipendenti nei pressi di Parigi; che dire della sua reazione a tempo quasi scaduto al mercimonio intentato dai tedeschi ai danni del consorzio Airbus e a favore della Boeing in cambio probabilmente della trappola ai propri danni dell’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer; che dire del suo accorato sostegno alle tesi del catastrofismo ambientale alla Greta Tunberg a principale giustificazione del programma di espansione dell’economia circolare, in un contesto geoeconomico, in particolare quello architettato dalla Germania e dalla UE, sostenuto pesantemente dagli Stati Uniti, nell’ambito delle importazioni di prodotti agricoli dal Maghreb, dall’America Latina e dall’Asia, in grado di renderlo velleitario pur con ben altre e più fondate motivazioni e proprio quando l’onda verde delle recenti elezioni municipali ha già messo a nudo il dogmatismo e la dabbenaggine di questo nuovo ceto politico emergente. Che dire di tutte queste posizioni e della schizofrenia connessa ai proclami di recupero di sovranità e ai propositi più o meno dichiarati e sottintesi nel documento francese?

Non si tratta della schizofrenia di un ceto politico prevalente, in Francia, in realtà molto più affine culturalmente e politicamente a quello assolutamente predominante in Italia e pervasivo anche in Germania.

È il contesto politico interno al paese che fa la differenza: è la drammatica situazione delle énclaves identitarie e comunitariste ormai quasi completamente fuori controllo nel paese; è la presenza di movimenti ostinati come quelli dei gilet gialli e degli epigoni prossimi venturi; è la presenza di una tradizione politica, amministrativa e di potere gaullista residua ma culturalmente ancora ben preparata ed ancora ben allignata nei centri decisionali a costringere a questa schizofrenia. Non è un caso che a parziale supporto e a sostegno su impostazioni più radicali del documento siano emerse due ben ponderose monografie di settimanali, in particolare del settimanale Marianne.

È una situazione ancora fluida ma che in assenza dell’emergere un terzo solido interlocutore europeo, l’Italia capace non dico di imporsi ma di trattare seriamente e con pari dignità lascia presagire il ritorno effimero ed illusorio allo statu quo, specie con l’affermazione di Biden, ma con il sacrificio definitivo di un paese, l’Italia dalla classe dirigente e dal ceto politico incapace di strategia, di volontà propria e di forza contrattuale oggettivamente disponibile in un contesto così mobile. Una remissività che probabilmente più che procrastrinare una tregua incerta interna al continente, non farà che accentuarne contemporaneamente il carattere ostile e conflittuale interno tra gli stati e la remissività e la subordinazione geopolitica al gigante americano, pur con le pesanti riserve legate alla instabilità di quella formazione politica.

Dieci anni fa Xi Jin Ping proclamo che avrebbe trasformato la Cina da opificio in laboratorio; pare ci stia riuscendo. La nostra classe dirigente e soprattutto il nostro miserabile ceto politico paiono impegnati, nel migliore dei casi, nel garantire il percorso opposto.

La posta in palio per il nostro paese è enorme: ha già perso progressivamente autorevolezza e forza politica in Europa e nel Mediterraneo; rischia di essere definitivamente spolpato del proprio risparmio nazionale e della propria capacità produttiva, in particolare quella più interconnessa e in posizione subordinata a quella francese e soprattutto tedesca a favore della collusione franco-tedesca proprio perché i propri amici-coltelli transalpini e teutonici potrebbero trovare più comodo ripiegare sul nutrimento garantito da un corpo amorfo disponibile ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che puntare contro una bestia troppo grossa e per di più distante un oceano ma ben presente e attenta a preservare il dominio sulle lande europee.

https://www.economie.gouv.fr/files/files/directions_services/plan-de-relance/annexe-fiche-mesures.pdf

https://www.corriere.it/economia/tasse/20_dicembre_07/pnrrbozzapercdm7dic2020-7908fa02-3898-11eb-a3d9-f53ec54e3a0b.shtml

https://www.prosud.it/wp-content/uploads/2020/12/linee-guida-pnrr-2020.pdf

https://www.marianne.net/economie/le-nouvel-imperatif-industriel-les-solutions-pour-redresser-la-france-le-hors-serie-de-marianne-est-en-kiosque

un augurio di buone feste da Cthulhu Morbus e da Massimo Morigi

Retracted by the News-Letter della Johns Hopkins University but available  here   (più un augurio di buone feste da Cthulhu Morbus e l’antica saggezza di Don Juan versus la moderna stoltezza di Sganarelle)

