Il multilateralismo nucleare di Karaganov

Serguei Karaganov è parte essenziale della componente meno attendista della dirigenza russa. Ci offre una prospettiva molto articolata del punto di vista di una componente che sta, probabilmente, prendendo sempre più piede tra i centri decisori russi_Giuseppe Germinario

Il multilateralismo nucleare di Karaganov

Colpire l’Ucraina e i Paesi europei con missili nucleari. Mettere fine ai principi di non proliferazione per allargare il club delle potenze nucleari. Abbassare la soglia di utilizzo della bomba.

Marlène Laruelle introduce e commenta la seconda parte della chiave di lettura di Sergei Karaganov sul futuro della guerra e della deterrenza nucleare.

Autore
Marlène Laruelle

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© Artyom Geodakyan/TASS

MARLENE LARUELLE_In un momento di nuova escalation tra Occidente e Russia, continuiamo a studiare i principali testi strategici russi che contribuiscono a definire l’evoluzione del contesto geopolitico in cui stiamo vivendo.

Ecco un nuovo articolo di Sergei Karaganov, uno degli architetti intellettuali della politica estera russa e direttore dell’influente Consiglio per la politica estera e di difesa: una figura chiave del pensiero strategico russo e un sostenitore dell’uso delle armi nucleari nell’attuale conflitto con l’Ucraina.

In questo testo, Karaganov delinea la sua visione dell’ordine mondiale come dovrebbe emergere dalla guerra in Ucraina, proponendo sia un nuovo destino eurasiatico per la Russia, incentrato sulla Siberia e sul perseguimento dell’isolazionismo verso tutto ciò che proviene dall’Occidente, sia una nuova politica estera orientata verso il “Sud globale”, che in Russia viene chiamato “maggioranza mondiale”.

SERGUEI KARAGANOV_Il nostro cammino – con la freccia dell’antica volontà tartara

ha trafitto il nostro petto…

…e l’eterna battaglia! Possiamo solo sognare la pace

attraverso il sangue e la polvere…

La giumenta della steppa vola, vola.

Ed increspa l’erba…

Alexander Blok, “Sul terreno di Kulikovo”

Molti degli indirizzi politici necessari sono già stati definiti nel 2021 nella “Strategia di sicurezza nazionale della Federazione Russa” e soprattutto nel “Concetto di politica estera della Federazione Russa” approvato nel 2023. È partendo da questa base che cercherò di andare oltre.

Il mio precedente articolo trattava della situazione di pericolo senza precedenti in cui ci troviamo oggi (Karaganov, 2024). In questo articolo espongo le nuove politiche e priorità che ritengo la Russia debba adottare, sulla base della Strategia di sicurezza nazionale russa (2021) e soprattutto del suo Concetto di politica estera (2023).

La politica estera

Il mondo estremamente pericoloso dei prossimi due decenni richiede una correzione della politica estera e di difesa. Ho già scritto che esse dovrebbero basarsi sul concetto di “Fortezza Russia”: massima autonomia, sovranità, sicurezza, indipendenza, concentrazione sullo sviluppo interno.

L’idea della “Fortezza Russia” è venuta alla ribalta in questi ultimi anni come metafora della scelta di sovranità isolazionista della Russia. Riecheggia un antico tema bizantino, quello della potenza cateconica che frenerà le forze dell’Anticristo e riporterà il mondo alla sua antica gloria nell’ora del Giudizio Universale. Anche nei discorsi ufficiali russi, i riferimenti biblici sono aumentati notevolmente.

Ma, naturalmente, non l’autarchia, che sarebbe fatale. Abbiamo bisogno di una ragionevole apertura per una favorevole cooperazione economica, scientifica, culturale e informativa con i Paesi amici della maggioranza mondiale (MM). L’apertura non è un fine in sé, ma un mezzo al servizio dello sviluppo materiale e spirituale interno. L’apertura liberal-globalista, come abbiamo già visto, è mortale. Voler integrare a tutti i costi le “catene internazionali del valore” è una follia quando gli stessi creatori del vecchio modello di globalizzazione lo stanno distruggendo, militarizzandone i legami economici.

Il ruolo dell’interdipendenza come strumento di mantenimento della pace è stato sopravvalutato in passato, ma oggigiorno è soprattutto pericoloso. Dovremmo cercare di creare “catene del valore” sul nostro territorio per aumentarne la connettività, in particolare l’interazione del centro del Paese con la Siberia e – più prudentemente – con gli Stati amici. Oggi questi sono la Bielorussia, la maggior parte degli Stati dell’Asia centrale, la Cina, la Mongolia, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) e i Paesi BRICS.

La politica della “fortezza Russia” richiede il massimo non coinvolgimento nei conflitti che scoppieranno nel corso del “terremoto geostrategico” che è iniziato. In queste nuove condizioni, il coinvolgimento diretto non è un vantaggio ma un handicap. Le ex potenze coloniali stanno iniziando a sperimentarlo, in particolare gli Stati Uniti, che si trovano ad affrontare un crescente antiamericanismo e degli attacchi contro le loro basi. Queste ultime, e altri asset diretti all’estero, diventeranno sempre più vulnerabili – e vale la pena di contribuire indirettamente a quest’evoluzione aumentando il costo dell’impero americano e aiutando la classe politica estera americana a guarire dalla malattia egemonica globalista del dopoguerra, in particolare degli ultimi trent’anni.

Siamo stati abbastanza saggi da non lasciarci coinvolgere nei nuovi conflitti armeno-azero e israelo-palestinese. Ma, ovviamente, non possiamo ripetere il fallimento ucraino quando le élite anti-russe salgono al potere nei Paesi vicini o quando questi vengono destabilizzati dall’esterno. Il Kazakistan è il caso più preoccupante. Dobbiamo lavorare in modo proattivo con altri Paesi amici.

Per continuare la sua svolta, solo parzialmente riuscita, verso est attraverso l’Estremo Oriente, la Russia ha bisogno di una nuova e completa strategia nazionale siberiana, che preveda non solo l’avanzamento, ma anche il “ritorno” al periodo romantico dello sviluppo della regione dei Trans-Urali.

La Russia deve essere “siberianizzata”, spostando il suo centro di sviluppo spirituale, politico ed economico verso gli Urali e l’intera Siberia (non solo la parte del Pacifico). La Via del Mare del Nord, la Via della Seta del Nord e le principali vie terrestri Nord-Sud devono essere rapidamente sviluppate. I Paesi dell’Asia centrale, ricchi di manodopera ma poveri di acqua, devono essere integrati in questa strategia.

Il tema della rifocalizzazione della Russia sulla Siberia esiste fin dal XIX secolo ed è stato ripreso da figure chiave del pensiero russo più recente, come Alexander Solzhenitsyn e, meno noto, Vadim Tsymbursky. Per loro, la riscoperta dell’identità siberiana della Russia è una garanzia di rinnovamento nazionale, lontano dalle peregrinazioni dell’occidentalismo. Tuttavia, questa “siberianizzazione” della Russia è un mito, perché la popolazione russa nel suo complesso si sta spostando da Est a Ovest, abbandonando gradualmente la Siberia, l’Artico e l’Estremo Oriente per stabilirsi nelle regioni europee del Paese.

L’integrazione consapevole nel nuovo mondo passa anche attraverso la scoperta delle nostre radici asiatiche. Il grande sovrano russo, il principe Sant’Alessandro Nevskij, non solo ricevette uno yarlyk che autorizzava il suo regno da Batu Khan a Sarai, ma attraversò anche l’odierna Asia Centrale e la Siberia meridionale nel 1248-1249 per farlo vidimare nella capitale mongola di Karakorum. Qui, pochi anni dopo, Kubilai Khan iniziò la sua ascesa al potere, che sarebbe culminata con l’ascesa al rango di imperatore e l’instaurazione della dinastia Yuan su Cina, Mongolia, Corea e alcuni Paesi adiacenti. Kubilai, che conosciamo grazie a Marco Polo, ha quasi certamente incontrato Alessandro. La madre di Kubilai era cristiana e le sue forze comprendevano reclute russe provenienti dalle province di Smolensk e Ryazan. Allo stesso modo, l’esercito di Alessandro comprendeva i mongoli, di cui voleva rovesciare l’autorità, ma che usava per proteggere le sue terre dai nemici a ovest – nemici che minacciavano, come diremmo oggi, l’identità della Russia. La storia delle relazioni tra Russia e Cina è molto più profonda di quanto si pensi.

Vale la pena di notare i riferimenti eurasisti di Karaganov, che ripete quasi parola per parola le idee espresse dai padri fondatori dell’eurasismo negli anni Venti. Per loro, l’interazione tra i principi di Moscovia e i khan dell’Orda d’Oro fu proprio il momento della nascita della Russia, il grande impulso che determinò la traiettoria storica del Paese per i secoli a venire.

La Russia non sarebbe diventata un grande impero e probabilmente non sarebbe sopravvissuta nella pianura russa, attaccata da sud, est e ovest, senza lo sviluppo della Siberia e delle sue innumerevoli risorse. Pietro costruì un grande impero basato in gran parte su queste risorse. I proventi delle carovane che trasportavano seta e tè dalla Cina all’Europa lungo la Via della Seta settentrionale, che passava per la Russia, furono utilizzati per equipaggiare i reggimenti del nuovo esercito russo.

Sarebbe stato preferibile concludere la nostra odissea occidentale ed europea un secolo prima. Oggi non c’è più molto di utile da prendere in prestito dall’Occidente, anche se vi si sta infiltrando molta spazzatura. Ma completando il viaggio in ritardo, conserveremo la grande cultura europea, oggi rifiutata dalla moda post-europea. Senza di essa non avremmo creato la più grande letteratura del mondo. E senza Dostoevskij, Pushkin, Tolstoj, Gogol e Blok, non saremmo diventati un grande Paese e una grande nazione.

Anche in questo caso, Karaganov adotta le classiche narrazioni russe, già presenti ad esempio in Fëdor Dostoevskij, secondo cui la Russia è l’ultima potenza europea, l’ ultimogenita, l’epigono, colui che permetterà all’identità europea di conservare la sua autenticità (bizantina) e di riconciliarsi con il resto del mondo.

Nella nuova situazione internazionale, si deve dare priorità incondizionata allo sviluppo di una coscienza difensiva nella società, alla volontà di difendere la patria, anche con le armi. I “fiocchi di neve” (снежинок) della nostra società devono sciogliersi e i suoi guerrieri devono moltiplicarsi. Ciò significa sviluppare il nostro vantaggio competitivo, che sarà necessario in futuro: la capacità e la volontà di combattere, ereditate dalla dura lotta per la sopravvivenza in una pianura gigantesca, aperta su tutti i lati.

La politica estera odierna dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo complessivo delle relazioni con i Paesi della maggioranza mondiale. Un altro obiettivo ovvio, ma non ancora formulato, è quello di lavorare con i Paesi della maggioranza mondiale per garantire l’uscita più pacifica possibile dell’Occidente dalla sua posizione dominante di quasi cinque secoli. E l’uscita più pacifica possibile degli Stati Uniti dall’egemonia di cui godono dalla fine degli anni Ottanta (anche se è stata incontrastata solo per i primi 15 anni circa). L’Occidente dovrebbe essere ricollocato in un posto più modesto ma dignitoso nel sistema mondiale. Non è necessario espellerlo: dato il vettore di sviluppo dell’Occidente, se ne andrà da solo. Ma è necessario dissuadere con fermezza qualsiasi azione della retroguardia dell’ancora potente organismo dell’Occidente. Le relazioni normali possono essere parzialmente ristabilite tra una ventina d’anni. Ma non sono un fine in sé.

Nel nuovo mondo diversificato, multireligioso e multiculturale, dobbiamo sviluppare un altro vantaggio competitivo: l’internazionalismo e l’apertura culturale e religiosa. Nell’istruzione, dobbiamo concentrarci sull’ insegnamento delle lingue, delle culture e delle vite dei Paesi e delle civiltà emergenti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. In termini di politica estera, non si tratta solo di incoraggiare, ma anche di imporre con fermezza un riorientamento dell’obsoleto e già semplicemente misero occidentalismo verso l’altro mondo.

Ho scritto molto sulla necessità di una riforma radicale dell’apparato di politica estera. È in corso, ma è ostacolata dall’inerzia burocratica e mentale e dalla segreta speranza di un impossibile ritorno allo status quo ante. Mi permetto anche di chiedere misure amministrative: i diplomatici inviati in Occidente dovrebbero essere pagati meno di quelli inviati nei Paesi della maggioranza mondiale. È importante lavorare con la maggioranza mondiale per creare nuove istituzioni che aiutino a costruire un nuovo mondo e a prevenire o almeno a rallentare la nostra caduta in una serie di crisi.

Le Nazioni Unite sono sull’orlo dell’estinzione, perché sono ingessate dai burocrati occidentali e quindi non possono essere riformate. Non abbiamo bisogno di smantellare le Nazioni Unite, ma dobbiamo costruire organismi paralleli basati sui BRICS+ e su una SCO allargata, integrandoli con l’Organizzazione dell’Unità Africana, la Lega Araba, l’ASEAN e il Mercosur. Nel frattempo, potrebbe essere possibile creare una conferenza permanente di queste istituzioni all’interno delle Nazioni Unite.

Se la Russia è una civiltà di civiltà, perché non iniziare a costruire un’organizzazione di organizzazioni con i nostri amici e partner – un prototipo della futura ONU?

Pechino è la principale risorsa esterna per il nostro sviluppo interno, un alleato e un partner per il prossimo futuro. Vale la pena promuovere lo sviluppo della potenza navale e strategico-militare della Cina per privare gli Stati Uniti del loro ruolo di egemone aggressivo e facilitare la loro transizione verso un neo-isolazionismo relativamente costruttivo di tipo anni Trenta, ovviamente con aggiustamenti per il nuovo mondo.

Cina e Russia sono potenze complementari. La loro coalizione, se si riuscirà a preservarla, cosa che dovrebbe essere possibile, potrebbe diventare negli anni un fattore determinante della costruzione di un nuovo sistema mondiale. È una fortuna che la moderna filosofia della politica estera cinese sia vicina alla nostra.

Allo stesso tempo, la strategia naturale della Russia dovrebbe essere quella di eliminare la dipendenza economica unilaterale e lavorare per un “equilibrio amichevole” con la Repubblica Popolare Cinese, interagendo con la Turchia, l’Iran, l’India, il Pakistan, i Paesi dell’ASEAN, il mondo arabo, le due Coree e persino, a lungo termine, con il Giappone. La sfida più grande è evitare un conflitto intercoreano che potrebbe essere provocato dagli Stati Uniti. L’elemento più importante dell’“equilibrio amichevole” dovrebbe essere il nuovo sviluppo per la Siberia. Il bilanciamento è utile anche per Pechino, che intende ridurre i timori che i suoi vicini eurasiatici nutrono nei confronti della potenza cinese. Infine, le relazioni amichevoli, quasi alleate, con la Cina, le relazioni amichevoli con l’India e lo sviluppo della SCO dovrebbero diventare la base per un sistema di sicurezza, sviluppo e cooperazione nella Grande Eurasia. Spero che la sua creazione diventi un obiettivo ufficiale della politica estera russa.

Qui troviamo l’eredità predominante di Yevgeny Primakov, ex ministro degli Esteri e primo ministro, il primo a formulare in modo così esplicito, nella seconda metà degli anni ’90, che il futuro geopolitico del mondo si sarebbe giocato attraverso la creazione di un triangolo Russia-Cina-India. Si noti il legame di Karaganov tra la politica interna – sviluppare un destino siberiano per la Russia – e la politica estera – avvicinarsi alle potenze asiatiche.

Questa strategia fornirà una rete di sicurezza se i geni storici, espansionistici, cioè mongoli, si risveglieranno improvvisamente in una Cina che ha vissuto in pace per diversi secoli. Ma questi geni ci uniscono. Entrambi i Paesi sono essenzialmente eredi del grande impero di Gengis Khan. Identificare queste radici comuni è un compito affascinante per gli storici di entrambi i Paesi. Se la Russia rimarrà forte (e dovremo lottare per questo), se la Cina rimarrà un gigante amante della pace e se i loro leader e i loro popoli approfondiranno la loro amicizia, questi due Paesi diventeranno il baluardo della pace e della stabilità internazionale.

L’India è un altro alleato naturale nella creazione di un nuovo sistema mondiale e nella prevenzione di uno scivolamento verso la terza guerra mondiale. Il Paese è un’importante fonte di tecnologia, di manodopera per il nuovo sviluppo della Siberia e rappresenta un mercato quasi illimitato. Il compito più importante è quello di coinvolgere l’India nella costruzione del Grande Partenariato Eurasiatico, da cui è ancora un po’ lontana, per evitare che diventi un equilibratore ostile della Cina, come auspicato dagli Stati Uniti, e per smussare la naturale competizione tra India e Cina. Il triangolo Russia-Cina-India di Primakov garantisce uno sviluppo relativamente pacifico della Grande Eurasia. Sono necessari sforzi particolari per attenuare le contraddizioni tra India e Pakistan, che finora sono rimaste alla periferia della diplomazia russa. Vi ricordo che questo è uno dei focolai più pericolosi di un possibile conflitto termonucleare. Nel frattempo, abbiamo bisogno di centinaia di indologi, di decine di specialisti provenienti dal Pakistan, dall’Iran, dall’Indonesia e da altri Paesi del Sud-Est asiatico, nonché di africanisti. E, naturalmente, migliaia di accademici cinesi.

Se negli anni ’90 la fuga di cervelli accademici era particolarmente visibile nel campo degli studi orientali, negli ultimi anni quest’ultimo ha subito un visibile rilancio, segno della svolta geopolitica della Russia verso il “Sud globale”. Il regime sta nuovamente incoraggiando la formazione di specialisti nelle varie regioni non occidentali del mondo, facendo rivivere un ricco patrimonio sovietico che era caduto in disuso.

L’ASEAN ha bisogno di maggiore attenzione come parte della strategia della Grande Eurasia, e non si tratta solo di mercati e di piacevoli destinazioni turistiche. È una regione in cui potrebbero scoppiare gravi conflitti entro un decennio, soprattutto perché gli Stati Uniti, in via di estinzione, sono ancora interessati a favorirli.

Lo stato delle nostre relazioni con il mondo arabo è molto soddisfacente. Le relazioni con molti dei suoi leader – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Algeria – sono praticamente amichevoli. L’equilibrio esterno della Russia contribuisce a stabilizzare questa regione tormentata, che gli Stati Uniti hanno iniziato a minare attivamente. La Cina è stata brillantemente coinvolta in questa politica di equilibrio esterno, contribuendo al riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran.

Per quanto riguarda il Nord America, la Russia dovrebbe facilitare il ritorno a lungo termine degli Stati Uniti verso il neo-isolazionismo, che è naturale per loro, a un nuovo livello globale. È chiaro che un ritorno al paradigma politico precedente alla Seconda Guerra Mondiale non è possibile, e probabilmente sarebbe addirittura indesiderabile. La dipendenza degli Stati Uniti dal mondo esterno fornisce loro gli strumenti per esercitare pressione. Se le attuali élite liberal-globaliste lasciano il potere, gli Stati Uniti potrebbero persino tornare a essere l’equilibratore globale relativamente costruttivo che erano prima della seconda metà del XX secolo. Non c’è bisogno di una strategia globale per contenere gli Stati Uniti, perché sprecherebbe solo le risorse di cui abbiamo bisogno per il nostro ringiovanimento interno.

Il discorso di Karaganov riflette l’idea, dominante tra le élite russe, che figure isolazioniste come Donald Trump siano la migliore opzione che la Russia possa sperare dagli Stati Uniti. Ma riecheggia anche l’idea espressa dalla scuola dei “giovani conservatori” (Boris Mezhuev e Mikhail Remizov sono i più noti) che la Russia non dovrebbe cercare di combattere gli Stati Uniti su tutti i fronti perché non ha i mezzi per farlo – e che questa strategia ha esaurito l’Unione Sovietica e le è costata la vita.

Non esistono contraddizioni irriducibili tra noi e gli Stati Uniti. Le contraddizioni che esistono oggi sono state causate dall’espansione degli Stati Uniti, facilitata dalla nostra debolezza e stupidità negli anni ’90, che ha contribuito all’aumento del sentimento egemonico negli Stati Uniti. La crisi interna degli Stati Uniti e l’impegno delle sue attuali élite verso valori post-umani indeboliranno ulteriormente il “soft power” di Washington, ossia la sua influenza ideologica. Nel frattempo, una dura politica di deterrenza (vedi sotto) dovrebbe creare le condizioni necessarie affinché gli Stati Uniti evolvano verso una normale grande potenza.

L’Europa – un tempo faro di modernizzazione per noi e per molte altre nazioni – si sta rapidamente avviando verso il nulla geopolitico e, speriamo di sbagliarmi, la decadenza morale e politica. Vale la pena sfruttare il suo mercato ancora ricco, ma il nostro sforzo principale nei confronti dell’antico subcontinente dovrebbe essere quello di separarci da esso moralmente e politicamente. Dopo aver perso la sua anima – il cristianesimo – sta ora perdendo il frutto dell’Illuminismo – il razionalismo. Inoltre, su ordine esterno, l’euroburocrazia sta isolando la Russia dall’Europa. Di questo gli ne siamo grati.

La rottura con l’Europa è un calvario per molti russi. Ma dobbiamo superarlo il più rapidamente possibile. Naturalmente, la chiusura non deve né diventare un principio, né essere totale. Ma parlare di ricreare un sistema di sicurezza europeo è una pericolosa chimera. La cooperazione e i sistemi di sicurezza devono essere costruiti nel quadro del continente del futuro – la Grande Eurasia – invitando solo i Paesi europei che sono interessati e che ci interessano.

La posizione di Karaganov su questo tema non è unanime, come lui stesso ammette. Le élite russe sono divise tra, da un lato, coloro che sperano in una forma di “gentlemen’s agreement” con l’Occidente e nella possibilità di una Realpolitik che ricostruisca parte delle relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa e, dall’altro, Karaganov e coloro che ritengono che questo mondo sia morto e che la Russia non debba cercare di resuscitarlo.

Un elemento importante della nuova strategia di politica estera dovrebbe essere una strategia ideologica offensiva (e non difensiva, come spesso è avvenuto in passato). I tentativi di “compiacere” l’Occidente e di negoziare con esso non sono solo immorali, ma anche controproducenti secondo la Realpolitik. È tempo di alzare apertamente la bandiera della difesa dei normali valori umani contro i valori post-umani, persino anti-umani, dell’Occidente.

Uno dei principi fondamentali della politica russa dovrebbe essere la lotta attiva per la pace – proposta molto tempo fa, poi respinta, dai leader della politica estera russa stanchi degli slogan sovietici. E non solo una lotta contro la guerra nucleare. Lo slogan di mezzo secolo fa – “La guerra nucleare non dovrebbe mai essere scatenata, perché non ci possono essere vincitori” – è magnifico, ma anche idealistico. Come ha dimostrato il conflitto in Ucraina, apre la porta a grandi guerre convenzionali. E queste guerre possono diventare e diventeranno sempre più frequenti e mortali, pur rimanendo a portata di mano, a meno che non vengano contrastate da una politica attiva di pace.

Il nostro unico obiettivo ragionevole per quanto riguarda le terre dell’Ucraina mi sembra ovvio: la liberazione e la riunificazione con la Russia di tutto il sud, l’est e (probabilmente) il bacino del Dnieper. Le regioni occidentali dell’Ucraina saranno oggetto di futuri negoziati. La soluzione migliore sarebbe quella di creare uno Stato cuscinetto smilitarizzato con uno status ufficiale di neutralità (con basi russe per garantire la neutralità) – un luogo dove vivere per i residenti dell’attuale Ucraina che non vogliono essere cittadini della Russia e vivere sotto le leggi russe. Per evitare provocazioni e migrazioni incontrollate, la Russia dovrebbe costruire una recinzione lungo il confine con lo Stato cuscinetto, come quella che Trump ha iniziato a costruire al confine con il Messico.

Karaganov esprime qui la sua posizione sui futuri piani di armistizio con l’Ucraina: l’annessione delle quattro regioni, compresi i territori che non sono (ancora) sotto il controllo militare russo, e un residuo Stato ucraino che non solo sarebbe neutrale (non membro della NATO) ma ospiterebbe addirittura basi militari russe – quest’ultima una condizione ovviamente inaccettabile per Kiev e l’Occidente.

L’aspetto politico-militare

Nel lanciare un’azione militare attiva preventiva (anche se tardiva) contro l’Occidente, abbiamo agito in conformità con le vecchie percezioni, senza aspettarci che il nemico lanciasse una grande guerra. E non abbiamo usato la deterrenza nucleare attiva e l’intimidazione fin dall’inizio. Questo vale anche oggi. Così facendo, non solo stiamo spianando la strada alla morte di centinaia di migliaia di persone, se non milioni, se consideriamo le perdite dovute al brutale deterioramento della qualità della vita della popolazione ucraina, di decine di migliaia di nostri uomini. Ma stiamo anche rendendo un cattivo servizio al mondo intero. L’aggressore, l’Occidente de facto, rimane impunito. La strada è libera per ulteriori aggressioni.

