SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO

Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto: “1. Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;

  1. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  2. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”[1].

E poco prima sostiene che “Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare”[2].

Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.

2.0 Secondo Carl Schmitt “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato”[3], perché “Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere”. Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema[4]; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica[5]. La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale “sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici”[6].

Tuttavia “contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico”[7]; e prosegue “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”.

Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni[8] Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento[9]; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e poi all’economico.

Il centro di riferimento determina di volta in volta il significato dei concetti specifici. Ciò che più rileva “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale”[10]. Così anche per lo Stato e per i raggruppamenti amico-nemico: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico”[11].

Mutato il centro di riferimento, cambia la concezione dello Stato e il contenuto o la discriminante del politico, che assume altro significato e criterio e può determinare un diverso raggruppamento amico-nemico e così: “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro e si spera di trovare, sul terreno del nuovo centro di riferimento, quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace. In tal modo si afferma la tendenza verso la neutralizzazione e la minimalizzazione”[12].

Tuttavia neppure l’approdo “neutrale” cui gli europei sono arrivati nel XX secolo e cioè la tecnica può realizzare l’aspirazione all’eliminazione della conflittualità; sia perché “la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”[13] sia perché “La speranza che dal ceto degli inventori tecnici possa svilupparsi uno strato politico dominante non è finora giunta a compimento”[14].

  1. La correlazione – anche se non sempre necessaria e inderogabile – tra centro di riferimento e scriminante amico/nemico persuade solo in parte.

Ciò in primo luogo perché occorre coordinarla con ciò che Schmitt ha tanto spesso ripetuto, ossia che a determinare il nemico è la situazione concreta.

Per la quale non vi è solo la coppia degli opposti riferentesi al centro di riferimento, ma vi sono altre contrapposizioni, talvolta più importanti e così decisive (o almeno percepite come tali) che determinano situazioni di lotta e ostilità.

Ad esempio nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l’opposizione tra democrazie liberali (con annessi) e stati comunisti ripartiva quasi tutto il mondo sviluppato in due campi l’un contro l’altro armati, organizzati in sistemi d’alleanza (e relative organizzazioni) contrapposte e pronte alla reciproca distruzione; malgrado ciò non impediva né stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia.

Peraltro le guerre arabo-israeliane non avevano affatto il contenuto e la scriminante ideologica dei campi che, in maggiore o minore misura aiutavano l’uno e l’altro dei contendenti, ma il carattere “tradizionale” di contese per il possesso della terra tra popoli diversi.

Anche le guerre civili non sono (sempre) guerre ideologiche (anche se spesso ciò è capitato negli ultimi due secoli).

Come scriveva Montherlant nel prologo del suo dramma “La guerra civile”, dando la parola a questa “Io sono la guerra civile… Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”. Quell’ “amico contro l’amico” mostra come il drammaturgo vedesse nella dissoluzione del rapporto amicale la causa della guerra civile. Contro questa non vale (sempre) l’aggregazione derivante dalla comunanza di leggi, tradizioni, storia e lingua, che comunque produce coesione; a questa si deve aggiungere la volontà d’esistere insieme e di un futuro comune. Il venir meno della quale induce la fine della sintesi politica, la quale, come scriveva Renan, è un “plebiscito di tutti i giorni”.

Nella realtà politica la costante del dominio e le sue determinanti, in particolare geo-politiche, così ben enunciata da Tucidide nel famoso dialogo tra i Meli e gli ambasciatori ateniesi[15]; le opposizioni tra popoli abituati a combattere e ad affermare la propria identità rispetto ai vicini (come, spesso, nei Balcani – e non solo); gli interessi degli Stati, come la politica di De Gaulle nei confronti del mondo comunista, rendono non decisiva l’opposizione principale (ed epocale)[16].

La decisività dell’opposizione va ricondotta all’influenza sull’esistenza della comunità politica, sia in senso assoluto (la distruzione della comunità o dell’istituzione che le da forma), sia relativa (la modificazione radicale del modo d’esistenza della stessa).

Il conflitto politico è così determinato in primo luogo dall’esigenza d’esistenza della comunità: se è percepito un altro gruppo umano come nemico – nel senso d’essere un pericolo (concreto) per l’esistenza della comunità minacciata – le stesse “differenze” religiose, ideologiche, economiche passano in secondo piano. I “valori” e la correlativa “tavola”, per lo più dichiarata, negli Stati moderni, nelle Costituzioni, passano in second’ordine nel momento in cui è in gioco l’esistenza della comunità. Il tutto avviene sia dal lato interno (la decisione sullo stato d’eccezione) che su quello esterno (la decisione sul nemico), in omaggio alla massima salus rei publicae suprema lex. Il nemico è colui che è tale per la salus dell’istituzione statale (e della comunità). È la concreta situazione ed il pericolo per l’esistenza collettiva e il sentimento ostile che ne consegue più che il contrasto sul modo d’esistenza di un popolo a designare il nemico; così appartiene ad ogni comunità la decisione su chi sia tale, e se l’opposizione epocale sia più o meno importante delle altre opposizioni, che hanno il carattere non solo della concretezza, ma anche della particolarità. Come scriveva Freund            “Cadere in errore sul nemico per stordimento ideologico… è esporsi a mettere, presto o tardi, in pericolo la propria esistenza”[17].

  1. Scriveva Gentile che “è il sentimento politico l’humus in cui affonda le sue radici l’albero dello Stato”[18]; tale affermazione è complementare a quella di Clausewitz sulla tendenza/componente/costante della guerra costituita dal cieco istinto – e con ciò dal sentimento politico – che “corrisponde” al popolo.[19]

Senza sentimento politico non c’è né guerra né Stato vitale. Quella ha così la possibilità di essere condotta e, nel caso, vinta; in questo si risolve nel relativizzare le opposizioni e conflitti, in particolare quello tra governanti e governati nel consenso dei secondi ai primi, in un idem sentire de republica[20].

Il problema della legittimità del consenso e dell’integrazione, che i giuristi contemporanei spesso risolvono nella legalità, senza considerare che questa si fonda sulla convinzione della legittimità di chi esercita il potere, e non viceversa; onde – scriveva Gentile – non c’è polizia che possa provvedervi se l’ordine sociale non è condiviso[21].

  1. Un’analisi fenomenologica del rapporto amico/nemico deve partire dall’osservazione fattuale che il conflitto è in se insopprimibile sia all’interno che all’esterno della sintesi politica. Una società, così armoniosa da non conoscere conflitti interni è frutto d’utopismo, di quella variante cioè del pensiero utopico volto ad immaginare fantasie impossibili perché opposte al dato fattuale.

Quel che, invece fa parte dell’esperienza (ed è costante) storica è che le sintesi politiche esistono come tali fin quando riescono a relativizzare i contrasti interni, ricomponendoli e decidendoli; conflitti relativizzati dal consenso ad un’autorità superiore riconosciuta (dai governati) a prendere le decisioni (inappellabili) per l’ordine che assicura. Ove questo non avvenga il risultato è che quei conflitti passano da relativi ad assoluti: in cui posta in gioco è l’esistenza e, gradatamente, la forma di governo, il regime della sintesi politica e non più dissidi interni. Ne consegue che tra tutti gli innumerevoli conflitti che possano esistere all’interno della sintesi politica depotenziarne uno, sicuramente presente, è presupposto necessario del rapporto amicale: quello tra governanti e governati. Perché consente di ricomporre tutti gli altri.

Autorità, ordinamento e regole hanno come esigenza fondamentale di dirimere e decidere i conflitti, e quindi la lotta che inevitabilmente ne consegue, limitandola e degradandola a competizione agonale.

Ancora di più, la relativizzazione dei dissidi interni si fonda sul ruolo pacificatore del terzo, interno alla sintesi politica, cioè, in linea di massima, il potere sovrano. In linea di massima perché l’attività del terzo (anche interno) può non essere svolta da un organo dello Stato e, il risultato politico (la composizione del dissidio), comunque conseguito. Ma il ruolo del “terzo” può non essere limitato ai conflitti interni e, soprattutto la sua azione, essere rivolta a suscitare dissensi, non a ricomporli.

  1. Si è spesso pensato, nell’era post-atomica e a seguito della debellatio della Germania e del Giappone (il caso dell’Italia è diverso), che la fine della guerra s’identifichi con l’occupazione militare di un paese previamente distrutto dal vincitore, e quindi posto nell’impossibilità materiale di difendersi; i terribili effetti di una guerra nucleare nell’immaginario collettivo hanno fatto il resto.

Nella realtà una guerra finisce quando una delle parti non ha più la volontà di combattere. La guerra è uno scontro di volontà, come scrivevano, tra gli altri, Clausewitz e Gentile. Presuppone quindi che ambo i contendenti abbiano la volontà di farla e proseguirla: se uno dei due si arrende, la guerra cessa.

Giustamente de Maistre notava che una battaglia persa è quella che immaginiamo di avere perso[22].

La guerra assoluta sta alla guerra reale come la pace (perpetua? universale?) della debellatio ad un trattato (o anche “dettato”) di pace reale. È essenziale piegare la volontà di combattere del nemico e quindi il sentimento di (appartenenza comunitaria ed) ostilità. A tale scopo tutti i mezzi sono buoni: sia la prospettiva di castighi e danni superiori sia l’opposta di benefici, vantaggi o clemenze. L’armistizio con cui si concluse (sul piano militare) la prima guerra mondiale, con la Germania ancora padrona di gran parte dell’Europa centrorientale ne è uno dei casi.

Pressioni economiche (gli effetti del blocco), l’armistizio dell’Austria-Ungheria e le prospettive strategiche di questo e dell’aumento dell’intervento americano contribuiscono a depotenziare la volontà di combattere.

Ma anche nel XX secolo, nell’epoca della guerra tecnica e totale, spesso armate partigiane decise e motivate, hanno sopportato e vinto in condizioni di (abissale) inferiorità materiale, a prezzo di perdite enormemente superiori a quelle dei nemici ipertecnologici. Lo squilibrio materiale era compensato dall’intensità del sentimento ostile e così del morale. I nemici non riuscivano a sopportare gli (assai inferiori) sacrifici, per cui preferivano concludere la pace o comunque rinunciare alla guerra[23]. Il sentimento ostile è, per il più debole, il fattore che può consentire di condurre e vincere la guerra, pur connotata da una notevolissima asimmetria materiale.

È proprio la guerra asimmetrica nelle sue diverse forme a connotare i conflitti contemporanei, a partire dal crollo del comunismo e dalla conseguente rottura del condominio bipolare che aveva caratterizzato la seconda metà del XX secolo.

Del pari l’ostilità tra gruppi umani, che condivide la natura camaleontica del suo prodotto più intenso, la guerra (caratterizzata dall’uso della violenza), prende forme intermedie (per lo più mistificate o del tutto occultate). Influenzate da derivazioni (nel senso di Pareto) pacifiste; queste consistono nel negare ad interventi armati il carattere di guerra, in nome d’intenzioni ireniche e soprattutto perché intraprese al fine di mantenere la pace[24].

Ma la panoplia dell’ostilità non si limita alle guerre mascherate.

Altre forme ne sono quelle azioni che tendono allo stesso scopo della guerra – piegare la volontà dell’avversario – con mezzi non militari (blocco economico, attacchi informatici, scorribande finanziarie, fino alle invasioni pacifiche); ovvero condotte da soggetti non aventi lo status di legittimi belligeranti (justi hostes), mezzo ben noto anche ai secoli passati. Il connotato comune di tutti questi tipi di atti ostili è che, avendo lo stesso scopo della guerra “classica” mancano di uno (o più) dei requisiti individuati dalla teologia cristiana perché vi fosse una guerra giusta (justum bellum): qui manca la recta intentio, lì l’auctoritas, altrove una justa causa belli. Onde (forse) non possono essere considerate guerre in senso proprio, ma quasi sempre non possono essere ricondotte al concetto di guerra giusta elaborato dai teologi.

Proprio in tali guerre – non guerre assume un rilievo forse maggiore che in quelle classiche l’esigenza di annichilire la volontà di resistere (e di combattere) del nemico; perché l’avversario sa bene, come scriveva de Gaulle, che la forza risiede nel di esso ordine e che rompendo questo si distrugge quello.

  1. Nelle forme “atipiche” di guerra che connotano il XXI secolo questo è possibile in vari modi e i mezzi devono essere congrui rispetto agli obiettivi. Decisivo appare comunque provocare la perdita della coesione politica del nemico. I gradi dell’azione possono essere differenti: si va, in crescendo, dalla sostituzione del governo ostile all’abolizione del regime politico fino alla distruzione della sintesi politica oggetto dell’intervento ostile[25].

Connotato comune è che il mezzo usato e lo scopo lo rendono più prossimo alla rivoluzione che alla guerra: anche se il fine non è sempre rivoluzionario consiste nella sovversione e il rovesciamento dell’ordine (e così  almeno del governo) ostile. Dato che gli interventi ostili contemporanei hanno – come d’altra parte tante guerre – obiettivi limitati, spesso è sufficiente la sostituzione del governo per realizzarli.

Malgrado il non uso di mezzi militari, ciò lo rende assai più lesivo dei principi del diritto internazionale di quanto lo sia uno justum bellum: suscitare la sovversione (fino alla rivoluzione) negli altri Stati ha, secondo molti costituito un illecito internazionale, spesso vituperato e altrettanto praticato.

  1. Il pensiero politico si è interrogato da millenni su chi sia il nemico, e le risposte al quesito sono state le più varie e neppure escludentesi tra loro. Si è ritenuto che ci fossero nemici per natura[26], o più spesso per divergenze d’interessi, o anche per costumi[27], per religione (fonte di tanti contrasti). Ancor più su chi sia il nemico giusto[28].

Come sostenuto da Schmitt (e non solo) il secolo XX ha visto il riconoscimento dello Stato di nemico giusto anche a soggetti politici altri degli Stati (in particolare movimenti rivoluzionari); così una legittimazione delle guerre giuste prevalentemente in base al criterio della justa causa belli.

Sul piano fenomenologico il tutto ha portato non alla riduzione, ma all’accrescimento del ruolo del sentimento ostile: in particolare l’attività bellica svolta da organizzazioni non statali relativamente (poco) istituzionalizzate[29] ha comportato un aumento del ruolo attivo della popolazione nella guerra, secondo la concezione di Mao-dse-Dong, e così del sentimento politico.

La debole istituzionalizzazione ha reso del pari meno rilevante il ruolo del personale “tecnico” e specialistico. Il comando – e i quadri – dei movimenti partigiani sono solo occasionalmente (e raramente) dei tecnici e dei burocrati militari: per lo più o non posseggono esperienza di guerra o ne hanno poca. Già agli albori del  partigiano moderno, troviamo il cardinale Ruffo, il quale non era un militare, ma un religioso ed amministratore civile. In compenso sapeva benissimo come suscitare ed avvalersi del sentimento ostile antigiacobino delle popolazioni meridionali. Così gran parte dei suoi seguaci, cosa ripetutasi in tutti (o quasi) i movimenti rivoluzionari moderni. Fra Diavolo il capo partigiano faceva il sellaio per poi arruolarsi (qualche tempo) nell’esercito regolare borbonico; Empecinado l’agricoltore.

E, sotto tale profilo, occorre ritornare alla concezione di Schmitt, prima cennata, del ruolo della tecnica e della tecnocrazia, relativamente al sentimento politico, sia che si tratti dell’avversione al nemico che della coesione con l’amico.

La tecnica è in se uno strumento e un mezzo, non un fine.

Anzi il passaggio dalla concezione della tecnica (della prima metà del secolo scorso) di cui scrive Schmitt come “fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana, la fede nell’illimitato «superamento degli ostacoli naturali», nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenza naturale dell’uomo in questo mondo”,  per cui non può dichiararlo “semplicemente una morta mancanza di anima, senza spirito e meccanicistica” ha rafforzato la nulla (o scarsa) idoneità a suscitare “sentimento politico”.

Se la tecnica all’epoca era concepita in una dimensione (e funzione) prometeica, ora è percepita come soddisfazione di bisogni (per lo più privati) di una società di consumatori pantofolai, i quali comunque hanno abdicato a dare un senso all’esistenza collettiva, che non sia quello di produrre e consumare.

Il quale si coniuga assai bene con la profezia di Tocqueville sul dispotismo mite[30]; mentre secondo il giurista di Plettemberg “Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le «riforme», tutte le nuove élites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà, nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallo status quo”.

  1. Ciò nonostante dato che ogni scelta, come è anche quella di servirsi della tecnica (o di tecniche), può suscitare una contrapposizione amico-nemico è il caso di vedere se anche questa (e/o quelle) può costituire fondamento aggregante/discriminante.

In primo luogo bisogna ricordare che il rifiuto di certe (soluzioni) tecniche è, il più delle volte, solo il riflesso di una scelta di valori; nel mondo contemporaneo è evidente per le (nuove) tecniche riconducibili a orientamenti bioetici[31]. La dipendenza di queste da quelli le rende irrilevanti o, tutt’al più, secondarie.

In secondo luogo il rifiuto totale (o quasi) della tecnica, quale risultante/componente di una scienza e di una civiltà altra è stato più volte ripetuto nella storia.

In particolare Toynbee lo ritiene uno dei tipi di comportamento tenuti dalle comunità umane non facenti parte della civiltà (del cristianesimo) occidentale di fronte all’espansione planetaria di questa.

