Proseguiamo con il dibattito seguito all’intervento di Henry Kissinger al WEF, del quale abbiamo già offerto la traduzione. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Il 23 maggio, parlando in videoconferenza al World Economic Forum, Henry Kissinger ha fatto sentire una voce discordante [1] . Il messaggio principale di Kissinger non è che l’Ucraina dovrebbe accettare concessioni territoriali. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità.
Contrariamente a molti media, così inclini a leggere le notizie internazionali in termini manichei, Kissinger ha ricordato la necessità, per risolvere i conflitti in atto, di considerare con occhio razionale la permanenza della storia e di sostituire la logica dell’escalation delle esigenze strutturali di diplomazia.
In piena coerenza con quanto espresso nell’articolo da lui pubblicato nel 2014 durante la prima crisi ucraina, in cui sottolineava che l’Ucraina, “ponte” tra est e ovest, non doveva necessariamente scegliere tra l’una o l’altra di queste strategie strategiche polarità, Kissinger ha auspicato l’apertura di negoziati che permettano ai protagonisti di affermare i propri interessi e che la Russia riconquisti, a lungo termine, un posto o un ruolo in Europa. Ha inoltre incoraggiato i due maggiori attori della vita internazionale, Stati Uniti e Cina, a tornare sulla strada di un dialogo strutturato, disegnato con la costante preoccupazione di garantire l’equilibrio di un mondo ormai plurale.
Sottolineando la necessità di un ritorno alla storia e l’urgenza della diplomazia in un mondo afflitto da molteplici tensioni, Kissinger ha dato ancora una volta prova della costanza del suo pensiero, ha espresso le esigenze e la portata della sua lettura delle relazioni internazionali, irriducibili alle mode come nonché ad ogni facile appropriazione e che possiamo qualificare, per riassumere la formula, come realismo storico. Mostrandosi animato, all’alba del suo 99° compleanno, da un’irresistibile libertà intellettuale, ha, nel dialogo così instaurato con Klaus Schwab e con Graham Allison, criticando l’opinione più attuale, ha ricordato l’interesse universale a favorire, nella condotta delle relazioni internazionali e per garantire la pace globale, frutto di una razionalità concreta, forte del lungo tempo della storia.
Realismo storico
Agli occhi di Kissinger, innanzitutto, sembra innegabile che il popolo ucraino stia attualmente dimostrando eroismo. Ma l’ardore dispiegato nei combattimenti, da qualunque parte provenga, non basta certo a risolvere la crisi. Indica quindi che per quanto riguarda la storia e la geografia, che fanno della Russia un garante degli equilibri europei e dell’Ucraina una marcia, si dovrà trovare un compromesso diplomatico che permetta di ristabilire la pace. Facendo riferimento all’articolo da lui pubblicato nel 2014, Kissinger ritiene che “l’obiettivo ultimo” da privilegiare in vista della stabilità, anche se il contesto attuale è diverso, dovrebbe essere quello di erigere l’Ucraina in “una specie di Stato neutrale.Deplora, infatti, che invece questo Paese sia diventato o sia tornato, se si ricorda la sua storia, in prima linea tra raggruppamenti di Paesi in Europa.
Questa soluzione negoziata non va quindi ricercata, secondo lui, in una forma di escalation incontrollata, che avrebbe l’effetto di rigettare la Russia in seno alla Cina. Un simile sviluppo non mancherebbe ovviamente di apparire controintuitivo, in quanto si impadronirebbe del meccanismo del pendolo triangolare, che in precedenza aveva consentito agli Stati Uniti di controbilanciare le ambizioni di una di queste due potenze giocando un rapporto costruito con l’altra.
L’obiettivo così proposto da Kissinger, il negoziato ritorno allo status quo attraverso il riconoscimento di un’Ucraina neutrale, non va necessariamente contrapposto all’analisi che era stata quella di Zbigniew Brzeziński in The Grand Chessboard. Riprendendo, a sostegno della sua tesi, le categorie forgiate da Halford Mackinder, per il quale l’egemonia mondiale dipendeva dal predominio esercitato sul cuore della terra che è l’Eurasia, Brzeziński vedeva nello stato ucraino un importante “perno geopolitico”, la cui indipendenza poteva contenere le ambizioni imperiali russe. Conserviamo dalla sua analisi la famosa frase: “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. »
La conseguenza che Brzeziński ne trae è che l’indipendenza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita affinché la Polonia non diventi a sua volta un perno geopolitico sul confine orientale dell’Europa unita.