Abbiamo dimenticato i principi fondamentali della deterrenza. Una parte con un maggiore potenziale convenzionale, umano ed economico trae vantaggio dalla riduzione del ruolo della deterrenza nucleare, e viceversa. Quando l’URSS aveva una superiorità nel campo delle forze militari polivalenti, gli Stati Uniti e la NATO si affidavano spudoratamente al concetto di first strike. È vero che gli Stati Uniti stavano bluffando e che, se avevano intenzione di farlo, era solo contro le forze sovietiche che avanzavano in territorio alleato. Non era previsto alcun attacco contro il territorio sovietico, poiché non vi era alcun dubbio che le città americane sarebbero state oggetto di rappresaglia.

L’aumento dell’uso della deterrenza nucleare e l’accelerazione dell’escalation hanno lo scopo di convincere l’Occidente che ha tre opzioni nel conflitto ucraino. Primo, ritirarsi con dignità, ad esempio alle condizioni proposte sopra. In secondo luogo, essere sconfitti, fuggire come in Afghanistan e affrontare un’ondata di rifugiati armati e talvolta disonesti. Oppure, terzo, esattamente la stessa cosa, con in più gli attacchi nucleari sul suo territorio e la disintegrazione sociale che ne consegue.

La tradizione russa è quella di infliggere una dura sconfitta agli invasori europei e poi concordare un nuovo ordine.

È quello che fecero Alessandro I, Kutuzov e de Tolly nel 1812-1814, prima che si tenesse il successivo Congresso di Vienna. Poi Stalin, Zhukov, Konev e Rokossovsky sconfissero l’esercito paneuropeo di Hitler, portando all’accordo di Potsdam. Ma per raggiungere un simile accordo oggi, dovremmo spianare la strada alle truppe russe usando armi nucleari. E subiremmo comunque enormi perdite, anche morali. Dopo tutto, si tratterebbe di una guerra offensiva. Un deterrente nucleare valido e un cuscinetto di sicurezza nell’Ucraina occidentale dovrebbero garantire la fine dell’aggressione. L’operazione militare speciale deve essere continuata fino al raggiungimento della vittoria. I nostri nemici devono sapere che se non si ritirano, la leggendaria pazienza della Russia si esaurirà e la morte di ogni soldato russo sarà pagata con migliaia di vite dall’altra parte.

Sarà impossibile evitare che il mondo precipiti in una serie di conflitti e, successivamente, in una guerra termonucleare globale, garantire la continua rinascita pacifica del nostro Paese e la sua trasformazione in uno degli architetti e costruttori del nuovo sistema mondiale, se la nostra politica di deterrenza nucleare non verrà radicalmente rivitalizzata e aggiornata. Ho toccato molti aspetti di questa politica nei miei precedenti articoli e in altri documenti. In realtà, la dottrina russa prevede già l’uso di armi nucleari per contrastare un’ampia gamma di minacce, ma la politica attuale va oltre la dottrina. Dovremmo chiarire e rafforzare la formulazione e adottare le misure tecnico-militari corrispondenti. La cosa più importante è dimostrare che siamo pronti e in grado di usare le armi nucleari in caso di emergenza.

Non ho dubbi che questa dottrina sia già in fase di aggiornamento, come dimostrato da una serie di misure concrete. La più evidente è il dispiegamento di sistemi missilistici a lungo raggio nel nostro Paese gemello, la Bielorussia. Questi missili sono chiaramente destinati ad essere utilizzati non solo quando “l’esistenza stessa dello Stato” è minacciata, ma anche molto prima. Tuttavia, le disposizioni della dottrina che specificano le condizioni per l’uso delle armi nucleari presentano alcune lacune che devono essere colmate, in particolare nel caso di una situazione di guerra ovviamente breve.

Karaganov è stato uno degli artefici della nuova dottrina nucleare, entrata in vigore molto recentemente, che abbassa la soglia per l’uso delle armi nucleari nei conflitti convenzionali. Karaganov aveva assunto posizioni molto radicali nel corso del 2023 e questo testo dimostra che egli difende esplicitamente l’uso delle armi nucleari nel conflitto attuale.

Intensificando la deterrenza nucleare, non solo riporteremo gli aggressori sul terreno della realtà, ma renderemo un servizio inestimabile all’umanità intera. Attualmente non esiste altra protezione contro una serie di guerre e un grande conflitto termonucleare. La deterrenza nucleare deve essere attivata. L’Istituto di Economia e Strategia Militare Globale, recentemente creato presso la Scuola Superiore di Economia e diretto dall’ammiraglio Sergei Avakyants e dal professor Dmitry Trenin, fornirà un supporto accademico. Presenterò qui solo alcune delle mie opinioni, che devono essere sviluppate e attuate al più presto.

La politica della Russia dovrebbe basarsi sul presupposto che la NATO è un blocco ostile che ha dimostrato la sua aggressività con la sua politica precedente e che sta conducendo una guerra de facto contro la Russia. Di conseguenza, qualsiasi attacco nucleare alla NATO, anche preventivo, è moralmente e politicamente giustificato. Questo vale soprattutto per i Paesi che sostengono più attivamente la giunta di Kiev. I vecchi e soprattutto i nuovi membri dell’Alleanza devono capire che la loro sicurezza è stata notevolmente indebolita da quando sono entrati a far parte del blocco e che le loro élite al potere comprador li hanno messi sull’orlo della vita o della morte. Ho scritto in diverse occasioni che se la Russia lancia un attacco preventivo di rappresaglia contro un Paese della NATO, gli Stati Uniti non reagiranno, a meno che la Casa Bianca e il Pentagono non siano popolati da pazzi che odiano la patria, pronti a distruggere Washington, Houston, Chicago o Los Angeles in nome di Poznan, Francoforte, Bucarest o Helsinki.

La politica russa sull’utilizzo delle armi nucleari dovrebbe, a mio avviso, scoraggiare la minaccia di ritorsioni e l’uso su larga scala di armi biologiche o informatiche contro la Russia o i suoi alleati. La corsa agli armamenti in questo settore, guidata dagli Stati Uniti e da alcuni suoi satelliti, deve essere fermata.

È ora di porre fine alla disputa imposta dall’Occidente sulla possibilità di utilizzare “armi nucleari tattiche”. Il suo utilizzo era teoricamente previsto durante l’ultima guerra fredda. Oggi, a giudicare dalle fughe di notizie, gli strateghi statunitensi stanno lavorando a un’ulteriore miniaturizzazione delle testate nucleari. È sciocco e miope seguire questa strada, perché erode ulteriormente la stabilità strategica – un indicatore della probabilità di una guerra nucleare globale. A quanto mi risulta, questo approccio è anche militarmente inefficace.

Penso che sarebbe auspicabile limitare la potenza delle testate nucleari a 30-40 chilotoni, per esempio, o a una bomba e mezza o due bombe di Hiroshima, in modo che i potenziali aggressori e le loro popolazioni capiscano a cosa vanno incontro. L’abbassamento della soglia di utilizzo e l’aumento della resa minima delle munizioni sono necessari anche per ripristinare un’altra funzione perduta della deterrenza nucleare, ovvero la prevenzione di grandi guerre convenzionali. Deve essere chiaro ai pianificatori strategici di Washington e ai loro funzionari europei che la distruzione di aerei russi sul nostro territorio o ulteriori bombardamenti di città russe saranno sanzionati (dopo un attacco di avvertimento con testate non nucleari) dall’uso di armi nucleari. A quel punto potrebbero decidere di liquidare la giunta di Kiev.

Sembra inoltre necessario modificare (in parte, pubblicamente) l’elenco degli obiettivi degli attacchi nucleari di rappresaglia. Dobbiamo pensare seriamente a chi, esattamente, intendiamo dissuadere. Dopo che gli americani, “in difesa della democrazia” e in nome delle loro ambizioni imperiali, hanno ucciso milioni di persone in Vietnam, Cambogia, Laos e Iraq, hanno commesso mostruosi atti di aggressione contro la Jugoslavia e la Libia e, contro ogni avvertimento, hanno deliberatamente gettato centinaia di migliaia, se non milioni, di ucraini nel fuoco della guerra, non è chiaro se la minaccia di ritorsioni, anche contro le città, sia un deterrente sufficiente per l’oligarchia globalista. È chiaro che non si preoccupano nemmeno dei propri cittadini e non si lasceranno spaventare da perdite all’interno della propria popolazione.

Forse varrebbe la pena di designare i luoghi di ritrovo di questa oligarchia come obiettivi per la prima ondata, o addirittura per attacchi preventivi di rappresaglia?

Dio colpì con una pioggia di fuoco Sodoma e Gomorra, immerse nell’abominio e nella dissolutezza. L’equivalente moderno: un attacco nucleare limitato all’Europa. Un’altra allusione all’Antico Testamento: per purificare il mondo, Dio scatenò il grande diluvio. I nostri siluri nucleari Poseidon possono scatenare diluvi simili sotto forma di tsunami. Oggi gli Stati più sfacciatamente aggressivi sono quelli costieri. L’oligarchia globalista e lo Stato profondo non devono sperare di sfuggire come Noè e la sua pia famiglia.

Permettetemi di ripeterlo. Migliorare la credibilità e l’efficacia della deterrenza nucleare è necessario non solo per porre fine alla guerra che l’Occidente ha scatenato in Ucraina, o per collocare pacificamente l’Occidente in una posizione molto più modesta, ma auspicabilmente dignitosa, nel futuro sistema mondiale. Soprattutto, la deterrenza nucleare è necessaria per fermare l’ondata di conflitti in arrivo, per evitare una “età delle guerre” e per impedire che si intensifichino fino al livello termonucleare globale.

È quindi necessario aumentare la scala della deterrenza nucleare senza tener conto della guerra in Ucraina. A seguito delle misure già adottate o previste, ritengo che sarebbe auspicabile, previa consultazione con gli Stati amici, ma senza far ricadere su di loro la responsabilità, procedere rapidamente verso una ripresa dei test sulle armi nucleari. Prima in sotterraneo, e se ciò si rivelasse insufficiente, testando la Tsar Bomba-2 sulla Novaya Zemlya, riducendo al minimo i danni all’ambiente naturale del mio Paese e agli Stati amici della maggioranza mondiale.

Non protesterei nemmeno troppo se una simile dimostrazione di esplosione nucleare fosse effettuata dagli Stati Uniti. Dopo tutto, rafforzerebbe l’effetto universale della deterrenza nucleare. Ma Washington non vuole ancora aumentare il ruolo del fattore nucleare nella politica mondiale, affidandosi invece al suo potere ancora considerevole nel campo dell’economia e delle forze polivalenti.

Prima o poi la Russia dovrà cambiare la sua politica ufficiale di non proliferazione nucleare. La vecchia politica era utile in quanto riduceva il rischio di uso non autorizzato e di terrorismo nucleare. Ma era ingiusta nei confronti di molti Stati non occidentali e ha smesso di funzionare molto tempo fa. Nell’aderirvi, abbiamo preso spunto dagli americani, che volevano minimizzare non solo i rischi, ma anche i contrappesi alla loro superiorità convenzionale (in particolare navale). Storicamente e filosoficamente, la proliferazione contribuisce alla pace. È spaventoso immaginare cosa sarebbe successo se l’URSS e poi la Cina non avessero sviluppato armi nucleari. Con l’acquisizione di armi nucleari, Israele ha acquisito sicurezza di fronte ai suoi vicini ostili. (Tuttavia, lo Stato ebraico ha abusato di questa fiducia rifiutando una soluzione equa alla questione palestinese e scatenando una guerra a Gaza chiaramente genocida. Se i suoi vicini avessero avuto armi nucleari, Israele avrebbe agito con più modestia). Dopo aver condotto gli esperimenti nucleari, l’India è diventata più sicura nelle sue relazioni con una Cina più potente. Il conflitto tra India e Pakistan è ancora in corso, ma gli scontri sono diminuiti da quando i due Paesi hanno ottenuto lo status nucleare.

Karaganov difende una politica a favore della proliferazione nucleare, vista come la nuova norma strategica che garantirà un mondo multipolare in cui tutte le potenze regionali avranno testate nucleari – quello che lui chiama “multilateralismo nucleare”.

La Corea del Nord è più fiduciosa e sta migliorando la sua posizione internazionale, soprattutto perché la Russia ha finalmente smesso di inseguire l’Occidente e ha ripreso una cooperazione di fatto con Pyongyang. Una limitata proliferazione nucleare potrebbe anche rivelarsi utile come barriera alla creazione e all’uso di armi biologiche. Un aumento della minaccia nucleare potrebbe scoraggiare la militarizzazione delle tecnologie di intelligenza artificiale. Ma soprattutto, le armi nucleari, compresa la loro proliferazione, sono necessarie per ripristinare gli aspetti della deterrenza nucleare che hanno smesso di funzionare, al fine di evitare non solo grandi guerre convenzionali (come in Ucraina), ma anche una corsa agli armamenti convenzionali. Una guerra convenzionale non può essere vinta se il potenziale nemico dispone di armi nucleari e, soprattutto, è pronto a usarle.

Un maggiore uso del deterrente nucleare è già necessario per raffreddare i “leader” europei senza cervello che parlano dell’inevitabilità di un confronto tra Russia e NATO e chiedono che le forze armate siano preparate. A chi parla e a chi ascolta va ricordato che in caso di guerra tra Russia e NATO in Europa, di molti Paesi europei all’interno dell’alleanza rimarrebbe ben poco nei primi giorni dopo lo scoppio del conflitto.

Certo, la proliferazione comporta dei rischi. Ma nel contesto del disordine e della ridistribuzione del mondo che è iniziata, essi sono molto inferiori a quelli causati dall’indebolimento della deterrenza nucleare.

L’ordine mondiale policentrico e sostenibile del futuro non può essere raggiunto senza il multilateralismo nucleare.

Certamente ad alcuni Paesi dovrebbe essere vietato in modo permanente e deciso di possedere un arsenale nucleare o anche solo di avvicinarsi ad acquisirne uno. La Germania, che ha scatenato due guerre mondiali e un genocidio, deve diventare l’obiettivo legittimo di un attacco preventivo e deve essere distrutta completamente se mai mettesse le mani su una bomba nucleare. Tuttavia, già ora, dimenticando la sua mostruosa storia, sta cercando di ottenere questa punizione agendo come uno Stato vendicatore, il principale sponsor europeo della guerra in Ucraina. In Europa, tutti i Paesi che hanno partecipato all’invasione dell’URSS da parte di Hitler dovrebbero temere un destino simile. Credo che la Polonia non potrà evitare un simile destino in caso di estrema necessità, se intende dotarsi di armi nucleari. Tuttavia, ripeto per l’ennesima volta, che Dio ce ne preservi.

La Cina avrà tutto il diritto e persino l’obbligo morale – con il sostegno della Russia e di altri Paesi della maggioranza mondiale – di punire il Giappone, la cui aggressione è costata la vita a decine di milioni di cinesi e di altri asiatici, e il cui sogno è ancora di vendicarsi rivendicando i territori russi, se mai Tokyo si avvicinasse alle armi nucleari.

È necessario un equilibrio nucleare duraturo in Medio Oriente. Israele, se supera la delegittimazione dovuta alle atrocità commesse a Gaza. L’Iran, se abbandona l’ambizione ufficialmente dichiarata di distruggere Israele. Uno degli Stati del Golfo o un raggruppamento di Stati del Golfo. Il candidato più accettabile per il possesso a nome dell’intero mondo arabo sono gli Emirati Arabi Uniti, se non l’Arabia Saudita e/o l’Egitto. Naturalmente, il passaggio alle armi nucleari da parte dei principali Paesi a maggioranza mondiale deve essere misurato e accompagnato dalla formazione del personale e delle élite interessate. La Russia può e deve condividere la sua esperienza. È già necessario sviluppare un dialogo intenso con i principali Paesi della maggioranza mondiale sull’essenza e la modernizzazione della politica di deterrenza nucleare. Se gli Stati Uniti, che si spera stiano passando il più pacificamente possibile dal ruolo accidentale di egemone mondiale a quello di normale grande potenza, vogliono tornare alla lettura classica della Dottrina Monroe e tornare a essere un egemone in America Latina, possiamo prendere in considerazione la possibilità di aiutare il Brasile o anche il Messico (se lo desiderano) a ottenere lo status nucleare.

Molte delle proposte sopra esposte susciteranno un’ondata di critiche, come gli articoli dell’anno scorso sulla deterrenza nucleare. Ma si sono rivelate estremamente utili per le comunità strategiche nazionali e internazionali, risvegliandole dal loro sogno letargico di parassitismo strategico. Gli americani hanno rapidamente smesso di dire che la Russia non avrebbe mai usato armi nucleari in risposta all’aggressione occidentale in Ucraina. Poi hanno iniziato a parlare del pericolo di un’escalation nucleare in Ucraina. Hanno poi parlato del fatto che avrebbero perso una guerra contro la Russia e la Cina. L’Europa, che ha perso completamente la sua classe di pensiero strategico, continua a lamentarsi, ma non è così pericolosa.

La prossima cosa da fare è pensare insieme. Credo che lo faremo pubblicamente e a porte chiuse con esperti dei principali Paesi della maggioranza mondiale e, in futuro, con rappresentanti più lucidi del mondo occidentale. Concludo con queste righe di speranza dello stesso Alexander Blok: “Prima che sia troppo tardi – rimettete la vecchia spada nel fodero, / Compagni! Saremo fratelli!”. Se sopravvivremo ai prossimi due decenni, se eviteremo un altro secolo di guerre, come lo è stato il XX secolo, soprattutto nella sua prima metà, i nostri figli e nipoti vivranno in un mondo multicolore, multiculturale e molto più giusto.

Un’epoca di guerre? Articolo Uno

“E nero, il sangue della terra

Ci promette, gonfiando le vene,

Distruggendo tutti i confini,

Cambiamenti senza precedenti,

Rivolte senza precedenti…”[1]

 

Alexander Blok “Retribution”, 1911

Sergei A. Karaganov

Professore emerito
Università Nazionale di Ricerca-Scuola Superiore di Economia, Mosca, Russia
Facoltà di Economia Mondiale e Affari Internazionali
Supervisore Accademico;
Consiglio per la Politica Estera e di Difesa
Presidente onorario del Presidium

Inizio questo articolo con le parole del mio più amato poeta russo Alexander Blok, paragonabile per il suo dono della chiaroveggenza al più grande genio russo Fëdor Dostoevskij. Da tempo osservo che il mondo si sta inesorabilmente muovendo verso un’ondata di conflitti militari che minacciano di sfociare in una terza guerra termonucleare mondiale che, con ogni probabilità, può distruggere la civiltà umana. Questa previsione è stata una delle ragioni principali per cui ho pubblicato una serie di articoli sul perché è necessario ripristinare la credibilità della deterrenza nucleare, che ha tenuto il mondo al sicuro per più di cinquant’anni.

Molti fattori strutturali indicano un’altissima probabilità di escalation qualitativa dei conflitti militari, che porta il mondo sull’orlo della catastrofe finale, ma a parte questo può portare innumerevoli disgrazie all’umanità in generale e alla Russia in particolare. Non voglio spaventare chi è già nervoso e non è ancora pronto ad accettare la nuova realtà, soprattutto vista l’isteria che ha suscitato la mia precedente serie di articoli relativamente “vegetariani”. Ma non si può nascondere un’anguilla in un sacco, e i miei colleghi più sagaci hanno cominciato a scrivere con sempre maggiore determinazione sulla probabilità di scivolare in una grande guerra, offrendo ricette per prevenirla e prepararsi ad affrontarla se si scatena. Il primo, ovviamente, è l’articolo “Warfare in a New Epoch: The Return of Big Armies” di Vasily Kashin e Andrei Sushentsov, basato su un rapporto del Valdai Club e pubblicato su Russia in Global Affairs.Un altro dei nostri maggiori esperti di relazioni internazionali, Fyodor Lukyanov, ha sostenuto la stessa idea, ma con il suo modo di fare caratteristico.[2] Un altro dei nostri maggiori esperti di relazioni internazionali, Fyodor Lukyanov, ha sostenuto la stessa idea, ma con il suo modo di fare caratteristico.[3]

Dall’altra parte, anche lo “Stato profondo” americano ha iniziato ad avvertire dell’alta probabilità di una terza guerra mondiale e a speculare su come gli Stati Uniti possano evitare la sconfitta se devono combattere su due o tre fronti contemporaneamente (Europa, Pacifico e Medio Oriente).[4]

Ho deciso di partecipare alla discussione. Naturalmente, preferirei una risposta negativa alla domanda posta nel titolo di questo articolo. Ma per questo dobbiamo comprendere le cause dell’escalation dei conflitti e promuovere una politica molto più attiva di salvaguardia della pace. Sono convinto che dobbiamo adeguare considerevolmente tutte le politiche – interne, militari ed estere – e offrire un nuovo paradigma di sviluppo a noi stessi e al mondo.

In questo primo articolo cercherò di presentare la mia visione delle sfide. Il secondo descriverà i modi attivi e proattivi per rispondere ad esse. Non credo che elencando le sfide scoprirò qualcosa di nuovo. Ma nel loro insieme disegnano una realtà più che allarmante che richiede un’azione decisa.

La prima e principale sfida è l’esaurimento del moderno tipo di capitalismo basato principalmente sul profitto, per il quale incoraggia il consumo dilagante di beni e servizi che sono sempre meno necessari per la normale vita umana. Il torrente di informazioni senza senso degli ultimi due o tre decenni rientra nella stessa categoria. I gadget divorano una quantità colossale di energia e tempo che le persone potrebbero altrimenti utilizzare per attività produttive. L’umanità è entrata in conflitto con la natura e ha iniziato a minare la base stessa della sua esistenza. Anche in Russia, la crescita del benessere implica principalmente un aumento dei consumi.

La seconda sfida è quella più evidente. I problemi globali – l’inquinamento, il cambiamento climatico, la diminuzione delle riserve di acqua dolce, unicamente adatta all’agricoltura, e di molte altre risorse naturali – non vengono risolti; al contrario, vengono proposte le cosiddette soluzioni verdi, il più delle volte finalizzate a consolidare il dominio dei privilegiati e dei ricchi sia nelle loro società che a livello globale. Si pensi, ad esempio, ai continui tentativi di spostare l’onere della lotta all’inquinamento ambientale e alle emissioni di CO2 sui produttori, la maggior parte dei quali si trova al di fuori del vecchio Occidente, piuttosto che sui consumatori dell’Occidente, dove il consumo eccessivo sta assumendo forme grottesche. Si stima che il 20-30% della popolazione mondiale, concentrata principalmente in Nord America, Europa e Giappone, consumi il 70-80% delle risorse prelevate ogni anno dalla biosfera,[5] e questo divario continua a crescere.

Ma la malattia del consumismo si sta diffondendo nel resto del mondo. Noi stessi soffriamo ancora del consumo ostentato, così di moda negli anni Novanta e ora in via di estinzione (se davvero in via di estinzione), anche se con estrema lentezza. Da qui l’intensificarsi della lotta per le risorse e l’acuirsi delle tensioni interne, anche a causa di consumi diseguali e della crescente disuguaglianza in molti Paesi e regioni.

La consapevolezza che l’attuale modello di sviluppo non porta da nessuna parte, ma anche la non volontà e l’incapacità di abbandonarlo, sono la ragione principale dell’ostilità sempre più crescente verso la Russia e, in misura leggermente minore, verso la Cina (il prezzo della rottura delle relazioni con essa è molto più alto).

Per distrarre le persone dalle sfide non affrontate, serve un nemico.

Già a metà degli anni 2010, le sanzioni si spiegavano apertamente con la necessità di contenere il corpo tentacolare dell’Unione Europea. Ora sono uno dei principali vincoli che tengono insieme l’Occidente.

I politici europei parlano sempre più spesso della necessità, se non dell’opportunità, di prepararsi a una guerra mondiale, dimenticando ovviamente, in un attacco di amnesia storica e di degrado intellettuale, che se dovesse iniziare, i Paesi europei della NATO non avrebbero più di alcuni giorni o addirittura ore di vita. Ma Dio non voglia, ovviamente.

Un processo parallelo è l’aumento della disuguaglianza sociale, che sta crescendo in modo esplosivo dal crollo dell’URSS comunista che ha seppellito la necessità di uno Stato sociale. Nei Paesi occidentali sviluppati, la classe media, fondamento dei sistemi politici democratici, si sta riducendo da circa 15-20 anni e sta diventando sempre meno efficiente.

La democrazia è uno degli strumenti con cui le élite oligarchiche, detentrici di potere e ricchezza, governano le società complesse. È per questo che le tendenze autoritarie e persino totalitarie sono in aumento in Occidente, nonostante tutte le grida sulla protezione della democrazia, ma non solo.

La terza sfida è il degrado dell’uomo e della società, soprattutto nell’Occidente relativamente sviluppato e ricco. L’Occidente (ma non solo) è vittima di una civiltà urbana che vive in un relativo comfort, ma che si è anche distaccata dall’habitat tradizionale in cui l’uomo si è formato storicamente e geneticamente. La continua diffusione delle tecnologie digitali, che avrebbero dovuto promuovere l’istruzione di massa, è sempre più responsabile dell’istupidimento generale e aumenta la possibilità di manipolare le masse non solo per gli oligarchi, ma anche per le masse stesse, portando a un nuovo livello di oclocrazia. Inoltre, le oligarchie che non vogliono condividere i loro privilegi e le loro ricchezze mettono deliberatamente in pericolo le persone e incoraggiano la disintegrazione delle società, cercando di renderle incapaci di resistere all’ordine delle cose che è sempre più ingiusto e pericoloso per la maggior parte di loro. Non solo promuovono, ma impongono ideologie, valori e modelli di comportamento anti-umani o post-umani che rifiutano le basi naturali della moralità umana e quasi tutti i valori umani fondamentali.