Del rifiuto (opposto all’assimilazione/accettazione) riteneva “campioni” (tra gli altri rifiutanti) il Giappone ante-rivoluzione Meiji e l’Abissinia; dell’accettazione (modernizzazione) considerava le più tipiche figure storiche Pietro il Grande, Mehmet Alì e gli statisti giapponesi dell’epoca Meiji[32]. Ma il rifiuto della tecnica e della tecnologia era la conseguenza/risultanza dal rifiuto dell’intera civiltà occidentale, nei suoi valori come nell’organizzazione sociale (diritto compreso), oltre che della tecnologia, e quindi, in parte, coincide con il primo tipo di scelta.

Anche se è ipotizzabile teoricamente un’opposizione sulla tecnica, questa non appare in concreto, quale determinante reale del conflitto, e neppure può costituire, se non in ruolo ancillare[33], un fattore decisivo e legittimante del potere. Ogni situazione conflittuale e non conflittuale, di inimicizia o di amicizia; il dissenso o il consenso di valori od interessi è rimessa alla volontà umana, mentre la scelta tecnica (e la validità di questa) non è preferenza di volontà, ma di congruità ed opportunità.

La situazione contemporanea, a seguito del collasso del comunismo (e delle istituzioni-alleanze che ne determinavano il campo) ha fatto cessare l’opposizione borghese/proletariato che ha connotato (quanto meno) il “secolo breve”. Le recenti affermazioni elettorali di movimenti e candidati non riconducibili al vecchio Zentralgebiet, in Europa innanzitutto, e, come appare dall’elezione di Trump, anche negli USA, fanno emergere una nuova opposizione amico/nemico, ideologicamente meno definita, ma, almeno potenzialmente, virulenta. Appare evidente che tale contrapposizione, come mi è capitato di scrivere di recente, è quella tra nazione (identità nazionale) e globalizzazione[34]; (o internazionalismo “diretto”). Rispetto ai vecchi  “Zentralgebiet”, specialmente quello generante l’opposizione borghesia/proletariato, ha in comune il carattere di essere divisiva sul piano interno non meno che su quello esterno: genera partiti populisti che si contrappongono all’élite interne ed internazionali, rappresentate dai vecchi partiti in decadenza, la cui strategia di sopravvivenza è spesso coerente con l’emergere della nuova opposizione (che rende secondaria e poco rilevante la vecchia): tendono all’arroccamento, al fare blocco tra loro (la vecchia destra e la vecchia sinistra), per impedire la presa del potere alla nuova “coppia” amicus-hostis[35].

Anche se, spesso, più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tanto o tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] V. op. cit., trad. it. Milano 1970, p. 40.

[2] Op. cit., p. 38.

[3] Il concetto del politico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 110.

[4] Op. cit., p. 114 (il corsivo è mio)

[5] V. “L’equivalenza ‘politico’ = ‘politico-di partito’ è possibile allorché l’idea di unità politica (lo «Stato») comprende tutto e in grado di relativizzare tutti i partiti politici al suo interno e le loro conflittualità…Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti «i» contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della «politica interna», cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato”, op. cit., p. 115.

[6] E prosegue “Da queste contrapposizioni specifiche di questi settori della vita umana non è possibile far discendere il raggruppamento amico-nemico e perciò neppure la guerra. La guerra non ha bisogno di essere né religiosa, né moralmente buona né redditizia”, op. cit., p. 119.

[7] Op. loc. cit., e prosegue “Il problema continua dunque ad essere sempre lo stesso: se cioè un raggruppamento amico-nemico di tal genere esista oppure no come possibilità reale o come realtà, senza che importi quali motivi umani sono forti abbastanza da provocarlo”.

[8] V. in Le categorie del politico, cit. p. 167 ss.

[9] V. “L’umanità europea ha compiuto, dal XVI secolo, parecchi passi da un centro di riferimento all’altro e che tutto ciò che costituisce il contenuto del nostro sviluppo culturale si trova sotto l’influsso di quei passi. Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell’élite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi”, op. cit., p. 169.

[10] Op. cit., p. 173; e prosegue “Così per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche” (il corsivo è mio).

[11] Op. cit., p. 174 (il corsivo è mio).

[12] Op. loc. cit.

[13] Op. cit., p. 178.

[14] Op. cit., p. 179, e prosegue “Le costruzioni di Saint-Simon e di altri sociologhi che aspettavano una società «industriale» sono o non tecniche allo stato puro, bensì mescolate in parte cpon elementi morale-umanitari, in parte con elementi economici, oppure semplicemente fantastiche. Neppure una volta la guida e la direzione dell’economia odierna è stata nelle mani dei tecnici e finora nessuno è ancora riuscito a costruire un ordine sociale guidato da tecnici in modo diverso da come avrebbe costruito una società senza guida e senza direzione”.

[15] “Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano, Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza” La guerra del Peloponneso, V, 105.

[16] A proposito di de Gaulle l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, rivelava chiaramente l’aspirazione a relativizzare l’ostilità tra Nato e Patto di Varsavia e così la scriminante.

[17] Essence di Politique, Paris 1965 p. 496

[18] V. G. Gentile, Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, p. 125.

[19] Scrive Gentile che lo Stato vivo (cioè vitale) ha necessità del sentimento politico “Questa struttura dev’essere viva; come può essere soltanto se è un sentire: sentimento politico, segreta scaturigine di ogni passione con cui si dispiegherà l’attività politica dell’individuo; inaridita la quale, l’azione politica, priva di sincerità e calore, si vuoterà d’ogni energia costruttiva, e decadrà a semplice velleità dilettantesca” e prosegue “Quanto più vigoroso tale sentire, tanto più potente ed efficace l’azione politica” op. cit. p. 126

[20] Questo appare il significato che al consenso da Gentile “Come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza del quale il Governo non si regge. Questo consenso sarà spontaneo, o sarà coatto. E la moralità dello Stato, in cui il Governo esercita la sua autorità, richiede un massimo di spontaneità ed un minimo di coazione; senza che l’una possa mai star da sé, scompagnata dall’altra…perché nessuno dei due termini può stare senz’altro; e la necessità della loro sintesi deriva dalla profonda natura sintetica dell’atto spirituale” op. cit. p. 60

[21] Scrive Gentile “La pace si determina e definisce in un sistema, che è l’ordine sociale, il cui mantenimento è il primo assunto in ogni Stato; e alla conservazione, a tale essenziale e fondamentale e fondamentale bisogna, nessuno potrà pretendere mai che basti a provvedere la polizia. La quale potrà aiutare a tal fine; ma se l’ordine regni negli animi per virtù del sentimento politico in cui lo Stato s’impianta e da cui soltanto può ricavare le sue linfe vitali. La polizia è una medicina. Ma come non c’è medicina che possa mantenere im vita un organismo minato da un interno principio di disfacimento, non c’è polizia che possa restituire la sanità del corpo dello Stato da cui sia sfuggitala vis medicatrix naturae”op. cit. pp.124-125

[22] In effetti De Maistre scrive che “è l’immaginazione che perde le battaglie”, ma, in certa misura, vale anche per le guerre Soirées de Saint-Petersbourg, trad. it. p. 407, Milano 1970. A tale proposito tale conclusione ne era tratta da Gustave Le Bon il quale sosteneva che spesso “La disfatta non è evidentemente che il risultato di un impressione meramente psicologica e nient’affatto un’ineluttabile necessità” (v. Psicologia politica, Roma 1997, p. 93).

[23] Questa è stata la conclusione di molte guerre di liberazione: da quella vietnamita a quella d’Algeria, alla sovietico-afgana (e molte altre).

[24] Spesso tali esternate intenzioni corrispondono allo scopo reale, ma, almeno altrettante volte, non è così.

[25] Quali esempi nella storia moderna, si possono ricordare, per il primo tipo, la caduta dei governi (e poi dei regimi) di socialismo reale nell’est-europeo; anche se, nel caso, l’intervento dell’antagonista (gli USA e la NATO) è stato poco rilevante e del tutto indiretto. Infatti la causa endogena, ovvero l’impopolarità dei regimi che rendeva problematico il rapporto amicale tra governanti e governati, è stato totalmente (o quasi totalmente) determinante. Ciò conferma tuttavia che il rapporto amicale è decisivo: senza questo, alla lunga, qualsiasi regime politico crolla, anche senza l’intervento di altri soggetti poilitici. Altro caso, dello stesso tipo anche se ottenuto in parte con mezzi militari è la crisi di Cipro nel 1974 e la caduta del governo Joannides; del secondo, la fine del regime è stato il crollo zarista e la presa del potere da parte dei bolscevichi; del terzo la fine della Cecoslovacchia nel 1939 con l’assorbimento nel Reich di Boemia e Moravia e la nascita della repubblica slovacca di mons. Tiso. In tutti questi (ed altri) casi i mezzi militari non sono stati usati per nulla o, se usati, non sono stati decisivi. A esserlo è stata l’attenuazione o la scomparsa del rapporto amicale e del sentimento ostile.

[26] A. Gentili op. cit. p. 78 o anche nel discorso di Cromwell citato da Carl Schmitt “[Perché infatti il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di quell’inimicizia  che è in lui o contro tutto ciò che è di Dio. Tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi]. Poi egli ribadisce: lo spagnolo è il vostro nemico, la sua «enmity is put into him by God» [inimicizia è posta in lui da Dio], egli è «the natural enemy, the providential enemy» [il nemico naturale, il nemico provvidenziale], che lo ritiene un «accidental enemy» [nemico accidentale] non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto: «Io porrò inimicizia  fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi, III, 15)” V. C. Schmitt in Der begriff des politischen rad. It. ne Le categorie del politico (cit. p. 154).

[27] Sempre A. Gentili sostiene che “Se esistessero davvero delle cause dipendenti dalla natura, la guerra che ne conseguirebbe sarebbe sicuramente giusta. Ma cause  di questo genere non esistono Gli uomini non sono nemici tra di loro per natura; sono le attività e i costumi che, a seconda della loro compatibilità o incompatibilità, li inducono alla concordia o alla discordia” op. cit. p. 80.

[28] Sulla scorta di due noti frammenti di Digesto è normalmente escluso che possa esserlo chi non è sovrano (e per cause non pubbliche) Dig. L, 16, 118 (Pomponio) e Dig. XXXXVIIII, 15,24 (Ulpiano)

[29] Sul punto v. Santi Romano voce Rivoluzione in Frammenti di un dizionario giuridico, cit. p. 224.

[30] V. La democrazia in America, trad. it. Torino 1968, p. 811 ss.; si può anche ricordare, quale integrazione al giudizio di Tocqueville quanto scrive Schmitt “Grandi masse di popoli industrializzati aderiscono ancora oggi ad una cupa religione del tecnicismo poiché esse, come tutte le masse, cercano la conseguenza radicale e credono di aver trovato qui la spoliticizzazione assoluta che si rincorre da secoli e con la quale cessa la guerra ed inizia la pace universale. Eppure la tecnica non può far nulla quanto a facilitare la pace o la guerra, essa è pronta ad entrambe le soluzioni allo stesso modo e non muta nulla richiamare o scongiurare la pace. Ormai siamo in grado di penetrare la nebbia dei nomi e delle parole con le quali lavora la macchina psicotecnica della suggestione di massa”.

[31] Anche se oggi, come nei secoli passati per lo più contrasto del genere non hanno dato luogo a conflitti tra simbiosi politiche, la contrapposizione nella lotta politica interna anche se minore è sempre riconducibile alla coppia amico-nemico.

[32] “Esempi notevoli di statisti di stampo occidentale nel primo secolo dopo l’inizio della Rivoluzione industriale in Inghilterra sono Ranjit Singh (sul trono dal 1799 al 1839), il fondatore dello stato sikh epigone dell’impero afghano degli Abdali, nel Punjab; Mehmet Alì, viceré del padishah ottomano in Egitto dal 1805 al 1848; il padishah ottomano Mahmud II (che regnò dal 1808 al 1839) il re Mongkut di Thailandia… Questi Stati occidentaleggianti ebbero sulla storia dell’Ecumene conseguenze più importanti di qualunque altro stato loro contemporaneo d’Occidente: avevano contenuto l’egemonia dell’Occidente e avevano realizzato questa impresa proprio attraverso la diffusione, nelle terre non occidentali, del suo moderno sistema di vita”, v. Il racconto dell’uomo, Garzanti 1977, p. 574; e per il rifiuto “Nel 1632 gli Abissini (gli odierni Etiopi) espulsero i Portoghesi e anche i gesuiti di ogni nazionalità, per isolarsi dal resto dell’Ecumene, senza ricorrere ad alcun aiuto straniero. Quasi contemporaneamente, i Giapponesi seguivano l’esempio: Hideyoshi aveva ordinato già dal 1587 l’espulsione dei missionari cristiani, e nel 1614 il governo tokugawa promulgava un editto che metteva al bando in Giappone la pratica del cristianesimo”, op. cit., p. 539

[33] Anche se talvolta la funzione ancillare riveste un ruolo, anche se secondario, comunque rilevante

[34] V. Nazione e globalizzazione in Nova Historica anno 15, n. 56 2016, pp. 39 ss.

[35] Il fatto si è ripetuto con le regionali francesi, ossia con la “desistenza” tra socialisti e gaullisti per impedire che il Front national governasse delle regioni francesi; con lo sbarramento nelle presidenziali austriache ad Hofer, manifestatosi nell’invito dei socialisti e dei popolari a votare Van der Bellen al secondo turno ed anche nella recente elezione di Trump che ha dovuto lottare prima con lo scarso gradimento dei repubblicani, poi con la candidata democratica manifestamente preferita dall’establishment. Anche se in questo caso più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA

Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.

Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.

Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.

Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:

  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).

Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.

Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni_Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.

Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.

Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.

Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.

É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.

Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.

Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti  idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.

Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.

Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).

Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.

Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

Teodoro Klitsche de la Grange

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BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO (*)

 

Nei giorni 25 e 26 novembre 2004 la rivista “Catholica” organizzava alla Sorbona a Parigi un convegno su alcuni aspetti e problemi della modernità.

Riportiamo qui la relazione sull’esistenza del nemico di Teodoro Klitsche de la Grange e i due interventi sulla stessa di Bernard Dumont e Gilles Dumont, la cui pubblicazione (Behemoth n. 37) era gentilmente autorizzata da “Catholica”.

 

Teodoro Klitsche de la Grange: Credo che la convinzione dell’inesistenza del nemico sia assurda, perché il nemico non ha bisogno di permessi, licenze o legittimazioni di chicchessia per esistere. Gli basta, per poter essere tale, la libertà che Dio gli ha dato come uomo, e potrà di conseguenza decidersi per la guerra o la pace, l’amicizia o l’inimicizia, il bene o il male. Credere quindi che il nemico non possa (o non debba) esistere è un falso problema, perché ontologicamente impossibile. Il nemico esiste e questo è questione d’esistenza, di Dasein che consegue al fatto di essere uomo. Non aveva torto Proudhon, quando a tale proposito, riteneva la guerra connotato peculiare del genere umano, ed approvava de Maistre, che la giudicava divina perché legge del mondo. Si può certo scegliere di non essere nemici, di non voler muovere guerra, ma vi sono sempre guerre e violenza; per cui è questo fatto e la conseguente facoltà di scegliere tra guerra e pace (possibili) che ha implicazioni morali.

La teologia cattolica (e cristiana in generale) ha da secoli posto quattro condizioni perché una guerra sia giusta. Se un sovrano cristiano voleva intraprendere una guerra giusta, poteva, di fatto, farla, ma se ne assumeva la responsabilità di fronte all’Onnipotente; all’inverso doveva prepararsi ad affrontare i possibili nemici. Ricordo la definizione che da l’abate Sieyès della Nazione: che è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere. La si può adattare anche per il concetto di nemico: il quale è tutto ciò che può divenire per il solo fatto di esistere. Lo stesso pacifismo è più razionale della negazione (dell’esistenza) del nemico. Perché, per far guerra, occorre essere in due. Per aggredire, basta deciderlo da soli: mentre perché vi sia guerra, ripeto, occorre essere due. Alla decisione di qualcuno di attaccare, deve contrapporsi quella dell’aggredito per la difesa. E anche questa è una scelta, tra il difendersi e l’arrendersi: se non ci si difende si fa come i cecoslovacchi o i lituani nel 1939. Di conseguenza il pacifismo, quand’è coerente, mantiene una certa ragionevolezza: si può preferire la servitù alla libertà (meglio rossi che morti), ed è comunque una decisione certamente possibile. Ma la negazione del nemico non ha nulla di ragionevole, perché impossibile.

Pertanto dalla negazione del nemico (e del conflitto) deriva uno strano effetto. Più la si fa, più nemici (e conflitti) crescono (di numero e soprattutto) d’intensità. Aron rileva che nel corso del XX secolo, più si è stati pacifisti convinti (o presunti) più si sono fatte guerre, perché le stesse idee-cardine del pacifismo possono convertirsi in giustificazioni (pretesti) della guerra. Si fa la guerra per non fare più guerre e quella che si combatte allo scopo è l’ultima: ma proprio perché è l’ultima, il nemico diviene assoluto, e soprattutto si possono pagare scotti pesantissimi per combatterlo e vincerlo. Dopo di che si sarebbe avuto il regno della pace, la fine della storia, (il paese dei balocchi), e così via. Invece si è avuto (solo e tutt’al più) un nemico nuovo, al posto di quello vecchio.