 

PRESENTAZIONE

 

Non potendo il semplice conoscente del Grande Antico, dott., prof., Conte, Duca di Romagna ecc. Massimo Morigi, licenziare per i lettori dell’ “Italia e il mondo” il suo saggio sulla dialettica dell’epigenetica, del paradigma endosimbiotico, della sintesi evoluzionista estesa e delle fantasmagorie transumaniste in tempo per le prossime imminenti festività, da Cthulhu Morbus i migliori auguri di Buon Natale 2020 e felice anno nuovo 2021 più un invito ad una attenta (per quanto umanamente possibile ai poveri mortali) lettura dei classici e degli odierni eventi (URL del download del primo documento: http://www.theatre-classique.fr/pages/pdf/MOLIERE_DOMJUAN.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200929043219/http:/www.theatre-classique.fr/pages/pdf/MOLIERE_DOMJUAN.pdf; del secondo documento: https://www.jhunewsletter.com/article/2020/11/a-closer-look-at-u-s-deaths-due-to-covid-19, Wayback Machine; http://web.archive.org/web/20201203034001/https:/www.jhunewsletter.com/article/2020/11/a-closer-look-at-u-s-deaths-due-to-covid-19; del terzo documento https://drive.google.com/file/d/1Tnb1a8TXHj_jJCM2BDfGSriUgdn-2gec/view, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20201205080145/https:/drive.google.com/file/d/1Tnb1a8TXHj_jJCM2BDfGSriUgdn-2gec/view. N.B. Il terzo documento e l’URL del download dello stesso sono –  probabilmente per poco tempo ancora –  raggiungibili e archiviabili cliccando sulla parola here  del secondo documento e, inoltre, i Due amanti di Giulio Romano in ultima pagina del presente documento non fanno parte del terzo documento copiaincollato ma sono un omaggio e riconoscimento di Cthulhu alla dialetticità della realtà e una benevola sua approvazione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico).

Cthulhu – R’lyeh, dicembre 2020

  1. S. di qualche tempo dopo. Siccome evidentemente qualche povero demone  concorrente al Grande Antico  –  uno di quelli della vecchia guardia, per intenderci, la cui occupazione è unicamente dividere e far litigare gli uomini o, al massimo, suscitare negli annoiati sopiti istinti riproduttivi e/o scioccamente trasgressivi – impedisce di visionare attraverso “L’Italia e il mondo” il PDF che riunisce i documenti di cui si è fatto qui sopra riferimento, il documento nella sua interezza è visionabile agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/retracted-by-the-news-letter-della-johns-hopkins-university-but-available-here.-/mode/2up  e https://ia801704.us.archive.org/11/items/retracted-by-the-news-letter-della-johns-hopkins-university-but-available-here.-/Retracted%20by%20the%20News%20Letter%20della%20Johns%20Hopkins%20University%20but%20available%20%20here.%20Cthulhu%20Morbus%2C%20Cthulhu%2C%20a%20cura%20di%20Massimo%20Morigi%2C%20%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo.pdf. Inoltre, i congelamenti Wayback Machine ci mettono talvolta un po’ di tempo per consolidarsi. Quindi la visione dei documenti che il Grande Antico ha provveduto a congelare può essere agevolmente effettuata presso gli URL di Internet Archive appena riferiti. Il dio del terrore e della follia rinnova i suoi auguri, assieme alle più sentite scuse per aver tardato a formularli.

FUTURO E PASSATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

FUTURO E PASSATO

Da quando – diversi mesi – si è sentito il profumo dei soldi che – consenziente l’U.E. – dovrebbero arrivare in Italia, il dibattito pubblico è stato orientato: a) a decantare la bontà dell’Europa; b) la capacità del governo Conte per averli ottenuti; c) a pregustare il radioso futuro che le già celebrate misure del governo ci assicurerebbero

Ossia un racconto viziato da un eccesso di partigianeria (nonché da auto – ed etero – incensamento); partigianeria che si manifesta non tanto e non solo in quello che si dimentica ma ancor più in ciò che si vuole omettere.