L’onda dell’informazione si combina con condizioni di vita relativamente prospere: l’assenza delle principali sfide che hanno sempre guidato lo sviluppo dell’umanità: la fame e la paura della morte violenta. Le paure si stanno virtualizzando.

Il pensiero a clip è caratterizzato da un degrado intellettuale universale.

Possiamo già vedere che le élite europee hanno perso quasi completamente la capacità di pensare strategicamente, e non ne è rimasta praticamente nessuna nel senso meritocratico tradizionale. Stiamo assistendo a un declino intellettuale dell’élite al potere negli Stati Uniti, un Paese con enormi capacità militari, anche nucleari. Gli esempi si moltiplicano. Ho già citato uno degli ultimi che mi ha davvero scioccato. Sia il Presidente degli Stati Uniti Biden che il suo Segretario di Stato Blinken hanno sostenuto che la guerra nucleare non è peggiore del riscaldamento globale.[6] Ma questa malattia minaccia l’intera umanità e richiede un’azione di contrasto decisiva. Il nostro pensiero è sempre meno adeguato ad affrontare sfide sempre più complesse. Per distrarre le persone dai problemi irrisolti e per distrarsi, i politici stanno suscitando interesse per l’intelligenza artificiale. Per tutte le sue possibili applicazioni utili, non sarà in grado di riempire il vuoto dell’intelligenza, ma indubbiamente comporta ulteriori enormi pericoli. Ne parlerò più avanti.

La quarta fonte più importante dell’aumento delle tensioni globali negli ultimi quindici anni è la redistribuzione senza precedenti del potere dal vecchio Occidente alla nascente Maggioranza Mondiale. Le placche tettoniche hanno iniziato a muoversi sotto il precedente sistema internazionale, provocando un lungo terremoto geopolitico, geoeconomico e geoideologico a livello mondiale. Le ragioni sono molteplici.

In primo luogo, l’URSS degli anni 1950-1960 e poi la Russia, che si era ripresa da un declino durato quindici anni, hanno tolto il terreno da sotto l’Europa e dalla superiorità militare dell’Occidente che durava da 500 anni. Ripeto quello che è stato detto molte volte: era la base su cui poggiava il loro dominio nella politica, nella cultura e nell’economia mondiale, che permetteva loro di imporre i propri interessi e il proprio ordine politico, la propria cultura e, soprattutto, di sottrarre il PNL mondiale. La perdita di un’egemonia durata 500 anni è alla base dell’odio rabbioso dell’Occidente verso la Russia e dei tentativi di schiacciarla.

In secondo luogo, gli errori dell’Occidente stesso, che era arrivato a credere nella sua vittoria finale, si è rilassato, ha dimenticato la storia ed è caduto nell’euforia e nella letargia del pensiero. Ha commesso una serie di errori geopolitici spettacolari. Dapprima ha respinto altezzosamente (forse per nostra fortuna) l’aspirazione della maggior parte dell’élite russa alla fine degli anni ’80 e ’90 di integrarsi nell’Occidente. Volevano essere uguali, ma sono stati snobbati. Di conseguenza, la Russia si è trasformata da potenziale partner e persino alleato, dotato di un enorme potenziale naturale, militare e intellettuale e di capacità produttive minori, ma comunque considerevoli, in un avversario e nel nocciolo strategico del non-Occidente, che viene spesso definito Sud globale, ma un nome più appropriato è Maggioranza mondiale.

Terzo, essendo arrivato a credere che non ci fossero alternative al modello del capitalismo globalista liberal-democratico, l’Occidente non solo non ha visto, ma ha anche sostenuto l’ascesa della Cina, sperando che la grande civiltà-stato seguisse la strada della democrazia, cioè fosse governata in modo meno efficace e si accodasse strategicamente all’Occidente. Ricordo il mio stupore quando l’offerta fantasticamente lucrativa fatta dall’élite russa negli anni ’90 fu rifiutata. Pensavo che l’Occidente avesse deciso di finire la Russia. Ma si è scoperto che era stato semplicemente guidato da un misto di arroganza e avidità. In seguito, la politica nei confronti della Cina non sembrò più così sorprendente. Il livello intellettuale delle élite occidentali è diventato evidente.

Poi gli Stati Uniti sono stati coinvolti in una serie di conflitti non necessari – Afghanistan, Iraq, Siria – e li hanno prevedibilmente persi, rovinando l’aura del loro dominio militare e sprecando trilioni di dollari investiti in forze di impiego generale. Ritirandosi sconsideratamente dal Trattato ABM, forse nella speranza di ripristinare la superiorità nelle armi strategiche, Washington ha risvegliato in Russia un senso di autoconservazione, distruggendo infine ogni speranza di accordo amichevole. Nonostante la sua condizione di miseria, Mosca ha avviato un programma di ammodernamento delle sue forze strategiche che, alla fine degli anni 2010, le ha permesso per la prima volta nella storia non solo di recuperare il ritardo, ma anche di andare avanti, seppur temporaneamente.

La quinta fonte di tensione nel sistema mondiale – il già citato, quasi istantaneo per gli standard storici, cambiamento a valanga dell’equilibrio di potere globale; il rapido declino della capacità dell’Occidente di sifonare il GWP ha causato la sua furiosa reazione. L’Occidente, ma soprattutto Washington, sta distruggendo la sua posizione un tempo privilegiata nella sfera economica e finanziaria, armando i legami economici e usando la forza nel tentativo di rallentare l’indebolimento delle proprie posizioni e di danneggiare i concorrenti. Una raffica di sanzioni e di restrizioni al trasferimento di tecnologia e di beni ad alta tecnologia spezza le catene di produzione. La stampa sfrenata di dollari, e ora dell’euro, accelera l’inflazione e aumenta il debito pubblico. Cercando di mantenere il proprio status, gli Stati Uniti stanno minando il sistema globalista che essi stessi hanno creato, ma che ha dato quasi pari opportunità ai concorrenti in ascesa, più organizzati e laboriosi, della Maggioranza Mondiale. La deglobalizzazione economica e la regionalizzazione sono in corso; le vecchie istituzioni di gestione economica globale stanno vacillando. L’interdipendenza, un tempo vista come uno strumento per sviluppare e rafforzare la cooperazione e la pace, sta diventando sempre più un fattore di vulnerabilità e mina il suo stesso ruolo stabilizzatore.

La sesta sfida. Dopo aver lanciato un disperato contrattacco, in primo luogo contro la Russia, ma anche contro la Cina, l’Occidente ha iniziato una campagna di propaganda quasi senza precedenti, simile a un tempo di guerra, demonizzando i concorrenti, soprattutto la Russia, e tagliando sistematicamente i legami umani, culturali ed economici. L’Occidente sta calando una cortina di ferro ancora più pesante di quella precedente e sta costruendo l’immagine di un nemico universale. Da parte russa e cinese, la guerra delle idee non è così totale e feroce, ma l’onda contraria sta crescendo. Tutto ciò crea una situazione politica e psicologica in cui l’Occidente disumanizza i russi e, in parte ma in misura minore, i cinesi (rompere i legami con loro è più costoso), e noi guardiamo all’Occidente con un disprezzo sempre più fastidioso. La disumanizzazione spiana la strada alla guerra. Sembra essere parte dei preparativi per la guerra in Occidente.

La nostra risposta crea i presupposti per una lotta spietata contro chi non è degno di rispetto o di clemenza.

La settima sfida. Gli spostamenti tettonici, l’ascesa di nuovi Paesi e continenti e il riaccendersi di vecchi conflitti soppressi dal confronto strutturato dell’era della Guerra Fredda porteranno inevitabilmente (se i nuovi leader non contrastano questa tendenza con una politica attiva di pace) a una serie di conflitti. Le contraddizioni “interimperialiste” sono probabili non solo tra i vecchi e i nuovi, ma anche tra i nuovi attori. I primi bagliori di tali conflitti sono già visibili nel Mar Cinese Meridionale e tra India e Cina. Se i conflitti si moltiplicheranno, come è più che probabile, provocheranno una reazione a catena che aumenterà il rischio di una guerra mondiale. Finora il pericolo principale è rappresentato dal già citato feroce contrattacco lanciato dall’Occidente. Ma i conflitti possono scoppiare e scoppieranno quasi ovunque, anche alla periferia della Russia.

In Medio Oriente, il conflitto israelo-palestinese è esploso in modo prevedibile, minacciando di coinvolgere l’intera regione. In Africa infuria una serie di guerre. I conflitti minori non si fermano mai nei devastati Afghanistan, Iraq e Siria. L’Occidente, che gode ancora del dominio dell’informazione e della propaganda, preferisce semplicemente non notarli. L’America Latina e l’Asia non sono storicamente così bellicose come l’Europa, dove sono iniziate la maggior parte delle guerre, comprese due guerre mondiali nell’arco di una generazione, ma le guerre sono avvenute anche lì e molti confini sono stati tracciati arbitrariamente e imposti dalle ex potenze coloniali. L’esempio più lampante è quello dell’India e del Pakistan, ma ce ne sono decine di altri.

Data la traiettoria di sviluppo dell’Europa, finora inesorabilmente in discesa in termini di decelerazione economica, crescente disuguaglianza, aumento dei problemi migratori, crescente disfunzione di sistemi politici ancora relativamente democratici e degrado morale, ci si può aspettare, con un grado di probabilità molto elevato nel medio termine, la stratificazione e poi persino il crollo dell’Unione Europea, l’ascesa del nazionalismo e la fascistizzazione dei sistemi politici. Finora hanno preso piede elementi di neofascismo liberale, ma sta già emergendo il fascismo nazionalista di destra. Il subcontinente tornerà al suo abituale stato di instabilità e persino fonte di conflitti. L’inevitabile ritiro degli Stati Uniti, che stanno perdendo interesse nella stabilità del subcontinente, aggraverà questa tendenza. Non restano più di dieci anni. Vorrei sbagliarmi, ma non sembra.

L’ottava sfida. La situazione è aggravata dal vero e proprio collasso della governance globale non solo nell’economia, ma anche nella politica e nella sicurezza; dalla rinnovata e feroce rivalità tra le grandi potenze; dalla struttura fatiscente delle Nazioni Unite che rende l’organizzazione sempre meno funzionale; dal sistema di sicurezza in Europa rovinato dall’espansione della NATO. Anche i tentativi degli Stati Uniti e dei loro alleati di mettere insieme blocchi anticinesi nella regione indo-pacifica e la lotta per il controllo delle rotte marittime aumentano il potenziale di conflitto. L’Alleanza Nord Atlantica, che in passato era un sistema di sicurezza che svolgeva un ruolo ampiamente stabilizzante e di bilanciamento, si è trasformata in un blocco che ha commesso diversi atti di aggressione e che ora sta conducendo una guerra in Ucraina.

Le nuove organizzazioni, istituzioni e vie progettate, tra l’altro, per garantire la sicurezza internazionale, come la SCO, i BRICS, la Belt and Road continentale e la Northern Sea Route, sono state finora solo parzialmente in grado di compensare il crescente deficit di meccanismi di sostegno alla sicurezza. Questo deficit è aggravato dal crollo, principalmente su iniziativa di Washington, del precedente sistema di controllo degli armamenti, che ha svolto un ruolo limitato ma utile nel prevenire una corsa agli armamenti, ma ha comunque fornito maggiore trasparenza e prevedibilità, riducendo in qualche modo il sospetto e la sfiducia.

La nona sfida. L’arretramento dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, dalla sua posizione dominante nella cultura, nell’economia e nella politica mondiale, sebbene incoraggiante in quanto apre nuove opportunità per altri Paesi e civiltà, comporta rischi spiacevoli. Ritirandosi, gli Stati Uniti stanno perdendo interesse a mantenere la stabilità in molte regioni e, al contrario, iniziano a provocare instabilità e conflitti. L’esempio più evidente è il Medio Oriente, dopo che gli americani si sono assicurati una relativa indipendenza energetica. È difficile pensare che l’attuale conflitto israelo-palestinese a Gaza sia solo il risultato della palese incompetenza dei servizi di sicurezza israeliani e soprattutto statunitensi. Ma anche se fosse così, ciò indica una perdita di interesse per uno sviluppo pacifico e stabile. Tuttavia, ciò che conta davvero è che, mentre si ritirano lentamente nel neo-isolazionismo, gli americani vivranno per molti anni nel paradigma mentale del dominio imperiale e, se consentito, fomenteranno conflitti in Eurasia.

La classe politica americana rimarrà, almeno per un’altra generazione, nel quadro intellettuale delle teorie di Mackinder, stimolate da un dominio geopolitico durato 15 anni ma transitorio. In particolare, gli Stati Uniti cercheranno di ostacolare l’ascesa di nuove potenze, in primo luogo la Cina, ma anche la Russia, l’India, l’Iran, molto presto la Turchia e i Paesi del Golfo. Da qui la sua politica, finora riuscita, di provocare e fomentare un conflitto armato in Ucraina, i tentativi di trascinare la Cina in una guerra per Taiwan (finora falliti) e di esacerbare i disaccordi sino-indiani, i continui sforzi per fomentare il conflitto nel Mar Cinese Meridionale, e di fomentare il conflitto nel Mar Cinese Orientale, di silurare sistematicamente il riavvicinamento intra-coreano e di fomentare (finora senza successo) il conflitto in Transcaucasia e tra gli Stati arabi del Golfo e l’Iran. Possiamo aspettarci lo stesso nel vicinato comune di Russia e Cina.

Il punto vulnerabile più evidente è il Kazakistan. C’è già stato un tentativo di questo tipo. È stato fermato dalle forze di pace russe della CSTO, intervenute su richiesta della leadership kazaka. Ma questo continuerà fino a quando l’attuale generazione di élite politiche statunitensi non se ne andrà e, se e quando, saliranno al potere persone meno globaliste e più orientate alla nazione. Ci vorranno almeno 15-20 anni. Ma naturalmente questo processo deve essere incoraggiato in nome della pace internazionale e anche nell’interesse del popolo americano, anche se gli ci vorrà molto tempo per prendere coscienza dei suoi interessi. Ciò avverrà se e quando il degrado dell’élite americana sarà fermato e gli Stati Uniti subiranno un’altra sconfitta, questa volta in Europa per l’Ucraina.

Lottando disperatamente per preservare l’ordine mondiale degli ultimi 500 e soprattutto 30-40 anni, gli Stati Uniti e i loro alleati, compresi quelli nuovi che sembravano essersi uniti al vincitore, hanno provocato e stanno ora fomentando una guerra in Ucraina. All’inizio speravano di schiacciare la Russia. Ora che questo tentativo è fallito, prolungheranno il conflitto, sperando di logorare e abbattere il nostro Paese – il nucleo politico-militare della Maggioranza Mondiale – o almeno di legargli le mani, impedirgli di svilupparsi e ridurre l’attrattiva delle sue alternative (non ancora chiaramente formulate, ma abbastanza ovvie) al paradigma politico e ideologico occidentale.

Tra un anno o due, l’operazione militare speciale in Ucraina dovrà concludersi con una vittoria decisiva, in modo che le attuali élite americane e le relative élite di comprador in Europa si rassegnino alla perdita del loro dominio e accettino una posizione molto più modesta nel futuro sistema internazionale.

Un compito a lungo termine ma urgente è quello di promuovere il ritiro pacifico dell’Occidente dalle sue precedenti posizioni egemoniche.

La decima sfida. Per molti decenni, la relativa pace sul pianeta è stata mantenuta grazie alla paura delle armi nucleari. Negli ultimi anni, tuttavia, l’abitudine a vivere in pace, il degrado intellettuale di cui sopra e la mentalità da clip nelle società e nelle élite hanno favorito l’ascesa del “parassitismo strategico”. Le persone non temono più la guerra, nemmeno quella nucleare. L’ho già scritto nei miei articoli precedenti. Ma non sono il solo a lanciare l’allarme. Questo problema viene regolarmente sollevato dall’eminente pensatore russo di politica estera Dmitry Trenin.[7]

E infine, l’undicesima e più ovvia sfida, o meglio un insieme di sfide. È in corso una nuova corsa agli armamenti, qualitativa ma anche quantitativa. La stabilità strategica – un indicatore della probabilità di una guerra nucleare – è minata da tutte le parti. Appaiono o sono già apparsi nuovi tipi di armi di distruzione di massa, che non sono coperti dal sistema di limitazioni e divieti. Questi includono molti tipi di armi biologiche che colpiscono sia le persone e i singoli gruppi etnici, sia gli animali e le piante. Un possibile scopo di queste armi è provocare la fame e diffondere malattie umane, animali e vegetali.[8] Gli Stati Uniti hanno creato una rete di laboratori biologici in tutto il mondo e altri Paesi hanno probabilmente fatto lo stesso. Alcune armi biologiche sono relativamente accessibili.

Oltre alla diffusione e al drammatico aumento del numero e della portata dei missili e di altre armi di varie classi, è in corso la rivoluzione dei droni. Gli UAV sono relativamente e/o del tutto economici, ma possono trasportare armi di distruzione di massa. Soprattutto, la loro proliferazione di massa, già iniziata, può rendere la vita normale insopportabilmente pericolosa. Poiché il confine tra guerra e pace sta diventando sempre più labile, queste armi sono lo strumento perfetto per attacchi terroristici e puro banditismo. Quasi ogni persona che si trova in uno spazio relativamente non protetto diventa una potenziale vittima di malfattori. Missili, droni e altre armi possono causare danni colossali alle infrastrutture civili, con tutte le conseguenze che ne derivano per le persone e i Paesi. Lo vediamo già accadere durante il conflitto in Ucraina.

Le armi non nucleari a lungo raggio ad alta precisione minano la stabilità strategica “dal basso”. Nel frattempo, sono in corso lavori (iniziati di nuovo negli Stati Uniti) per miniaturizzare le armi nucleari, che erodono la stabilità strategica “dall’alto”. Ci sono sempre più segnali che indicano che la corsa agli armamenti si sta spostando nello spazio.

Le armi ipersoniche, in cui noi e i nostri amici cinesi siamo ancora all’avanguardia, grazie a Dio e ai nostri progettisti, prima o poi si diffonderanno. Il tempo di volo per raggiungere gli obiettivi sarà ridotto al minimo. Il rischio di un attacco di decapitazione ai centri decisionali aumenterà drasticamente. La stabilità strategica subirà un altro colpo devastante. I veterani ricordano come noi e la NATO siamo stati presi dal panico per i missili SS-20 e Pershing. Ma la situazione attuale è molto peggiore. In caso di crisi, missili sempre più precisi e invincibili a lungo raggio minacceranno le più importanti comunicazioni marittime, come i canali di Suez e Panama, gli stretti di Bab al-Mandeb, Hormuz, Singapore e Malacca.

La corsa agli armamenti incontrollata che si sta sviluppando in quasi tutti i settori può portare il mondo al punto in cui i sistemi di difesa missilistica e aerea dovranno essere posizionati ovunque. Naturalmente, i missili a lungo raggio e ad alta precisione, come altre armi, possono anche rafforzare la sicurezza e, ad esempio, neutralizzare definitivamente il potenziale della flotta di portaerei statunitense e ridurre la possibilità di Washington di perseguire politiche aggressive e di sostenere i suoi alleati. Ma poi anche loro si affretteranno a dotarsi di armi nucleari, cosa più che probabile nel caso della Repubblica di Corea e del Giappone.

Infine, il fattore più alla moda ma anche molto pericoloso.

L’intelligenza artificiale nella sfera militare non solo aumenta in modo significativo la pericolosità delle armi, ma crea anche nuovi rischi di escalation nei conflitti locali, quando persone, società e Stati perdono il controllo delle armi.

Possiamo già vedere armi autonome sul campo di battaglia. Questo tema richiede un’analisi approfondita a parte. A questo punto, l’intelligenza artificiale nella sfera strategico-militare comporta maggiori pericoli. Ma forse crea anche nuove opportunità per prevenirli. Tuttavia, affidarsi all’IA e ai modi e ai metodi tradizionali per rispondere alle sfide crescenti sarebbe sciocco e persino avventato.

Posso continuare a elencare i fattori che creano una situazione militare-strategica prossima alla guerra o addirittura bellica nel mondo. Il mondo è sull’orlo o ha già superato una serie di disastri, se non una catastrofe globale. La situazione è estremamente, forse senza precedenti, allarmante, ancor più di quanto non lo fosse ai tempi di Alexander Blok, che presagiva il XX secolo che si è rivelato così terribile per il nostro Paese e per il mondo. Ma invito il lettore a non cadere nel panico e nello sconforto. Le ricette ci sono e alcune soluzioni sono già in fase di realizzazione. Ne parlerò nel prossimo articolo.

Tutto è nelle nostre mani, ma dobbiamo renderci conto di quanto siano profonde, gravi e senza precedenti le sfide attuali, e renderci all’altezza non solo rispondendo, ma anche restando un passo avanti. Ripeto: la Russia ha bisogno di una nuova politica estera, di nuove priorità per il suo sviluppo interno e di nuove priorità per la società, per ogni cittadino responsabile di questo Paese e del mondo. Ne parlerò nel prossimo articolo.

Come prevenire una terza guerra mondiale
Sergei A. Karaganov
A metà giugno ho pubblicato sulla rivista Profil un articolo intitolato “L’uso delle armi nucleari può salvare l’umanità dalla catastrofe globale”. L’articolo è stato pubblicato in russo e in inglese quasi contemporaneamente sul sito web della rivista Russia in Global Affairs. È stato ampiamente ristampato in tutto il mondo, scatenando uno tsunami di risposte, obiezioni e dibattiti, decine di migliaia di reazioni. Non sono mancate nemmeno le parole di sostegno.
Riferimenti

[1] Fonte: https://aleksandr-blok.su/poemy/vozmezdie/2/?lang=en

[2] Kashin, Vasily B. e Sushentsov, Andrei A., 2023. “La guerra in una nuova epoca: Il ritorno dei grandi eserciti”. Rossiya v globalnoi politike, 21(6), pp. 10-118. Disponibile su: https://www.globalaffairs.ru/articles/bolshaya-vojna/. La versione in lingua inglese sarà disponibile nel prossimo numero (22(1), 2024) di Russia in Global Affairs.

[3] Cfr: Lukyanov, F.A., 2023a. Polupolyarny mir [Un mondo semipolare]. Rossiya v gobalnoi politike, 3 ottobre. Disponibile a: https://globalaffairs.ru/articles/polupolyarnyj-mir/; Lukyanov, F.A., 2023b. Nyneshnyaya “Tretya mirovaya voina” budet rastyanutoi vo vremeni i rasplredelyonnoi v prostranstve [“La terza guerra mondiale” sarà prolungata nel tempo e distribuita nello spazio]. Rossiiskaya Gazeta, 8 novembre. Disponibile su: https://rg.ru/2023/11/08/chto-budet-posle-status-kvo.html

[4] Si veda: Mitchell, A. Wess, 2023. L’America è a un passo da una guerra che potrebbe perdere. Politica estera, 16 novembre. Disponibile a: https://foreignpolicy.com/2023/11/16/us-russia-china-gaza-ukraine-world-war-defense-security-strategy/?tpcc=recirc062921

[5] Kempf, H., 2008. Come i ricchi stanno distruggendo il mondo. Le Monde diplomatique, giugno. Disponibile su:  https://mondediplo.com/2008/06/18ecology

[6] “L’unica minaccia esistenziale che l’umanità si trova ad affrontare, ancora più spaventosa di una… di una guerra nucleare, è che il riscaldamento globale superi gli 1,5 gradi nei prossimi 20-10 anni… Non c’è modo di tornare indietro”. (Biden, J., 2023. “Osservazioni del Presidente Joe Biden in conferenza stampa”. La Casa Bianca, 10 settembre. Disponibile su:  https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/09/10/remarks-by-president-biden-in-a-press-conference-2/)

[7] Si veda, ad esempio, Trenin, D.V., 2023. Il conflitto in Ucraina e le armi nucleari. Russia in Global Affairs, 20 giugno. Disponibile a: https://eng.globalaffairs.ru/articles/ukraine-and-nuclear-weapons/

[8] Zavriev, S.K., 2022. Sovremennye problemy biobezopasnosti i perspektivy mezhdunarodnogo sotrudnichestva [Problemi moderni di biosicurezza e prospettive di cooperazione internazionale]. Mirovaya ekonomika i mezhdunarodnye otnosheniya, 66(4), pp. 94-100.

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La geopolitica del dominio: la teoria della formazione dello Stato e le dinamiche imperiali di Geoffrey Parker

La #geopolitica del dominio: la teoria della formazione dello Stato e le dinamiche imperiali di Geoffrey Parker

Federico Bordonaro, Ph.D.

Federico Bordonaro, Ph.D.

Funzionario politico presso l’Ambasciata del Canada | Ambasciata del Canada | Analisi della politica estera e di sicurezza

Sintesi  La teoria di Geoffrey Parker sulla formazione territoriale degli stati presenta un modello articolato per comprendere l’espansione, il consolidamento e la contrazione degli stati europei, con implicazioni più ampie per le potenze globali nel corso della storia. Sintetizzando le classiche intuizioni geopolitiche con fattori culturali, economici e militari, Parker offre un quadro completo per spiegare l’ascesa e il declino delle grandi potenze. Questo conciso contributo per LinkedIn esamina il modello in sei fasi di Parker di formazione dello stato e sovraestensione imperiale, riflettendo sulla sua applicabilità alla geopolitica storica e contemporanea.