Credo che il nemico (in politica)  è, (quasi) sempre, il nemico relativo, non assoluto. Se si va a leggere il discorso dell’Imperatore Claudio, negli Annales di Tacito, questo è assai chiaro: Claudio sostiene l’ammissione in Senato delle grandi famiglie galliche, per integrarle meglio nell’Impero. I Romani erano dubbiosi, ma l’imperatore riteneva di doverle ammettere anche se avevano combattuto contro Giulio Cesare: ed affermava che è un’attitudine specificamente romana considerare il nemico come non assoluto, ma relativo. Romolo, ricorda, nello stesso giorno aveva mosso guerra e concluso un foedus, un accordo, con dodici popoli nemici.

In questo consisteva la differenza essenziale tra Greci e Romani, tale che questi hanno costruito un grande impero, e quelli no. Mentre i Greci consideravano i nemici (irrimediabilmente) diversi da se, i Romani li reputavano uomini come loro. Tale situazione (e il problema relativo) si è ripetuto spesso nella Storia. In effetti, dietro l’orazione di Claudio, questo discorso sull’integrazione, c’è sempre la questione del nemico, se assoluto o relativo; e nel diritto internazionale classico dal XVII al XIX secolo, il nemico è sempre relativo. Non c’è nemico assoluto nello jus publicum aeuropeum, tra le Nazioni cristiane d’Europa.

Ma, nel tempo ne cambiava il senso e con una distinzione importante: all’uopo ne ricordiamo due chiare formulazioni l’una del XVIII e l’altra del XX secolo. Vattel, a metà del XVIII secolo, ai tempi della “guerra in merletti”, scriveva: “l’ennemi est celui avec qui on est en guerre ouvert. Les Latins avaient un terme particulier (hostis) pour désigner un ennemi public, et ils le distinguaient d’un ennemi particulier (inimicus). Notre langue n’a qu’un même terme pour ces deux ordres de personnes, qui cependant doivent être soigneusement distingués. L’ennemi particulier est une personne qui cherche notre mal, qui y prend plaisir ; l’ennemi public forme des prétentions contre nous, ou se refuse aux nôtres et soutient ses droits, vrais ou prétendus, par la force des armes. Le premier n’est jamais innocent : il nourrit dans son coeur l’animosité et la haine. Il est possible que l’ennemi public ne soit point animé des ces odieux sentiments, qu’il ne désire point notre mal, et qu’il cherche seulement à soutenir ses droits”.

In effetti, il nemico pubblico  è un nemico che rivendica di esserlo, perché, in generale, vanta una pretesa (e uno status) giuridico.

Teologi-giuristi della Tarda Scolastica come Vitoria e Suarez, l’hanno sottolineato; mentre nell’altro caso il  nemico è ingiusto in se, (anche) perché agisce (solo) per odio.

Qui, a Parigi, nel 1965 fu rappresentato un dramma assai interessante di Montherlant, La guerre civile. Nel prologo la Guerra Civile prende la parola: “Ne ho piene le tasche di questi salami che si guardano in faccia su due fronti, come se facessero le loro stupide guerre nazionali. Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico.

Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”[1].

In effetti la vera guerra, nel XX secolo, era diventata quella civile.

Per Vattel (come per Rousseau) la guerra (vera e legittima) era solo quella condotta da soggetti pubblici e la guerra civile era ingiusta in se perché non è tra due Stati. Secondo Montherlant, è la guerra civile la “vera” guerra: affermazione assai simile a quella di Schmitt o Lenin nelle loro teorie della guerra (civile e ) partigiana. Secondo Lenin vera guerra non era quella regolare, in uniforme, ma la weltbürgerkrieg, destinata ad essere la levatrice della società perfetta – la frase di Saint-Simon, di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose, era stata ripresa da Engels per la società senza classi. Per la quale valeva la pena far una guerra assoluta. L’odio, ciò che Clausewitz chiamava il sentimento ostile, l’ “istinto cieco”; diventa così prevalente sugli aspetti razionali della guerra (il “triedo”).

Concludo il mio intervento sulla distinzione amico-nemico. Sulla quale, ora, c’è una gran confusione, così come tra pubblico e privato. Ad analizzare la frase di Saint-Simon, questa porta a una sorta di privatizzazione del pubblico. Del pari nella distinzione amico-nemico, non si comprende più chi è l’amico ed il nemico. Nel periodo dello Stato classico europeo, l’amico era il concittadino, vi erano limiti di spazio, di costume, di nazionalità, e si sapeva bene chi era il nemico: quello designato tale dall’autorità legittima. Ma da quando si sono diffuse (e sono assai più numerose di quelle tra Stati) le guerre civili, non fondate sull’appartenenza a uno Stato, non si capisce più se il nemico possa essere il proprio vicino di casa, il collega d’ufficio o qualcun altro.

Penso che il deperimento del politico nello Stato s’estende alla distinzione tra privato e pubblico. Ed anche a quella di comando-obbedienza, perché spesso si perde il coraggio del comando. E si crede che non c’è bisogno d’obbedienza: cosa impossibile, perché c’è sempre la necessità del comando.

Gilles Dumont: Non so se la questione non si identifichi, semplicemente, con quella del liberalismo, sia in relazione alla teoria di Montesquieu sulla distinzione dei poteri, sia, parimenti, al pensiero di Machiavelli.

Se si rifiuta di nominare il nemico, è perché lo stesso ordine politico liberale, nel senso della filosofia politica liberale, è fondato sulla necessità dell’integrazione del nemico nell’ordine politico. Tutta la teoria di Montesquieu si basa non sul potere esercitato contro una qualsiasi minaccia esterna, ma contro il potere considerato come una minaccia all’interno stesso dell’ordine politico: è perciò che rivolge le diverse istituzioni politiche le une contro le altre.

La questione è, mi sembra, di sapere ove si colloca la frontiera tra il nemico ed il politico. Perché dire che la negazione del nemico è una forma di spoliticizzazione, è vero ma non è forse connaturale alla politica liberale?

Da Machiavelli, in fondo, a partire dal momento in cui si afferma che non si deve più distinguere tra bene e male nell’ordine politico, che il male è più significativo del bene, e che è necessario quindi servirsi di mezzi illeciti per conseguire finalità politiche, si istituzionalizza il nemico allo stesso interno dell’organizzazione politica.

Quando Remirro de Orco viene fatto a pezzi, come ricorda Machiavelli, nel Principe, dopo che Cesare Borgia gli aveva affidato il compito, a causa della sua reputazione di crudeltà, di reprimere le sedizioni  in Romagna, è proprio perché era un nemico utile, quindi necessario all’interno, per l’ordine pubblico.

Se ne è, in qualche misura, modificato il confine tra amico e nemico all’interno della politica, per cui il nemico non è più colui che è esterno all’ordine politico; in questo caso il nemico essendo nella comunità. È in effetti uno sconfinamento tra guerra politica e guerra civile. Ma la guerra civile è una forma di guerra politica, o più esattamente è la conseguenza di una scelta voluta, che è del pari tale in partenza, trasferire la guerra all’interno dello Stato. Perché lo scopo – e bisogna riallacciarsi alla teoria liberale, molto chiaramente espressa in Montesquieu – è limitare il potere, non potendolo sopprimere completamente. Se c’è la guerra permanente all’interno del potere, ci sarà meno potere, e maggiore tranquillità per godere la nostra libertà, soprattutto se il popolo non vi partecipa.

La figura del nemico esiste sempre, anche quella del nemico pubblico, ma si colloca in seno all’ordine politico. Questo pone il problema dell’obbedienza e dell’autorità, perché, in fondo, è una negazione dell’ordine politico stesso, e non si può più avere autorità ed obbedienza, dal momento in cui non si sa più a quale capo, in seno all’ordine, o meglio al disordine politico, si dovrebbe obbedire. È l’instaurazione della guerra civile che consegue dalla spoliticizzazione. La negazione del nemico esterno non è una soppressione, anzi è una affermazione della guerra interna: si sopprime il nemico esterno per valorizzare meglio la guerra civile. Il che mi fa dire che questa è, come direbbe Eric Werner, intrinseca alla democrazia, il sistema politico liberale essendo fondamentalmente un sistema di guerra civile organizzata, che non può funzionare senza nemico interno, ed è interamente costruito su questa ipotesi di partenza.

Bernard Dumont. Teodoro Klitsche de la Grange ha mostrato l’importanza del fatto che non solo l’amico e il nemico si sono modificati nel loro rapporto, ma anche un certo numero di altri concetti, a partire da una chiave, da una parola chiave, che è quella di confusione. E penso che a questa parola chiave bisogna aggiungerne un’altra, l’astrazione. E questa aggrava l’altra: si fa astrazione della realtà per invertire concetti che non vi si trovano o per sopprimere ciò che è, cosa che confonde completamente le carte. Così, si astrae dall’esistenza del nemico, che è un’assurdità ontologica, perché questi è qui accanto, ciò che prova in fatto la possibilità che ci sia un nemico. È inverosimile che nel cattolicesimo contemporaneo, o nel cristianesimo contemporaneo, si possa mettere tra parentesi questa possibilità e dimenticare che in materia d’inimicizia, c’è prima di tutto colui che è chiamato appunto il Nemico, il Diavolo, nemico del genere umano. Questo Nemico esiste, e negarne l’esistenza è pura follia, perché non si misconosce solo una realtà estremamente pericolosa, ma per lo stesso fatto si è indotti a negare o svuotare di senso il peccato originale, la Redenzione, e, alla fine, tutto quanto il cristianesimo. Quindi è un’assurdità ontologica, teologica e storica (nel senso della storia della salvezza). Ne consegue che la negazione del nemico è una astrazione, ma un’astrazione profondamente peccaminosa, una follia, un’ingiustizia, una bestemmia. È gravissimo, e questo è il frutto dell’opera del Nemico, il cui proprium è seminare confusione, in particolare delle nozioni di bene e di male, di provocare un bailamme generale. Siamo in presenza di un disordine concettuale che si manifesta nel fatto che l’inimicizia negata è diffusamente concreta e presente, e questa presenza si traduce in guerra civile con differenti gradi di violenza, dall’incitamento al crimine all’intimidazione, al linciaggio mediatico, all’ostracismo, ecc. Perché, in realtà, la guerra civile permanente è una guerra condotta fin dall’interno delle persone, al punto che oggi, quando il ruolo dello psicologico è assai consistente, si manifesta in una pressione che colpevolizza nel profondo, che coltiva il risentimento e ogni tipo di cattiva disposizione diametralmente opposta alla philia, questa benevolenza reciproca che è il cemento di ogni società. Non soltanto c’è il nemico tutt’intorno a noi, il vicino sospetto, ma c’è anche il sospetto in se stessi nella misura in cui si coltiva questa colpevolizzazione interna e permanente.

Dietro la negazione astratta della possibilità del nemico si creano tutta una serie di inimicizie, ben camuffate quanto reali e durature.

[1] Trad. it. di Piero Buscaroli, Torino 1976.

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L’OSSESSIONE DELL’ASSOLUTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo articolo era pubblicato sul BEHEMOTH” N. 48 del 2010. Dato che è
ripetuto spesso l’insieme delle illusioni di cui la tesi lì criticata fa
parte, pare opportuno ripubblicarlo per i lettori de “L’Italia e il mondo”

Teodoro Klitsche de la Grange

L’OSSESSIONE DELL’ASSOLUTO (*)

  1. Alcuni contributi, apparsi sulla stampa[1] sostengono una tesi tanto spesso ripetuta – ed altrettanto contraddetta – ovvero che credere in Dio fa si che l’assoluto esista in politica, che questa sia la condizione perché si configuri come necessario il rapporto (presupposto del politico) di comando-obbedienza e che anche il presupposto dell’amico-nemico derivi o almeno sia rinfocolato dalla credenza in Dio.

Nel fascicolo-supplemento di MicroMega Flores D’Arcais pone il problema, così sintetizzato: “Che Dio esista o non esista, tutto è permesso. All’incombere del nichilismo non possiamo sottrarci: questa è la condizione umana, perché l’uomo è il Dio della norma. Ma l’ateismo (metodologico, ovviamente) è la condizione di possibilità della morale e della politica, perché solo escludendo Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica (etsi Deus non daretur), la creazione della norma comune può avvenire in forma democratica” Sostiene il direttore di “Micromega” che, contrariamente alla nota espressione di Dostoevskij “ Se Dio esiste… tutto è permesso perché il mondo è un’ordalia senza fine, dove giostrano e si scontrano (spesso a morte) profeti e sovrani del «Dio lo vuole» pretese inconciliabili di essere ciascuno l’ermeneuta esclusivo del Sacro… Se Dio esiste,  il destino della terra è il nichilismo di una eterna ordalia, dove tutto è permesso, e l’unica legge effettiva è il «vae victis». Se Hitler avesse vinto, il suo successo sarebbe suonato divina conferma della sua pretesa di avere «Gott mit uns»… Se Dio esiste, non vi può essere potere se non di Dio e da Dio. Se Dio esiste, tutto il dovere degli uomini si risolve nell’obbedirlo. Non può esistere un potere autonomo, poiché l’autos-nomos,  il  darsi da sé la propria legge, sarebbe solo ribellione contro Dio”; tuttavia  “anche se Dio non esiste, tutto è permesso, Senza Dio non c’è autorità trascendente alla cui legge obbedire: Ogni morale è possibile: Se Dio non esiste è inevitabile l’autos-nomos, ciascuno è legge a se stesso… Chi deciderà, allora, l’autos del nomos? La guerra la forza, il successo. Se Dio non esiste non vi è infatti alcun nomos che sia sovrumano. Se non viene da Dio e non fa tutt’uno con lui, la Grundnorm che regge l’intero edificio delle norme, per dirla con Kelsen e positivamente, è un fatto, una decisione”; per cui “ Che Dio esista o non esista, dunque, non si sfugge: tutto è permesso: Questa è la condizione umana ineludibile: L’uomo è l’animale a rischio di nichilismo. Questo rischio è la sua natura. E per affrontare questo rischio, o semplicemente per convincerci, l’esistenza di Dio è irrilevante. Ci sia un Dio o sia solo la nostra illusione, all’incombere del nichilismo non possiamo sottrarci, tutto è permesso, sempre e comunque: In altri termini: l’uomo è il creatore e signore della norma”.

In altre parole il richiamo alla divinità, contrariamente a quanto pensato da tanti, sarebbe fonte non di ordine, ma, semmai, di disordine: guerra, tirannide, oppressione. “Solo aver messo Dio tra parentesi, averlo estromesso dalla sfera pubblica, ha salvato l’Occidente dall’annientamento delle guerre civili”. E prosegue “La creazione della norma è creazione in senso proprio: ex nihilo. Che Dio esista o non esista, l’uomo è il Dio della norma. Non esiste una norma già data in natura. In natura esistono solo fatti, eventi. Essere, non dover essere. Essere il creatore della norma è invece il solo imperativo che la natura impone all’uomo”. Ma quale norma? “Una norma qualsiasi, purché funzioni. Tutte quelle che hanno funzionato e che funzioneranno nel garantire a homo sapiens sapiens periodi di sorpravvivenza sono perciò stesso leggi naturali, norme che obbediscono alla natura umana e la rispettano”. Ma tra queste leggi naturali, vi sono anche, e prima delle norme, quelle che regolano esistenza e funzionamento delle società umane. In particolare quelle che Miglio chiamava le “costanti del politico” e Freund, in un altro contesto, e con un significato parzialmente diverso, i presupposti del politico. Che sono insopprimibili: malgrado da oltre venticinque secoli gli uomini stiano immaginando società senza distinzione di amico/nemico, senza comando/obbedienza e senza pubblico/privato, non si ha notizia di alcuna società umana – se non (forse) quella di Robinson Crusoe con Venerdì – in cui non ci sia stato chi comanda e chi obbedisce, cosa è pubblico e cosa è privato, chi è amico e chi nemico. L’ultimo grandioso tentativo di realizzare un quissimile di tali ricorrenti illusioni è stato il marxismo-leninismo, con l’edificazione del socialismo reale nella prospettiva (futura)\ della “società senza classi”; collassato dopo qualche decennio per implosione, senza neppure una guerra (diretta e combattuta con mezzi militari) che ne provocasse la caduta. E’ caduto da se per rigetto spontaneo (come nei trapianti d’organo mal riusciti) da parte di quelle società umane dominate dalla classe dei “rivoluzionari di professione”.

La stessa sorte di Dio, scrive Flores, subiscono le altre, per così dire, ipostatizzazioni (la Natura, la Ragione, la Storia): tutte occultanti chi, sotto le stesse, cerca di presentare come “oggettive e cogenti le proprie convinzioni. Che, invece, se presentate in nome proprio, di individuo pensante e fallibile, sarebbero sottoposte” alla critica e perfino al compromesso. Verità assoluta quindi nel primo caso, opinione relativa nel secondo “Qui la convinzione più ferma e intransigente apre comunque i propri valori al dubbio, nel primo caso ogni tolleranza è sempre e al massimo concessione provvisoria… attribuire a Dio la propria opinione è delirio di onnipotenza, che maldestramente occulta il timore di non avere argomenti umani sufficienti”. Per cui  l’ateismo metodologico è la “condizione di possibilità della morale e della politica… Perché argomentare la norma sotto responsabilità propria, anziché in nome di Dio, non elimina il rischio del nichilismo morale (sempre incombente…) che accompagna ogni Logos che si pretenda assoluto”.