Nel racconto suddetto vi sono asserti facilmente contestabili: quanto all’Europa, il cambiamento di marcia della stessa non è stato dovuto tanto alla solidarietà politica, fondamento del vivere in comunità (v. art. 2 della Costituzione italiana), quanto al trovarsi tutti – chi più e chi meno – in una crisi e nella necessità di superarla. Riguardo le misure del governo, sono in grande prevalenza orientate a indirizzare interventi e spese a favore di certe categorie piuttosto che di altre (specie le partite IVA), ed è evidente – a leggere la stampa, la differenza tra le toppe italiane e le misure tedesche – di converso indirizzate alle generalità dei cittadini – beneficiari (taglio dell’IVA; contributi alle imprese pari al 70% del fatturato perso nel 2020). Oltretutto favorendo – involontariamente – anche le cattive condotte (tanto sbandierate dalla sinistra). Ad esempio, se si riconosce come farebbe la Merkel un (parziale) contributo per la perdita del fatturato, questo significa che nulla va a chi non fattura (lavoro nero): tra i quali coloro che percepiscono reddito da attività illecite e financo criminali.

E in più è un incentivo a fatturare: chi non fattura – parafrasando una nota canzone – non ha il ristoro. Ma queste sono considerazioni che, nella loro ovvietà sono precluse a un governo che dalla burocrazia dallo stesso mantenuta ha appreso la pratica di complicare le cose semplici. Il che inizia dalla propaganda, e purtroppo finisce nella pratica.

Maggiore attenzione va data all’insistenza con la quale ci si riferisce a un futuro radioso, a un progetto salvifico di cui il governo avrebbe le chiavi.

Anche qua occorre confrontare quello che si esterna e ciò che si occulta.

Quanto al futuro è connaturale, in certo senso alla modernità e alle ideologie coeve, le quali hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive delle società umane, almeno ove avessero adottato certe forme. Il massimo del tutto fu il comunismo che, presentandosi come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia, avrebbe dovuto cambiare la natura umana, arrivando alla società senza classi, la cui somiglianza con il paese dei balocchi (o altre fantasie simili) era notevole. E, proprio per ciò, nessuno ne ha mai sentito l’odore.

Certo, avendo il senso del limite, una certa progettualità del futuro non guasta, anzi si accompagna ad ogni gruppo umano – e alle di esso classi dirigenti – che abbia volontà di decidere, nell’ambito del possibile, il proprio destino, ma occorre tener presente due caratteri che, nel caso italiano, rendono il discorso sul futuro radioso, assai poco credibile. Il primo è che le proposte del governo somigliano troppo all’operato vecchio, cominciando dai ritornelli stranoti e finendo con le realizzazioni: aumenti d’imposte, spese selettive, misure a formato di lobby, sprechi, ecc. ecc.

Gran parte dei quattrini che dovrebbero arrivare dall’Europa sarebbero destinati alla green economy e alla digitalizzazione, etichette che nascondono contenuti, in buona misura, avvolti nel mistero. In un paese connotato da una grande capacità di attrattiva turistica – colpita duramente dalla pandemia, il governo dovrebbe pensare, in primo luogo, ad aiutare questa e non progettare misteri, con etichette vaghe e “aperte”.

Ma è soprattutto i progettisti che rendono del tutto incredibili le proposte del governo. Non tanto i 5 Stelle, che sono dei novizi, quanto il PD – e accoliti – che nella seconda Repubblica hanno avuto tanto tempo per stare al governo e tutto il tempo per esercitare il potere: perché se i risultati sono stati quelli che ognuno può leggere – il più basso tasso di crescita (ora negativo) degli Stati dell’UE tra il 1994 ed oggi, quale credibilità può avere, per suonare la nuova musica, un’orchestra che da un quarto di secolo (almeno) strimpella lo stesso motivo, con pessimi risultati?