Introduzione In La geopolitica del dominio (1988), Geoffrey Parker affronta i processi fondamentali che modellano la formazione dello Stato e le traiettorie imperiali. La sua teoria si concentra sull’interazione tra geografia, cultura e decisioni strategiche delle élite statali. Analizzando gli stati preindustriali europei, Parker colma il divario tra il determinismo geopolitico classico e le teorie moderne che enfatizzano il ruolo dell’azione umana. Il mio scopo qui è quello di introdurre brevemente il modello di Parker, attirando l’attenzione sulle sue fasi di sviluppo statale e sulla persistente sfida della sovraestensione.

Il nucleo della teoria di Parker: formazione ed espansione dello Stato

1. Formazione dello Stato Centrale ed espansione Parker postula che la formazione dello Stato inizi con la creazione di un territorio centrale, un nucleo definito dall’identità etnica, culturale o religiosa. Il consolidamento iniziale di questo nucleo spesso implica la conquista militare delle regioni vicine, in particolare di terre fertili e vie di comunicazione strategiche. Questa fase espansionistica è guidata dalla necessità di garantire risorse economiche e stabilizzare le frontiere contro le potenze rivali.

2. Consolidamento del potere Dopo le conquiste territoriali, l’attenzione si sposta sul consolidamento del controllo politico e militare. La sovranità viene rafforzata attraverso l’unificazione culturale e religiosa, poiché le élite al potere cercano di allineare le istituzioni statali con l’identità culturale dominante. Parker sottolinea l’importanza dei luoghi sacri e dei centri simbolici, che legittimano l’autorità e promuovono l’unità all’interno della regione centrale.

3. Ritorno al cuore culturale Dopo periodi di conquiste esterne, gli stati spesso reindirizzano i propri sforzi verso l’interno, rafforzando il controllo sul cuore culturale. Questa fase prevede la centralizzazione amministrativa e la creazione di infrastrutture per garantire la governance a lungo termine. L’obiettivo è integrare le regioni periferiche in un’entità politica coesa, riducendo il dissenso interno e rafforzando l’autorità delle élite.

Espansione imperiale e pericoli di una sovraestensione

4. Espansione ed egemonia imperiale Al culmine del loro potere, gli stati perseguono ambizioni imperiali oltre le loro frontiere immediate. Questa espansione è spesso guidata da motivazioni economiche e imperativi ideologici, come la diffusione di valori religiosi o di civiltà. Parker sottolinea l’uso degli stati satellite e dei regni clienti come strumenti di controllo indiretto, estendendo l’influenza senza i costi totali dell’occupazione.

5. Sovraestensione imperiale Un elemento critico della teoria di Parker è il concetto di sovraestensione. Man mano che gli imperi si espandono, gli oneri logistici e amministrativi crescono in modo sproporzionato. Il mantenimento di territori distanti prosciuga le risorse statali, creando vulnerabilità che le potenze rivali possono sfruttare. Esempi storici, dall’impero romano a quello ottomano, illustrano come l’eccesso di potere acceleri il declino imperiale. È interessante notare che l’ipotesi di Parker si adatta bene alle scoperte di Paul Kennedy Ascesa e caduta delle grandi potenze (1987) e il modello geopolitico di Randall Collins ( Teoria sociologica weberiana , 1986).

6. Adattamento alla globalizzazione Sebbene l’analisi iniziale di Parker sia incentrata sugli stati preindustriali, egli estende il suo modello per considerare gli effetti della globalizzazione. Il processo di unificazione europea, ad esempio, riflette nuove forme di consolidamento e cooperazione territoriale. Parker specula sull’emergere di entità sovranazionali, suggerendo che le dinamiche di formazione dello stato rimangono rilevanti nell’era della governance transnazionale.

Il ruolo della geografia e le percezioni delle élite Parker integra il determinismo geografico con l’azione delle élite statali. Mentre la geografia stabilisce i parametri per l’espansione, le percezioni delle élite e le decisioni strategiche determinano in ultima analisi i risultati geopolitici. Le narrazioni culturali e religiose servono come giustificazione per l’ambizione territoriale, rafforzando il legame tra interessi materiali e imperativi ideologici.

Riflessioni critiche: implicazioni per la geopolitica contemporanea Le intuizioni di Parker offrono lezioni preziose per comprendere le moderne sfide geopolitiche. Gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione Europea sono un esempio di stati che navigano nelle dinamiche di espansione e sovraestensione. Ad esempio, gli impegni militari statunitensi in tutto il mondo fanno eco alle tensioni affrontate dagli imperi storici, mentre l’iniziativa cinese Belt and Road riflette gli sforzi strategici per estendere l’influenza attraverso progetti infrastrutturali. Allo stesso modo, gli sforzi di coesione interna dell’Unione Europea rispecchiano l’idea di Parker di ritornare al cuore culturale.

Conclusione Geoffrey Parker La geopolitica del dominio fornisce un quadro robusto per analizzare il ciclo di vita di imperi e stati. Il suo modello, fondato sull’analisi storica, trascende i confini temporali, offrendo spunti di riflessione sulla geopolitica contemporanea. Riconoscendo l’interazione tra geografia, azione delle élite e identità culturale, Parker arricchisce la nostra comprensione delle forze che guidano l’espansione, il consolidamento e il declino dello stato. Questa teoria non solo spiega il passato, ma serve anche da guida per anticipare le traiettorie future delle potenze globali.

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È la fine dell’anno e quindi vorrei augurare a tutti un felice anno nuovo: ecco l’inizio del 2025. B ha detto meglio che il 2025 vedrà un notevole e precipitoso declino dell’Occidente verso la tirannia e l’illiberalismo.

Data la bizzarra natura coordinata delle repressioni speculari di ogni nazione occidentale su libertà fondamentali come la libertà di parola, la totale delegittimazione della democrazia e delle elezioni, l’assoluta dispettosa inimicizia che le nostre élite al potere hanno mostrato verso l’uomo comune, il contadino, l’operaio, lo schiavo salariato – dato che tutte queste cose, e quanto siano state straordinariamente coordinate tra i governi dell’Occidente, il 2025 ci ha insegnato che l’intero ordine occidentale deve necessariamente prendere la direzione da un nodo centralizzato di governance da qualche parte. Quel posto può essere nei retrobottega del WEF o del Bilderberg o altro ancora, ma il dominio dall’alto è ora più chiaro che mai.

Citando Mearsheimer, B scrive: “La cosa più orribile, però, è il crollo dei concetti umanitari che un tempo l’Occidente sosteneva di tenere alti. Mearsheimer lo dice meglio quando denuncia la bancarotta morale dell’Occidente“:

Dato il presunto impegno dell’Occidente per i diritti umani e soprattutto per la prevenzione dei genocidi, ci si sarebbe aspettati che Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania avessero fermato il genocidio israeliano sul nascere.

Invece, i governi di questi tre Paesi, soprattutto gli Stati Uniti, hanno appoggiato in ogni occasione l’inimmaginabile comportamento di Israele a Gaza. In effetti, questi tre Paesi sono complici di questo genocidio.

Inoltre, quasi tutti i numerosi sostenitori dei diritti umani in quei Paesi, e in Occidente più in generale, sono rimasti in silenzio mentre Israele eseguiva il suo genocidio. I media tradizionali non hanno fatto quasi alcuno sforzo per denunciare e contestare ciò che Israele sta facendo ai palestinesi. Anzi, alcuni importanti organi di informazione hanno sostenuto con convinzione le azioni di Israele.

Esatto, il 2024 è stato l’anno del genocidio senza mezzi termini, e per di più con la totale sbianchettatura di questo genocidio da parte dei media aziendali comprati e pagati.

Più di ogni altra cosa, dichiaro l’anno 2024 come la morte dei media tradizionali. Mai prima d’ora la loro parzialità, la loro criminalità e la loro totale ostilità alla verità erano state più apertamente evidenti, più palesemente ostentate. Scandalo dopo scandalo hanno rovinato le ultime briciole di credibilità rimaste, dalla copertura della chiara demenza di Biden, dell’incompetenza presidenziale e della vera e propria criminalità familiare, alla copertura del genocidio di Israele per tutto l’anno, con trucchi “creativi” di formattazione e sintassi, oltre alla mancanza di imparzialità o di capacità di mettere in discussione la narrativa di Stato. Si sono rivelati nient’altro che un’antiquata tribuna di disinformazione e controllo della narrazione. Quest’anno è stata davvero la morte, a lungo attesa e molto meritata, dei media tradizionali come istituzione.

Praticamente tutto ciò che è degno di nota, qualsiasi rivelazione o denuncia degna di nota, è stato pubblicato su Twitter, Substack o su un rifugio associato di “cittadini giornalisti”. Le persone si stanno allontanando sempre di più dalla programmazione aziendale in generale, sia che si tratti di MSM o di Hollywood o persino dei principali sport – con titoli recenti che riportano un calo del 50% degli spettatori dell’NBA, per esempio.

Ho proposto un paio di articoli fa come il mondo stia entrando in un periodo di illegalità da parte di uomini forti, a causa del crollo sistemico delle precedenti istituzioni internazionali e delle barriere di sicurezza che hanno mantenuto una parvenza di “ordine” in tutto il mondo. Ora sta diventando quasi un passe-partout parlare di confische illegali di terre, occupazioni, ecc. e realizzarle. Dall’azione di Israele sul territorio siriano, alle sfacciate richieste di revanscismo della Turchia, all’improvvisa e inspiegabile richiesta di Trump di annettere la Groenlandia e il Canada, sta diventando quasi surreale.

Le megacorporazioni si stanno fondendo per diventare monopoli dominanti solo per avere una chance contro altri consorzi onnipotenti, mentre solo i primi dieci titoli controllano ormai quasi il 40% del mercato azionario:

Il potere si sta consolidando in sempre meno mani, mentre il mondo vacilla sull’orlo del caos.

Taibbi lo definisce l’anno “più folle di sempre” per l’America, citando il resoconto di fine anno del Washington Post:

Il WaPo fa eco alla mia apertura:

Milioni di americani hanno smesso di seguire i telegiornali, molti perché sono così sicuri che ci saranno cattive notizie che si sintonizzano. Si stanno perdendo l’occasione. È facile perdere di vista la realtà: non è mai stato un momento migliore per essere vivi. Gli americani più poveri hanno accesso a cure mediche migliori di quelle di cui godevano i reali più ricchi un secolo fa…

No, non si stanno perdendo nulla – e no, non si stanno sintonizzando a causa di un’assurda paura delle “cattive notizie” – vi hanno sintonizzato perché siete degli imbroglioni criminali.

Stranamente, il WaPo include questa inusuale ammissione di innocenza della Russia:

Anche ammettere gli errori e imparare da essi è importante. La Redazione ha sbagliato a ritenere che la Russia abbia sabotato il gasdotto Nord Stream. Si è scoperto, come ha riportato il Post, che l’ipotesi più probabile è che dietro l’attacco ci siano gli ucraini, che sperano di ridurre la dipendenza europea dal gas russo. Questo non significa che Washington debba tagliare i ponti con Kiev, ma è importante chiamare in causa sia gli alleati che gli avversari quando sbagliano.

Beh, se questo non è stridente!

La verità è che i più anziani tra noi ricorderanno che gli eventi attuali sono per molti aspetti una replica dei turbolenti anni ’70. Anche la marcia istituzionale verso tendenze antidemocratiche è iniziata con la Commissione Trilaterale, il seminale The Crisis of Democracy del 1975, la cui tesi centrale era:

Il rapporto ha osservato lo stato politico degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone, e afferma che negli Stati Uniti i problemi di governance “derivano da un eccesso di democrazia” e chiede quindi azioni “per ripristinare il prestigio e l’autorità delle istituzioni governative centrali”.

Rileggete: i problemi della nostra società derivano da un “eccesso di democrazia”, secondo le élite che governano il nostro mondo. Ricordiamo che la Commissione Trilaterale è stata fondata da Rockefeller e Zbigniew Brzezinski – quest’ultimo merita di essere ricordato soprattutto in un giorno di lutto mondiale per la morte di Jimmy Carter: Brzezinski era il consigliere per la sicurezza nazionale di Carter.

Pertanto, possiamo considerare gli eventi odierni come influenzati dagli incerti anni ’70, con la stagflazione degli anni ’80 che potrebbe essere la nostra diretta continuazione parallela – a meno che Trump, per miracolo, non scuota le cose. E proprio come il globalismo, l’offshoring e la bolla tecnologica delle dotcom hanno momentaneamente risollevato le cose negli anni ’90, le nostre élite tecnologiche si affannano ora a cercare una qualche forma di boom tecnologico dell’IA per rianimare il cadavere delle nostre economie.

Ma c’è una grande ragione per essere entusiasti del futuro nel 2025: la caduta di molti regimi atlantici tirannici e antidemocratici è vicina. Che si tratti dei leader stessi o delle camere legislative, tutto in Canada, Francia, Germania, Regno Unito e oltre è in subbuglio – e questo non può che essere un bene, perché la marea di forze populiste potrebbe di nuovo fare incursioni record; il 2025 sarà probabilmente l’anno in cui i partiti di opposizione non potranno più essere semplicemente ignorati o nascosti sotto il tappeto, dato che AfD, FPO, PVV, NR, Reform UK e altri continuano ad avanzare contro tutti gli ostacoli illegali e i sabotaggi. Stiamo già iniziando a vedere le tessere del domino cadere nelle periferie: Georgia, Romania, Corea del Sud, quasi Moldova, ecc. I pilastri sono i prossimi, e la demolizione del Partito Democratico da parte di Trump è il primo rompighiaccio.

Ricordiamo che l’intero sistema è appeso a un minuscolo filo sfilacciato e che basta una piccola spinta da parte di Trump per demolire l’ultimo residuo di “integrità” europea, eccitando al contempo l’opposizione verso una svolta finale. Con la crisi energetica europea che sta per esplodere a causa delle cancellazioni del gas da parte dell’Ucraina, della rappresaglia di Fico e delle minacce di Trump affinché l’Europa compri l’energia americana, la situazione è destinata a precipitare nel 2025.

Soprattutto, il 2025 ci porterà al culmine più decisivo e significativo della saga della guerra d’Ucraina. In un modo o nell’altro, gli eventi che accadranno il prossimo anno determineranno il destino non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa e dell’umanità nel suo complesso. Questo perché la guerra ucraina, come è noto, non è altro che il conflitto per procura di un più ampio scontro metafisico globale tra sistemi di credenze e strutture ideologiche opposte: il vincitore determinerà la direzione dell’intera umanità per il prossimo secolo. Come molti grandi conflitti, tuttavia, esiste una possibilità non nulla che da questo conflitto non emerga una vittoria “chiara”, ma piuttosto qualcosa di più confuso, incompleto e insoddisfacente, che sarà analizzato e sezionato per i decenni a venire.

Come ultimo saluto, vorrei condividere due discorsi di Capodanno che evidenziano la spaccatura. Il primo è quello di Zelensky, che ha dedicato la seconda metà del suo lungo discorso a rivestire il famoso monumento sovietico alla Patria con le bandiere dei Paesi atlantisti.

Versione doppiata dall’AI:

E soprattutto, c’è stata una sfilza di discorsi di circostanza da parte di tutte le figure di spicco –PutinMedvedevBelousov, ecc. Ma solo un discorso ha catturato la vera tensione e l’ansia dei tempi, quello dell’ex Primo Ministro della RDP Alexander Borodai.

Vorrei lasciarvi con questa riflessione più equilibrata sullo stato delle cose. Anche se può sembrare solenne, o addirittura minacciosa, è l’unica che rende conto della reale gravità dei pericoli che ci attendono e dei cambiamenti epocali che devono ancora avvenire; se c’è un solo discorso che ascolterete oggi, che sia questo:

Detto questo, buon anno a tutti. Al 2025!


Il vostro sostegno è inestimabile. Se vi è piaciuta la lettura, vi sarei molto grato se sottoscriveste un impegno mensile/annuale per sostenere il mio lavoro, in modo da poter continuare a fornirvi rapporti dettagliati e incisivi come questo.

In alternativa, potete lasciare una mancia qui: buymeacoffee.com/Simplicius

2024: non ci sono vincitori, di Roberto Iannuzzi

2024: non ci sono vincitori

Un’America in crisi all’interno tenta una proiezione “muscolare” all’esterno. Infrantasi contro il “muro” russo in Ucraina, affonda nel ventre molle mediorientale trainata dall’ariete israeliano.

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(Photo by Lara Jameson from Pexels)

Sebbene i bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee, al termine di un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare di comprendere cosa ci riserva il futuro.

Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.

Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.

Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.

I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.

Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.

L’incursione ucraina nella regione russa di Kursk con il probabile aiuto occidentale, ad agosto, preannunciava un autunno che si sarebbe rivelato drammatico, soprattutto in Medio Oriente, dove nel frattempo la campagna di sterminio condotta da Israele a Gaza non accennava a diminuire di intensità.

L’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, l’invasione israeliana del Libano e lo scambio missilistico fra Iran e Israele hanno segnato la definitiva regionalizzazione della crisi scoppiata a Gaza all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Tale regionalizzazione ha portato inaspettatamente alla caduta del regime del presidente Bashar al-Assad in Siria, disarticolando l’asse filo-iraniano e aprendo la strada a una possibile ridefinizione degli equilibri mediorientali.

Nel frattempo, l’elezione di Trump in un’America in crisi ha acceso flebili speranze sulla possibilità di avviare un negoziato con la Russia, ed aperto nuovi interrogativi sulle future politiche USA nei confronti di Europa, Medio Oriente e Pacifico.

Crisi delle democrazie

 

Nel corso di quest’anno, ha destato crescente preoccupazione lo stato di salute della democrazia all’interno del fronte occidentale che, nella retorica americana, sarebbe minacciato da uno schieramento di “autocrazie” guidato da Russia e Cina.

L’impeachment del presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol dopo il suo ingiustificato tentativo di imporre la legge marziale, l’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania, l’ostinazione con cui il presidente francese Emmanuel Macron ha ignorato i risultati elettorali nel suo paese, la caduta del governo Scholz in una Germania sempre più disorientata, rappresentano altrettanti segnali di un modello occidentale in crisi.

Particolarmente preoccupanti gli eventi verificatisi in Corea del Sud e Romania, in quanto indicativi di una finora trascurata fragilità delle cosiddette “democrazie”.

Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol era stato in precedenza accusato di gravi episodi di corruzione e di abuso di potere, volti soprattutto a bloccare le indagini a carico di sua moglie. I retroscena che hanno preceduto il suo tentativo di imposizione della legge marziale sono inquietanti.

Nel quadro delle crescenti tensioni con la Corea del Nord (Yoon è un alleato chiave degli Stati Uniti nel Pacifico, e nel 2023 si erano avuti nella penisola coreana 200 giorni di esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul), sarebbero stati inviati droni in territorio nordcoreano dal governo di Seul, allo scopo di suscitare una reazione di Pyongyang che avrebbe giustificato l’introduzione della legge marziale.

Non meno sconcertante è quanto accaduto in Romania, dove la Corte Costituzionale ha annullato i risultati del primo turno di elezioni presidenziali, dopo il quale era in vantaggio il candidato “antisistema” Calin Georgescu, sulla base di vaghe accuse di ingerenze russe. Una decisione condannata perfino da Elena Lasconi, l’avversaria centrista ed europeista di Georgescu, che ha definito tale decisione “illegale e amorale” affermando che essa “distrugge l’essenza stessa della democrazia”.

Georgescu si oppone al sostegno militare europeo all’Ucraina e vorrebbe aprire un dialogo con Mosca. Un cambiamento che “avrebbe conseguenze molto negative sulla cooperazione di sicurezza degli USA con la Romania”, ha ammonito il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller.

Secondo le accuse, la popolarità di Georgescu sarebbe stata alimentata da una campagna propagandistica russa su alcuni social media, ed in particolare su TikTok, smascherata dai servizi di intelligence.

Ma un reportage investigativo apparso sulla stampa rumena ha rivelato che tale campagna sarebbe stata organizzata da un’agenzia di marketing ingaggiata dal Partito Nazionale Liberale, il partito di governo che ha appoggiato l’annullamento delle elezioni.

La Romania è un paese strategico per lo sforzo bellico NATO a sostegno dell’Ucraina. Essa ospita la base aerea Mihail Kogălniceanu sul Mar Nero, che al termine degli attuali lavori di ampliamento diventerà la più grande base NATO in Europa.

Il partito al potere avrebbe dunque usato i servizi di intelligence per annullare le elezioni, sulla base di prove riguardanti presunte “ingerenze straniere” in realtà fabbricate dal partito stesso, probabilmente allo scopo di impedire una svolta nell’orientamento geopolitico del paese.

In una simile eventualità, la Romania andrebbe infatti ad aggiungersi a paesi come Ungheria e Slovacchia, mettendo ulteriormente a repentaglio la compattezza del fronte europeo contro la Russia.

Sforzi europei contro la pace

 

Quanto avvenuto in Romania è emblematico del clima che si respira in Europa, dove uno stuolo di personalità politiche, dal ministro degli esteri britannico David Lammy all’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri Kaja Kallas, al segretario generale della NATO Mark Rutte, solo per citarne alcuni, stanno lavorando per far naufragare ogni futura apertura negoziale con Mosca eventualmente promossa dal neoeletto presidente americano Donald Trump.

Altrettanto pericolosa è la proposta, ventilata dalla Francia e da altri paesi europei, di schierare una “forza di pace” europea in Ucraina, al di fuori della cornice NATO, una volta raggiunto il cessate il fuoco nel paese.

Secondo le intenzioni, una tale forza dovrebbe essere composta da almeno 50-60.000 uomini, e pesantemente meccanizzata, al fine di costituire un efficace elemento di deterrenza nei confronti di una possibile volontà russa di riprendere le ostilità.

Una forza del genere non sarebbe permanente, ma verrebbe schierata per il tempo necessario a permettere a Kiev di riarmarsi ad un livello tale da dissuadere un eventuale attacco russo.

Inoltre, sebbene la proposta non preveda lo schieramento di truppe USA, una forza europea richiederebbe un sostegno americano a livello di pianificazione, logistica, e intelligence.

In altre parole, quello proposto sarebbe in concreto un contingente di guerra composto dagli stessi paesi che sostengono Kiev, appoggiato dagli Stati Uniti, cioè a tutti gli effetti (sebbene non ufficialmente) un insediamento della NATO in Ucraina – esattamente lo scenario che la Russia considera inammissibile, e per scongiurare il quale ha invaso il paese.

Un cessate il fuoco che preveda l’ingresso di forze NATO in Ucraina e permetta a Kiev di riarmarsi sarebbe del tutto inaccettabile per Mosca, e dunque rifiutato in partenza.

Fortunatamente, è abbastanza difficile che gli europei abbiano le capacità per mettere insieme un simile contingente, tanto più che paesi come Germania e Polonia hanno già espresso in vari modi la loro riluttanza a partecipare ad una simile operazione.

Prima ancora di pensare a un cessate il fuoco, peraltro, va sottolineato che non è affatto scontato che Trump e il presidente russo Vladimir Putin arrivino ad un accordo, per la semplice ragione che non sono affatto chiare le loro reali intenzioni.

Secondo le notizie più recenti, Trump si sarebbe persuaso a mantenere invariata la fornitura di armi USA a Kiev dopo il suo insediamento, e intenderebbe armare l’Ucraina anche dopo il raggiungimento di un cessate il fuoco allo scopo di garantire la sicurezza del paese in base al principio “peace through strength” a lui così caro.

Ma questo, ancora una volta, sarebbe uno scenario inaccettabile per Mosca, che chiede un’Ucraina neutrale e smilitarizzata.

D’altra parte, l’entourage di Trump sarebbe ossessionato dalla paura di riprodurre in Ucraina un esito analogo al caotico ritiro dall’Afghanistan compiuto dal presidente Joe Biden nel 2021.

Fra i timori e i ripensamenti di Trump e della sua squadra, e l’atteggiamento non cooperativo di molti paesi europei, però, le prospettive di giungere a un’intesa con Mosca si riducono terribilmente.

Preservare una scricchiolante egemonia

 

L’Europa rappresenta uno dei teatri più caldi e strategici nella battaglia in corso per la ridefinizione degli equilibri mondiali.

Grazie al conflitto ucraino, Washington ha per il momento bloccato uno dei fattori chiave dell’integrazione euro-asiatica che metterebbe a rischio la sua egemonia: il consolidarsi di un sistema economico integrato euro-russo.

La nuova cortina di ferro venuta a crearsi in Europa non può pertanto essere messa a rischio da una risoluzione della guerra ucraina, secondo la prospettiva dell’establishment USA. Al più, si potrebbe pervenire ad un congelamento del conflitto che preservi l’attuale contrapposizione geopolitica.

D’altra parte, se la rinnovata divisione del vecchio continente costituisce un successo per Washington, l’inaspettata resilienza dell’economia russa di fronte al durissimo sistema di sanzioni imposto da USA e UE, la perdurante popolarità di Putin in patria, e l’offensiva sempre più incisiva delle forze di Mosca in Ucraina, hanno finora costituito altrettanti elementi di preoccupazione per gli strateghi americani.