In effetti, la prospettiva aperta da Kissinger, che certamente segue un metodo di analisi diverso da quello di Brzeziński e non condivide la visione del mondo di quest’ultimo, non include alcuna messa in discussione dell’indipendenza dell’Ucraina: fa semplicemente della diplomazia la chiave per ristabilire un equilibrio. E se Brzeziński metteva in guardia gli Stati Uniti e l’Europa dagli appetiti russi, per evitare che un’ipotetica annessione dell’Ucraina avesse la conseguenza di trasformare a sua volta la Polonia in un “perno geopolitico”, Kissinger comprende che, al contrario, l’integrazione dell’Ucraina nelle alleanze occidentali sarebbe portare, del resto, a una situazione equivalente, in cui, concretamente, Russia e Occidente si troverebbero a diretto contatto. La paura di vedere presto la Russia,
Si può presumere che il presidente Biden, da sempre particolarmente preoccupato per l’Ucraina, veda nel conflitto armato di cui quest’ultima è teatro un’occasione imperdibile per indebolire la Russia. È per una tale ragione geopolitica che gli Stati Uniti ei loro alleati stanno consegnando un grande volume di armi all’Ucraina. L’Occidente sotto l’egemonia americana intende quindi porre fine alle ambizioni strategiche della Russia, sottoponendola alla prova di un duro logoramento.
Dai priorità alla diplomazia
Per Kissinger, l’attrito decisivo di una grande potenza in una regione instabile, a rischio di scatenare una guerra generalizzata e catastrofica, non può costituire di per sé un obiettivo. Lungi dal sopravvalutare la geografia di Mackinder, il realismo storico kissingeriano mira all’equilibrio e favorisce la conservazione dell’ordine mondiale. Pesa la posta: un’Ucraina dello status quo ante , indipendente ma neutrale, gli sembra preferibile a un’Ucraina totalmente integrata nei gruppi occidentali, che si ritroverebbero quindi vicina di una Russia umiliata in preda al risentimento.
Allontanandosi dalla tradizione di ostilità viscerale nei confronti della Russia condivisa da molti suoi connazionali, Henry Kissinger ha mostrato la sua preferenza per la razionalità dei diplomatici e ha ritenuto necessario che i protagonisti del conflitto ucraino si impegnassero in seri negoziati entro “due mesi”.
Di fronte a questo ritorno allo stato di guerra, Kissinger ha sostenuto la diplomazia, l’unico modo per ristabilire l’equilibrio. Perché Henry Kissinger attribuisce tanta importanza al concetto di equilibrio? Perché l’equilibrio si applicava alle relazioni internazionali, come ha insistito nella sua tesi sulla composizione diplomatica della situazione in Europa dopo la caduta di Napoleone, è sinonimo di pace globale in un mondo sempre più instabile, caratterizzato dal moltiplicarsi degli attori e sotto la minaccia nucleare. L’equilibrio non passa, però, per un’alienazione degli interessi di ciascuna potenza. L’interesse nazionale resta il concetto normativo che spiega il comportamento degli enti sovrani sulla scena mondiale, ma deve essere conciliato concretamente, attraverso la diplomazia, con le ambizioni concorrenti di altri poteri.
Così il concetto di interesse nazionale rimane significativamente diverso dalla volontà di potenza, la quale, decorrelata dalla realtà plurale del mondo, può tragicamente obbedire a una motivazione molto astratta. Come sottolinea Jeremi Suri nella sua analisi della diplomazia kissingeriana, l’interesse nazionale è al centro di una vera ed essenziale “strategia del limite “.
Distinto dalla pura volontà di potenza, l’interesse nazionale, come un diamante da lucidare, deve essere rigorosamente delimitato e adattato rispetto alle forze reali a nostra disposizione e alla configurazione di potere in cui l’azione pianificata deve inserirsi. Per sua definizione molto concreta, l’interesse nazionale si distingue necessariamente dalle rivendicazioni ideologiche, il cui oggetto è per natura illimitato e che spesso sono agitate per manipolare le masse.