Quindi “Escludere Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica è condizione essenziale perché la creazione della norma comune possa avvenire in forma democratica. Non a caso, demos-cratia implica che la legge può avere quale unico «fondamento» gli uomini stessi, la loro sovranità. E il disincanto del mondo che la precede”.

Tuttavia tale presupposto, cioè di rimettere alla decisione delle comunità umane la modellazione  delle istituzioni (e quindi, anche delle norme) era già nella dottrina del diritto divino provvidenziale, comune a buona parte della teologia cristiana.

Per la quale il potere costituente (come l’avrebbe denominato, secoli dopo, l’abbè Sieyès) è stato dato da Dio alle comunità umane e perciò queste hanno facoltà di darsi le istituzioni, i governanti e le leggi che vogliono. Non possono tuttavia violare la legge naturale. Ma su questa espressione bisogna intendersi: legge naturale non significa solo quella (positiva) data da Dio – come il Decalogo – ma anche quella dell’ordine delle cose. Ad esempio le comunità umane possono decidere di governarsi come aristocrazie piuttosto che democrazie, o come monarchie invece che “stati misti”, ma non di non darsi un[2] ordinamento politico, perché contrario alla natura dell’uomo (zoon politikon). Per cui non darsi un ordine politico non comporta di “uscire” dalla politica o dalla storia, ma soltanto che sarà un altro popolo (un’altra comunità o gruppo umano) a imporre quell’ordine, comandando e, all’occorrenza, identificando il nemico.

Continua Flores “La laicità, cioè la metanorma «etsi Deus non daretur», è dunque la precondizione, e la democrazia (il potere simmetrico di tutti e di ciascuno) è la chance effettiva per addomesticare lo spettro sempre incombente del nichilismo”.

E ateismo “significa semplicemente privarsi di Dio. Rinunciare all’Assoluto nello spazio pubblico, privarsi in esso sia di Dio che degli Idola che lo surrogano (Storia, Natura, Destino), significa esattamente assumere e praticare l’a-teismo metodologico quale virtù civica. Il comune orizzonte di valore cui siamo arrivati è dunque l’argomentazione razionale – e non un qualsiasi dogmatismo – come strumento della con-vivenza tra individui uguali. L’argomentazione, cioè i fatti accertabili più la logica. Solo su questa pietra di a-teismo metodologico e civico è possibile sottrarsi al baratro del relativismo nichilista”.

  1. Invero il ragionamento di Flores è contrario sia a ciò che hanno sostenuto i credenti (la fede in Dio è un elemento necessario dell’ordine) sia molti non credenti: i quali non hanno fede in Dio, ma considerano la religione utile instrumentum regni. Oltre a coloro che ritengono che, anche senza la fede in Dio, (ricorrendo cioè ai surrogati) l’assoluto è sempre presente nella politica (e nella storia).

Ed è questo l’aspetto che più interessa: In effetti Flores fa un ragionamento che presuppone (e crede) alla possibilità di costruire una politica senza Assoluto: ma questa credenza, tante volte ripetuta è, sul piano fenomenologico infondata e, peraltro, contraddittoria.

Fu avanzata durante (e dopo) la Rivoluzione Francese (ovviamente                                       non da tutti i rivoluzionari e pensatori borghesi) nella forma della “limitazione” alla sovranità, attribuita alla costituzione inglese; cui risposero, tra i primi, negli anni successivi sia de Maistre che de Bonald.

Il primo sostenendo “Ma quando i tre poteri che in Inghilterra costituiscono la sovranità sono d’accordo, che cosa possono fare? Bisogna rispondere con Blackstone: TUTTO. E che cosa si può fare legalmente contro di loro? NIENTE”; il secondo “ In uno Stato occorre sempre qualcosa d’assoluto, in difetto del quale non si può governare. Quando l’assoluto è nella costituzione, l’amministrazione può esser senza rischio moderata ed anche debole: ma quando la costituzione è debole, occorre che l’amministrazione sia assai forte”. Dimostrando così che il potere sovrano, cioè quello assoluto per definizione, non solo non può essere limitato ma non può esserlo perché verrebbe meno la condizione prima dell’unità (e dell’esistenza) politica. Né è da credere che anche “nell’altro campo” si pensasse, da molti, qualcosa di diverso: Sieyès faceva del potere costituente, assoluto, il modellatore della forma politica, di fronte al quale non c’è limite positivo: “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di esso e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Lo stesso Kant formula il principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo )”, in perfetta analogia col rapporto “dell’uomo con un ente che ha soltanto diritti e nessun dovere (Dio)”.

Essere “assoluto” in termini politici (e giuridici) significa proprio questo: avere solo diritti e nessun dovere. Per cui tutte le teorie che credevano di poter “limitare” la sovranità, cioè l’ “assoluto” politico finiscono per rivelarsi delle mere illusioni, magari seducenti, e persino, in una certa misura, da difendere e coltivare. Senza mai però prenderle troppo alla lettera e seguirle in ogni possibile  sviluppo perché in definitiva non portano da nessuna parte; e soprattutto non conducono a quella cui vorrebbero approdare.

In realtà rinunciare all’assoluto significa rinunciare al politico (e alla politica): questa richiede sempre la possibilità di conservare (e innovare) l’ordine comunitario; di fronteggiare le situazioni eccezionali, in primis (ma non solo) le guerre. Il detto romano Salus rei publicae suprema lex esprime precisamente il rapporto tra potere e legge (e norma), come tra potere ed ordine.

Proprio la storia del secolo passato ha dato infatti la più netta conferma che anche regimi  improntati all’ateismo ideologico (come il comunismo e il nazismo) non hanno potuto fare a  meno dell’assoluto politico (il partito, il politburò in un caso; il führer nell’altro): anzi hanno portato l’assolutismo alla sua forma più estrema e “potenziata”: il totalitarismo. Il che significa che anche credendo di eliminare l’Assoluto dalla metafisica (o negando la metafisica), non lo si elimina dalla politica. L’unica differenza è di aver sostituito la teologia con l’ideologia; e i teologi con gli ideologi. Anzi le stesse democrazie liberali, quando si trovavano in situazioni eccezionali prescrivono (e concedono) ai loro governi poteri eccezionali, come notava, tra molti, Sorokin: per cui nello stato d’eccezione tutti i governi diventano assoluti. Come sosteneva Hauriou, il potere di fatto non fa che rare apparizioni nei periodi di crisi o di “vacanza di legalità”; e non potendo avere un fondamento giuridico, si regge sul fondo (fond) metafisico o teologico. Perché l’uomo, come scriveva De Maistre, si trova tra due abissi: quello del dispotismo e quello, opposto, dell’anarchia. E realisticamente è questa la condizione (politica) umana, dalla quale è illusorio pensare di affrancarsi. Così le democrazie liberali, accanto ai principi dello Stato borghese, non solo si fondano su un principio politico “puro” (democratico, aristocratico e monarchico), ma si sono servite di un’ampia gamma di strumenti (organi straordinari; sospensioni, deroghe e rotture della Costituzione; misure d’emergenza, stati d’assedio) volti a contemperare l’aspirazione  alla libertà politica e  civile con la necessità , almeno in certi frangenti, di un potere assoluto (o comunque legibus solutus).

Vero è che Flores scrive di “ateismo metodologico” che appare essenzialmente come la rimozione di Dio dalla sfera pubblica, e, in tal senso, comportamenti pubblici etsi Deus non daretur: il che significa che nel privato uno può credere, purché non porti tale fede nei rapporti pubblici. Ciò vuol dire ritenere, quale punto fermo, quei valori di tolleranza e dialogo; tuttavia questi non assicurano che non vi sia necessità del comando, né possibilità del nemico. Anzi questi è, sicuramente, colui che non crede nella tolleranza e nel dialogo. Roosevelt e Churchill erano sicuramente “dialoganti” e “tolleranti” ma il tutto non impedì loro di distruggere con bombardamenti terroristici  Hiroshima e Dresda, Amburgo e Nagasaki, per debellare (“resa incondizionata”, che è proprio l’opposto del trattato di pace come inteso nello jus publicum europeaum) quei nemici che a quei valori (e procedure) non credevano. E qualcosa d’analogo accade nell’ordinamento interno. In politica e nelle comunità ordinate c’è sempre il momento dell’assoluto, di ciò che non è ulteriormente discutibile, quale oggetto (e conseguenza) di decisioni irrevocabili. Dal giudicato tra condomini (partendo dal basso) e risalendo fino agli atti espressione di sovranità (come quelli costituenti o dello stato d’eccezione, le rotture costituzionali e così via). In fondo aveva ragione Locke quando diceva che, in certi frangenti, non c’è che l’appello al cielo (quindi all’Assoluto). E ancor di più Vico nel sostenere, distinguendo tra certum e verum, che certum ab auctoritate, verum a ratione. La certezza richiede l’autorità, la verità la ragione, e non sempre, per così dire, coincidono: anzi, non coincidono spesso e, in ogni caso una comunità può prosperare senza verità assolute (la “religione ufficiale”, cioè pubblica), ma non senza certezze. E l’esigenza di queste porta, in ogni caso, al momento in cui la discussione cessa e la decisione interviene senza possibilità d’appello; in questo senso  assoluta.

E’ perciò appare quanto meno imprudente l’affermazione che passare all’”ateismo metodologico” significa realizzare (un elemento del) “disincanto” del mondo mentre invece appare, al contrario, un reincantamento, col sostituire all’assoluto un qualcosa che assoluto non è o si pensa che non lo sia, ma alla fine, per necessità, e magari suo malgrado, lo deve diventare.

  1. Di reincantamento, ancora, occorre a pieno titolo parlare quando Flores sostiene che se si consegna Dio (o, i di esso surrogati) alla sfera privata, a decidere le norme è ciascuno di noi.

Da una parte, a questa è sottesa l’antica aspirazione alla “legge senza comando” (cioè non eteronoma) dall’altra non è chiaro in che modo la teologia cristiana possa aver contrastato la concezione che la comunità possa darsi leggi positive. Anzi se si parte sia dal pensiero tomista che da quello di molte sette protestanti, è proprio il contrario: la dottrina del diritto divino provvidenziale è, secolarizzata, la base (forse principale) delle democrazie liberali, come notavano Hauriou e Carré de Malberg (tra gli altri). La teologia cristiana, nel presupposto della libertà di coscienza del cristiano, dell’autorità della legge divina, della distinzione tra potere temporale e spirituale, è stata il lievito della società e dello Stato moderno. Ad esempio Hauriou sintetizza così la dottrina teologico-politica dei tomisti e (poi) dei pensatori controrivoluzionari: “…La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)”[3] per concludere “La teologia cattolica pone il primato della libertà umana: l’ordine divino si propone all’uomo per mezzo della grazia”.[4]

In effetti la concezione/integrazione di S. Tommaso all’originale frase di S. Paolo “Non est potestas nisi a Deo”, cui l’Aquinate aggiunse “per populum” è stata fondamentale per la secolarizzazione del potere e della “titolarità” della politica agli uomini, per di più con avallo divino.

Otto von Gierke, pur dando un’importanza decisiva alla teologia protestante per la formazione dello Stato moderno, non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità… Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[5]. Altri giuristi hanno condiviso questa impostazione[6].

Certo non si può dire altrettanto di altre religioni: non foss’altro perché, come scriveva Gaetano Mosca, per lo più non conoscono la netta distinzione tra potere spirituale e temporale: nella quale, si deve concordare con Flores (e con Mosca), consiste il primo fondamento della libertà. Ma questo è connotato peculiare del cristianesimo; estraneo a (quasi) tutte le altre confessioni religiose, e neppure del tutto estraneo al cristianesimo orientale (anche se moderatamente). Giustiniano si attribuiva, coerentemente alla visione cesaropapista, la cura di vigilare sui “vera Dei dogmata[7].

Quello che appare, parimenti, illusorio è il tentativo di risolvere l’eteronomia del comando (giuridico) nell’autonomia, “propria” di quello morale. Malgrado l’accenno al concetto funzionalistico (quindi tendenzialmente eteronomo) di norma, Flores poi pensa che tramite il voto (e il consenso) si raggiunga (o ci si avvicini) all’autos-nomos: il che è vero – in parte – ma, come al solito è necessario badare a non trarne le estreme conseguenze. Cioè credere che si realizzi la piena autonomia non foss’altro perché, per la minoranza dissenziente la norma promulgata dopo il dia-logos resta comunque eteronoma. E assoluta: perché Flores mette in guardia dalla “democrazia totalitaria” dal “dispotismo delle maggioranze”, e scrive giustamente che “la democrazia liberale nasce come correttivo e antidoto ai rischi di dispotismo della maggioranza. Il costituzionalismo esprime questo limite e questa sequenza con il nome di diritti dell’uomo inalienabili”.

Solo che quando si scrive di diritti inalienabili, intangibili, insopprimibili, inviolabili e così via, non si fa altro che scomodare… l’assoluto, perché significa che, in luogo della volontà sovrana, diventano assoluti quei diritti (e perciò non possono essere conculcati da quella, la quale, come scriveva, tra i tanti, Orlando, così diventa non più… sovrana).

L’assoluto tolto di qua, rispunta di là, come scriveva de Bonald (v. sopra). Cosa notata nello stesso fascicolo di Micromega da Vattimo il  quale scrive, peraltro, che dovrebbe chiamarsi nichilismo proprio la tesi di Flores del prender atto che la norma dipende solo da noi “anche per rispettare il «diritto» di Nietzsche che l’ha battezzato appunto così”. Il quale in “Umano, troppo umano” scriveva “Ma dove il diritto non è più, come da noi, tradizione, esso può essere solo imposto, solo costrizione; noi tutti non abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità che esista un diritto”.

Che esista un diritto è necessario e connaturale all’esistenza di un gruppo umano (ubi societas ibi jus), che sia “partecipato” e in certa misura “consensuale” è auspicabile ma non indispensabile all’esistenza del gruppo.

La quale è peraltro imperativo altrettanto assoluto nei regimi democratico-liberali che negli altri: tutti antepongono la salvaguardia dell’esistenza comunitaria a quella degli individui.

Persino la nostra Costituzione così irenica e politicamente emasculata scomoda il sacro e definisce “sacro dovere” del cittadino la difesa (e l’eventualità di morire) per la Patria, cioè per la comunità e l’unità politica: segno evidente di quale è la “scala” di priorità.

  1. Questa tesi della negazione dell’Assoluto metafisico, come necessità-presupposto per negare l’assoluto politico, è uno degli idola della modernità più ricorrenti (e più smentiti). Nell’essere ateo- anche se “metodologico”- s’intravede il desiderio di sentirsi indipendenti dal mondo e dalle costanti che regolano le società umane.

Fu accusato di ateismo un filosofo come Spinoza che, considerando comunque la grandiosità (e l’imprevedibilità) delle forze della natura,  la condensò nella formula “Deus sive natura” Il che significa non negare l’Assoluto ma toglierlo dal cielo, senza pertanto pretendere d’eliminarlo dalla terra. Per cui, in realtà l’”ateismo” moderno è, per lo più, alla fine, una sorta di panteismo, come sosteneva Donoso Cortés. Marx credeva di aver trovato la “soluzione dell’enigma della storia” col comunismo, clavis universalis  per l’interpretazione (ed il controllo) del mondo, almeno storico (economico e sociale). I fatti hanno provato che non era così: il comunismo è crollato senza aver , neppure alla lontana, realizzato il sogno della società senza classi, cioè l’uscita dell’uomo dalla storia. L’assoluto (Dio, la Ragione, la Storia) ha fagocitato (e poi rimosso) il colossale incidente storico costituito dal socialismo reale. Il quale è stato, peraltro e contraddittoriamente, quanto di più assoluto (politicamente) potesse essere realizzato.

V’è di più: ad analizzare la nozione di diritto naturale e di Nazione di Sieyès, il quale non fa che applicare le teorie giusnaturalistiche (da S. Tommaso a Spinoza) questo conferma che l’assoluto appartiene alla natura ed alla Storia e non è possibile agli uomini modificarlo: quod est naturale habenti naturam immutabilem, scriveva S. Tommaso. E Spinoza identificando potere e diritto (naturale): tantum juris quantum potentiae. Da cui deriva che dove non c’è potentia (non è concretamente possibile) non c’è neppure jus.

E per l’appunto, che possibilità c’è di indurre gli uomini ad essere atei metodologici, (che è come dire essere buoni, ragionevoli e così via) quando ancora oggi (tre secoli dopo l’illuminismo) non lo sono? Ed essere atei metodologici garantisce che non ammazzeranno il prossimo, tra l’altro, perché la pensa diversamente? Non c’è solo Osama da convincere a non uccidere qualche migliaio di civili, (tanto per ricordare chi è motivato dalla religione a condurre una guerra, senza limiti, e al quale un po’ di ateismo metodologico farebbe bene); ma anche i coreani, i tutsi e gli huto, l’Eta, gli osseti e i ceceni, i kosovari e i serbi e così via.