Perciò il richiamo al futuro ha una funzione mistificante precipua: non far ricordare il passato, e far credere che i soliti orchestrali possano suonare musica nuova, e soprattutto far dimenticare quella vecchia. Cioè quella che li ha fatti subissare di fischi dagli italiani.

Teodoro Klitsche de la Grange

La storia dei due vasi cinesi, a cura di Giuseppe Imbalzano

La storia dei due vasi cinesi
Una anziana donna cinese possedeva due grandi vasi, appesi alle estremità di un lungo bastone che portava bilanciandolo sul collo.
Uno dei due vasi aveva una crepa, mentre l’altro era intero. Così alla fine del lungo tragitto dalla fonte a casa, il vaso intero arrivava sempre pieno, mentre quello con la crepa arrivava sempre mezzo vuoto.
Per oltre due anni, ogni giorno l’anziana donna riportò a casa sempre un
vaso e mezzo di acqua.

Ovviamente il vaso intero era fiero di se stesso, mentre il vaso rotto si vergognava terribilmente della sua imperfezione e di riuscire a svolgere solo metà del suo compito. Dopo due anni, finalmente trovò il coraggio di parlare con l’anziana donna, e dalla sua estremità del bastone le disse: “Mi vergogno di me stesso, perché la mia crepa ti fa portare a casa solo metà dell’acqua che prendi”.

L’anziana donna sorrise “Hai notato che sul tuo lato della strada ci sono sempre dei fiori, mentre non ci sono sull’altro lato? Questo succede perché, dal momento che so che tu hai una crepa e lasci filtrare l’acqua, ho piantato semi di fiori solo sul tuo lato della strada. Così ogni giorno, tornando a casa, tu innaffi i fiori.
Per due anni io ho potuto raccogliere dei fiori che hanno rallegrato la mia casa e la mia tavola. Se tu non fossi così come sei, non avrei mai avuto la loro bellezza a rallegrare la mia abitazione”

Ciascuno di noi ha il suo lato debole. Ma sono le crepe e le imperfezioni che ciascuno di noi ha che rendono la nostra vita insieme interessante e degna di essere vissuta.
Devi solo essere capace di prendere ciascuna persona per quello che è, e scoprire il suo lato positivo.
Buona giornata a tutti coloro che si sentono un vaso rotto, e ricordatevi di godere del profumo dei fiori sul vostro lato della strada!

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA …, di FF

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

*

Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea.

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende – l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato – tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale – come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943.

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari – che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista – si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista.

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

*

In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”.

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo – che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre “in chiave” antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. – privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” – inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” – sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali “intrecci” – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano.

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista.

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”.

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia.

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali.

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo.

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c’è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt’al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso “agire comunicativo” al servizio dei cosiddetti “diritti individuali” – che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell’intera collettività).

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale.

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all’attuale società di mercato neoliberale.

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2020/11/nota-sulla-tentazione-nazional.html

La guerra economica da ieri ad oggi, Di Frédéric Munier

La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.

In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.

Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.

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La guerra economica è figlia della globalizzazione

Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.

Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.

È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati ​​da potenti ragioni strategiche [1]  ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.

La dichiarazione di guerra

Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il ​​versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.

All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.

In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.

Lo stato , comandante in capo della guerra economica

Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.

Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ”  The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.

Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2]  “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.

 

È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.

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Compagnie, semplici soldati?

Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “  i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” come le multinazionali  ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.

Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?

Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?

Quindi, anche nell’era dei ”  Global Players  “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.

Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano  ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo  più complessa che in passato.

I nuovi obiettivi della guerra economica

La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.

 

Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.

L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.

Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.

Guerra economica per risorse scarse

Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.

L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,

 

Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati ​​stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.

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Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.

Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali

Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.

Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.

Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.

Armi e parate di guerra economica

Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.

Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.

In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.

 

L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .

Dalla guerra coperta alla guerra aperta

Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.

Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ”  Tre Grandi  “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.

Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.

Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.

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Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.

Strategie di difesa

Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.

È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.

Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.

 

Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.

Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.

Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power  : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”

 


  1. Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
  2. Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
  3. A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
  4. Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
  5. Éric Delbecque, Economic Intelligence , Parigi, PUF, 2007, p. 29.    https://www.revueconflits.com/guerre-economique-histoire-mondialisation-entreprises-etats-frederic-munier/

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

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