In hollow quindi, la scommessa kissingeriana, che in questo caso si oppone all’overbidding dei media, porta a considerare che Vladimir Putin, la cui politica è violenta e condannabile, non sarebbe per niente animato da una pura volontà di potenza. giocherebbe ancora il gioco dell’interesse nazionale. Considerato indipendentemente dalla propaganda che sta attualmente diffondendo, lo scopo geopolitico del potere russo, così come formulato almeno dal conflitto georgiano dell’agosto 2008, consentirebbe comunque di attribuirle una presunzione di razionalità, anche se questa razionalità è contraria, è vero, a quello di altri poteri. In una parola, le pretese russe sarebbero limitate ed è proprio questa limitazione che permette a Kissinger di considerare la possibilità di una soluzione diplomatica a breve o medio termine.
Riferimento alla storia
Il riferimento alla storia, così tipico della cliopolitica kissingeriana [ 2] , che pone il consigliere di Richard Nixon in linea con l’ Historismus di Leopold von Ranke , sembra avvalorare questa analisi, in virtù della quale si deve considerare che la Russia fa parte dell’Europa, dove essa deve svolgere un ruolo speciale, anche se l’attuale conflitto sembra tracciare i contorni di un’altra geopolitica.
Questo ruolo storico consisterebbe nel consentire l’equilibrio europeo, nell’esserne catalizzatore, come accadde alla fine dell’epopea napoleonica e negli anni successivi, poi alla Germania prima del 1939, infine, nell’ultima fase della guerra mondiale II. La chiave di lettura della crisi attuale ci verrebbe così data dalla storia.
Attraverso le sue osservazioni, Henry Kissinger colloca il conflitto armato in corso, molto localizzato, nel contesto di una più ampia evoluzione geopolitica che si manifesterebbe e la cui posta in gioco sarebbe la configurazione dell’equilibrio mondiale. Osserva che la tentazione occidentale di intensificarsi, negando la diplomazia, avrebbe il probabile effetto di indurre la Russia ad allontanarsi definitivamente dall’Europa e ad avvicinarsi alla Cina, principale concorrente degli Stati Uniti. Per Kissinger, lasciare che la Russia si appoggi alla Cina e si allontani dall’Europa, in un contesto di forte conflitto, non sembra un risultato auspicabile. Un tale sviluppo non mancherebbe di mettere l’uno contro l’altro due campi, polarizzati rispettivamente da Washington e Pechino, e di minare l’ordine mondiale,
Il rapporto tra gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro rimane infatti strutturante per l’ordine mondiale. Dà la matrice dell’equilibrio internazionale. Come fa notare Henry Kissinger, la questione centrale del rapporto sino-americano nella fase a cui è giunta è l’instaurazione di una struttura di cooperazione in grado di garantire la stabilità del mondo. La questione taiwanese sorge certamente; e Kissinger ricorda che questo è un vecchio problema, che sarà sempre preso in considerazione. Allo stesso tempo, afferma che questo problema non dovrebbe cancellare la necessità di un modus vivenditra le due potenze rivali, che hanno la reciproca capacità di distruggersi a vicenda, né l’emergere di una nuova strutturazione del concerto internazionale, che faccia spazio a potenze in divenire, come India e Brasile, e da cui dipende, in definitiva, la stabilità dell’ordine mondiale.
Le questioni sollevate dalle attuali tensioni internazionali possono essere risolte, secondo Henry Kissinger, solo attraverso i canali diplomatici.
I negoziati tra le parti presenti permetterebbero probabilmente il ritorno a una forma di stabilità nell’Europa orientale, di cui la neutralità di un’Ucraina ancora indipendente potrebbe essere la condizione principale. Così l’analisi dell’ex Segretario di Stato americano si unisce a quella del pensatore realista John Mearsheimer [10] , il quale, in occasione della crisi ucraina del 2014, aveva evidenziato l’interesse, sia per l’Alleanza Atlantica che solo per la Russia, a rimanere territorialmente separati da uno spaccato di stati neutrali.