Ad essi si affianca la sfida ancor più seria rappresentata dall’ascesa cinese. Il Covid-19, la ridefinizione delle catene di fornitura (di volta in volta denominata “decoupling”, “de-risking”, ecc.), l’introduzione dei dazi, la decisione americana di bloccare l’accesso cinese ai semiconduttori più avanzati, avrebbero dovuto frapporre considerevoli ostacoli allo sviluppo dell’economia di Pechino.

Ma tutto ciò sembra essere sufficiente al più a rallentare, ma non a fermare, la corsa cinese. Secondo le previsioni della UN Industrial Development Organization (UNIDO), nel 2030 la Cina fornirà il 45% della produzione industriale mondiale, mentre gli Stati Uniti contribuiranno ad appena l’11%.

Si tratta di una crescita sbalorditiva, se si pensa che nel 2000 la quota cinese era pari ad un magro 6%, mentre gli USA primeggiavano con una quota pari al 25%.

L’irresistibile ascesa di Pechino traina la crescente popolarità dei BRICS, raggruppamento recentemente allargatosi a nove paesi, il quale sta creando attorno a sé una vera e propria sfera d’influenza che include nazioni dell’America Latina, del continente africano, ed ora anche del Sudest asiatico.

Nel frattempo gli Stati Uniti continuano ad essere afflitti al proprio interno da una crescente disuguaglianza, da un debito sempre più insostenibile, da una declinante produttività, e da una crisi politica e sociale che probabilmente si aggraverà ancora nei prossimi anni.

Se Washington è riuscita a riconsolidare la dipendenza europea nei confronti degli USA, lo ha fatto al prezzo di sprofondare gli alleati del vecchio continente in un declino economico che li sta portando verso un progressivo impoverimento.

Ciò si traduce in una crescente crisi dei partiti di governo europeisti e filo-atlantici, a vantaggio delle cosiddette formazioni “populiste” ed euroscettiche.

Neanche nel Pacifico la situazione è rosea per Washington. Alleati chiave come Corea del Sud e Giappone sono indeboliti dalle rispettive fragilità politiche interne e, malgrado la recente superficiale riconciliazione, continuano ad avere un rapporto bilaterale guastato da annose dispute storiche.

Fondare la riscossa sulle macerie del Medio Oriente

 

In un quadro così precario, gli improvvisi quanto insperati successi militari israeliani in Libano, poi coronati dal rovesciamento del regime di Assad in Siria, e dal conseguente indebolimento dell’asse iraniano nella regione, hanno riacceso aspettative negli ambienti del “Deep State” americano.

Un simile effetto domino non era stato previsto dagli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca, i quali nei mesi precedenti avevano insistentemente suggerito prudenza a Israele, temendo una deflagrazione regionale che avrebbe danneggiato pesantemente gli interessi statunitensi.

Sia l’intelligence USA che quella israeliana avevano delineato scenari potenzialmente catastrofici nel caso di un’escalation militare contro Hezbollah in Libano, con centinaia – se non migliaia – di vittime fra la popolazione israeliana, causate dai missili del gruppo sciita libanese.

Secondo testimonianze di responsabili americani intervistati dal Times of Israel, il governo Netanyahu era consapevole di questo rischio quanto l’amministrazione Biden, ma aveva concluso autonomamente che era necessario pagare un simile costo.

In altre parole, quando ha deciso di tentare l’attacco che avrebbe portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah, il governo di Tel Aviv era pronto a sacrificare centinaia, se non migliaia di vite israeliane.

Il 27 settembre, data dell’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha rappresentato uno spartiacque negli eventi del 2024. L’attacco avrebbe potuto fallire, o comunque avere conseguenze terribili per la popolazione israeliana.

La temuta reazione di Hezbollah è stata invece relativamente contenuta, forse perché una parte del suo arsenale missilistico era stata distrutta da Israele nei giorni precedenti, ma più probabilmente perché quel che restava della leadership del gruppo non se l’è sentita di compiere una rappresaglia che avrebbe inevitabilmente comportato, non solo gravi danni per Israele, ma anche la totale distruzione del Libano.

Secondo quanto scritto da Frederick Kempe, presidente dell’Atlantic Council (uno dei think tank più influenti a Washington), da quel giorno l’amministrazione Biden ha smesso di cercare di contenere l’azione israeliana scegliendo invece di sfruttare al meglio il successo militare che si stava profilando.

Con l’aiuto della mediazione americana, Israele ha ottenuto in Libano un cessate il fuoco vantaggioso, che lascia all’aviazione israeliana piena libertà d’azione nei cieli libanesi.

Mentre Hezbollah è costretto a ritirarsi a nord del fiume Litani, Israele ha continuato a distruggere aree residenziali, terreni agricoli e strade nel sud del Libano (in piena violazione dell’accordo sul cessate il fuoco e della risoluzione 1701 dell’ONU).

Il cessate il fuoco, che non implica la fine delle ostilità a Gaza, ha avuto anche l’effetto di lasciare Hamas totalmente isolato nella Striscia, nella cui parte settentrionale Israele sta compiendo una violenta e sanguinosa pulizia etnica.

Nel corso del 2024 si sono accumulati i rapporti, redatti dall’ONU, e da organizzazioni come Amnesty InternationalHuman Rights Watch, e Médecins Sans Frontières (solo per citare le principali), secondo i quali ciò che Israele sta compiendo a Gaza è un vero e proprio genocidio.

Nella vicina Siria, il crollo di Assad è stato favorito da anni di conflitto e dal durissimo embargo americano, che hanno fatto contrarre il PIL del paese dell’85%. Ancora una volta, le sanzioni secondarie imposte da Washington si sono rivelate un’arma dirompente.

Nei giorni successivi alla caduta del regime di Damasco, avendo occupato un’ulteriore zona cuscinetto nel Golan e distrutto, con una campagna di oltre 500 attacchi aerei, più dell’80% del potenziale bellico siriano, il governo Netanyahu si è assicurato la supremazia militare sulla vicina Siria, e il controllo dello spazio aereo siriano, forse per anni a venire.

L’Iran anello debole del fronte antioccidentale

 

Questa concatenazione di eventi, che pochi mesi fa nessuno aveva previsto, ha riacceso l’ottimismo negli ambienti politici israeliani così come nell’establishment USA.

Dalle pagine di Foreign Affairs, Amos Yadlin (ex generale dell’aeronautica israeliana) e Avner Golov (già membro di spicco del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele) hanno prefigurato la possibilità di creare un nuovo “ordine israeliano” in Medio Oriente.

L’idea, condivisa da diversi strateghi ed esponenti politici a Washington, è di approfittare della condizione di vulnerabilità senza precedenti in cui si trova l’Iran a seguito dell’indebolimento dei suoi alleati regionali per sconfiggere una volta per tutte il progetto iraniano nella regione.

Teheran, in realtà, si troverebbe al crocevia non di uno, ma di due assi. Oltre ad essere il leader del cosiddetto “asse della resistenza” a livello regionale, l’Iran farebbe parte di quello che qualcuno a Washington ha definito “l’asse delle dittature”, composto anche da Cina, Russia e Corea del Nord.

Secondo questa tesi, la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente rappresenterebbero altrettanti punti di saldatura di questi due schieramenti. Teheran, che facilita agli avversari dell’Occidente l’accesso alla regione mediorientale ed ha supportato con l’invio di droni lo sforzo bellico russo in Ucraina, costituirebbe dunque uno snodo fondamentale di entrambi gli assi.

Isolare l’Iran, se non addirittura rovesciarne il governo, assumerebbe, secondo questa visione, un’importanza strategica. Secondo i vertici israeliani, lo Stato ebraico dovrebbe perseguire questo obiettivo in stretto coordinamento con gli Stati Uniti, oltre che con partner regionali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) e con paesi europei come Gran Bretagna e Germania.

Un’idea, questa, condivisa anche da esponenti del “Deep State” USA come il già citato Frederick Kempe, i quali puntano a persuadere Trump a cogliere questa occasione “storica”, approfittando anche della crisi energetica che sta affliggendo l’Iran (favorita dal sabotaggio di due importanti gasdotti locali ad opera di Israele lo scorso febbraio, secondo quanto riferisce il New York Times).

Colpire Teheran per indebolire Mosca e Pechino

 

Un passo intermedio potrebbe essere dato da un attacco massiccio contro gli Houthi nello Yemen, alleati dell’Iran che continuano a bersagliare Israele con missili e droni, ed a minacciare il traffico marittimo nel Mar Rosso.

L’aviazione israeliana ha già colpito numerosi obiettivi nello Yemen. Una campagna di bombardamenti ancora più massiccia potrebbe avvenire in collaborazione con Stati Uniti e Gran Bretagna.

Mentre ci sono indicazioni secondo cui Washington starebbe esercitando pressioni su Riyadh e Abu Dhabi affinché abbandonino i negoziati di pace con gli Houthi e riprendano le operazioni belliche contro di loro.

Ma in Israele c’è addirittura chi ritiene che si debba puntare direttamente all’Iran.

Il piano contro Teheran potrebbe prevedere sforzi volti a favorire la destabilizzazione interna del paese, incoraggiando ad esempio i movimenti di protesta popolare; una campagna di “massima pressione” economica, come quella già imposta da Trump durante il suo primo mandato; ed eventualmente bombardamenti aerei volti a distruggere le installazioni nucleari iraniane, al fine di scongiurare la possibilità che l’Iran si doti dell’arma atomica.

A Washington molti nutrono la convinzione che la caduta di Assad in Siria abbia rappresentato una sconfitta anche per Mosca, e possibilmente il segnale di un’inversione di tendenza anche nel braccio di ferro con la Russia.

La crescente svalutazione del rublo, ed alcuni segnali di rallentamento dell’economia russa, indicherebbero che non è il momento di cedere e di allentare la morsa delle sanzioni, a giudizio di diversi strateghi statunitensi.

Secondo questa visione, gli eventi epocali di questi mesi in Medio Oriente potrebbero perciò preludere ad una sconfitta dell’Iran, a un indebolimento della Russia, ed in ultima analisi ad un isolamento della Cina, l’avversario più pericoloso di Washington.

Senz’ombra di dubbio, Teheran è vista in questo momento come l’anello debole dello schieramento anti-occidentale, e un’eventuale ridefinizione degli equilibri mediorientali come un possibile “game changer” nella lotta globale per l’egemonia.

Se queste idee dovessero far presa sull’amministrazione Trump che si insedierà a gennaio, c’è da attendersi un pericoloso inasprimento delle tensioni mediorientali, un possibile fallimento degli sforzi negoziali in Ucraina, e un ulteriore deterioramento del panorama internazionale.

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Il problema del nazionalismo, di Kim R. Holmes, Ph.D.

Un saggio che ci aiuta a penetrare la visione del mondo che guida il conservatorismo statunitense e a inquadrare, almeno in parte, il senso delle politiche della prossima presidenza. Si tratta comunque di un punto di vista che, evidenziando il ruolo costitutivo delle comunità civiche e della sintesi accomodante delle dinamiche politiche, elude il ruolo dello stato, il sotteso predominio culturale, ora per altro in crisi, di specifiche comunità, la crisi del “melting pot”, il ruolo delle congreghe e dei circoli lobbistici nel determinare forme ed assetti delle istituzioni. I numerosi non detti del testo che da una parte distinguono, ma dall’altra assimilano il nazionalismo statunitense a quello europeo, rendendolo compatibile con una visione imperiale della propria azione politica, fanno da sfondo alle tesi esposte. Giuseppe Germinario

Il problema del nazionalismo

13 dic. 2019 13 min read
COMMENTO DI

Ex vicepresidente esecutivo

Kim R. Holmes è stato vicepresidente esecutivo della Heritage Foundation.

A prima vista, il nuovo nazionalismo dei conservatori sembrerà benigno e persino incontestabile. Nel suo libro “The Case for Nationalism”, Rich Lowry definisce il nazionalismo come il risultato della “naturale devozione di un popolo verso la propria casa e il proprio Paese”. Anche Yoram Hazony, nel suo libro “La virtù del nazionalismo”, dà una definizione piuttosto anodina di nazionalismo. Significa “che il mondo è governato al meglio quando le nazioni accettano di coltivare le proprie tradizioni, senza interferenze da parte di altre nazioni”.

Non c’è nulla di particolarmente controverso in queste affermazioni. Definito in questi termini, sembra poco più che una semplice difesa della nazionalità o della sovranità nazionale, motivo per cui Lowry, Hazony e altri insistono sul fatto che la loro definizione di nazionalismo non ha nulla a che fare con le forme più virulente che coinvolgono l’etnia, la razza, il militarismo o il fascismo;

Ecco il problema. Suppongo che ognuno di noi possa prendere qualsiasi tradizione che abbia una storia definita e semplicemente ridefinirla a proprio piacimento. Potremmo quindi darci il permesso di incolpare chiunque non sia d’accordo con noi di averci “frainteso” o addirittura diffamato.

Ma chi è il vero responsabile del fraintendimento? Le persone che cercano di ridefinire il termine o quelle che ci ricordano la vera storia del nazionalismo e ciò che il nazionalismo è stato nella storia? Il che solleva una domanda ancora più grande: Perché seguire questa strada?

Se dovete passare metà del vostro tempo a spiegare “Oh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, perché volete associare una venerabile tradizione di patriottismo civico americano, di orgoglio nazionale e di eccezionalismo americano ai vari nazionalismi che si sono verificati nel mondo? Dopo tutto, i conservatori americani hanno sostenuto che una delle grandi cose dell’America era che era diversa da tutti gli altri Paesi. Diverso da tutti gli altri nazionalismi;

Ecco il mio punto di vista. Il nazionalismo non è la stessa cosa dell’identità nazionale. Non è la stessa cosa del rispetto della sovranità nazionale. Non è nemmeno la stessa cosa dell’orgoglio nazionale. È qualcosa di storicamente e filosoficamente diverso, e queste differenze non sono semplicemente semantiche, tecniche o preoccupazioni degli storici accademici. In realtà, riguardano l’essenza stessa di ciò che significa essere americani.

Credo di capire perché alcune persone siano attratte dal concetto di nazionalismo. Il Presidente Trump ha usato il termine nazionalismo. I nazionalconservatori pensano che il Presidente Trump abbia attinto a un nuovo populismo per il conservatorismo e vogliono approfittarne. Pensano che il conservatorismo fusionista tradizionale e l’idea dell’eccezionalismo americano non siano abbastanza forti. Queste idee non sono sufficientemente muscolari. Vogliono qualcosa di più forte per opporsi alle pretese universali del globalismo e del progressismo, che ritengono antiamericane. Vogliono anche qualcosa di più forte per respingere le frontiere aperte e l’immigrazione senza limiti.

Lo capisco. Capisco molto bene il desiderio di avere una reazione muscolare alla tracotanza della governance internazionale e del globalismo, e non ho alcun problema a sostenere che un sistema internazionale basato sugli Stati nazionali e sulla sovranità nazionale sia di gran lunga superiore, soprattutto per gli Stati Uniti, a uno gestito da un organo di governo globale democraticamente distante dai cittadini.

Qual è allora il problema? Perché non possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che il nazionalismo definito in questo modo è ciò che noi conservatori americani siamo stati e abbiamo sempre creduto – che è solo una nuova bottiglia più alla moda per un vino molto vecchio? Beh, perché la nuova bottiglia cambia il modo in cui il vino sarà visto. Perché abbiamo bisogno di una nuova bottiglia? Sarebbe come mettere un ottimo cabernet californiano in una bottiglia etichettata dalla Germania o dalla Francia o dalla Russia o dalla Cina;

Il problema sta in quel piccolo suffisso, “ismo”. Indica che la parola nazionalismo indica una pratica, un sistema, una filosofia o un’ideologia generale che vale per tutti. Esiste una tradizione di nazionalismo di cui noi americani facciamo parte. Tutti i Paesi hanno “nazionalismi”. Tutte le nazioni e tutti i popoli si distinguono per ciò che li rende diversi. Il loro patrimonio comune di nazionalisti è in realtà la loro differenza. Le loro diverse lingue, le loro diverse etnie, le loro diverse culture.

Allo stesso tempo, tutte le nazioni dovrebbero condividere la stessa sovranità e gli stessi diritti dello Stato nazionale, indipendentemente dalla loro forma di governo. Uno Stato nazionale sovrano e democratico non è, da questo punto di vista, diverso da uno Stato nazionale sovrano e autoritario. A prescindere dai diversi tipi di governo, ciò che conta è la comunanza dello Stato-nazione. Pertanto, la sovranità dell’Iran o della Corea del Nord, secondo questo modo di pensare, non è moralmente e giuridicamente diversa dalla sovranità degli Stati Uniti o di qualsiasi altra nazione democratica.

Sono fermamente convinto che non tutti gli Stati nazionali siano uguali. Nella storia ci sono stati momenti in cui le nazioni sono state associate al razzismo, alla supremazia etnica, al militarismo, al comunismo e al fascismo. Questo significa che tutti gli Stati nazionali sono così? Certo che no, ma c’è un’enorme differenza tra il fenomeno storico del nazionalismo e il rispetto della sovranità di uno Stato nazionale democratico. Il nazionalismo celebra le differenze culturali e persino etniche di un popolo, indipendentemente dalla forma di governo. Lo Stato nazionale democratico, invece, fonda la sua legittimità e la sua sovranità sulla governance democratica.

Il problema principale che causa questo fraintendimento è il non riconoscere la vera storia del nazionalismo. Si tratta, come ho già detto, di confondere l’identità nazionale, la coscienza nazionale e la sovranità nazionale con il Nazionalismo con la N maiuscola.

Il nazionalismo come lo conosciamo storicamente non è nato in America, ma in Europa. Il nostro movimento per l’indipendenza fu una rivolta del popolo contro il tipo di governo che avevamo sotto gli inglesi. All’inizio i fondatori si consideravano inglesi, ai quali il Parlamento e la corona negavano i loro diritti. Sì, gli americani avevano certamente un’identità, ma non era basata solo sull’etnia, sulla lingua o sulla religione. Avevano già sviluppato una concezione molto distinta dell’autogoverno, e questa fu la chiave della Rivoluzione.

A quel tempo, gli americani avevano già un senso di identità abbastanza forte, ma questa identità non era il nazionalismo. Perché? Perché il nazionalismo non era ancora stato inventato. Non esisteva all’epoca della Rivoluzione americana;

Il nazionalismo moderno è nato in Francia, con la Rivoluzione francese. La rivoluzione fu una chiamata alle armi del popolo francese. La nazione francese è nata con la Rivoluzione francese. Il Terrore e l’imperialismo napoleonico furono la massima espressione del neonato nazionalismo francese;

L’imperialismo nazionalista di Napoleone, a sua volta, scatenò l’ascesa di un nazionalismo contro-reazionario in Germania e in tutta Europa. Tedeschi, russi, austriaci e altre nazioni scoprirono la propria coscienza nazionale e l’importanza della propria cultura nell’odio verso gli invasori francesi.

In seguito, il nazionalismo ha imperversato nei secoli XIX e XX come celebrazione di nazioni basate su una cultura nazionale comune, una lingua comune e un’esperienza storica comune. Il nazionalismo era, in questo senso, particolaristico. Era populistico. Era esclusivo. Era a somma zero. Celebrava le differenze, non la comune umanità del cristianesimo come era stata conosciuta nel Sacro Romano Impero o nella Chiesa cattolica o anche nell’Illuminismo.

La chiave del nazionalismo era lo Stato-nazione. Tecnicamente, non era il popolo stesso a essere libero o sovrano in quanto popolo, ma il popolo rappresentato da e in nome dello Stato-nazione. In altre parole, i loro governi. La sovranità risiedeva in ultima analisi nello Stato, non nel popolo. Lo Stato era al di sopra del popolo, non del, dal e per il popolo come nell’esperienza americana. Ancora oggi, questa idea vive, ad esempio, nella monarchia britannica, dove la Regina è il sovrano ultimo, non il popolo o il Parlamento.

Purtroppo è un errore storico comune quello di equiparare il nazionalismo all’ascesa storica dello Stato nazionale in Europa e al sistema statale internazionale sorto dopo la Pace di Westfalia del 1648. La Pace di Westfalia ha riconosciuto la sovranità dei principi, al di là delle pretese universali del Sacro Romano Impero e della Chiesa, ed è vero che la Riforma protestante ha consolidato la sovranità dei principi e dei principati come precursori dello Stato nazionale.

Ma si trattava di principi. Erano monarchie. Erano dinastie. Solo molto più tardi è sorto nella storia il moderno Stato-nazione e soprattutto il sentimento popolare del nazionalismo. Qualunque sia stato questo sistema statale, non è il nazionalismo. Il nazionalismo è un fenomeno storico che non è emerso per altri 150 anni dopo il 1648. Affermare il contrario è solo cattiva storia, pura e semplice.

Questo mi porta all’idea dell’eccezionalismo americano, che è, a mio avviso, la risposta alla domanda sull’identità nazionale dell’America e su cosa dovrebbe essere;

È un concetto bellissimo che cattura sia la realtà che l’ambiguità dell’esperienza americana. Si basa su un credo universale. Si basa sui principi fondanti dell’America: la legge naturale, la libertà, il governo limitato, i diritti individuali, i controlli e gli equilibri del governo, la sovranità popolare e non la sovranità dello Stato-nazione, il ruolo civilizzatore della religione nella società civile e non una religione stabilita associata a una classe o a un credo, e il ruolo cruciale della società civile e delle istituzioni civili nel fondare e mediare la nostra democrazia e la nostra libertà”;

Noi americani crediamo che questi principi siano giusti e veri per tutti i popoli e non solo per noi. Questo era il modo in cui li intendevano Washington e Jefferson, e certamente lo intendeva Lincoln. È questo che li rende universali. In altre parole, il credo americano ci fonda su principi universali.

Ma allora cosa ci rende così eccezionali? Se è universale, cosa ci rende eccezionali? È, infatti, il credo.

Crediamo che gli americani siano diversi perché il nostro credo è universale ed eccezionale allo stesso tempo. Siamo eccezionali per il modo unico in cui applichiamo i nostri principi universali. Non significa necessariamente che siamo migliori di altri popoli, anche se credo che probabilmente la maggior parte degli americani creda di esserlo. Non si tratta di vantarsi. Piuttosto, è una dichiarazione di fatto storico che c’è qualcosa di veramente diverso e unico negli Stati Uniti, che si perde quando si parla in termini di nazionalismo.

Un nazionalista non può dire questo, perché non c’è nulla di universale nel nazionalismo se non il fatto che tutti i nazionalismi sono, beh, diversi e particolaristici. Il nazionalismo è privo di un’idea o di un principio di governo comune, tranne che per il fatto che un popolo o uno Stato nazionale può essere quasi tutto. Può essere fascista, autoritario, totalitario o democratico.

Alcuni dei nuovi nazionalisti dubitano esplicitamente dell’importanza del credo americano. Sostengono che il credo non è così importante come pensavamo per la nostra identità nazionale;

Cosa significa dire che il credo non è poi così importante? Se il credo non è importante, cosa c’è di così speciale nell’America?

È la nostra lingua? Beh, no. Lo condividiamo con la Gran Bretagna e ora con gran parte del mondo.

È la nostra etnia? Beh, neanche questo funziona, perché non esiste un’etnia americana comune;

È una religione specifica? Siamo effettivamente un Paese religioso, ma no, abbiamo la libertà di religione, non una religione specifica.

È per i nostri bellissimi fiumi e montagne?   No. Abbiamo alcuni bellissimi fiumi e montagne, ma anche altri Paesi.

È la nostra cultura? Sì, credo di sì, ma come si fa a capire la cultura americana senza il credo americano e i principi fondanti?

Lincoln definì l’America “l’ultima migliore speranza del mondo”, perché era un luogo dove tutte le persone possono e devono essere libere. Prima di Lincoln, Jefferson la definì un impero di libertà;

Gli immigrati sono arrivati qui e sono diventati veri americani vivendo il credo e il sogno americano. Si può diventare cittadini francesi, ma per la maggior parte dei francesi, se si è stranieri, non è la stessa cosa che essere francesi. Qui è diverso. Si può essere veri americani adottando il nostro credo e il nostro stile di vita.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la via americana e la nostra devozione alla democrazia sono diventate un faro di libertà per il mondo intero. Questo è stato il fondamento della nostra pretesa di leadership mondiale durante la Guerra Fredda, e non è diverso oggi. Se diventiamo una nazione come tutte le altre, francamente non mi aspetterei che altre nazioni ci concedano una fiducia o un sostegno particolari.

Un altro vantaggio dell’eccezionalismo americano è che si autocorregge. Quando non riusciamo ad essere all’altezza dei nostri ideali, come nel caso della schiavitù prima della Guerra Civile, possiamo appellarci, come fece Lincoln, alla nostra “natura migliore” per correggere i nostri difetti. È qui che entra in gioco l’importanza centrale del credo. Applicare correttamente i principi della Dichiarazione di Indipendenza ci ha permesso di riscattare noi stessi e la nostra storia quando ci siamo smarriti;

Non c’è identità americana senza il credo americano. Tuttavia, i nazionalisti hanno ragione su una cosa, nel suggerire che l’identità americana non è solo un insieme di idee. Queste idee sono vissute nella nostra cultura – questo è vero. È anche vero, come disse Lincoln a proposito dei suoi famosi “accordi mistici della memoria”, che la nostra esperienza comune e la nostra storia comune formano una storia unica. È una storia che incarna le vite e le relazioni molto reali delle persone e un’esperienza culturale condivisa in uno spazio e in un tempo condivisi nella storia che chiamiamo Stati Uniti.