Tutti conflitti che non hanno alcun motivo riconducibile alla religione, ma piuttosto, e per lo più, a quello di costituire una propria unità politica su basi etniche e/o nazionali. E sarebbe un elenco sterminato citare tutte le guerre del passato fatte per ragioni non teologico-religiose, ma molto terrene: da quelle che Flores identifica come surrogati dell’Assoluto (Razza, Partito, ecc.) a quelle che con l’assoluto avevano assai poco da spartire: in particolare quelle fatte per il vile denaro (in questo caso promosso ad “assoluto”) o per interessi di potenza ovvero di (mera) conservazione della propria esistenza. Ma appena c’è guerra fa capolino, anzi interviene a vele spiegate, l’assoluto. É per questo de De Maistre sosteneva che “la guerra è divina in se stessa, perché è una legge del mondo”[8]. Lo stesso per la sovranità, assoluta per definizione: perché non dipende dalla volontà umana, ma dalla necessità naturale (e storica) il vivere in società ed essere governati[9]. Per cui l’assoluto esiste nella natura e nella storia, sulla terra anche se (forse) non in cielo. E dato che esiste, nelle forme più varie e non solo in quelle che ricorda Flores, è necessario tenerne conto; almeno quanto è illusorio pensare di aver trovato rimedi – mai sperimentati – contro le avversità (e le scomodità) della natura e della storia.

L’aspirazione ad eliminare l’assoluto dall’universo politico-giuridico è comunque pervicace nella modernità. Per tentare di realizzarla si sono seguite principalmente due vie, che presuppongono ambedue una concezione dell’uomo che le colloca – sotto il profilo morale o intellettuale- in una visione ottimistica. La prima è che possa formularsi un progetto razionale di organizzazione della società che permetta di risolvere (o addirittura d’impedire) l’insorgere dei conflitti; l’altra che comunque l’uomo abbia dei caratteri positivi tali (razionalità, bontà, perfettibilità – l’elenco più lungo lo fa Carl Schmitt nel Der begriff des politischen) da poter accettare quel progetto, realizzarlo e conservarlo.

Flores ha “scoperto che l’ateismo metodologico è consustanziale alla democrazia liberale, ed entrambi mettono capo all’individuo realmente esistente come soggetto di potere/libertà. Solo queste scelte di valore consentono di affrontare conflitti altrimenti irrisolvibili nel pluralismo di una società multiculturale”. Nella realtà occorre che gli individui realmente esistenti  siano d’accordo su quelle scelte di valore (e d’istituzioni conseguenti). E con ciò si ritorna all’origine: se non sono d’accordo, riemerge l’assoluto: o come guerra (assoluta o meno, non importa, perché  in ogni caso, significa che tale soluzione non elimina il conflitto); o come potere (largamente) “eteronomo“ e irresistibile, che assicura l’ordine intracomunitario. Il difficile è convenire su quella determinata scelta di valori (e d’istituzioni e norme conseguenti): non foss’altro perché, come scriveva Weber, il mondo dei valori è “politeista” onde non produce unità, ma conflitti. “Tra i valori, cioè, si tratta di ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazzione e nessun compromesso”. Per promulgare norme condivise, occorre che vi sia un “fondo” unitario, quello che per la nazione Renan identifica con il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. E cioè la volontà di vivere in comunità[10] Per cui quel che conta è che i valori di riferimento (e ancor più le radici comuni) non siano così configgenti e divaricate da non permettere un compromesso. Una comunità di credenti nella medesima religione, con la medesima lingua, costumi e diritto simili è assai più unita e gestibile di un’altra divisa tra atei e credenti, parlante tre o quattro lingue diverse, con consuetudini e diritti configgenti. È l’omogeneità (tra e) degli individui esistenti in una comunità a determinare – in gran parte – la possibilità di operare col massimo dei consensi. La disomogeneità, il pluralismo delle culture compresenti lo rende assai più difficile se non impossibile. Tant’è che spesso, per quelle differenze, unità politiche si frantumano o non possono costituirsi.

Sarebbe certo auspicabile che palestinesi ed israeliani potessero passare sopra alle differenze di religione, di cultura, di consuetudini, di diritto, al sentimento ostile cresciuto in quasi un secolo di scontri, e agli interessi in contrasto, convertendosi all’ateismo metodologico e costituire così un ordinamento comune. Anche se ragionassero etsi deus non daretur resterebbero quei macigni a separarli e mantenerli due popoli distinti. La cui possibilità di raggiungere la pace è conservare le distinzioni e organizzarle in due unità politiche: cioè in due Stati. Che proprio per essere omogenei saranno, come è Israele, e con tutta probabilità sarà il futuro Stato palestinese, largamente confessionali. E lo stesso è accaduto, limitandoci al secolo scorso, per tutti quei tentativi di far convivere in una stessa unità politica popoli distinti per religione, ma anche per (tanti) altri motivi: ad esempio gli irlandesi cattolici, “secessionisti” dall’unità politica con la Gran Bretagna; o la maggioranza arabo-berbera dell’Algeria, determinata a non essere l’outremer della Francia; o i popoli delle (defunte) URSS e Iugoslavia, diversi (a tacer d’altro) per lingua e/o razza e/o religione. E si potrebbe continuare a lungo in questa enumerazione.

Ma perché è così difficile far convivere in uno stesso ordinamento popoli che si sentono diversi per le ragioni più varie? La risposta probabilmente la dette due secoli fa De Maistre, che, criticando la dichiarazione dei diritti dell’uomo (e i progetti e le idee) della Costituzione francese del 1795, scriveva di non aver mai conosciuto in tutta la sua vita l’uomo, ma solo francesi, tedeschi, italiani, russi. Gli è che le differenze sono concrete e appartengono al mondo reale di ciò che esiste; l’ateismo metodologico, come tante altre simili, a quello delle idee.

I romani, veri maestri nell’arte dell’integrazione, come riconoscevano loro stessi da Cicerone nella Pro Balbo a Tacito negli Annales[11], praticavano il sistema d’integrare nella cittadinanza romana e poi nella classe dirigente i capi delle popolazioni sottomesse; di portare i loro dei nel Pantheon (come elemento rappresentativo-simbolico della pax deorum); di rispettarne al massimo possibile le consuetudini e il diritto. Solo così – e dopo parecchi secoli – l’orbis divenne urbs, pur mantenendo i propri dei; adorando Serapide o Mitra, Sol invictus o Tanit, ciascuno era, civis romanus governato dallo stesso potere imperiale, nella medesima unità politica (e indubbiamente il raggiungimento di questo traguardo fu agevolato dalla tolleranza del politeismo).

Quell’unità che è funzione dell’assoluto politico: ed è stata soddisfacentemente (e storicamente, al meglio) realizzata con lo Stato moderno (che nella sovranità ha  il “proprio” essenziale)

In questo le tesi di Flores appaiono emblematiche di un liberalismo (parziale ed) estenuato (perciò decadente). Parziale perché scambiano i principi dello Stato e della democrazia borghese (come fatto all’art. 16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) per l’alfa e l’omega del pensiero politico (e istituzionale) liberale. Mentre lo Stato borghese è il risultato della combinazione (almeno) tra uno (o più) principi politici (democrazia, aristocrazia, monarchia) costitutivi del potere, con quelli liberali (di limite al potere). Peraltro il liberalismo si regge su una concezione “problematica” dell’uomo: la quale se non arriva al pessimismo antropologico della teologia protestante presuppone comunque l’uomo peccatore, soggetto a traviamenti della volontà (e ad errori). Onde la necessità della Costituzione liberale è stata esposta nel più chiaro dei modi da Madison nel Federalista: se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbe alcun bisogno di un governo; se a governare fossero gli angeli non sussisterebbe la necessità di controllo sul governo, ma dato che gli uomini non sono angeli, sono necessari i governi e i controlli sui governi.

Questa concezione antropologica corrisponde esattamente a quella tomista che reputa necessario il governo, ma controllabili (dalla comunità) i governanti, proprio perché uomini come tutti gli altri[12]

Per cui appare contrario ad un approccio realistico (e fenomenologico) alla politica l’affermazione di Flores che l’individuo “non la comunità è il soggetto la cui insopprimibile libertà dev’essere tutelata dalla Costituzione liberale”. Mentre, di sacro c’è, tra l’altro anche nella nostra Costituzione, come scritto, solo il dovere di difendere e (anche) di morire per la patria (art. 52). Perché anche le Costituzioni liberali non hanno appreso quella lezione e fanno come tutte le altre. E per fortuna: se le democrazie liberali avessero avuto la convinzione che Flores attribuisce alla “costituzione ideale” liberale, ora saremmo tutti inquadrati a cantare, marciando, die Fahne hoch o l’Internazionale. Peraltro Flores ne è, fino a un certo punto, consapevole (e lo scrive); ma il lettore s’interroga se non faccia parte dell’armamentario delle utopie – e degli idola – di certa modernità contestare la realtà delle cose enfatizzando certi aspetti particolari, magari encomiabili e condivisibili, ma comunque relegati in seconda fila e praticabili solo in situazioni normali. Perché a metterli davanti, ad anteporli, ad assolutizzarli (sempre e dovunque) c’è la sicurezza di distruggere il tutto: quel tutto di cui non è colta l’essenza, col rifiutare un’analisi fenomenologica e non assiologica della realtà.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un intervento già pubblicato nel 2009 sul sito “Politicamente.net”.

[1]  V. il fascicolo (supplemento) Micromega di ottobre 2008 “Dio, nichilismo e democrazia”, v. anche, di recente, l’intervento di G. Zagrebelsky su Repubblica del 14/10/2010 (La neolingua di Berlusconi)

[2] Sul punto ci permettiamo rinviare a quanto scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, pp. 25 ss.

[3] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ( i corsivi sono nostri) ; v. sul diritto divino provvidenziale J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901.

[4] Ma anche in diversi documenti e scritti della teologia politica protestante è ribadito il concetto della potestas “costituente” del popolo.

[5] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71.

[6] Tra gli altri ricordiamo Barthélemy-Duez op. cit. p. 68 « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez.

[7] Novella VI “Quomodo oporteat”.

[8] Soirées de Saint-Pétersbourg, trad. it. 1971, pp. 399 ss. E lo argomenta in vario modo ripetendo « la guerra è divina ». Proudhon lo apprezzava scrivendo che proprio per il fatto di dichiararne l’essenza divina, e così misteriosa, dimostrava di averci capito qualcosa. La guerre et la paix, trad. it., Lanciano 1974, p. 51.

[9] Du Pape, Lib. II, cap. 10: “L’uomo dovendo dunque vivere necessariamente in società e necessariamente essere governato, la sua volontà non conta nulla nell’instaurare il governo; perché dal fatto che i popoli non hanno la scelta e che la sovranità risulta direttamente dalla natura umana, neanche i sovrani esistono per la grazia dei popoli: la sovranità non essendo effetto della loro volontà che la stessa esistenza sociale”.

[10] E prosegue “Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa resta, dopo? Restano l’uomo,  i suoi desideri” E. Renan Qu’est-ce que une nation, trad. it., a cura N. Iannello e C. Lottieri, Treviglio 1996, p. 18. Anche Renan pensava di aver liberato la politica della metafisica e della Teologia. Solo lo faceva sulla base del sentimento comunitario, della storia, della volontà umana, e non della possibilità di darsi una legislazione comune. La quale presuppone quella, e non ne è il presupposto.

[11] Per Cicerone Pro Balbo, capp. VIII-XI; per Tacito il discorso, che riporta, di Claudio per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche Annales XI, 24.

[12] Diversamente da come succede nella dottrina del diritto divino soprannaturale, la quale nega il diritto di resistenza, il potere costituente del popolo (e quindi il tirannicidio). Probabilmente espressa per la prima volta, dall’Ambrosiaster nel commento dell’Epistola ai Romani, “L’apostolo chiama uomini di comando (principes) quei re che vengono eletti per migliorare il modo di vivere e proibire quanto è contrario al bene, avendo in sé l’immagine di Dio, affinché tutti siano sottoposti a uno solo”, quindi ripresa successivamente (tra gli altri) da Lutero e da Bossuet; anche se comunque, essendo per il cristianesimo l’uomo comunque peccatore anche il governante è tale, e quindi la dottrina in esame, va intesa nel senso che il governante non ha giudice su questa terra (non è soggetto al giudizio di altri uomini).

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NEBBIA DELLA GUERRA E FAKE-NEWS, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEBBIA DELLA GUERRA E FAKE-NEWS

Scriveva Clausewitz che la guerra è caratterizzata dalla “nebbia” che non consente o consente con poca chiarezza e distinzione la percezione della situazione effettiva.

Tale nebbia non è però solo quella di Austerlitz, cioè un fenomeno naturale, ma è dovuta ad attività (ed errori) umani: alla confusione, allo scarso o contraddittorio afflusso d’informazioni, agli espedienti del nemico volti ad ingannare. Le informazioni, scriveva il generale prussiano, sono la base per le “nostre idee ed azioni… base fragile ed oscillante, e si comprenderà ben presto quanto pericolosa sia l’impalcatura della guerra, con quanta facilità possa crollare, e schiacciarci sotto le sue macerie”. Le informazioni perciò “in guerra sono in gran parte contraddittorie, in maggior parte ancora menzognere, e quasi tutte incerte”. Tale difficoltà è già importante per chi deve decidere, cioè i comandanti politici e soprattutto militari, gli esperti. Ma è assai peggiore “la cosa per colui che non ha esperienza…ed invece le notizie successive si sostengono, si confermano, s’ingrandiscono, aggiungono”. E il “pubblico” cioè coloro che osservano le descrizioni belliche, sono il massimo della non-esperienza, e non si rendono conto o in misura minima che “la maggior parte delle informazioni è falsa… Ciascuno è disposto a credere più il male che il bene, ciascuno è tentato di esagerare un poco il male: ed i pericoli fittizi che vengono segnalati, in tal modo, pur dissolvendosi in se stessi come le onde del mare, si affacciano, al pari delle onde, senza una causa visibile”. Il capo ha così il difficile compito di valutare e selezionare tra le tante che gli giungono, le notizie più attendibili.

Quando poi le informazioni generosamente distribuite sono dirette al pubblico radio-televisivo e dei media in genere, la nebbia s’infittisce e si amplifica l’interesse a produrle, anche quando la saggezza le rende improbabili. Con ciò si passa alla “guerra psicologica”, definibile come l’insieme delle iniziative volte a controllare l’opinione pubblica e i di essa giudizi ed azioni, agendo – prevalentemente – sul sentimento  e l’emotività. Se indirizzato al nemico (in atto o in potenza) lo scopo assolutamente prevalente è di condizionarne e fiaccarne la volontà, inducendolo alla trattativa (a perdere), se la guerra è in atto, o a non farla (o a non intervenire) se è in potenza. Questo è ovvio, perché da un lato la guerra è un mezzo per affermare la propria volontà e potenza, onde il miglior nemico è quello poco determinato a combattere; dall’altra la prima regola dell’agire strategico è ridurre il numero (o almeno la potenza) dei nemici, come ben sapevano i romani. Il generale prussiano, tuttavia, in un’epoca in cui la stampa quotidiana muoveva i primi passi non era in grado di prevedere quanto si sarebbe intensificata col progredire dei media.

La guerra russo-ucraina è connotata, ancor più che le precedenti del XX e XXI secolo, da essere una guerra telematica, combattuta sui media, non meno – anzi di più – che sul campo. Ma sempre caratterizzata dallo scopo, ovvero fiaccare la volontà del nemico e indurlo a sottomettersi – e dei mezzi all’uopo spiegati: una massa d’informazioni false, artate, contraddittorie. Che non reggono, o sono del tutto improbabili una volta verificate o valutate.

Ad esempio il ruolo di Putin, elevato – in mancanza di più acconci interpreti – ad incarnazione del male assoluto. È lo stesso statista che fino a pochi mesi fa interloquiva con tutti i grandi della terra, che stringevano accordi e facevano affari con lui. Mostrandosi così, almeno, un po’ ingenui, facenti parte della razza dei Chamberlain, non dei Bismarck. E anche dimentichi che il nemico non è solo quello cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si conclude la pace. Onde è meglio, come nel diritto (romano) e internazionale classico non demonizzarlo, o anche solo criminalizzarlo, perché così si rende ancora più difficile concludere la pace. E la stessa pace diventa così una tregua di briganti.

Altra notizia non falsa, ma costante, è quella sui “danni collaterali”, ossia sui civili morti a causa delle operazioni belliche. É cosa vera, semplicemente perché da millenni a far le spese della guerra sono (anche) gli innocentes (come scrivevano i teologi-giuristi del ‘600). Ancor più nelle guerre moderne dove la straordinaria forza distruttiva delle armi ne ha reso l’uso limitato spesso impossibile, Con la conseguente violazione del principio del diritto “in guerra” di risparmiare gli innocentes, ossia i non combattenti.