Il messaggio principale di Kissinger non è quindi, nonostante le interpretazioni più rapide che sono state date alle sue osservazioni, che l’Ucraina dovrebbe acconsentire a concessioni territoriali. Sul punto, si può sottolineare che l’Ucraina ha acconsentito già prima dell’offensiva russa. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità, di fronte a un mondo attraversato da tensioni, e la necessità di collegare ogni soluzione diplomatica con la più ampia definizione di un nuovo equilibrio globale tra le principali potenze, dialogo la cui strutturazione dovrebbe prevenire qualsiasi pericolosa escalation.
Con innegabile costanza, Henry Kissinger riformula la preoccupazione espressa, nel 2015, in un libro dal titolo esplicito [11] e invita i suoi ascoltatori, per il successo della pace, a non rinunciare a consolidare L’Ordre du monde .
https://www.revueconflits.com/kissinger-lukraine-et-lordre-du-monde/
Questo articolo, sia pure al momento in gran parte contraddetto dal prosieguo degli eventi, rappresenta plasticamente l’esistenza e la vivacità del dibattito presente tra i decisori cinesi riguardo alla collocazione geopolitica del paese e in particolare al rapporto da tenere nei confronti soprattutto degli Stati Uniti e quindi, in subordine, della Russia. Non è certamente il segno di un confronto politico esploso ora, in particolare con il conflitto militare in Ucraina.
Gli albori si sono potuti intravedere già a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in una fase di piena ostilità della Cina nei confronti della Unione Sovietica e di virulento confronto interno. I termini della discussione di allora erano del tutto diversi e riguardavano, tra le altre cose, il ruolo della pianificazione centralizzata, il rapporto centro/periferia e città/campagna, quello tra grande industia centralizzata, sul modello sovietico e sistema industriale decentrato fondato sulle comuni agricole. A farne le spese fu Liu Shaoqi, ex presidente della Repubblica Popolare Cinese; a guadagnarne, all’ombra di Mao Tze Tung, fu in realtà Zhou enLai, il vero artefice cinese dell’accordo con Nixon e Kissinger. Fu una svolta prettamente politico-diplomatica con pochi riflessi sulle scelte politiche interne al paese, quasi del tutto indipendenti. Il vero mutamento radicale avvenne alla fine degli anni ’80 con l’avvento di una politica economica aperta agli investimenti esteri e al mercato mondiale e la concretizzazione in economia della scelta di rapporti privilegiati con gli Stati Uniti. Fu una modalità di apertura paragonabile più che a quella di tanti paesi africani, dell’America Latina e dell’Europa Orientale, che portò ad una sorta di colonizzazione di quei paesi, quanto a quella piuttosto di paesi del Sud-Est Asiatico contemporanei e, storicamente, a quella degli stessi Stati Uniti, della Germania e del Giappone a fine ‘800. In quel periodo si assistette ad una sorta di congelamento della disastrata grande industria cinese e alla creazione di zone economiche aperte sulla fascia costiera, la più importante a Shangai, ma molto selettive dal punto di vista del controllo e dell’acquisizione delle capacità tecnologiche e imprenditoriali occidentali e del controllo politico del processo di trasformazione. E’ in quelle aree che si è formata una classe dirigente e una élite politica strettamente legata, anche culturalmente, ai centri decisori statunitensi e molto attiva nella lotta politica interna, usualmente molto aspra e spesso sanguinosa. La fase di ristrutturazione, sviluppo e potenziamento tecnologico dei grandi colossi industriali, piuttosto che la loro liquidazione così come avvenuta nei paesi dell’Europa Orientale, fu l’indizio e il segnale di affermazione definitiva di una classe dirigente dalle ambizioni sempre più distinte e assertive, ormai conflittuali con i disegni strategici statunitensi. Merito senza dubbio dei centri decisori dominanti cinesi, ma anche della “dabbenaggine” e presunzione, in realtà espressione anch’essa di un acceso confronto interno, statunitense. Quando si parla di “affermazione definitiva”, ci si riferisce ad