La condivisione dell’esperienza nello spazio e nel tempo – e di per sé – non è diversa da quella che vive qualsiasi altra nazione. Al livello più elementare, sì, direi che tutte le nazioni sono simili sotto questo aspetto. Ma ciò che lo rendeva diverso per Lincoln era che egli credeva e sperava che i “migliori angeli della nostra natura”, che erano fondati nel credo americano, avrebbero toccato le corde mistiche della memoria che compongono quella storia – ed era quel “tocco” che ci distingueva dalle altre nazioni.

Concludo con due osservazioni;

Uno: il grado di plausibilità del conservatorismo nazionale si basa su un profondo equivoco storico. Le affermazioni che di per sé suonano vere e persino attraenti devono essere sospese in uno stato di amnesia storica per avere senso;

Quando Hazony dice: “La coesione nazionale è l’ingrediente segreto che permette alle istituzioni libere di esistere”, fa un’affermazione quasi ovvia e banale, almeno per i paesi che sono già liberi. Il problema inizia quando lo associa alla tradizione generale delle virtù del nazionalismo come concetto. Allora il discorso si fa davvero complicato;

La coesione nazionale è l’ingrediente segreto per liberare le istituzioni dai nazionalisti in Russia? In Cina? O in Iran? Difficilmente. In realtà, il nazionalismo in questi Paesi è l’acerrimo nemico delle istituzioni libere. Se la risposta è: “Beh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, allora la domanda si fa davvero difficile: Perché fare affermazioni generali sul nazionalismo se le eccezioni sono così grandi? Se in effetti le eccezioni finiscono per essere la regola?

Il mio secondo punto è questo. Se questo fosse solo un dibattito accademico sull’idea di nazionalismo, suppongo che non sarebbe poi così importante. Si potrebbe lasciare che gli intellettuali spacchino il capello in quattro e gli storici facciano le loro considerazioni sulla storia del nazionalismo, e si potrebbe andare a vedere se il concetto di nazionalismo ci aiuta davvero politicamente – se è vero o no.

Temo che il problema sia più grande per i conservatori. Il movimento conservatore si trova oggi ad affrontare enormi minacce ai nostri principi fondamentali. Da sinistra, ci troviamo di fronte a progressisti che hanno sempre detto che il nostro credo e le nostre pretese di eccezionalità americana erano una frode. Hanno sempre sostenuto che siamo una nazione come le altre. Anzi, i più radicali sostengono che in realtà siamo peggiori di altre nazioni proprio perché i nostri principi fondanti erano presumibilmente basati sulla menzogna.

Ora ci troviamo di fronte a una nuova sfida alla santità del credo americano, proveniente da un’altra direzione. Questa volta, da destra. Il primo passo è quello di confondere le distinzioni tra il nazionalismo praticato e l’unicità dell’eccezionalismo americano. Poi, si passa a sollevare lo spettro dello Stato-nazione come un’idea – se non l’idea centrale – del conservatorismo americano. Non è diverso da quello che probabilmente direbbe un conservatore dell’Europa continentale sulle proprie tradizioni;

Francamente, non lo capisco affatto. I conservatori americani sono scettici nei confronti del governo. Sono scettici nei confronti dello Stato-nazione. È questo che ci rende conservatori. Allora perché elevare il concetto di Stato-nazione che è così estraneo alla tradizione conservatrice americana?

Temo che la risposta possa avere a che fare con la più profonda trasformazione filosofica che sta avvenendo all’interno di alcuni circoli politici conservatori. Per alcuni conservatori sta diventando di moda criticare il capitalismo e il libero mercato. Alcuni sostengono addirittura che non ci sono più principi limitanti a ciò che lo Stato e il governo possono o devono fare in nome della loro agenda politica;

Una volta si chiamava conservatorismo “big government”. All’epoca era visto come una proposta liberale e, a mio avviso, lo è ancora. Condivide un principio preoccupante con il progressismo moderno. In fondo, far sì che sia il governo a prendere le decisioni importanti per la vita dei cittadini non è diverso, in linea di principio, da un progressista che sostiene la necessità di un governo per porre fine alla povertà ed eliminare le disuguaglianze.

A quanto pare l’idea è che, con i conservatori a capo del governo, questa volta sarà diverso. Questa volta ci assicureremo che il governo che controlliamo guidi gli investimenti nella giusta direzione e prenderemo le giuste decisioni su quali siano i compromessi;

Vi suona familiare? I difensori del grande governo non sostengono sempre che questa volta sarà diverso?

Mettiamo da parte per un momento il fatto che noi conservatori potremmo mai controllare un governo del genere per fare sufficientemente le cose che vogliamo che faccia. Vogliamo dare ancora più potere a un governo che, nell’ambito della politica industriale e di altri tipi di politica economica e sociale, userà sicuramente questo maggiore potere per distruggere ciò che amiamo e crediamo di questo Paese?

Il modo migliore, a mio avviso, per proteggere la grandezza dell’America, le sue rivendicazioni speciali, la sua identità se volete, è credere in ciò che ci ha reso grandi in primo luogo. Non è stata la nostra lingua. Non era la nostra razza. Non è stata la nostra etnia. Non è stata la nostra politica industriale. Non è stato il potere del governo a decidere quali siano i compromessi. Non si trattava di un governo che decide quale tipo di lavoro è dignitoso e quale no. E certamente non si trattava di una fede nello Stato-nazione o nella grandezza del nazionalismo.

Sono stati il nostro credo e il sistema di credenze personificato e vissuto in una cultura, le nostre istituzioni di società civile e il nostro modo democratico di governare a fare dell’America la più grande nazione nella storia di tutte le nazioni. In una parola, è stata la nostra convinzione di essere un popolo buono e libero. È questo che ha reso l’America eccezionale. È questo che ci ha reso un Paese libero. E continua a farlo anche oggi.

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Età enea o eschaton americano?_di Tree of Woe

Età enea o eschaton americano?

Raccontami, o Musa, della fine dell’età del bronzo e dell’inizio dell’età del ferro

28 dicembre
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In base ai commenti sul mio ultimo articolo, Predictions and Prophecies for 2025 , è chiaro che ho indotto una certa confusione su cosa mi aspetto per il futuro. Mi aspetto l’ alba di una nuova civiltà o mi aspetto la rovina?

Per rispondere a questa domanda, tornerò all’ispirazione originale del concetto di Eneide: l’Eneide . Si svolge all’indomani della caduta di Troia ed è una storia post-apocalittica di rinascita. È un racconto di sventura prima, lotta successivamente e rinascita dopo. Ora immaginiamo, se volete, la scena…

Le mille navi degli Achei circondano Ilio, che gli uomini chiamano Troia. Davanti alle mura, Achille, il vincitore, sfila su un carro di bronzo, con il cadavere in rovina di Ettore trascinato dietro di lui nella polvere e nel sangue.

Il re Priamo ha convocato un consiglio di guerra per i Troiani. Con il loro campione ucciso, i Troiani sono pessimisti e depressi. La possibilità che Troia possa cadere incombe su di loro. Il sacerdote Cibeleo Jayemgeus si alza per parlare…

Jayemgeus: La caduta di Troia è inevitabile. Ma non a causa della guerra. È inevitabile perché abbiamo impoverito il nostro suolo con le nostre pratiche di irrigazione sbagliate, perché abbiamo tagliato i cedri per i nostri progetti di costruzione navale sbagliati e, soprattutto, perché abbiamo esaurito lo stagno necessario per fare il bronzo. Il bronzo è la base della nostra intera civiltà e senza di esso siamo spacciati!

Aeneas: Ci sono letteralmente barche piene di persone fuori che cercano di entrare qui, e non sembrano troppo preoccupati per la nostra mancanza di stagno. Peraltro, ci sono abbondanti risorse dall’altra parte del mare. Potrebbero anche esserci utensili con metalli di cui non siamo nemmeno a conoscenza!

Priamo: Non interrompere il sacerdote, Enea.

Enea: Ma… Mi dispiace, maestà.

Priamo: Che cosa ci consigli di fare, o saggio sacerdote di Cibele?

Jayemgeus: Non c’è niente che possiamo fare . Le vostre mogli e i vostri figli saranno presi come schiavi e concubine dagli Achei. Coloro che eviteranno questo destino diventeranno umili pastori con utensili di pietra che arrancano per una misera esistenza sulle colline ora sterili dell’Asia Minore. L’idea che un tempo vivessimo in una fiorente “Età del Bronzo” con rotte commerciali che attraversavano l’oceano sarà solo un mito. Alla fine il nostro popolo si estinguerà, la nostra città sarà dimenticata e sarà come se non fossimo mai esistiti. È così che vanno le cose. Meglio fare pace con il destino.

Priamo: Wow, è proprio una pillola nera, Jayemgeus.

Jayemgeus: Vorrei poter offrire speranza, ma non posso. Il vero cavallo di Troia è stato l’esaurimento delle miniere di stagno dell’Anatolia.

Priamo: Cos’è un cavallo di Troia?

Jayemgeus: Lo scoprirai.

Enea: Ascoltate, disfattisti. Se Troia cade, non sarà perché abbiamo finito lo stagno. Sarà perché siamo stati abbastanza stupidi da permettere a Elena di immigrare qui in primo luogo. Se ci fossimo fatti i fatti nostri, i Popoli del Mare…

Helen: Oh, quindi la colpa è dell’immigrazione? Razzista.

Priamo: Non sprofondiamo nel bigottismo, per favore. Quel che è fatto è fatto.

Enea: Bene. È ancora un se. Sì, la situazione strategica è pessima. Sì, le nostre mura sono deboli, ma non sono ancora cadute. La sconfitta non è del tutto inevitabile. Achille non è invincibile… Scommetto che potrebbe essere ucciso con un colpo ben mirato! E se lo eliminiamo, gli Achei dovranno usare il tradimento per vincere. Se siamo abbastanza astuti da non cadere nei loro stratagemmi, potremmo, potremmo, salvare la città.

Jayemgeus: Che fantasia. Sono sicuro che un colpo casuale alla caviglia eliminerebbe il signore onnipotente dei Mirmidoni. È probabile quanto l’astuto Odisseo che si perde sulla via di casa.

Priam: Sono d’accordo con Jayemgeus. La sconfitta è inevitabile a questo punto.

Aeneas: Guarda, sono d’accordo che è improbabile che vinceremo. Ma la nostra sconfitta non è inevitabile e fingere che lo sia non aiuta nessuno. Forse dovremmo rifiutare l’ipotesi di una catastrofe inevitabile e pianificare effettivamente il successo?

L’Assemblea: *mormorio di silenzio*

Enea: OK, va bene. Se vuoi che Troia cada, così sia. Ma anche se Troia cade, ciò non significa che dobbiamo sottometterci umilmente a un’esistenza patetica come pastori impoveriti dell’età della pietra nelle rovine della nostra un tempo grande civiltà mentre le nostre donne sono trattate come beni mobili dai nostri conquistatori.

Jayemgeus: In realtà è proprio questo che significa.

Elena: Ma non voglio essere costretta ad accoppiarmi con gli Achei.

L’Assemblea: Lo sappiamo , Helen.

Aeneas: Beh, non sono d’accordo. Accettare il risultato proposto da Jayemgeus è una scelta che faremmo. Ci sono altre scelte. Potremmo — e lo dico a voce alta — imparare dalle lezioni della caduta di Troia. Potremmo innovare. Forse invece di usare il bronzo, potremmo imparare a usare il ferro, per esempio!

Jayemgeus: Il metallo che cade dal cielo nei meteoriti? Per favore. Non ce n’è abbastanza ed è quasi impossibile lavorarlo. Il fuoco non riesce nemmeno a bruciare abbastanza da fondere il ferro. Come farai a creare armature e armi da esso? Vivi in un mondo da sogno.

Aeneas: Perché sei così sicuro che sia impossibile che potremmo avere una civiltà basata sul ferro? Guarda, sarebbe una lotta, ma sarebbe una lotta eroica. E se ci riuscissimo, forse costruiremmo una nuova civiltà, una civiltà “dell’età del ferro”, che diventerà ancora più grande di quella precedente. Ci vorrebbe tempo, molto tempo, ma potremmo diventare ancora più potenti di prima.

L’Assemblea: *risate fragorose*

Jayemgeus: Che fantasia. Potresti provare, ma falliresti. Tutta questa “Età del Ferro” che sogni non accadrà mai. Cosa farai, salperai per l’Italia con una flotta di navi, troverai questo metallo stellare in giro e magicamente scoprirai come sostituire il bronzo? Tutto quello che succederebbe è che affonderesti durante il viaggio verso l’Italia, tutti quelli che ti hanno seguito morirebbero e nessuno ricorderebbe i vostri nomi. Questo è l’inevitabile risultato.

Aeneas: Continui a dire “inevitabile”. Non credo che tu capisca cosa significhi questa parola. Sì, potremmo fallire. Ma anche se fallissimo, sarebbe stato un fallimento nobile. Meglio morire lottando per un futuro migliore che vivere accettandone uno di merda.

Jayemgeus: Il futuro che stai offrendo è quello di merda perché finisce in un fallimento. Il futuro che sto proponendo è quello migliore, il migliore disponibile. Le città sono puzzolenti, l’agricoltura fa male al suolo e la nostra cosiddetta “civiltà dell’età del bronzo” sarà guardata con disprezzo dai nostri antenati per aver consumato tutto il prezioso stagno.

Priamo: Sembra che tu abbia un suggerimento politico, Jayemgeus, vero ?

Jayemgeus: Beh, sì. È per fare l’opposto di ciò che dice Enea. Dobbiamo smettere di sprecare quel poco stagno che ci è rimasto per forgiare armi e armature. Dobbiamo accettare la pace a qualsiasi condizione ci offrano gli Achei. E dobbiamo assolutamente porre fine alle ridicole fantasie di Enea. Infatti, dovremmo semplicemente bruciare tutte le nostre navi in modo che non possa nemmeno provarci. I nostri discendenti saranno più felici e più sani prima smetteremo di peggiorare le cose e inizieremo a investire in un’economia dell’età della pietra basata sulle pecore e rinnovabile oggi.

Enea: La mia risposta è questa.

Enea sguaina la spada. È fatta in modo rozzo, ma la lama è di ferro celeste, e con essa incide un’aquila romana sul grande tavolo attorno al quale è riunito il consiglio. Mentre l’assemblea esplode in indignazione, l’eroe esce furibondo attraverso l’arco cinematograficamente comodo che esce dalla sala del consiglio.

L’ultimo riquadro mostra un maldestro deputato che rovescia accidentalmente una candela, incendiando le mappe sul tavolo e nascondendo tra fuoco e fumo la figura di Enea che si allontana.

Raccontami, o Musa, del Contemplatore sull’Albero del Dolore, che si diverte con lunghi dialoghi pseudo-greci con personaggi semi-fittizi presentati in formato fumetto.

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La subordinazione strategica dell’Europa, di e a cura di Giuseppe Gagliano

Un articolo importante per due motivi:

  • evidenzia la crescente ampiezza ed autorevolezza  di un’area apertamente, alcune delle quali, come quella francese, anche ampiamente strutturata, critica del ruolo egemonico degli Stati Uniti e della necessità dell’emersione di forze politiche sostenitrici di una postura autonoma da questa subordinazione
  • rivela, d’altro canto, un limite purtroppo ancora invalicabile della quasi totalità di queste posizioni le quali impediscono la realizzazione di politiche realistiche e praticabili che le facciano uscire da un mero ruolo di testimonianza

Nella fattispecie il superamento dell’impasse nel quale rischia di cadere il dibattito sarebbe possibile rispondendo a queste domande:

  • L’Unione Europea, al pari della NATO, è anch’essa “strumento per mantenere la dipendenza strutturale degli alleati europei“?
  • il problema della Unione Europea sarebbe quindi riducibile ad una “debolezza delle istituzioni europee e all’incapacità delle élite politiche di disegnare una strategia per l’autonomia
  • che senso ha parlare di rafforzamento della UE senza un ricambio delle leadership e un ribaltamento degli indirizzi politici europei se non quello di rafforzare, al di là delle intenzioni, gli attuali indirizzi e posture di subordinazione?
  • è realistico parlare di riforma delle strutture europee, ipotizzando di fatto la possibilità che possa sorgere un movimento politico europeo presente in tutto il continente e in grado di agire all’interno di esse?

In astratto ci si potrebbe ispirare agli stessi Stati Uniti e all’inedita esperienza del movimento MAGA, rivelatosi in grado di cambiare la natura del partito repubblicano, agendo prevalentemente all’interno di esso.

Le obiezioni a questa emulazione, però, sono numerose:

  • il movimento MAGA intanto è riuscito a trasformare il partito, ma la sua leadership non ha assunto ancora il controllo delle leve e degli apparati e, ammesso che ci riesca, lo faccia senza snaturare i propositi originari, pur nella loro ambiguità
  • l’Unione Europea, diversamente dagli Stati Uniti, non è un organismo e non ha una struttura statale, tanto meno realmente rappresentativa, bensì una istituzione frutto di un patto tra stati
  • non esistono, nè si prospettano in un futuro palpabile, movimenti europei che rivendichino sovranità e quelle parvenze che sono affiorate lungo la storia di questa istituzione si sono rivelate regolarmente velleitarie e utili, ma secondari, strumenti della dipendenza dagli Stati Uniti
  • è ipotizzabile partire da un costrutto unitario del subcontinente europeo o è più realistico partire dalle diversità degli interessi geopolitici degli stati e delle nazioni per arrivare a dei sodalizi più circoscritti e pervenire, poi, ad una eventuale sintesi a livello continentale?

Buona lettura, Giuseppe Germinario

La subordinazione strategica dell’Europa secondo Jean-François Geneste, Éric Denécé, Giuseppe Gagliano e Christian Harbulot: un’analisi trasversale

Convergenze tra le analisi di Jean-François Geneste e Éric Denécé

Le riflessioni di Jean-François Geneste sulla politica internazionale di Donald Trump trovano molti punti di convergenza con quelle di Éric Denécé, direttore del Centro francese per la ricerca sull’intelligence (CF2R). Denécé, noto per le sue analisi critiche delle strategie geopolitiche occidentali, sottolinea il ruolo centrale degli Stati Uniti nell’ordine mondiale, che descrive come un’egemonia costruita su strumenti economici, militari e tecnologici. Queste due prospettive offrono una visione complementare delle dinamiche geopolitiche americane, in particolare in Europa.
NATO: uno strumento di controllo americano

Per Éric Denécé, la NATO non è più un’alleanza difensiva equilibrata, ma una leva strategica che consente agli Stati Uniti di imporre la propria influenza in Europa. Critica regolarmente l’uso della NATO come strumento per mantenere la dipendenza strutturale dagli alleati europei. La proposta di Donald Trump di aumentare la spesa militare degli Stati membri al 5% del PIL illustra perfettamente questa dinamica.

Denécé ritiene che questa esigenza non fa altro che avvantaggiare l’industria americana degli armamenti e rafforza la subordinazione strategica degli alleati europei. Jean-François Geneste condivide questa lettura, affermando che questa pressione finanziaria è un modo indiretto con cui Washington tassa le economie europee integrandole in un sistema di dominio militare e politico. Ciò rende i membri europei della NATO non partner, ma subappaltatori delle ambizioni strategiche americane.
L’espansione della NATO verso Est: un errore strategico

Denécé ha mosso numerose critiche all’espansione della NATO verso est, che definisce un grave errore strategico. Questa politica, secondo lui, è stata percepita dalla Russia come una minaccia esistenziale, che ha esacerbato le tensioni e creato un clima di sfiducia reciproca. In pubblicazioni come Notizie Geopolitiche e sul blog OPIG, Denécé sottolinea che questa espansione ha aggravato l’instabilità invece di garantire la sicurezza.

Geneste si unisce a questa critica descrivendo l’atteggiamento americano nei confronti della Russia come una strategia di accerchiamento deliberato. L’obiettivo, per Washington, sarebbe quello di mantenere la supremazia geopolitica, anche a costo di destabilizzare intere regioni. Denécé va oltre affermando che questa politica di allargamento ha contribuito a far precipitare il conflitto in Ucraina, ignorando le legittime preoccupazioni di Mosca in materia di sicurezza.

Il conflitto ucraino: un gioco a somma zero

Per quanto riguarda l’Ucraina, Denécé accusa gli Stati Uniti di aver esacerbato le tensioni con la Russia per consolidare la propria influenza sull’Europa. Critica l’uso delle sanzioni economiche contro Mosca, che ritiene abbia avuto un impatto più devastante sulle economie europee che su quella russa. Questa osservazione si inserisce direttamente nell’analisi di Geneste, che sottolinea come gli Stati Uniti impongono costi economici ai propri alleati per finanziare le proprie ambizioni imperiali.

Denécé insiste inoltre sul fatto che il conflitto ucraino viene utilizzato da Washington per dividere permanentemente l’Europa dalla Russia, garantendo che gli europei restino in una posizione di dipendenza dagli Stati Uniti. Ciò corrisponde a una strategia a lungo termine volta a rafforzare l’egemonia americana a scapito delle relazioni intraeuropee.
Dominio tecnologico: l’imperialismo moderno

Il dominio tecnologico degli Stati Uniti, incarnato da figure come Elon Musk nell’analisi di Geneste, è un’altra area in cui le prospettive di Denécé si rivelano rilevanti. Quest’ultimo ha spesso denunciato l’utilizzo dei giganti tecnologici e finanziari americani come strumenti di controllo globale.

Per Denécé, questo dominio emargina le economie concorrenti, in particolare in Europa, e mantiene i partner americani in una dipendenza strutturale. Ciò riflette le osservazioni di Geneste, che vede aziende come SpaceX e Tesla come simboli dell’imperialismo tecnologico che rafforza ulteriormente l’egemonia economica americana. Questo approccio consente agli Stati Uniti di garantire la propria leadership globale limitando al contempo le capacità di innovazione e indipendenza strategica di altre grandi potenze, in particolare dell’Europa.
Un’osservazione comune: un’Europa subordinata

In conclusione, le analisi di Jean-François Geneste e Éric Denécé convergono su una constatazione centrale: l’Europa si mantiene in una posizione di subordinazione strategica, economica e tecnologica rispetto agli Stati Uniti. I due analisti denunciano un sistema in cui l’Europa è ridotta a semplice strumento delle ambizioni americane, incapace di formulare una strategia autonoma o di difendere i propri interessi.

Il loro messaggio è chiaro: senza una vera autonomia politica e strategica, l’Europa continuerà a essere un satellite della potenza americana, pagando il prezzo delle scelte geopolitiche di Washington e sacrificando la propria sovranità e competitività. È un appello a un urgente risveglio strategico, prima che il continente perda definitivamente il suo posto in un mondo sempre più polarizzato.
Il pensiero di Giuseppe Gagliano sulla subordinazione europea

Su questo stesso argomento, anche Giuseppe Gagliano, esperto di geopolitica e direttore dell’Osservatorio delle politiche internazionali e della geostrategia (OPIG), ha fornito analisi rilevanti che sono in sintonia con quelle di Jean-François Geneste e Éric Denécé. L’autore, infatti, ha più volte affermato che l’Europa è prigioniera di una logica di dipendenza strategica dagli Stati Uniti, situazione che attribuisce alla debolezza delle istituzioni europee e all’incapacità delle élite politiche di disegnare una strategia per l’autonomia.

L’autore afferma che le relazioni transatlantiche, lungi dall’essere un partenariato equilibrato, sono in realtà unilaterali. Sottolinea che gli Stati Uniti usano il loro dominio militare, in particolare attraverso la NATO, per imporre la loro agenda geopolitica agli europei. Secondo Gagliano, le richieste di Washington, come l’aumento della spesa militare o l’allineamento alle sanzioni contro la Russia, non fanno altro che impoverire le economie europee mentre arricchiscono il complesso militare-industriale degli Stati Uniti.

L’autore sostiene inoltre che l’espansione della NATO verso est è un errore strategico, facendo eco alle critiche di Denécé. Per lui, questa espansione è stata deliberatamente orchestrata per isolare la Russia e rafforzare la posizione di Washington nel continente europeo. Tuttavia, l’autore insiste sul fatto che questa politica ha portato a conseguenze disastrose, esacerbando le tensioni con Mosca e contribuendo alla destabilizzazione della regione. In questa prospettiva, ritiene che l’Europa, accettando questa strategia senza metterla in discussione, si sia privata di qualsiasi capacità di svolgere un ruolo di mediazione tra gli Stati Uniti e la Russia.

Per quanto riguarda le sanzioni economiche contro la Russia, l’autore afferma che esse illustrano perfettamente la dinamica della dipendenza europea. Secondo lui, queste sanzioni, lungi dall’indebolire significativamente Mosca, hanno avuto un impatto maggiore sulle economie europee, aggravando le crisi energetiche e industriali già esistenti. L’autore sottolinea che questa situazione è il risultato di un allineamento sistematico dei governi europei con le posizioni americane, anche quando queste vanno contro gli interessi strategici del continente.