Solo che a distinguere tra crimine di guerra e “danni collaterali” è, molto spesso, la natura dell’obiettivo e l’intensità (e potenza) dell’attacco. Ad esempio non risulta che i russi abbiano impiegato l’aviazione per bombardamenti terroristici, tipo quelli di Dresda, Amburgo e Tokio (e di tante altre città dell’Asse) della seconda guerra mondiale. In cui i morti, nella più modesta delle valutazioni furono alcune decine di migliaia (a bombardamento). E dove furono largamente impiegate le bombe al fosforo per causare incendi difficilissimi da spegnere. Cioè proprio ordigni fatti con lo stesso elemento che tanto tiene banco tra le atrocità russe praticate in questa “operazione militare speciale”. Peraltro anche in tal caso qualcuno s’è impancato a docente di chimica bellica, confondendo fenomeni e norme. Le bombe al fosforo sarebbero armi “chimiche” perché… basate su una reazione chimica (produrre la combustione). Ma essendo una reazione chimica altresì l’esplosione causata dalle bombe convenzionali, anche queste, ragionando come certi esperti, sarebbero delle armi chimiche. Sul piano giuridico invece le bombe al fosforo sono classificate armi convenzionali e, per questo, vietate dalla Convenzione di Ginevra del ’98, ma tenute ben distinte dalle armi chimiche vietate da altra convenzione. Per cui reagire all’uso di ordigni al fosforo con un bombardamento di gas nervini sarebbe una rappresaglia sproporzionata.

Soprattutto non si può confondere il nemico con il criminale come fa la propaganda argomentando che l’uno e l’altro uccidono e danneggiano. La Russia – e così l’Ucraina – ha, come qualsiasi Stato lo jus belli, e quindi il diritto di servirsene. Chi la governa non è un animale, un essere non-umano, né un delinquente. Già lo sapevano i romani. Nel Digesto (L, 16, 118) si legge “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”; e traducendo “i nemici sono coloro che a noi, o noi a loro,  abbiamo dichiarato pubblicamente guerra: gli altri sono briganti o pirati”. Caso mai Putin ha, secondo una moda invalsa da quasi un secolo, fatto la guerra chiamandola diversamente (operazione militare speciale). Ma in ciò è stato preceduto da tanti altri – Nato compresa – che ha condotto guerre denominandole “operazioni di polizia internazionale” (ecc. ecc.). L’ipocrisia non è una pratica peculiare a un contendente ma appare estesa a tutta un’epoca che, vagheggiando un pacifismo integrale, ha cominciato a  realizzarlo dal vocabolario. Purtroppo non andando oltre.

Resta da vedere se, diversamente dalle buone intenzioni esternate, una pratica siffatta non faccia crescere d’intensità lo scontro bellico: anzi la creazione del male, del nemico assoluto porta proprio a quello: ad intensificare il sentimento ostile (Clausewitz);e così a popolarizzare la guerra.

Le vie dell’infermo sono lastricate di buone intenzioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE

1. In relazione all’esito delle elezioni presidenziali americane è stata ripetuta la tesi – formulata oltre vent’anni fa da Christopher Lasch – che le élite dirigenti sono vieppiù separate dal popolo; e che queste non riescono a comprenderlo, né a capire le ragioni per cui ciò è avvenuto, né perché il tutto permane. La frattura ormai è consolidata: il giudizio, condiviso da tanti, che Trump ha perso le elezioni ma il trumpismo è quanto mai in buona salute (a differenza di quanto avviene per altri movimenti populisti – come i 5 Stelle) lo corrobora.

La tesi di Lasch (e di altri) è essenzialmente sovrastrutturale, e cioè relativa a differenze nei modi di pensare, negli stili di vita, nei valori di riferimento della classe dirigente e del popolo, più che strutturale, cioè dipendente dai rapporti di produzione o economici in genere. Il che caduca comunque la distinzione marxiana della lotta di classe nell’età capitalista come conflitto economico tra proletariato e borghesia.

Se comunque è condivisibile la tesi della caducazione/neutralizzazione della lotta borghesia/proletariato come distinzione politica prevalente nel “secolo breve”(ora non più)1 occorre vedere se, nell’attuale contrapposizione emersa (e in parte emergente) globalisti/populisti ci sia un conflitto d’interessi economici che se non determina, rafforza ed enfatizza un contrasto cui concorrono vari elementi sovrastrutturali di guisa da trasformarlo – congiuntamente – in discriminante politica prevalente.

2. Scriveva Berlinguer in un noto saggio, di poco successivo al golpe di Pinochet contro il Presidente Allende che “tra proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio»” e che “per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica” (il corsivo è mio); ne deduceva la necessità di una strategia di alleanze (con i ceti medi): “la strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia di alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno”. La politica di alleanze inizia con la ricerca di punti di convergenza tra la classe operaia e le altre forze sociali “di modo da non sospingere in posizione di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione… Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari” (i corsivi sono miei). Concludeva con la proposta del “compromesso storico” e il rifiuto di un’alternativa di sinistra.

3. In quel saggio del segretario del PCI oltre a Marx c’è tanto altro, Gramsci soprattutto, con la sua teoria del blocco storico e dell’egemonia, esercitata attraverso la direzione ideale e il consenso che la classe dirigente riscuote, e non solo nel potere praticato attraverso gli apparati coercitivi statali. Quanto al blocco storico (maggioritario) questo è il sistema di alleanze sociali della classe operaia che guarda, nello specifico della situazione italiana (di allora), ai contadini del Nord e del Sud. Il proletariato, scriveva Gramsci «può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle masse contadine»”. Tale blocco storico (operai del nord – contadini del sud) era speculare a quello dirigente, composto da industriali del nord ed agrari del Mezzogiorno. Per Gramsci il blocco storico è collegato alla concezione del Partito come “moderno Principe” e (ancor di più) alla funzione dell’intellettuale organico, peraltro di difficoltosa applicazione alla situazione italiana contemporanea, caratterizzata da partiti sicuramente più leggeri di quello bolscevico (e anche del Partito comunista di Gramsci); e neppure giovantesi dell’opera di intellettuali organici (semmai di non – o poco – intellettuali e neppure tanto organici). Tuttavia appare abbastanza coeso un “blocco sociale” o almeno socio-politico di orientamento sovran-popul-identitario, largamente maggioritario, che perdura ed ha una continuità a dispetto delle vicende e degli insistenti tentativi – interni ed anche internazionali – di dividerlo, così da ridurne la capacità d’incidenza.

4. Il tutto è evidente da quanto capitato negli ultimi decenni in Italia. Dopo il risultato delle politiche del 2018, i partiti che esprimevano le aspirazioni dei gruppi sociali riconducibili al “blocco” (grillini, leghisti e Fratelli d’Italia)2 hanno avuto un elettorato costante e fidelizzato più che al singolo partito, all’insieme di appartenenza. Se le somme dei tre “attori” principali – ancorché qualche punto in più lo si ottiene sommando le liste minori – era alle politiche 2018 di circa il 55%, alle europee del 2019 del 57,5%, mentre nelle successive elezioni regionali e sondaggi è all’incirca pari alle europee, il totale complessivo è costante, anzi in lieve aumento. Accompagnato, negli ultimi sondaggi, da un trasferimento di gradimento dalla Lega e dal M5S a Fratelli d’Italia, ormai oltre il 16%3. Consegue da questi dati che la base sociale dei partiti “populisti” è fluida al loro interno, ma solida verso l’esterno. D’altra parte a fare la somma dei partiti globalisti, cioè essenzialmente PD + LEU+ FI e minori, la somma non oltrepassa mai un terzo (abbondante) dell’elettorato: anch’essa è relativamente stabile, attestata su un’inferiorità di almeno 20 punti percentuali rispetto agli avversari.

In questa situazione, la mossa di far nascere il Conte-bis staccando il M5S dall’alleanza è, come ho ripetuto, l’applicazione di una delle regole fondamentali della politica: dividere gli avversari. Da sempre praticata, dal divide et impera dei romani al “mai la guerra su due fronti” del Quartiere generale tedesco del secolo scorso4.

Tuttavia, anche in tal caso, la persistenza dello schieramento anti-establishment è continuata, con: a) il progressivo svuotamento del M5S a favore dei partiti affini più coerenti nella contrapposizione all’establishment b) nelle difficoltà del governo, almeno a prendere decisioni incidenti sul crinale discriminatorio (v. MES e “aiuti europei”). Né cambia molto che, attualmente, Lega e Fratelli d’Italia siano alleati di un partito disomogeneo allo schieramento populisti versus globalisti come FI, perché il di esso ridimensionamento costante e progressivo lo rende meno rilevante, nè è facile per Berlusconi, indicato per un ventennio come l’arcidiavolo dalla sinistra (ora sostituito, nel ruolo, da Salvini), raggiungere un accordo con gli storici avversari5.

È interessante, anche in rapporto a situazioni non dissimili di altri paesi occidentali, chiedersi le ragioni di tale persistenza e in che misura rifletta la differenziazione economico-sociale tra i rispettivi elettorati.

5. Mi è capitato più volte di notare come, dopo il crollo del comunismo, il discrimine politico, nel senso della distinzione amico-nemico, era passato da quello marxiano (nel secolo breve) cioè borghesia/proletariato a un altro, non percepito come economico – almeno in gran parte – ma socio-culturale, come anticipato da Lasch. Tuttavia, senza trascurare i voti degli operai bianchi americani, (passati, secondo quanto si legge, da un voto – in maggioranza – ai democratici a quello a Trump – v. risultati negli Stati della Rustbelt) la “crescita” economica italiana, successiva al crollo del comunismo, è stata la peggiore dell’area UE come dell’area euro.

Il ristagno dei redditi, delle aspettative di vita (e molto spesso la loro riduzione), politiche economiche volte a favorire il capitale (finanziario, in primo luogo), il trasferimento di capitali, l’importazione di manodopera a basso costo (le migrazioni), la delocalizzazione, l’aumento (e la distribuzione) degli oneri fiscali ha provocato, in Italia (e non solo, ma soprattutto) una serie di cambiamenti nell’ultimo trentennio i quali, negli aspetti più rilevanti sono: elevato tasso di disoccupazione, incremento della pressione fiscale (e para-fiscale), peggiore distribuzione della stessa, contrazioni delle prestazioni previdenziali e assistenziali, oltre alla consueta scarsa efficienza dell’apparato amministrativo.

In gran parte dovute a scelte che colpiscono soprattutto (o soltanto) i ceti medi e gli strati popolari (ossia a basso reddito)6.

E il tutto evidentemente, non è molto distante da quanto praticato in altri paesi, se la tesi che le élite dirigenti in occidente hanno “tosato” i ceti medi e popolari è stata, in modo non tanto dissimile espresso da molti: dal filosofo spagnolo Dalmacio Negro Pavon, il quale ha affermato come la crisi economica, successiva al 2008 è stata fatta pagare ai ceti medi, al socialista proudhoniano francese Jean Claude Michéa, per il quale (come per molti altri) sono stati i “perdenti della globalizzazione”, ossia quell’80-90% della comunità che non fa parte delle élite né del loro seguito sociale a sostenere il costo.

6. In Italia abbiamo avuto la sfortuna del governo Monti, il cui pregio maggiore è di aver svolto la politica più coerente nell’accollare ai “perdenti della globalizzazione” gli oneri, senza peraltro riuscire ad avviare una ripresa, anzi, peggiorando il deficit (e così facendo da levatrice all’alternativa).

Restano i fatti: l’IMU – con gettito quasi triplicato rispetto all’ICI – colpisce gran parte della popolazione, essendo gli italiani – a leggere le statistiche – all’80% proprietari di casa; le pensioni “d’oro” e “d’argento”, così sono denominate rispettivamente, le pensioni superiori agli € 2.500 e a € 1.300,00 (netti) mensili, sono bloccate o semi-bloccate da ormai 8 anni, a carico quindi dei ceti medi (e non solo); l’aumento del prelievo fiscale che all’epoca del governo “tecnico” raggiunse il livello più alto; la legislazione volta a dilazionare i pagamenti pubblici (questa e il precedente praticati anche da gran parte dei governi della “seconda repubblica”) il c.d. “rigore” che riduceva, oltre alla possibilità di ripresa anche l’occupazione. E si potrebbe continuare con molto altro, praticato da Monti (e, in misura minore, dai governi successivi)7 ispirato dalla medesima filosofia. Il tutto condito dalle consuete litanie o meglio, paretianamente – derivazioni – (ce lo chiede l’Europa…così fan tutti, ecc. ecc.), una delle quali è – in particolare – rivelatrice dell’espediente tattico d’indicare ai contribuenti il nemico cui addebitare il prelievo: l’evasione fiscale. Pertanto attribuita, dai salmodianti (al servizio delle élite) ai lavoratori autonomi. Così il nemico, il rapace predatore non è l’esattore, ma l’idraulico, il ragioniere, il geometra, il medico. Manifesto artifizio volto a dividere l’opposizione sociale e politica e a sterilizzarnene preventivamente la resistenza.

Di fronte a ciò le misure economiche del governo Conte 1 costituivano – anche se nella durata breve di tale esecutivo – un limitato, quanto deciso cambio di direzione. Le modifiche alla legge Fornero e l’aumento della soglia del prelievo forfettario ai lavoratori autonomi hanno dato un sollievo ai ceti medi (e non solo); il reddito di cittadinanza a quelli più disagiati come i disoccupati. Tutti tartassati o trascurati dai governi precedenti, e in qualche misura, rappresentati dalle due componenti del governo; Lega e M5S.

E preconizzava così un nuovo “blocco storico” al governo, fondato sull’alleanza tra classe media e ceti popolari. Data la dimensione di tali gruppi sociali, la maggioranza elettorale era (ed è tuttora) assicurata. Di qui l’esigenza vitale di dividerli e la nascita del Conte 2.

7. Le vicende successive – in cui un ruolo perturbatore è stato svolto dalla pandemia – stanno dimostrando tuttavia che, sia pure riuscito il processo di divisione al vertice, non lo è altrettanto alla base. L’elettorato sta semplicemente trasmigrando dai grillini agli anti-establishment più conseguenti. L’opposizione politica e sociale alle élite non demorde e nemmeno si attenua. I provvedimenti (spesso discriminatori) presi dal governo PD-grillini, a quanto pare, la stanno attizzando.

Il carattere discriminatorio degli – effettuati ed annunciati – “ristori” relativamente protettivi per i lavoratori dipendenti, molto meno per le imprese (termine che ricorre con preoccupante frequenza nelle dichiarazioni al miele dei politici), e quasi nulli per i lavoratori autonomi (che spesso sono piccole imprese) conferma l’espediente di dividere il blocco sociale; ma come detto, almeno finora, al culmine della “seconda ondata” del Covid, pare non riuscito. Anzi è socialmente diffusa una diffidenza e crescente insofferenza, rappresentata dalla stampa mainstream come (addirittura) negazionista (della pandemia, del virus, ecc. ecc.), ma in effetti rivolti contro le insufficienti misure – perché a carattere non generale, più che economicamente insufficienti. Si aggiunge a ciò che, per alcune categorie il ristoro è pieno (o quasi); anzi tenuto conto della pratica dello smart-working la prestazione lavorativa è così ridotta e/o più comoda8; pertanto a parità di retribuzione, il lavoro prestato è minore.

8. È comunque evidente che, a con-causare la contrapposizione, è anche un conflitto economico-sociale9. Conflitto antico, almeno quanto quelli enumerati nell’apertura del “Manifesto” di Marx ed Engels, e spesso considerato in epoca moderna, dai pensatori italiani (e non solo): quello di appropriazione delle risorse tra governanti e governati10.

All’uopo è utile ricordare che studiosi italiani di scienze delle finanze da Pantaleoni in poi distinguono i rapporti economici tra governanti e governati in tre categorie: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i governati sono sottomessi e sfruttati al fine di procurare durevole vantaggio a favore della élite dirigente e delle categorie da questa preferite); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile, in particolare “a breve periodo”), laddove l’appropriazione delle risorse è sregolata e soprattutto depressiva della ricchezza della comunità.

Nella c.d. “seconda repubblica”, le cui forze politiche prevalenti sono quelle ora in costante diminuzione elettorale, l’andamento è stato predatorio più che parassitario. L’aumento fiscale rispetto al PIL è stato tra i più alti in Europa ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%); nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%11. Nello stesso periodo l’aumento del reddito individuale degli italiani è stato mediamente dello0,3% l’anno, ma è crollato dopo il 2008, aiutato nella discesa dalle politiche “rigorose” del governo Monti (e successive).

Dalla persistenza e dalla irreversibilità da ciò derivano due conseguenze: dalla stagnazione/recessione che il reddito degli italiani è stabilmente in calo; all’altra che il prelievo fiscale è, altrettanto stabilmente in aumento.

La somma di tali risultati è che gli italiani – salvo minoranze privilegiate – sono più poveri12. Il rapporto debito/PIL che sarebbe stato il motivo per le politiche rigorose poi è sempre in aumento, ad onta della scienza e tecnica profuse per ridurlo.

Tanto e durevole sconquasso non poteva sfuggire alla maggioranza degli italiani malgrado gli sforzi fatti per nasconderlo o edulcorarlo, sviando così l’attenzione. Piuttosto, di fronte all’argomento decisivo dei governi di centro-sinistra che i lavoratori autonomi evadono di più (paghiamone meno, paghiamole tutti) pare che gli italiani, sospettino che se grandi imprese nate e cresciute in Italia mettono la sede in Olanda, qualche beneficio societario e fiscale lo dovrebbero avere, altrimenti sarebbero amministrate da minus habentes. Ma un beneficio legale a favore di colossi economici a quante evasioni di “partite IVA” corrisponde? A qualche centinaia di migliaia cadauno?13. Non è da escludere che l’elusione fiscale di grandi imprese sia pari a centinaia di migliaia di contribuenti. E che l’aumento delle imposte e l’istituzione di nuove sia dovuta – anche – a ciò.