una fase e non si vuole eludere l’esistenza in Cina di centri decisori in conflitto e quindi di uno scontro politico dall’esito mutevole. E’ l’esistenza dello stesso articolo qui sotto in qualche maniera a certificarlo e a collocare sotto un’altra luce l’attuale politica statunitense, avventurista sì, ma non irrazionale. Le elezioni presidenziali nel 2024, forse anche quelle di medio termine nel prossimo novenbre negli Stati Uniti e il Congresso del Partito Comunista Cinese a fine anno ci potranno dire qualcosa di più chiaro in merito all’esito del confronto. Non solo negli Stati Uniti, ma anche nella Cina stessa. La posizione espressa dall’autore è di fatto minoritaria; avrebbe però il vantaggio della soluzione in termini di conservazione e semplificazione di alcuni attuali dilemmi geopolitici storici della Cina, soprattutto nei confronti di India, Pakistan e Sud-Est Asiatico. A quale prezzo rispetto all’autonomia politica dagli Stati Uniti, è tutto da vedere. E’ la riprova ancora una volta, ma poco evidenziato da gran parte degli analisti, che il confronto geopolitico tra stati passa attraverso un confronto tra centri decisori tra di loro ostili e interconnessi nell’agone internazionale. Buona Lettura, Giuseppe Germinario
Le Grand Continent_Questo articolo, inviato dall’autore in lingua cinese al sito Usa-Cina Perception Monitor dove è stato pubblicato il 5 marzo e poi tradotto in inglese il 12 marzo, è da allora oggetto di acceso dibattito. Il suo autore, Hu Wei, è uno studioso cinese che occupa una posizione speciale nell’ecosistema delle relazioni internazionali a Shanghai. Viene presentato come vicepresidente del Centro di ricerca sulle politiche pubbliche dell’Ufficio del Consiglio di Stato, presidente dell’Associazione di Shanghai per la ricerca sulle politiche pubbliche e presidente del comitato accademico del Chahar Institute.
In questo breve testo, Hu Wei presenta possibili scenari per il resto della guerra, dieci giorni dopo l’inizio dell’offensiva russa. Per lui, il fatto che l’invasione dell’Ucraina distolga l’attenzione dagli Stati Uniti non deve essere preso troppo ottimisticamente: la Cina ha interesse a sostenere Putin se vincerà, ma Putin perderà sicuramente questa guerra e isolerà ulteriormente la Russia dal resto del Paese. il mondo. Per Hu la conseguenza sarebbe poi lineare: l’egemonia degli Stati Uniti si estenderà, parallelamente alla loro influenza sui loro alleati europei che potranno dire addio ai loro sogni di autonomia strategica; La Cina sarà isolata contro un Occidente di fronte unito; cadrà una “nuova cortina di ferro”, questa volta non più confinata in Europa ma separando le democrazie dai regimi autoritari su scala globale.
Non solo un tale risultato non distoglierebbe l’attenzione degli Stati Uniti dalla Cina nell’Indo-Pacifico, ma rafforzerebbe questo lavoro di “accerchiamento”, sia militare (NATO, Quad, AUKUS) che ideologico attraverso il sistema di valori occidentale. Drammatizzando questa sequenza come quella di una scelta storica, Hu identifica una finestra di opportunità “da una a due settimane” in cui la Cina dovrà fare una “scelta strategica” – in questo caso, smettere di sostenere Vladimir Putin.
Se non si deve dare troppa importanza all’autore negli ambienti decisionali di politica estera in Cina, il suo testo è stato censurato in questa lingua e non ha mancato di suscitare reazioni e risposte denunciando l'”eccessiva” attenzione riservata a questo articolo come un -op” guidato dall’occidente a dividere Russia e Cina… Tanti indizi che sono il segno che questo testo punta appunto ad una serie di elementi al centro del dilemma cinese che presiede gli arbitrati in questi giorni. Anche se è incerto se la Cina deciderà presto di abbandonare la sua neutralità o di smettere di alimentare la sua ambiguità strategica, come rivela la mappa delle reazioni globali all’invasione dell’Ucraina prodotto dal Geopolitical Studies Group – l’incontro di lunedì tra Jake Sullivan e Yang Jiechi potrebbe aiutare a districare alcune incognite, mentre la Russia ha chiesto aiuti economici e militari a Pechino.