Infine, l’autore afferma che il dominio tecnologico americano costituisce un’altra leva di controllo sull’Europa. Osserva che i giganti tecnologici americani, sostenuti dall’amministrazione Washington, occupano un posto dominante nelle infrastrutture digitali europee, creando una dipendenza strutturale difficile da invertire. Per Gagliano ciò impedisce l’emergere di una vera sovranità tecnologica europea e limita la capacità del continente di competere sulla scena internazionale.

Un appello all’autonomia europea

In conclusione, l’autore afferma che l’attuale situazione europea non è solo il risultato dell’azione americana, ma anche della debolezza strutturale e della frammentazione interna delle istituzioni europee. Secondo l’autore, senza riforme approfondite e una visione strategica coerente, l’Europa continuerà a essere uno strumento al servizio delle ambizioni americane, incapace di difendere i propri interessi. Questa analisi si unisce a quelle di Geneste e Denécé, formando un consenso sulla necessità di un urgente risveglio strategico affinché l’Europa possa finalmente affermarsi come attore indipendente in un mondo multipolare.

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RISPOSTA DEL GOVERNO NIGERIANO ALLE ACCUSE DEL GOVERNATORE MILITARE DELLA REPUBBLICA DEL NIGER, di Chima

RISPOSTA DEL GOVERNO NIGERIANO ALLE ACCUSE DEL GOVERNATORE MILITARE DELLA REPUBBLICA DEL NIGER

29 dicembre
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NOTA DELL’AUTORE: Nel corpo principale di questo articolo riprodurrò la risposta ufficiale della Nigeria alle accuse infondate del generale Abdourahamane Tchiani, che guida la giunta militare della Repubblica del Niger sin dal colpo di stato del 26 luglio 2023.

Nonostante le sue accuse, il generale Tchiani non ha ritirato le truppe del Niger dalla Multinational Joint Task Force (MNJTF) guidata dalla Nigeria , che è ancora attivamente a caccia di terroristi di ogni tipo: Boko Haram , il movimento Ansaru e lo Stato islamico-Provincia dell’Africa occidentale (ISWAP). —che operano nelle remote regioni di confine di quattro paesi, vale a dire Repubblica del Benin , Camerun , Ciad , Niger e Nigeria .

Ciascuno dei quattro paesi contribuisce con truppe militari, che sono sotto il comando generale di un generale dell’esercito nigeriano. L’attuale comandante generale della MNJTF è il maggiore generale nigeriano Ibrahim Sallau Ali, che ha il suo quartier generale nella vicina Repubblica del Ciad.

Uno screenshot di un video di propaganda dell’ISWAP che mostra un attentatore suicida nigeriano all’interno di un pick-up modificato per fungere da dispositivo esplosivo improvvisato trasportato su veicolo ( VBIED )

Il 2 dicembre 2022 la giunta militare del Niger si è ritirata dall’inefficace Forza congiunta del G5 Sahel finanziata dall’UE, ma ha saggiamente deciso di ripristinare la cooperazione con le forze armate della Nigeria sulla sicurezza delle frontiere, dopo un periodo di distacco.

La mossa conciliatoria della giunta è stata un fattore chiave nella decisione dei vertici delle forze armate nigeriane di abbandonare il suo stridente sostegno all’intervento militare per invertire il colpo di stato che ha rovesciato il presidente civile del Niger, Mohammed Bazoum, che aveva collaborato inequivocabilmente con l’esercito nigeriano per proteggere il confine internazionale condiviso lungo 1.600 km, soggetto a infiltrazioni terroristiche jihadiste.

Dopo che l’alto comando militare nigeriano abbandonò la sua agitazione pro-intervento, il presidente Bola Tinubu perse l’unico elettorato interno che sosteneva il suo piano originale di entrare nella Repubblica del Niger e ripristinare il deposto governo Bazoum.

Senza alcun sostegno interno, Tinubu rifiutò tutte le suppliche degli USA di andare avanti e intervenire in Niger. Inoltre, represse l’agitazione degli stati membri più piccoli della ECOWAS che volevano una rigorosa attuazione del protocollo della ECOWAS che facilitava gli interventi militari in Liberia (1990, 2003), Sierra Leone (1997), Guinea-Bissau (1998, 2012, 2022) e Gambia (2017).

Immagini fisse da un video di propaganda dell’ISWAP che mostra abili terroristi jihadisti che utilizzano trapani verticali, torni, attrezzature per saldatura e dispositivi di verniciatura a spruzzo per produrre piccoli razzi non guidati in un nascondiglio che si sospetta si trovi da qualche parte in una zona remota dello Stato di Borno in Nigeria, adiacente al confine internazionale con il Camerun

ECOWAS è un’organizzazione regionale creata dalla Nigeria nel 1975 per integrare economicamente l’Africa occidentale sotto la sua guida. Anni di instabilità politica e guerre civili, spesso alimentate da incessanti colpi di stato, hanno spinto ECOWAS a istituire un protocollo che consentiva l’intervento militare negli stati membri in difficoltà.

Non c’era nulla di insolito nel tentativo della ECOWAS di intervenire nella Repubblica del Niger. Infatti, il 2 febbraio 2022, le truppe della ECOWAS guidate dalla Nigeria sono intervenute nella Guinea-Bissau di lingua portoghese per sventare un tentativo di colpo di stato. Quel particolare evento è passato completamente inosservato agli esperti nello spazio dei media alternativi. Di seguito è riportato un breve videoclip dell’intervento della ECOWAS :

Contrariamente alla mitologia popolare nei media alternativi, la Francia non ha mai avuto una forte influenza sulla Nigeria anglofona. La Francia è un importante partner commerciale per la Nigeria, ma la sua influenza politica è quasi nulla. Infatti, la speranza della Francia di un intervento militare guidato dalla Nigeria in Niger era basata su due fattori:

  • Il presidente Tinubu avrebbe seguito il protocollo di intervento ECOWAS come i suoi predecessori hanno fatto molte volte in passato. Mentre era in carica, l’ex presidente nigeriano Mohammed Buhari, recentemente in pensione, ha autorizzato interventi militari in Gambia (2017) e Guinea Bissau (2022). L’intervento in Guinea-Bissau è avvenuto esattamente 22 giorni prima che le truppe russe invadessero l’Ucraina.
  • Nel caso in cui il presidente Tinubu facesse marcia indietro sulla questione, la Francia credeva che gli americani altamente influenti sarebbero stati in grado di convincerlo a un intervento militare. Tuttavia, ho previsto in un articolo del 12 agosto 2023 che la decisione di Tinubu sarebbe dipesa esclusivamente dalla situazione politica interna in Nigeria, e non dai desideri di Blinken, Sullivan e Nuland. Come ho spiegato in un altro articolo , la forte disapprovazione interna in Nigeria, unita alla ribollente animosità di Tinubu contro l’amministrazione Biden, ha fatto sì che la speranza della Francia fosse infranta.

Per i lettori che non lo sapessero ancora, il Dipartimento di Stato di Tony Blinken ha sostenuto il candidato di terze parti genuinamente popolare (Peter Obi) che si è candidato contro Tinubu alle elezioni presidenziali del 2023. Dopo quelle elezioni controverse, gli americani hanno lanciato minacce vuote di imporre sanzioni agli ufficiali della commissione elettorale e al partito politico di Tinubu per accuse credibili di illeciti elettorali. Dopo aver fatto una grande scenata rifiutandosi di riconoscere Tinubu come presidente “debitamente eletto”, gli americani hanno pubblicato a malincuore una nota di congratulazioni e hanno inviato una delegazione del Dipartimento di Stato alla cerimonia di inaugurazione presidenziale di Tinubu.

File Photo: President Joe Biden meets President Bola Tinubu on the sidelines of the G-20 summit in New Delhi, India, early September 2023.

Tinubu ha incontrato Biden a margine del vertice del G20 a Nuova Delhi il 10 settembre 2023. Il leader nigeriano ha respinto tutte le richieste di intervento militare e ha insistito sulla sua politica rivista di risoluzione della situazione in Niger attraverso un dialogo pacifico.

Oltre alla sua appartenenza alla MNJTF, la giunta militare del Niger è anche un membro attivo della Lake Chad Basin Commission (LCBC) , che è ampiamente finanziata dalla Nigeria. La LCBC riunisce otto paesi per combattere il terrorismo jihadista nell’area del bacino del Ciad, che si sovrappone alla cintura del Sahel. Gli otto paesi che appartengono alla LCBC sono Nigeria, Algeria, Libia, Camerun, Ciad, Niger, Repubblica Centrafricana e Sudan.

Ok, queste sono sufficienti informazioni di base da parte mia. Di seguito la confutazione ufficiale della Nigeria alle accuse mosse dalla giunta militare della Repubblica del Niger.


DICHIARAZIONE UFFICIALE DEL GOVERNO FEDERALE DELLA NIGERIA

File:Coat of arms of Nigeria.svg

Il governo federale della Nigeria respinge fermamente le accuse diffuse in un video virale dal leader militare della Repubblica del Niger, il generale Abdourahamane Tchiani , secondo cui non esisterebbe alcuna collusione tra Nigeria e Francia per destabilizzare il suo Paese.

Queste affermazioni appartengono esclusivamente al regno dell’immaginazione, poiché la Nigeria non ha mai stretto alcuna alleanza, palese o segreta, con la Francia o con qualsiasi altro paese per sponsorizzare attacchi terroristici o destabilizzare la Repubblica del Niger in seguito al cambio antidemocratico alla guida di quel paese.

Il presidente Bola Ahmed Tinubu, in qualità di presidente della CEDEAO , ha dimostrato una leadership esemplare, mantenendo aperte le porte dell’organismo subregionale per un nuovo coinvolgimento della Repubblica del Niger nonostante la situazione politica del paese.

Il comandante della forza della MNJTF, il maggiore generale nigeriano Ibrahim Sallau Ali, saluta le truppe ciadiane della MJNTF il 2 agosto 2023. Il Ciad è un paese dell’Africa centrale e quindi non è membro della CEDEAO

La Nigeria resta impegnata a promuovere la pace, l’armonia e gli storici legami diplomatici con il Niger. Le Forze armate nigeriane, in collaborazione con i partner della Multinational Joint Task Force, stanno riuscendo a frenare il terrorismo nella regione.

È quindi assurdo suggerire che la Nigeria cospirerebbe con una potenza straniera per minare la pace e la sicurezza di un paese vicino. Né il governo nigeriano né alcuno dei suoi funzionari è mai stato coinvolto nell’armare o supportare un gruppo terroristico per attaccare la Repubblica del Niger.

Nel novembre 2022, Mohammed Buhari, all’epoca presidente in carica della Nigeria, convocò una riunione dei leader nazionali di tutte le 8 nazioni africane appartenenti alla LCBC per discutere del pericolo rappresentato dal flusso di armi dall’Ucraina ai terroristi jihadisti nell’area del bacino del Ciad

Inoltre, nessuna parte della Nigeria è stata ceduta a nessuna potenza straniera per operazioni sovversive nella Repubblica del Niger. Ribadiamo il nostro pieno supporto agli alti funzionari del governo nigeriano per il loro instancabile impegno nel promuovere la pace e la sicurezza tra il governo e il popolo della Nigeria e del Niger, e per i loro sforzi verso una più forte cooperazione nella regione ECOWAS.

La Nigeria ha una lunga tradizione di salvaguardia della sua sovranità e integrità territoriale. A differenza di alcune nazioni, la Nigeria non ha mai permesso a potenze straniere di stabilire basi militari sul suo suolo. Ciò dimostra il nostro impegno per l’indipendenza nazionale e la leadership regionale.

L’accusa che la Nigeria cerchi di sabotare gli oleodotti e l’agricoltura del Niger è infondata e controproducente. La Nigeria ha costantemente sostenuto lo sviluppo economico del Niger attraverso progetti congiunti di energia e infrastrutture, come il Trans-Saharan Gas Pipeline e il Kano-Maradi Railway Project .

Il 12 dicembre 2024, il Marocco ha acceso una nuovissima centrale elettrica da 20 Megawatt che aveva costruito nella capitale Niamey per la Repubblica del Niger. Fino a poco tempo fa, la Nigeria forniva il 70% dell’elettricità totale utilizzata in Niger in modo completamente gratuito. Prima del colpo di stato, la Nigeria inviava periodicamente anche camion carichi di grano gratuito alla Repubblica del Niger

È illogico suggerire che la Nigeria possa indebolire le iniziative che ha attivamente promosso. Le affermazioni sulla presunta istituzione di un cosiddetto “quartier generale terroristico di Lakurawa” nello Stato di Sokoto , presumibilmente orchestrato dalla Nigeria in collaborazione con la Francia, sono infondate.

La Nigeria è stata leader regionale nella lotta al terrorismo, dedicando risorse e vite significative per garantire la stabilità nel bacino del lago Ciad e oltre. Di recente, l’esercito nigeriano ha lanciato l’operazione Forest Sanity III per affrontare specificamente la minaccia del gruppo terroristico Lakurawa.

Come può un governo che combatte attivamente la minaccia Lakurawa essere ora accusato di ospitare lo stesso gruppo all’interno dei suoi confini? Queste accuse non hanno prove credibili e sembrano essere parte di un tentativo più ampio di distogliere l’attenzione dalle sfide interne del Niger. Il pubblico è invitato a ignorare queste false accuse.

Chi avanza tali affermazioni, in particolare il leader militare della Repubblica del Niger, deve fornire prove credibili per suffragarle. Ogni tentativo di ricattare la Nigeria sulla posizione di principio assunta dalla CEDEAO contro la presa di potere incostituzionale nella Repubblica del Niger è sia disonesto che destinato a fallire .

La Nigeria ha investito 1,96 miliardi di dollari nella linea ferroviaria lunga 393 km che va da Kano, nella Nigeria settentrionale, a Maradi, nella Repubblica del Niger meridionale. Una volta completata l’anno prossimo, si prevede che la ferrovia trasporterà 9.300 passeggeri e 3.000 tonnellate di merci al giorno tra Kano e Maradi. Il Niger senza sbocco sul mare ha bisogno di questa ferrovia per collegarsi alle attività commerciali che coinvolgono i porti marittimi della Nigeria

Il generale Tchiani Le accuse non solo sono infondate, ma rappresentano anche un pericoloso tentativo di distogliere l’attenzione dalle carenze della sua amministrazione.

La Nigeria rimane impegnata a promuovere la stabilità regionale e continuerà a guidare gli sforzi per affrontare il terrorismo e altre sfide transnazionali. Esortiamo il Niger a concentrarsi sul dialogo costruttivo e sulla collaborazione piuttosto che a spacciare accuse infondate.

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POSTSCRIPT: Non sono un fan dell’incompetente governo nigeriano guidato da Bola Tinubu, ma sono d’accordo al 100% che le accuse della giunta militare del Niger sono ridicole. Immagino che limitarsi a dichiarare di essere “anti-francese” e “anti-imperialista” non sia sufficiente per far crescere un’economia o liberarsi rapidamente dei terroristi jihadisti predoni.

Con la scomparsa della soffocante presenza francese, la giunta fatica a trovare scuse per spiegare alla popolazione nazionale perché gli standard di vita e la situazione della sicurezza in Niger non siano migliorati magicamente.

Ritengo che sia stato economicamente disastroso per Niger, Mali e Burkina Faso, paesi senza sbocco sul mare, isolarsi dagli stati costieri membri della CEDEAO, da cui dipendono fortemente per l’accesso al commercio internazionale via mare.

È anche disastroso che la giunta maliana stia litigando con l’Algeria per il rifiuto della prima di attuare un processo di pace che la seconda ha mediato alcuni anni fa. Questo processo avrebbe visto i separatisti tuareg deporre le armi in modo che il Mali potesse concentrarsi esclusivamente sulla lotta al terrorismo jihadista.

Nel frattempo, sorgono periodici litigi tra la giunta militare guidata da Tchiani e la vicina Repubblica del Benin, membro della ECOWAS, che fornisce il porto marittimo che consente l’esportazione di petrolio greggio trasportato tramite condotte dal Niger senza sbocco sul mare ai clienti esteri. Scriverò di più sulla vicina Repubblica del Niger nel corso del nuovo anno. Nel frattempo, buon Natale a tutti i miei stimati lettori.


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Gli illusionisti: le bugie intorno all’ecologia. Intervista con Erwan Seznec di Erwan Seznec

In Les Illusionnistes, Géraldine Woessner e Erwan Seznec concludono dieci anni di indagini sulle manipolazioni dell’agricoltura e del clima. Il loro obiettivo è rimettere la scienza al centro e lottare contro le manipolazioni. .

In collaborazione con Géraldine Woessner, Erwan Seznec ha scritto Les Illusionnistes: Climat, agriculture, nucléaire, OGM, un libro-inchiesta pubblicato nel settembre 2024 che si immerge nel cuore delle contraddizioni dell’ecologia politica. In esso gli autori analizzano i discorsi di diverse figure ecologiste e le scelte controverse che stanno caratterizzando il dibattito pubblico su temi sensibili come il clima, l’agricoltura, il nucleare e gli OGM. Il libro denuncia gli eccessi ideologici dell’ecologia politica, offrendo una visione critica e razionale di questioni spesso dominate dall’emozione e dall’ideologia.

Intervista di Paulin de Rosny

Come è nato questo progetto?

È nato da un’idea di Sophie Charnavel, direttrice della nostra casa editrice Robert Laffont, alla quale vorrei rendere omaggio in modo particolare, poiché è venuta a mancare proprio il giorno dell’uscita del libro, con nostro grande dispiacere.

Per questo progetto, una sorta di libro nero dell’ecologia politica, aveva pensato alla mia collega di Le Point, Géraldine Woessner, che negli ultimi anni ha lavorato molto sui temi dell’energia e dell’agricoltura. Géraldine mi ha chiesto di lavorare con lei a questo progetto. Fondamentalmente, è il culmine di un decennio di indagini che abbiamo condotto separatamente, prima di unirci a Le Point, su una vasta gamma di argomenti: politica, energia nucleare, telefonia, pianificazione regionale, agricoltura, alloggi e così via. Sempre separatamente, Géraldine e io abbiamo gradualmente visto emergere un problema più ampio e di fondo. L’ecologia politica.

Come definiamo l’ecologia politica?

La decrescita è il suo concetto chiave. Vede gli esseri umani come parassiti che divorano la madre terra e che devono limitarsi a ogni livello. Inizialmente un’idea di estrema destra, l’ecologia della decrescita è diventata anticapitalismo negli anni Settanta. Se si aggiunge uno strato di wokismo risalente a una quindicina di anni fa, si ottiene l’ecologia politica di oggi, un deciso oppositore del capitalismo patriarcale predatorio occidentale, al tempo stesso arcaico nei suoi riferimenti (Malthus, l’animismo…) e molto contemporaneo, “un prodotto della cultura popolare che ha dato origine al blockbuster Avatar : una compagnia mineraria vuole distruggere la foresta primordiale, dei ribelli legati a forze spirituali telluriche si sollevano per opporsi… “, scriviamo nel libro.

La sua influenza va ben oltre i risultati elettorali (5,5% alle ultime elezioni europee, un record del 13% alle elezioni europee del 2019). La sua forza risiede nella capacità di mobilitare una rete di associazioni estremamente influenti (Greenpeace, WWF, FNE, Sea Shepherd, ecc.) e nell’attrazione esercitata su gran parte della funzione pubblica. In nome della protezione dell’ambiente, il potere normativo può essere esteso quasi all’infinito. Vi ricordo che oggi si parla seriamente di dare allo Stato il potere di dire quanti voli aerei dobbiamo fare nella nostra vita… Jean-Marc Jancovici, che ha l’orecchio di molti ministri e rappresentanti eletti, è a favore di un tale limite.

L’ecologia viene usata impropriamente per scopi ideologici?

L’ecologia, in quanto disciplina scientifica finalizzata alla comprensione e alla protezione della natura, è oggi solo lontanamente correlata all’ecologia politica, che non è solo un’ideologia: è l’ultima ideologia dell’offerta politica contemporanea in Francia (insieme all’antispecismo, forse, ma quest’ultimo rimane una nicchia politica), con una concezione dell’umano inscritta nel lungo termine e una visione di trasformazione radicale della società.

Quali sono le sue leve per l’azione?

In termini di leve per l’azione e la strategia, da una prospettiva decrescente, citerei la demonizzazione dell’agricoltura e dell’energia nucleare. Entrambi vengono attaccati per le loro presunte carenze, ma è per le loro buone qualità che gli ideologi li odiano. Finché ci saranno centrali nucleari disponibili giorno e notte e un’agricoltura ad alta produttività, sarà impossibile far accettare alla gente la “sobrietà”, cioè il razionamento di energia e cibo. Perché questo è l’obiettivo. Ed è impressionante da vedere. Per giorni si scava negli argomenti dei difensori dell’agricoltura completamente biologica, ad esempio (distruzione della biodiversità, inquinamento, rischi per la salute, ecc.) Man mano che si procede, uno dopo l’altro si vedono crollare tutti questi argomenti rispetto all’agricoltura convenzionale e ragionata. Alla fine, rimane solo una constatazione: la produzione crollerà se passiamo al biologico completo. E questo sarà un bene…

Un esempio di ecologia politica che si discosta dalle raccomandazioni scientifiche? .

La biodinamica. L’agricoltura biodinamica ha mandato in fibrillazione gli ecologisti. Chiunque abbia trascorso anche solo un’ora a studiare i principi dell’agricoltura biodinamica sa che si tratta di pura magia. La biodinamica è come Harry Potter l’agronomo. Cito dal nostro sondaggio: “L’orticoltura biodinamica che offre gli stessi rendimenti dell’agricoltura convenzionale è possibile. Significa anche più posti di lavoro e più gusto. Cambiamo il modèle e usiamo i miliardi della PAC per sostenere questa transizione “, ha twittato Yannick Jadot il 16 febbraio 2019. Non mentiva. L’agricoltura biodinamica può produrre gli stessi rendimenti dell’agricoltura convenzionale per alcune colture, in determinate stagioni, se si è fortunati e le condizioni sono giuste. Ma su larga scala e nel tempo non si è mai dimostrata valida. Gli studi che talvolta vengono citati per dimostrare il contrario provengono invariabilmente da fonti militanti. La biodinamica è stata sviluppata da un filosofo austriaco appassionato di paranormale, che non aveva alcuna competenza in campo agronomico. Rudolf Steiner (1861-1925) creò prima la sua dottrina esoterica, l’antroposofia. Poi sviluppò un metodo agricolo stravagante. In pratica, non c’era nessuna sperimentazione, nessuna misurazione dell’efficacia, nemmeno una base scientifica teorica”.

Quale posto deve avere la scienza nel dibattito democratico?

La scienza dice ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Posso dimostrare con argomenti scientifici e razionali che l’ecologia politica ci riporterebbe al modo in cui vivevamo un secolo fa. Penso che sarebbe un disastro, ma se la maggioranza è di parere opposto, la scienza non potrà farci nulla, e tanto meglio. Un governo di scienziati non sarebbe una democrazia. Alcuni ricercatori, inoltre, mi sembrano molto poco illuminati al di fuori delle loro discipline. Aurélien Barrau, astrofisico, è un riduzionista, così come Jean-Marc Jancovici, politecnico.

Tuttavia, se non si vuole che la maggioranza politica confonda la questione, i cittadini devono avere accesso a informazioni scientifiche affidabili e divulgative. Su questo punto la situazione non è ideale, ma credo che stia migliorando. Negli ultimi anni si è assistito a un ritorno alla razionalità nel dibattito pubblico. L’opinione pubblica è ora in maggioranza favorevole al nucleare e le paure infondate sulle onde dei telefoni cellulari (in gran parte alimentate dagli ambientalisti!) sono praticamente scomparse. Credo che la prossima tappa sarà la riabilitazione degli OGM. 30 anni di senno di poi, zero morti, zero malattie, zero diffusione incontrollata. Vietarle è ridicolo.

Leggi anche.

Il trattato sull’alto mare, un accordo storico che deve ancora essere messo in pratica.

Qual è l’impatto economico e sociale delle politiche ambientali?

L’abbandono dell’energia nucleare a favore delle energie rinnovabili è bastato a porre la Germania in una terribile dipendenza dalla Russia. Senza gas, energia idroelettrica o nucleare per compensare la loro natura intermittente, le rinnovabili rovinerebbero qualsiasi Paese in tempi record. La Danimarca, che a volte vanta picchi del 55% di energie rinnovabili, può sopravvivere solo grazie alle esportazioni di elettricità dai suoi vicini.

Un’altra conseguenza più diffusa di politiche ecologiche sconsiderate è l’aumento del costo degli alloggi. La legge sullo “sviluppo artificiale netto zero” adottata nel 2022 è particolarmente inflazionistica, in quanto fa salire il costo dei terreni. Rende non edificabili milioni di ettari, anche se nel nostro Paese lo spazio non manca. In interi dipartimenti, il dramma non è l’urbanizzazione, ma lo spopolamento. Non importa, la legge ZAN frena le costruzioni in Lozère, nella Bretagna centrale o nei Vosgi… “Quando la gente capirà questa storia di declino legale, quando capirà che è la fine delle case unifamiliari e che il terreno previsto per la casa del nipote è diventato inedificabile, saranno i Gilets jaunes, forza due”, ha dichiarato nel libro Jean-Baptiste Blanc, senatore del Vaucluse.