9. Ciò stante occorre, per concludere, chiarire la “natura” del conflitto, e non solo delle cause – plurime – che l’hanno indotta e alimentata.

Miglio sosteneva che il concetto marxista di classe è di limitata utilità per spiegare il conflitto politico14. Con un giudizio che ricorda Gramsci (oltre Hegel) scrive “La verità è che una classe diventa traente – qui uso il concetto in senso hegeliano – una classe diventa ‘generale’ in un processo storico, quando riesce a trascinare anche le altre”15; e le classi sociali “sono protagonisti ‘occasionali’ della storia. Di fatto, protagonista della storia è invece soltanto la classe politica, con le sue frazioni e il loro continuo alternarsi… le classi economico-sociali contano in quanto diventano seguito di frazioni di classe politica e operano nella storia essenzialmente come seguiti di classe politica”16; ma la classe sociale, non è tanto costituita dall’appartenenza a un gruppo (imprenditori, operai, redditieri, ecc. ecc.) ma dalla rappresentazione da parte dei componenti dell’appartenenza stessa, ossia “l’autoascrizione e la consapevolezza, in cui giuoca l’elemento politico dell’identificazione”. Se si sviluppano queste valutazioni di Miglio a determinare il blocco storico è principalmente e politicamente la condivisione del nemico, interno ed esterno17.

Per l’Italia del XXI secolo, le élite della seconda repubblica hanno, con le loro politiche, alimentato l’ostilità (a loro) di vasti strati sociali – largamente maggioritari – come sopra (brevemente) ricordato. Con l’emergenza Covid il tutto è peggiorato: basti notare che, se altre categorie sono state appena toccate (gli impiegati pubblici); altre relativamente protette (i dipendenti privati); altre ancora risarcite al minimo come i lavoratori autonomi18, infine taluni – qualche trascurabile milione di cittadini – non ha ricevuto né riceverà nulla (neanche le mascherine gratuite). É significativo notare poi che per le categorie più trascurate, si provveda non a cali d’imposte, ma a rinvii per pagare le medesime. Come a dire che comunque i gruppi sociali alimentati dall’apparato pubblico (tax-consommers) e che non sono solo i dipendenti, ma, soprattutto, i beneficiati dalle spese, devono essere salvaguardati al meglio (ossia, in realtà, alla meno peggio); gli altri assai meno, e, talvolta, niente.

In questa situazione di crisi nella crisi e (in parte conseguente alla stessa) di contrapposizione occorre concludere se si tratti di un conflitto concausale (politico – economico – culturale) o di altro in che misura sia componibile (istituzionalizzabile).

Quanto al primo quesito, il conflitto populisti/globalisti è concausale – cioè a cause plurime. Resta comunque evidente che è politico, coinvolgendo essenzialmente e complessivamente situazioni di tale natura (e intensità). Ad esempio: la stagnazione e poi la contrazione del PIL e del reddito individuale negli ultimi trent’anni in Italia è un fatto non soltanto economico, perché se, come sosteneva Miglio, l’oggetto dell’obbligazione politica e la garanzia del futuro19, a lungo andare di futuro per la comunità e gli individui non ce ne sarà o sarà un futuro di miseria ed asservimento.

Analogamente può dirsi per il calo demografico mutatis mutandis; in prospettiva si vede la fine dell’esistenza comunitaria. Se la politica è soprattutto un’attività di garanzia dell’esistenza e lo scambio politico, come scriveva Hobbes è tra protezione (dei governanti) e obbedienza (dei governati) l’affare è a perdere. Così per i modi di esistenza e gli stili di vita, che coinvolgono la cultura, già attentamente evidenziato non solo da Lasch, ma anche da qualche film italiano (negli aspetti di costume).

Il fatto che la distinzione amico-nemico sia originata da una pluralità di cause concorrenti, non la depotenzia, ma semmai la rafforza. Se il nemico è non solo colui che mi opprime e/o mi minaccia, ma anche mi sfrutta economicamente, sottraendo risorse, e pretende di farlo perché ha la laurea e sa come ci si comporta in società, il senso di alterità e di contrapposizione è potenziato20.

D’altra parte la politicità e la robustezza della contrapposizione nell’aver cementato gruppi sociali differenti è data dalla di essa solidità, a scapito (e a differenza) dei movimenti politici che la rappresentano e la organizzano. La sorte del movimento 5 stelle è emblematica: ha perso circa metà dei propri voti, quasi tutti a favore della LEGA, con il governo Conte 1, perché Salvini si è dimostrato assai più determinato, energico e coerente nel combattere il nemico e perseguire obiettivi condivisi; col governo Conte 2, originato da un ribaltone con il principale partito globalista, ne ha perso almeno un altro terzo abbondante (v. risultati elezioni regionali e locali). Già si legge che il M5S sarà non la nuova DC (come taluno credeva 2-3 anni orsono) ma il prossimo Partito radicale (soprattutto per le dimensioni).

In qualche misura questa indifferenza tra comportamento della base sociale rispetto alla (propria) rappresentanza politica da alla prima una coerenza e persistenza che ne fa un soggetto (movimento sociale) autonomo il quale (diversamente dal blocco storico di Gramsci) prescinde dalla (propria) istituzionalizzazione (in strutture sia politiche-partitiche che statali).

Probabilmente questa solidità della base sociale è stata prodotta più dalla comunanza dell’avversario che dal resto; d’altra parte l’effetto unificante del nemico su un gruppo sociale è cosa risaputa da Eschilo in poi. Per questo appare di efficacia assai modesta e non risolutiva il modello di reazione praticato dagli avversari, connotato dal personalismo e dalla divagazione (varia, morale come estetica, etico-legalitaria come di costume ecc. ecc.); anche se la manovra può riuscire con Salvini (come con altri da Berlusconi a Trump), non risolve il problema, essenzialmente politico. In sostanza perché morto un populista, il movimento sociale ne genera un altro. E l’opposizione continua.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Su cui, per esposizione più dettagliata mi sia consentito rinviare ai miei scritti… Identitari e globalisti (Italia e il mondo); Sentimento ostile, Zentragebiet y criterio de lo politico, in Ciudad de los Césares n. 110 (2017), entrambi in rete.

2 Quest’ultimo, geneticamente non di matrice populista, appare però sicuramente contrapposto alle élite in declino – v. seguito.

3 I sondaggi – tutti – lasciano spesso perplessi, specie negli ultimi decenni, per la costante tendenza a sottovalutare i partiti poco graditi alle élite e sopravvalutare quelli ortodossi (non solo in Italia). Dato il cambio di maggioranza col governo Conte bis, i grillini sono stati trasferiti: da nemici a quasi amici. L’attribuzione a loro negli ultimi sondaggi del 15% dei suffragi, quando alle elezioni regionali del 2019-2020 hanno riportato, a seconda delle Regioni, da un terzo alla metà dei voti conseguiti alle europee 2019, appare quanto mai dubbio, atteso che basandosi su detti risultati il Movimento dovrebbe oscillare tra il 6% e il 10%.

4 Che infatti, non osservandola, la Germania perse le due guerre mondiali.

5 Il che, come tutte le cose in politica, dati gli esempi storici di rovesciamento di alleanze, è poco probabile, ma non da escludere del tutto.

6 Un efficace sintesi di ciò si può leggere nel libro di L. Barra Caracciolo Lo strano caso Italia, Roma 2020, Ed. Eclettica, pp. 109/143. In particolare la riduzione della progressività dell’IRPEF ha fatto sì che “in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007) in proporzione al reddito basso mostrato…, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta” anche se con deduzioni e detrazioni che “serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al di sotto della soglia della povertà assoluta”. E aggiungiamo noi, serve anche all’ “illusione finanziaria”

7 Come l’ultimo aumento IVA al 22%, deciso dal governo Letta, nell’ottobre 2013.

8 Più volte il prof. Cassese ha – giustamente – chiamato vacanza (o pausa) tale pratica nelle P.P.A.A.; l’argomento a sostegno, semplice e ineccepibile, è la proroga, decisa – e ripetuta – dal governo, dei termini dei procedimenti amministrativi.

9 Senza scomodare la lotta di classe e la celeberrima apertura del “Manifesto del partito comunista”, che la storia è la storia delle lotte di classe (nella sua perentorietà e universalità non condivisibile) è utile ricordare che Marx ed Engels poche righe dopo affermavano “Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti” e subito dopo “Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche”.

10 È inutile ricordare tanti che se ne sono occupati (economisti, sociologi, politologi). Onde ci si limita ai più noti oltre al classico di A. Puviani L’illusione finanziaria, ai (diffusi e ricorrenti) passi di V. Pareto, G. Fortunato, ricordiamo M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica. Da ultimo è da ricordare G. Miglio Lezioni di politica 2, Scienza della politica (a cura di A. Valle) Bologna 2011 – che tante e interessanti pagine vi ha dedicato.

11 Fonte Sole 24 Ore.

12 La confluenza delle due serie (meno reddito + pressione fiscale) è, probabilmente, unica in Europa). Ad andare a vedere le statistiche di altri Stati europei, quanto all’incremento del PIL abbiamo: Svezia 41,7%, Francia 20,7%, Germania 28,7%, Spagna 23,9%, Grecia 13,5%, Portogallo 19,1%, Italia 1,9% (fonte Termometro politico).

13 È noto che FCA e Mediaset hanno portato le loro sedi ad Amsterdam (FCA quella fiscale a Londra). Ovviamente anche tante medie imprese sono scappate dal fisco italiano. Si dubita che l’abbiano fatto per il profumo dei tulipani. E ancor più, che rispetto alla situazione di venti-trent’anni orsono, le imposte così eluse siano state poste a carico di coloro che sono rimasti a produrre (e soprattutto pagare) in Italia.

14 Il giudizio è esposto in Lezioni di politica 2, Scienza della politica, Bologna 2011, pp. 392 ss., le ragioni addotte da Miglio sono varie.

15 Op. cit., p. 396

16 op. cit., p. 399

17 Ovviamente “nemico” e ”inimicizia” vanno intesi non nel senso comune, di colui cui si muove guerra, ma come li impiega Schmitt; ossia come colui contro il quale si conduce la lotta, la quale può essere incruenta, ed all’interno come all’esterno della sintesi politica. “Nemico – scrive Schmitt – è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere” (Der begriff des Politishen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pp. 111), anche in politica interna “All’interno dello Stato in quanto unità politica organizzata, che, come tutto, avoca a sé la decisione sull’amico-nemico, esistono, sempre però accanto alle decisioni politiche primarie e in difesa della decisione scelta, molti concetti secondari di ‘politico’” ed anche qui “continua ad essere essenziale per il concetto di ‘politico’ un contrasto o antagonismo all’interno dello Stato, anche se esso risulta relativizzato dall’esistenza dell’unità politica dello Stato stesso che è comprensivo di tutti gli altri contrasti” (op. cit., pp. 112-113); la guerra stessa non è l’unica conseguenza dell’ostilità ma “la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico” (op. cit., p. 117 – nota); inoltre “guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (op. loc. cit.).

18 É interessante quanto si legge che in Germania la cattivissima Merkel avrebbe previsto “ristori” pari al 70% del calo del fatturato. In confronto gli indennizzi “a scacchiera” (e minimi) del governo Conte bis sono misera cosa.

19 V. op. cit., p. 156.

20 In alcune canzoni rivoluzionarie francesi si prendevano in giro gli aristocratici per il bon ton, così come oggigiorno lo si fa per i populisti che sbagliano i congiuntivi e non usano le cravatte.

crisi di governo. Impressioni a caldo, di Fabio Falchi-politiche da salumiere, di Augusto Sinagra

Impressione a caldo sui discorsi di Conte, Salvini, ecc.
Prevedibili le dimissioni di Conte e la “tiepida” apertura di Salvini al M5S. Nemmeno da prendere in considerazione le fesserie dei piddini, forzisti, ecc., che peraltro hanno confermato l’infimo livello intellettuale e culturale della stragrande maggioranza dei parlamentari. In pratica, solo Salvini, sia pure in modo confuso e abborracciato, ha trattato le questioni di fondo: manovra economica, rapporti con la UE, immigrazione, riforma della giustizia ecc. Gli altri, incluso Conte, hanno preferito parlare soprattutto di Salvini o del governo giallo-verde, per difenderlo o per attaccarlo.
Comunque, si è capito che tra il M5S e il PD vi sono già “forti contatti” e quindi è probabile che i giochi siano già fatti – o, se si preferisce, il “pasticciaccio ormai è fatto” – e che ora la questione non sia quella di un governo giallo-rosa ma riguardi “chi” ne dovrebbe fare parte e quale programma dovrebbe svolgere.
Tuttavia, benché ora l’iniziativa strategica sia nelle mani del PD e del M5S (ovvero il Paese dipenda dalle loro mosse), si è avuta pure la conferma che ben difficilmente un governo giallo-rosa potrà durare. Ed è proprio su questo che si dovrebbe puntare se, come è assai probabile, si formerà un governo sostenuto dal M5S e dal PD, benché vi sia anche il pericolo che nei prossimi mesi la Lega regredisca verso posizioni demagogiche e di tipo “berlusconiano”, soggiacendo al richiamo della foresta “nordista e neoliberista”. La Lega adesso dovrebbe invece, basandosi sul forte consenso popolare di cui attualmente gode, dotarsi degli strumenti politico-culturali necessari per difendere il ruolo “strategico” del Politico (e quindi dello Stato che del Politico è, per così dire, il “braccio armato”) nella economia e non solo nell’economia.
Solo vincendo questa sfida – che, sotto il profilo economico, implica che il mercato sia non certo abolito ma messo al servizio dell’interesse dell’intera collettività (in pratica, sarebbe necessaria, sia pure mutatis mutandis, una sorta di New Deal) – sarà possibile combattere efficacemente i nemici , interni ed esterni , del nostro Paese.

POLITICA DI GOVERNO O GESTIONE DI UNA SALUMERIA?, di Augusto Sinagra
Giuseppe Conte fortunoso Presidente del Consiglio dei Ministri per autorevole indicazione fatta dall’ex dj di Mazara del Vallo (il noto Alfonso Bonafede) ha concluso il suo discorso al Senato, e senza attendere il voto conclusivo e dunque offendendo la maestà della volontà popolare, è corso come una lepre pugliese dal figlio di Bernardo Mattarella per rassegnare le dimissioni.
Che il giovane pugliese ritorni nell’anonimato è cosa positiva.
Qualche riflessione comunque si impone.
E’ evidente che le questioni sollevate dal Ministro Matteo Salvini sono questioni molto serie che hanno condotto al risultato positivo di costringere Conte e i suoi amici 5S ed altri a togliersi la maschera.
A parte i disonesti e i traditori di professione, era già da tempo noto a tutti che il governo agiva contro gli interessi nazionali in piena sintonia con le “dritte” del figlio di Bernardo Mattarella. Mi riferisco ai Ministri voluti dai 5S e dal figlio di Bernardo. L’unico che ha difeso gli interessi nazionali è stato ed è il Ministro Matteo Salvini reo per questo di colpe imperdonabili e dunque la canea dei traditori al governo e fuori dal governo si è concentrata contro di lui.
Il problema dunque non è la cura degli interessi nazionali ma la guerra a Salvini e il brivido che provocano agli altri Partiti le previsioni di voto per la Lega tra il 34 e il 38% dell’elettorato.
Tutto sarà fatto perché non si vada a votare fino a che non sarà possibile ai traditori eleggere un altro figlio di Bernardo Mattarella (non in senso parentale anche se c’è sempre Nino Mattarella, fratello di Sergio e anche lui figlio di Bernardo, con un c.v. di tutto rispetto).
Questo spiega gli insulti da basso fondo rivolti dal parvenu pugliese a Matteo Salvini. Si sa, quando non si hanno argomenti e la paura provoca contrazioni sfinteriche, si ricorre all’insulto e al falso.
Ma quello che è stato più ignobile nel discorso di Conte Avv. Giuseppe è stato quando ha rivendicato il merito della elezioni alla presidenza della Commissione UE della nota Ursula nel senso che in questo modo si sarebbero evitate la “procedura di infrazione”. Quale procedura e quale infrazione non si sa.
Dunque, l’azione del governo calibrata non per la cura degli interessi nazionali ma per evitare un esborso (comunque inesistente).
Questa non è l’azione di un governo ma un calcolo da salumiere, e anche da salumiere incompetente.
Il figlio di Bernardo Mattarella continui a disattendere la volontà popolare che richiede il voto subito, dia l’incarico per la formazione di una oscena maggioranza PD, 5S, più Europa, LEU, Soros, Goldman Sachs, JP Morgan, ecc., ma tenga presente che si andrà a votare prima del suo rinnovo. Saranno mesi di lacrime e sangue cui gli italiani sono ben abituati da troppo tempo, saranno giorni di invasioni africane di dimensioni inimmaginabili, ma poi arriverà il giorno del giudizio e chi deve pagare pagherà.
L’Italia sarà sempre capace di sopravvivere a sé stessa e ai suoi governi traditori.