Quale è il ruolo dei media?

Ad essi dedichiamo un intero capitolo. Non possiamo generalizzare, ma è chiaro che il tono generale dell’emittenza pubblica ha mancato di distanza critica dall’ecologia politica. E lo stesso si potrebbe dire della Monde… La conseguenza è lo sviluppo di una sorta di cospirazione latente: operatori telefonici, industriali nucleari, agricoltori, tutti mentono, tutti vogliono avvelenarci. E ci stanno riuscendo malissimo: stiamo battendo i record di longevità e di buona salute della storia dell’umanità. Ma non importa, il messaggio sta arrivando. Come scriviamo, ” l’incessante messa alla gogna della chimica di sintesiche è statautilizzata in agricoltura e che è riuscita a farci dimenticare chenon hacausatoil suo utilizzo in agricoltura.ha causatoqualsiasi avvelenamento di massa che si è verificato negli ultimi trentaanni nel nostro Paese. L’epidemia mortale che ha ucciso 22 persone in Europa nel 2011 è stata causata da fagioli di soia coltivati con metodo biologico contaminati dal batterio Escherichia coli enteroemorragicoeroemorragico “.

I rappresentanti eletti e le associazioni, gli ecologisti sono stati spesso informatori, è facile parlare con loro e sono generalmente amichevoli! Ma credo che i giornalisti debbano scegliere. O assumono il ruolo di attivisti, come quelli di Reporterre, o fanno bene il loro lavoro di informazione imparziale ed esaustiva. Concludo citando un altro estratto del nostro libro:

” La tragedia del giornalismo d’inchiesta è che ha vinto la battaglia, e non lo sa. Gira in tondo, con la lancia in mano, come un San Giorgio senza un drago da trafiggere. O meglio, i draghi diventano sempre più piccoli, fino a raggiungere una dimensione misera.

Il fenomeno è quantificabile. Negli anni ’70, la quantità di piombo rilasciata dai tubi di scarico ai lati delle strade ha raggiunto concentrazioni pazzesche. Venivano misurate in grammi per chilo. Gli esperti hanno gridato al pericolo. Sono stati ascoltati. Il piombo, altamente tossico e utilizzato come additivo per il carburante per migliorare l’efficienza dei motori, è stato definitivamente vietato nell’UE nel 2000. .

Dagli anni ’90, abbiamo rilevato le sostanze nocive in milligrammi, poi in picogrammi, cioè in miliardesimi di grammo. Gli strumenti di analisi sono ora così potenti che il concetto stesso di “sostanza tossica” sta diventando problematico. Ad esempio, è ora possibile datare i vini d’annata sulla base del loro contenuto di Cesio 137, un isotopo che non è presente in natura ma viene prodotto dalla fissione dell’uranio. I metodi utilizzati (in particolare la spettrografia di massa) sono così efficaci che il Cesio 137 può essere rilevato senza nemmeno aprire la bottiglia. Se un Bordeaux del 1938 lo contiene, deve essere una frode, poiché la prima bomba atomica è esplosa nel 1945. Ma naturalmente questo vino non sarà radioattivo.

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All in e Punta “Raisi”, di Cesare Semovigo

All in e Punta “Raisi”

 

Ho passato parte degli ultimi anni ad assistere a continue trasformazioni in Medio Oriente, e gli ultimi quindici mesi ad aggiornare settimanalmente, con continue integrazioni, il manuale del “surrealismo geopolitico”. Salutiamo la suddetta degradazione relativista, che, cronicizzata nel decennio scorso, ha prodotto l’inquietante thriller psicologico nel quale, consapevoli o meno, tutti noi speriamo di non sprofondare.

Nella scena di oggi siamo comparse impotenti; la protagonista, invece, è la distopia cangiante in varie sfumature di despotismo. Per sua natura non si preoccupa di chi resterà dopo, dei danni che fa nel mentre e, perché no, di chi paga il conto. Il loop temporale di eventi paradossali è diventato una sorta di laboratorio sperimentale dove ogni attore locale e internazionale rischia il proprio “gioco”, a scapito di sé stesso prima e di tutti gli altri dopo, tanto da presentare prima la conseguenza e poi l’effetto.

Sfogliando l’atlante della “democrazia export”, la grande ossessione auto-assolutoria del suprematismo coloniale, ovvero l’essere dalla “parte giusta”, sta generando una serie di singolarità ricorrenti. Talmente inedite che i corsi e ricorsi vichiani interrompono per una volta la loro innata ciclicità, accelerando verso la parabolica della vergogna.

È così che vediamo alleanze effimere quanto contraddittorie sbancare incontrastate, senza effettivamente essersi misurate con forze se non uguali, almeno vagamente contrarie. Sicuro, la realtà percepita, qui in Occidente, delle presunte imprese di alcuni attori…

In diversi abbiamo notato che l’eccessiva porosità, sia delle difese che della struttura di comando dell’Esercito Baathista, non possa essere ricondotta esclusivamente alle disastrate finanze statali e al venir meno dei preziosissimi alleati sciiti, che si rivelarono determinanti nella lunga e faticosa guerra civile (non sarebbe corretto definirla in questo modo).  

La fuga di Assad  

Airbus A320-200 modificato per funzioni governative e un Yak-40 , usati per il volo verso Mosca

Non importa se la loro presentabilità politica è oltre lo scandalo e insiste sulla teoria che vorrebbe essere postulato. Se gli interessi dei “giusti” coincidono con quelli di milizie con telaio Al-Qaeda, motore Al-Nusra, preparazione MIT e una guida satellitare esotica, e si riesce nel posizionare in pole questa gran turismo non comune, poi è un dettaglio secondario giudicare la decenza di chi vorrebbe narrarne le gesta epiche, omettendo che si tratti di un pick-up nero modello Mad Max (“Interceptor” però quello low budget).

La comparsa e il rafforzamento, estero-su-estero diretto, di gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), erede di Al-Qaeda in Siria, è particolarmente emblematica: da un lato, ha combattuto Assad per “liberare” la Siria; dall’altro, pare intessere rapporti ambigui con Israele, se è vero — come insinuano alcune analisi e rapporti dal campo — che si sono verificati atteggiamenti ambigui di non belligeranza e taciti “consensi” sulla condivisione di certe aree di influenza.

Non bisogna stupirsi in un contesto così frammentato: dopotutto, i contatti sotterranei fra fazioni apparentemente in conflitto diventano quasi “fisiologici”, soprattutto quando si tratta di vendere o comprare armi, assicurarsi appoggi tattici o supervisione di intelligence garantendo “corridoi”, rotte di contrabbando e la pirateria delle risorse altrui estorte in maniera disinvolta da milizie concorrenti.

Parallelamente, c’è l’Esercito Siriano Libero (FSA) — un’entità che nei primi anni del conflitto godeva di un’immagine quasi romantica di “resistenza laica al regime di Assad” — che si trova sempre più alle strette. Si vocifera di un potenziale e imminente scontro proprio tra FSA e HTS per il controllo di diverse porzioni di territorio, in special modo nel nord della Siria. Sarebbe un ulteriore passo verso quella balcanizzazione che da tempo in tanti intravedono, con piccole enclavi che combattono fra loro, mentre potenze regionali come Turchia e Qatar cercano di spingere per il ripristino di una sorta di “sultanato musulmano”, cioè un sistema di governo modellato sulle dottrine dei Fratelli Musulmani.

Doha e Ankara si sono già prodigate a sostegno di gruppi a ispirazione islamista, sperando di trasformare la Siria in una pedina strategica, in funzione anti-sciita e, perché no, nella prospettiva di spazzare via l’asse della resistenza e lo spazio di influenza elastica che Teheran aveva tessuto a immagine del suo pragmatismo persiano.

 

Le raccomandazioni dello zio d’America

 

Recentemente, una delegazione statunitense ha incontrato a Damasco Ahmed al-Sharaa, noto come Abu Mohammad al-Julani, leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS). La delegazione includeva Barbara Leaf, assistente del Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, e Roger Carstens, inviato presidenziale speciale per gli affari degli ostaggi.

Durante l’incontro, al-Julani ha assicurato che HTS non permetterà a gruppi terroristici di operare in Siria o di minacciare gli Stati Uniti e i loro alleati. In seguito a queste discussioni, gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare la taglia di 10 milioni di dollari precedentemente offerta per informazioni su al-Julani. Se li sono giocati a Las Vegas.

Questo incontro rappresenta un cambiamento significativo nelle relazioni tra gli Stati Uniti e HTS, poiché è la prima interazione pubblica tra allenatori statunitensi e al-Julani, nonché la prima partita diplomatica statunitense a Damasco, inaugurando gli “Internazionali di Siria” con un tabellone davvero esplosivo, come hanno dimostrato gli incontri precedenti.

Successivamente all’incontro, gli Stati Uniti hanno annunciato la revoca della taglia di 10 milioni di dollari sul leader di HTS, precedentemente inserito nella lista delle ricompense per la giustizia. Questa decisione ha suscitato indignazione e scandalo, poiché è sia una percezione di debolezza continuata del Dipartimento di Stato, senza attenuanti generiche, che un messaggio pericoloso di autorevolezza (quella che comunque continuano a dissimulare).

Le azioni dell’amministrazione Biden in Siria sono un delitto seriale che inevitabilmente ricorda parenti illustri.

 Analizzando il pattern operativo degli Stati Uniti del secolo scorso e della prima decade di quello che, sulla carta, doveva essere “il Nuovo Secolo Americano”, dimostra che non solo hanno perso lo smalto degli antenati, ma hanno anche smarrito il limite della decenza e del contatto con la realtà.

Preferire un terrorista come al-Julani, graziarlo e, secondo alcune fonti, addirittura finanziare direttamente (vedi Clinton, Sullivan, versetto 2012, il vangelo della geopolitica) il suo gruppo, rappresenta un pericolo per la stabilità della Siria e del Medio Oriente. Questo episodio dimostra come gli Stati Uniti abbiano perso coerenza strategica. Da una parte demonizzano certi attori regionali (ad esempio, il regime di Assad o gli alleati dell’Iran) dall’altra cercano compromessi con figure altrettanto problematiche, se non peggiori.

  

(Roger Carstens,Barbara Leaf, Al-Julani , primo viaggio dal 2012 del Dipartimentio di Stato Usa )

 

La Turchia, l’equilibrista

 

La Turchia, in particolare, ha assunto un ruolo da vero e proprio “equilibrista”. Un giorno si mostra dialogante con Mosca e aperta a cooperazioni che vanno dal settore energetico all’acquisto di sistemi missilistici russi; il giorno dopo torna a parlottare con Washington, ridestando la propria identità di membro NATO e “guardiano meridionale” dell’Alleanza.

Come non menzionare gli analisti che tentano ancora di giustificare ogni scelta di Ankara, arrampicandosi sugli specchi del dogma o pericolosamente scivolando nelle paludi della propaganda: dipingono Erdogan come l’ “uomo forte non esente da difettucci di poco conto”, con un piede dentro i Brics, mentre è sotto gli occhi di tutti che la sua posizione è sempre più incerta, stretta fra richieste statunitensi, sguardi severi di Israele e — al tempo stesso — il bisogno di non provocare troppo la Russia.

Nell’analisi del tangibile risulta sempre più impervio analizzare le mani semplicemente contando le carte e attendendo la mano buona. 

L’inversione di tendenza globale potrebbe essere ancora lungi dall’attivare ricette che possano impensierire il “padrone del pallone”, che, come gli ultimi turbo eventi hanno dimostrato, riesce con qualche difficoltà passeggera a decidere chi gioca. Persa qualche partita e aggiustata la formazione, ha ricominciato a macinare gioco e risultati.

 

Nel mezzo di questa confusione, i Curdi appaiono nuovamente sul punto di venire “sedotti e abbandonati sulla strada per Damasco ” dagli Stati Uniti, uno scenario che non sarebbe una novità 

Tantomeno un sacrilegio . Basta guardare la cronaca degli ultimi decenni per vedere come Washington si sia affrettata a sostenere l’FDS quando faceva comodo nella lotta contro Daesh, salvo poi lasciare che altre potenze regionali — Turchia in primis — muovessero pedine ostili nei confronti dei Curdi stessi.

La reliquia di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), dal 1999 nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, ha recentemente ricevuto una visita familiare dopo oltre quattro anni di isolamento. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha mostrato apertura verso una possibile grazia per Öcalan, a condizione che il PKK rinunci alla violenza e si sciolga. Le dichiarazioni rispetto alle quali consiglia di abbandonare la lotta armata sono in linea con determinati inspiegabili piani del socialismo del Rojava.

Accanto a questi scenari, c’è l’Iran, che, nella metafora del “pokerista”, a volte sembra foldare tutte le mani, seduto in un angolo, svogliato spettatore che per ora non investe troppo, lasciando che l’escalation scorra davanti ai suoi occhi. Molti si chiedono: è una scelta di prudenza o un sintomo che nasconde ben altre patologie?  

( Raisi scende dal Mi8 di fabbricazione russa -anno 1968- qualche ora prima dello schianto) 

Teheran è scossa dalle proteste interne e dalle sanzioni che ne minano l’economia, come provano a rappresentare le agenzie occidentali ,oppure si tratta di un calcolo tattico per evitare di trovarsi invischiata in un confronto diretto — come dargli torto — al quale crede di non poter vincere al momento.

Eppure, questa passività desta più di qualche sospetto: Hezbollah ha recentemente dichiarato presagi circa un progetto di balcanizzazione dell’area. Facendo un flashback, possiamo mettere in correlazione le falle della sicurezza che hanno portato alla decapitazione delle figure chiave con, in primis, la morte di Raisi e del ministro degli esteri Hossein Amirabdollahian (ritenuto da molti una figura forse più cruciale del primo ministro) e le voci circa un possibile  tradimento interno con sospetti su Esmail Qaani, comandante della Forza Quds iraniana.

Secondo alcune fonti, Qaani sarebbe sotto custodia e interrogato dai Guardiani della Rivoluzione iraniani nell’ambito di un’indagine su possibili falle nella sicurezza che hanno permesso a Israele di colpire la leadership di Hezbollah. 

 

 (Hossein Amirabdollahian) 

Inoltre, si riporta che l’Ayatollah Ali Khamenei avesse avvertito Nasrallah di un complotto israeliano per assassinarlo, consigliandogli di lasciare il Libano. Nasrallah avrebbe scelto di rimanere, portando alla sua morte nell’attacco israeliano.

La coltre di nebbia di guerra calata sulla scomparsa di Raisi , che ricordiamo era in pratica l’unico successore designato della guida suprema , ha sicuramente aggravato i sospetti , indagini velocissime , confusione sul numero degli elicotteri , il maltempo non c’era  e dulcis in fundo quella richiesta di aiuto alla Turchia con quel drone giunto troppo in fretta e con delle strane rotte notate dal tracciato del transponder . 

Molti analisti e tecnici osint militari hanno sollevato diversi dubbi , ma nonostante il “ peso politico “ enorme della vicenda è stato seppellito in fretta “ furbi et orbi “ , quasi una “damnatio memoriae” sulla quale ci concentreremo nei prossimi articoli. 

 

Gli interrogativi si sprecano. E, nel frattempo, c’è chi sospetta che Israele stia osservando la partita con la consueta lucidità, lasciando che i propri potenziali nemici — di varia denominazione — si indeboliscano a vicenda. A sud, con il Libano in crisi politica e Hezbollah forse meno centrale di un tempo, la minaccia si è apparentemente ridimensionata. A nord, la Turchia e i gruppi turcomanni sarebbero stati incoraggiati a spostare l’attenzione verso il nord della Siria, con i  Curdi potenzialmente nel mirino, e la stessa Russia che non desidera uno scontro diretto con Tel Aviv.

 

  

 

( Scontri Hts , miliziani ex esercito di Siriano 26-12-24 ) 

 

Un microcosmo di caos non randomico 

 

Gli scontri del 26 dicembre sono un microcosmo del caos che potrebbe attendere la Siria se non si trova una via d’uscita a queste rivalità intestine. In quel giorno, Idlib e Tartus sono diventate teatri di battaglie che hanno coinvolto non solo HTS e fazioni rivali, ma anche le ultime vestigia di fedeltà al vecchio regime di Assad.

 

No Future ! HTS e FSA: Nemici Amici e la Guerra Interminabile

 

Gli scontri tra Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e le fazioni ex-Esercito Siriano Libero (FSA) non sono una novità. Sono capitoli ricorrenti di un manuale che tutti conosciamo: quello della frammentazione dell’opposizione. Dalla battaglia di Idlib nel 2017, quando HTS iniziò a consolidare il proprio potere eliminando i concorrenti, agli scontri a Darat Izza nel 2019, fino agli episodi più recenti. Era inevitabile che, dopo la caduta di Bashar al-Assad, queste rivalità sopite esplodessero di nuovo.

Eppure, mentre queste fazioni si combattevano, HTS si è autoproclamato il difensore del popolo siriano, con Abu Mohammad al-Julani che si è ritagliato un ruolo quasi messianico. Da jihadista radicale a “statista” locale, la trasformazione di al-Julani è stata accompagnata da una campagna mediatica ben orchestrata. E adesso? Il rischio è che questa santificazione faccia di lui l’uomo forte di una Siria frammentata. Ma a quale prezzo?

Gli scontri del 26 dicembre 2024 sono un microcosmo del caos che potrebbe attendere la Siria se non si trova una via d’uscita a queste rivalità intestine. In quel giorno, Idlib e Tartus sono diventate teatri di battaglie che hanno coinvolto non solo HTS e fazioni rivali, ma anche le ultime vestigia di fedeltà al vecchio regime di Assad.

Da un lato, HTS si è scontrato con le fazioni ex-FSA per il controllo di risorse strategiche, dimostrando che la lotta per il potere non si fermerà con la caduta di Assad. Dall’altro, Tartus ha visto esplodere le tensioni tra le forze di sicurezza siriane e le milizie filo-Assad, culminate in 17 morti e la destabilizzazione di una delle poche aree che erano rimaste fedeli al regime. Questo, unito alle proteste alawite per la profanazione di un loro santuario, ha mostrato come nessuno sia immune dal caos.

E noi, che tutto questo abbiam previsto, non possiamo che vedere in questi eventi un monito: la Siria post-Assad rischia di essere prigioniera dei suoi stessi demoni, una terra dove ogni fazione vuole un pezzo del futuro. Ma a me sembra di ascoltare una colonna sonora in loop dei Sex Pistols.

Al-Julani: il Santo Opportunista?

 

Abu Mohammad al-Julani si è posizionato come l’uomo del momento, ma la sua ascesa ha radici in un passato fatto di strategie spietate. La sua capacità di ripulire l’immagine di HTS, presentandolo come una forza di stabilizzazione, è stata incredibile. Ma dietro questa narrazione c’è la realtà di un gruppo che ha combattuto non solo contro Assad, ma anche contro chiunque minacciasse il suo dominio. Praticamente tutti.

Se la Siria non si libera dall’idea che un uomo forte possa salvarla — tranquilla Siria, sei in buona compagnia — rischia di finire in una spirale di autoritarismo teocratico elegante come il completo di al-Julani, con la sua aura quasi messianica, candidato perfetto solo quando non veste Prada. Il problema è la cravatta.

La Siria ha bisogno di un nuovo paradigma, uno che metta da parte il culto della personalità e le rivalità settarie. Gli scontri del 26 dicembre sono un campanello d’allarme.

Il futuro della Siria non può essere costruito su leader Masters of Al-Qaeda, una notte dei jihadisti viventi che emergono dalle macerie fumanti di una guerra civile costruita su battaglie tribali per il controllo di città e risorse.

  

( al-Julani Hts ) 

 

Multipolar News

 

La Russia mantiene truppe e basi militari sul territorio, e l’Iran non si è ufficialmente ritirato, ma la verità è che la “resistenza” non può dar nulla per scontato. Se Teheran dovesse davvero continuare il suo “fold strategico” — attendendo momenti più propizi o, peggio, mossa dall’incertezza interna e dalle sue proprie contraddizioni — il rischio è che, a lungo andare, si crei una fascia settentrionale controllata dalla Turchia (e associati), e una serie di enclave più piccole dove le varie milizie, dai Curdi alle brigate filo-siriane, si barcamenano in cerca di sopravvivenza.

La prospettiva di un nuovo “Sultanato” islamista in Siria, promosso da Turchia e Qatar, è stata sempre ritenuta un’ipotesi estrema. Eppure, se guardiamo la storia recente, le cosiddette ipotesi estreme si sono realizzate più volte, complici gli errori di calcolo occidentali e la determinazione di leader regionali decisi a sfruttare ogni minimo varco.

( L’elicottero di Raisi )

 

 Diamo un nome alle cose

 

Il vero interrogativo riguarda questo giocatore di poker chiamato Iran, che, foldando ogni mano, sta osservando la tavolata con aria distaccata, mentre intorno s’infiammano rivalità e dispute sanguinose. La sua scelta di non puntare, di non scoprire le proprie carte, avrà esiti felici? Oppure si tratta di un errore grave che, col senno di poi, verrà giudicato come una rinuncia a difendere i propri alleati storici, da Hezbollah agli iracheni sciiti, e di conseguenza un’ulteriore mossa per farsi logorare dall’interno e dall’esterno?

Del resto, se è vero che anche i Curdi, in passato strumento di politica statunitense per arginare Daesh, sono stati abbandonati più volte, non è escluso che pure Teheran finisca per patire le scelte di potenze che badano esclusivamente al proprio tornaconto. Chi ne trarrà vantaggio?

In mezzo a tutto questo, spiccano gli analisti che, come già accennato, paiono ignorare i fatti. Leggendo certi editoriali, par di capire che la Turchia stia facendo una politica “coerente” o che l’Iran sia ancora “solido e compatto”, lasciato indietro Assad. Eppure, è lampante che Ankara sia immersa in un “ballo pericoloso” che combina rapporti contraddittori con USA, Israele, Russia e Qatar, e che, all’interno della Federazione Russa, diversi “falchi” militari inizino a mostrarsi scontenti del doppio gioco turco.

Non ci sarebbe nulla di male ad ammettere le contraddizioni e a riconoscere che l’epoca dei blocchi netti e perfettamente coerenti è tramontata. Ma certuni continuano con la propaganda, distribuendo attenuanti generiche alle mosse turche e interpretando come “casuali” scelte che in realtà seguono una logica ben precisa: salvaguardare l’interesse di Erdogan in ogni scenario, quale che sia il costo umano o geopolitico.

Siamo, dunque, in un quadro talmente fluido da rendere la Siria un mosaico di conflitti permanenti: FSA e HTS che potrebbero ricominciare a scambiarsi salve di Grad da un momento all’altro; i Curdi che maledicono le “fatality” di Kissinger sulla vera anima del loro alleato senza però poterne fare a meno; la Turchia che alza la posta guardando verso est e Mosul, sapendo perfettamente che in certe posizioni di gioco non si può fare altro che rilanciare; il Qatar che, insieme ad altri attori, muove pedine con cautela.

Il risultato è — e spero di sbagliarmi — un rompicapo ai confini della realtà che assomiglia troppo al caos che fu indotto nei Balcani, dove tutti i player provano a realizzare i loro sogni “bagnati dai due Fiumi”. Assad non era Tito, ma paradossalmente le “proxy” forces, per spregiudicatezza, sono sicuramente più simili ai Mladić, Karadžić e altri protagonisti di quell’epoca.

La diplomazia diventa esercizio di dissimulazione e il conflitto, non me ne vogliano i puri di cuore, scompare, superato dalla sua rappresentazione streaming artefatta in alta risoluzione. 

Pensare che all’inizio qualcuno parlava di “primavera araba”: ironia della sorte, siamo finiti in un Medio inverno pre-nucleare, sommerso da un fall-out di contraddizioni, doppi giochi . Se la primavera non arriva come potrebbe  l’estate non finire mai ? 

 

  

 

Diga di Giz Galasi , il Bell 212  di Raisi si allontana 

 

FONTI 

 

             

  1.         Middle East Eye, 15 ottobre 2021;; Al-Monitor, 10 settembre 2020
  2.       2 dicembre 2019; Escobar, Pepe, “Raging Twenties,” Asia Times, 18 marzo 2020
  3.       BBC News, 3 luglio 2019; The Guardian, 30 aprile 2020
  4.       Le Monde Diplomatique, 11 maggio 2021; The Duran, 19 febbraio 2023
  5.       Foreign Affairs, 12 agosto 2022; Politico, 9 novembre 2021
  6.       Limes, 15 giugno 2022; Al Jazeera English, 27 settembre 2022
  7.       The Times of Israel, 27 maggio 2021; Carnegie Middle East Center, 14 ottobre 2022
  8.       The Intercept, 23 agosto 2021; Project Syndicate, 17 gennaio 2022
  9.       The Moscow Times, 4 marzo 2022; The Duran, 27 maggio 2023
  10.       Brookings Institution, 9 dicembre 2022; Der Spiegel, 19 luglio 2021
  11.       Asia Times, 22 ottobre 2022; European Foreign Affairs Review, 14 settembre 2021
  12.       The Washington Quarterly, 10 novembre 2021; Il Manifesto, 28 febbraio 2022
  13.       Jacobin Italia, 11 giugno 2019; Escobar, Pepe, “BRICS 2.0: The Strategic Shift,”,
  14.       Limes, 16 marzo 2023; Politica Internazionale, 2 maggio 2022

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