QUELLO CHE CONTA, di Fabio Falchi

Dopo avere rimosso alcuni miei contatti che, al posto del cervello evidentemente devono avere un sasso o un disco incantato, ripeto, a scanso di equivoci, che adesso concentrarsi sulla persona del “Capitano” (che certo non è né Epaminonda né Federico II Hohenstaufen), per esaltarlo o denigrarlo , è di scarso interesse e rischia di occultare la questione essenziale..
Quel che adesso conta è sapere se ci sarà o no un governo (tecnico?) giallo-rosa e, se ci sarà, che cosa farà e quanto potrà durare.
Nel caso (più che probabile) ci fosse un governo giallo-rosa, la questione del “Capitano” in pratica conterebbe solo in funzione della strategia che l’opposizione, ossia fondamentalmente la Lega, adotterà per contrastare il governo giallo-rosa, cioè se continuerà con la navigazione a vista, confidando soprattutto nella capacità del “Capitano” di comunicare direttamente con il “popolo” sui social e nelle piazze, o se si strutturerà per trasformare il consenso in effettiva “potenza politica” ed essere in grado di combattere con successo la guerra ibrida che diversi centri di potere, nazionali e non, stanno conducendo contro il nostro Paese.
Pensare però, come affermano alcuni (tra cui qualche mio contatto che pare avere perso la bussola), che sarebbe ora di passare alle” maniere forti” scatenando la piazza contro un governo giallo-rosa, sarebbe suicida, perché l’uso della forza, per non ritorcersi contro chi la usa, presuppone il controllo “effettivo” (perlomeno) di parti consistenti e significative degli apparati di coercizione dello Stato (forze dell’ordine, forze armate e servizi segreti).
Come sempre, del resto, una guerra, ibrida o no, richiede solida preparazione tecnica e materiale, motivazione morale (e quindi il forte e radicato sentimento ostile di cui parla von Clausewitz in Della Guerra) e soprattutto una intelligente e decisa azione di comando.
Inutile dire che, rebus sic stantibus, la guerra ibrida che si sta conducendo contro l’Italia piuttosto che contro la Lega – o, se si preferisce, contro la Lega per colpire l’Italia – è una guerra che il nostro Paese ben difficilmente può vincere.

POTERE DESTITUENTE, COSTITUZIONE MATERIALE E DISCRIMINANTE POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

11

Quando l’Abate Sieyès teorizzava il potere costituente della Nazione, al fine di legittimare la (nuova) costituzione della Francia, non dedicava altrettanta cura a considerare lo stesso potere in negativo: ossia nel cambiare la costituzione vigente. Il tutto, s’intende, era implicito nella sua concezione, e talvolta anche esplicitato[1], anche se meno diffusamente. Le opposizioni che ne derivavano tra diritto positivo vigente e potere costituente, tra diritto e fatto erano (anche) conseguenza della natura di un potere non fondato sulla legge positiva, ma – secondo Sieyès – sul diritto naturale[2].

Comunque la rivoluzione francese si articolava, sotto l’aspetto in esame, in due fasi: nella prima fu abolita la costituzione vigente; nella seconda ne furono fatte delle nuove, succedutesi assai rapidamente, fino alla “stabilizzazione” napoleonica. La prima fase, sosteneva de Bonald, era già consumata con la trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale (e poi costituente) e la decisione di votare per testa e non per ordine[3]. Nel 1791 entrava in vigore la nuova costituzione; seguivano le altre.

  1. Secondo una concezione che (nella modernità) viene fatta risalire a Lassalle, ma la cui denominazione è, in Italia, dovuta a Mortati, occorre distinguere tra costituzione formale e materiale. Se alla prima “si affida una funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale[4] per cui “appare priva di fondamento la censura di dualismo rivolta contro l’attribuzione di rilievo giuridico alla costituzione materiale, perché viceversa è la concezione dell’ordine sociale come sintesi di essere-dovere la sola valevole a ricondurre ad unità il complesso delle sua manifestazioni di vita[5]. La costituzione materiale ha, sostiene Mortati, una intrinseca giuridicità “la quale si esprime e si fa valere come «fatto normativo» o, in altri termini, come realtà comunitaria ordinata, all’infuori di modelli normativi precostituiti, in modo da realizzare un sistema di rapporti gerarchicizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”[6]. Il giurista calabrese, replicando ad una contestazione sull’ “incompetenza del giurista” su questioni ritenute non strettamente giuridiche, scriveva “essa è implicitamente superata da quanto si è detto sull’incompletezza della comprensione del fenomeno giuridico quando sia avulso dalla considerazione della base sociale su cui è radicato. Sicché è sul modo di intendere questa base sociale e sul suo rapporto con la soprastruttura che ad essa si ricollega che deve essere rivolta l’attenzione”[7] . E l’impulso che la società sottostante da allo Stato “non è riferibile alla prevalenza di nuclei portatori di determinati interessi, essendo invece la risultante di tutte le innumerevoli forze, individuali o collettive, che in essa si manifestano e quindi di un processo circolare in cui la minoranza interviene o con l’obbedienza o con la resistenza”[8]. In particolare ai partiti politici Mortati attribuisce un ruolo importante quale elemento di unione (ed organizzazione) tra Stato e società che attenua la separazione tra l’uno e l’altra; in particolare nello Stato democratico a suffragio universale. Col nome di partito Mortati intende “solo quelle associazioni che, assumendo come propria una concezione generale, comprensiva della vita dello Stato in tutti i suoi aspetti, tendono a tradurla nell’azione concreta statale”. Quindi tra le componenti della costituzione materiale i partiti – e il sistema dei partiti – hanno un rilievo decisivo.
  2. A tale proposito, i “sistemi di partito” sono stati, com’è noto oggetto di vari studi di scienza politica[9]. La definizione del sistema di partito “tradizionale e più diffusa sottolinea … le caratteristiche di competizione tra più unità e delle forme e delle modalità di questa competizione. «La tematica di pertinenza del sistema di partito è data dai modelli di interazione fra organizzazioni elettorali significative e genuine nei governi rappresentantivi – governi nei quali tali sistemi adempiono preminentemente (bene o male) le funzioni di fornire la base a una efficace autorità e di definire le scelte che possono essere decise dai procedimenti elettorali»”[10]. Sempre nella citata voce del Dizionario di Politica si legge “alla metà degli anni Sessanta apparvero due importanti tipologie, una di impostazione sociologica, l’altra di impostazione politologica. La prima sembra essere maggiormente in grado di spiegare l’origine storica del sistema di partito (Lipset, Rokkan, 1967); l’altra sembra più adatta alla spiegazione della «meccanica» del sistema di partito. La tesi di Lipset e Rokkan, scrive Pasquino, si fonda sulle fratture fondamentali della società “Gli autori individuano quattro tipi di fratture o cleavages sulle quali si sono innestati i conflitti che hanno scosso i sistemi politici occidentali, ma la cui «traduzione» in partiti politici fu tutt’altro che automatica”. L’ultima frattura è quella del “secolo breve” tra proprietari di mezzi di produzione e prestatori di opera (borghesi/proletari)

Tale tesi ha diversi punti di contatto con quella esposta da Carl Schmitt nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni[11].

Secondo Schmitt “L’umanità europea ha compiuto, dal XVI secolo, parecchi passi da un centro di riferimento all’altro e tutto ciò che costituisce il contenuto del nostro sviluppo culturale si trova sotto l’influsso di quei passi. Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell’élite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi”. Ciò determina il raggruppamento prevalente di amico/nemico dell’epoca: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico/nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico”.

Di conseguenza a seconda delle epoche la scriminante prevalente passa da quella cattolici/protestanti, per arrivare nel secolo breve a borghese/proletario. Il tutto non solo nel campo internazionale, ma anche all’interno delle sintesi, ma anche all’interno delle sintesi politiche determinano la suddivisione in fazioni (sette, partiti) e così la competizione interna.

Le differenze essenziali tra la concezione di Schmitt e le conseguenze che ha sulla suddivisione in partiti e sull’ordinamento statale, e quelle più diffuse sono che la prima è qualitativa, mentre le altre hanno connotati quantitativi – relazionali (sistemi a partito unico; multipartitici; con partito dominante e partiti polarizzati, alternativi e così via), e carattere descrittivo a prescindere dal riferimento a contenuti determinati; che le seconde non si fondano sul criterio dell’inimicizia (o di converso sull’omogeneità), mentre la prima sì; che è pertanto indifferente se in un sistema di partiti le contrapposizioni si distribuiscono in base a diverse scriminanti (di classe, etniche, religiose e così via) e come (e se) avvengono le combinazioni tra discrimini diversi e influiscono sul sistema dei partiti  (e politico) complessivo.

Se è (relativamente) logico che, in un sistema ordinato secondo la scriminante borghese/proletario le alleanze tra partiti tendano ad un sistema alternativo, onde i partiti “borghesi” e quelli proletari danno vita ad alleanze politicamente omogenee e in competizione (tutti i borghesi a destra, tutti i proletari a sinistra), non è chiaro come le coalizioni possano formarsi ove le scriminanti siano plurime (di classe, etniche e così via). Il caso dell’Inghilterra a fine ottocento, in cui la minoranza dei nazionalisti irlandesi di Parnell era in grado di decidere il governo inglese, onde provocò la scissione del partito liberale e la nascita della coalizione tra conservatori ed unionisti, ne è un esempio (tra tanti).

Il tutto si è ripetuto, da ultimo, nei trascorsi anni in Italia, in particolare dopo le elezioni di marzo 2018, con la nascita della coalizione tra Lega e M5S, affini per la nuova scriminante, anche se non per quella passata (borghese/proletario, o – meno propriamente – destra/sinistra). Con i partiti legati alla vecchia che rilevano ad ogni piè sospinto la eterogeneità e pertanto l’impossibilità a governare della coalizione gialloblu. Le recenti elezioni europee hanno poi aumentato, anche se di poco, la (notevolissima) maggioranza elettorale populista (Lega+M5S+FdI+liste minori) rispetto ai partiti legati alla precedente (FI+PD e “estrema” sinistra). Ma a ragionare in termini di amico/nemico i partiti governativi sono più “omogenei” tra loro perché hanno lo stesso nemico e lo stesso interesse: che il potere di quello sia limitato (ed il proprio accresciuto).

  1. Scriveva Mortati che “la società in cui emerge ed a cui si collega ogni particolare formazione statale possiede una sua intrinseca normatività, quale le è appunto data dal suo ordinarsi intorno a forze ed a fini politici”.

La costituzione formale assume – sostiene il giurista calabrese – funzioni strumentali alla soddisfazione degli interessi di un particolare tipo di convivenza sociale; per far ciò “è necessario che la società ad essa sottostante si presenti non già come entità del tutto amorfa … bensì già in sé strutturata sulla base di certi fondamentali orientamenti, sufficienti ad ispirare il sistema dei rapporti economici, religiosi, culturali, ecc. che in essi svolgono. In altri termini, l’organizzazione sociale, per porsi a base della costituzione, deve presentarsi in qualche modo già politicamente ordinata, secondo la distribuzione delle forze in essa operanti e le posizioni di sopra e di sotto-ordinazione che queste determinano[12]”. I gruppi preminenti possono diversamente denominarsi, “benchè l’espressione «classe governante» appaia quella più adeguata a raffigurare il fenomeno che si vuol mettere in rilievo il potere reale su cui poggia quello legale[13]. Peraltro dalle classi dirigenti occorre distinguere “i detentori del potere di esercizio dell’attività attraverso cui si estrinseca la volontà dello Stato” (i quali compongono la “classe politica” (e spesso in quelle sono reclutati). Questi sono “strumento tecnico della classe dirigente, in quanto sotto l’influenza della medesima, concretano, di volta in volta, e per la migliore realizzazione dei fini suoi propri, gli orientamenti dell’azione statale”.

Se la positività (cioè l’effettività) è contrassegno de “l’ordine giuridico primario, questo non può non farsi derivare da un assetto di forze capace di esprimere e far valere un orientamento generale che unifichi la complessiva attività statale, e la mantenga almeno relativamente costante così da indurre la fondata presunzione della sua realizzazione”[14].

Dato che tra assetto delle forze socio-politiche preminenti e costituzione formale (cioè “normativa”) può non esserci corrispondenza totale “la costituzione formale è destinata ad acquistare il massimo grado di vincolo quanto più il suo contenuto corrisponde alla realtà sociale e quanto più quest’ultima si presenta stabilizzata in un sistema armonico di rapporti sociali, proprio nei casi in cui l’importanza pratica che le si può riconoscere viene ad attenuarsi, essendo il limite posto dalla medesima all’esercizio del potere radicato nella stessa configurazione della società”[15]. Ma quando lo iato aumenta per il “prorompere di nuove forze che si oppongono a quelle prima detentrici esclusive del potere senza tuttavia riuscire a superarle, si affida alla costituzione scritta una funzione di garanzia delle posizioni di compromesso raggiunto”[16].

Anche a giudizio di Vincenzo Zangara “nella dottrina della costituzione materiale, il sistema legale viene ad assumere una funzione garantista delle forze politiche dominanti: cioè la costituzione materiale sarebbe garantita e diverrebbe operativa attraverso le forze politiche dominanti, mediante la funzione garantista del sistema legale”[17]. Collegandola alla teoria dell’istituzione “l’istituzione può essere valutata come fatto che si realizza positivamente, come ordine costituito e come ordine costituente, cioè come costituzione in un senso effettivo, come costituzione materiale, che condiziona nel suo svolgersi la vita della comunità che ha trovato in essa la sua struttura e la condizione del suo svolgimento… La costituzione, cioè, è contemporanea al sorgere dello stato; o, meglio, al sorgere di una nuova struttura istituzionale che configuri un nuovo regime”[18]. Le forze sociali che determinano la costituzione materiale non sono solo i partiti politici, sindacati e gruppi di persone ma anche “elementi individuali che, con le loro convenzioni private, costituiscono le basi e l’efficienza di una giuridicità dei loro comportamenti, nonché tutti gli organi costituzionali (in cui annoveriamo anche gli organi del potere giurisdizionale) e quegli elementi organizzati che producono diritto e sono comunità particolari, cioè ordinamenti giuridici, nell’ambito dell’ordinamento dello Stato”[19]. La “legittimità dinamica” (cioè nel tempo e non solo nel momento fondativo) è data dalla classe politica la quale “esprime la potenzialità egemone delle forze sociali che la compongono con quella omogeneità ideologica che è propria della sua formazione nel momento dell’instaurazione di un ordinamento e, successivamente, nella dinamica dello svolgimento di esso, che è la concretezza della sua effettività istituzionale”[20].

5.Se la dottrina della costituzione materiale corrisponde alla realtà socio-politica – e in gran parte non è dubbio – e se soprattutto ha evidenziato un aspetto che essendo determinante dell’ordinamento è anche decisivo, occorre vedere se il “cambiamento” avvenuto in Italia nel marzo 2018 e confermato dalle elezioni europee del 2019 abbia ripercussioni sulla costituzione materiale e formale nonché sull’armamentario concettuale con cui si classificano, distinguono, definiscono le istituzioni (ed i gruppi) politici.

Non è dubbio che la costituzione della Repubblica si reggeva sulla divisione di Yalta, sulla coppia borghese/proletario come contenuto del criterio dell’amico/nemico, e il tutto aveva conseguenze nella politica internazionale ed interna. La stessa Costituzione formale aveva la funzione – e il merito – di decantare la contrapposizione comunismo/capitalismo (borghese/proletario), per cui i referenti interni di quella potevano trovare un modus vivendi che relativizzava il conflitto, attraverso le garanzie del pluralismo politico (e sociale) e della distribuzione – soprattutto territoriale – del potere. L’esarchia dei partiti del CLN era il principale supporto, il segmento decisivo della costituzione materiale, che sorreggeva quella formale. Questo schema di coerenza generale era gravemente incrinato nel 1989-1991, dal crollo del comunismo e dalla (conseguente) crisi della c.d. “prima repubblica”. Buona parte dei partiti ciellenisti erano (di fatto) per lo più spariti (v. i partiti laici e il partito socialista) mentre i democristiani, radicalmente ridimensionati, erano distribuiti tra le due coalizioni, su cui si articolava il nuovo sistema dei partiti: il centrodestra e il centrosinistra. Tuttavia permanevano, anche se già mutati di significato, due elementi: la distinzione destra/sinistra pur se modificata nel senso e nell’(ulteriore) relativizzazione e la costituzione formale. Anche se, quest’ultima era ritenuta ormai – da parte delle forze politiche, soprattutto quelle del versante destro – sorpassata, almeno come forma di governo.

Le critiche sfociavano in riforma del titolo V° della Costituzione e in ripetuti tentativi di revisione più ampi, mai andati a buon fine (anzi l’ultimo, quello di Renzi, ha provocato il tramonto del leader che l’aveva sostenuto).

Per questo la seconda repubblica, che aveva mutato un elemento importante della costituzione reale – cioè la legge elettorale – ma manteneva sia (parte) del sistema dei partiti, sia il contenuto del “politico” sia gran parte della normazione costituzionale, più che “seconda” era la repubblica “uno e mezzo”.

Con l’ascesa dei partiti sovran-popul-identitari lo iato è aumentato ancora: in particolare ormai l’elettorato italiano vota, in percentuale di quasi due terzi, partiti che con la vecchia esarchia e il vecchio contenuto del politico hanno poco o punto a che fare. Secondo la concezione di Lassalle, Mortati e Zangara la costituzione materiale sarebbe quindi cambiata. A sorreggere (fino a quando?) la costituzione formale sono infatti forze politiche quasi del tutto mutate.

Tuttavia a differenza di quanto capitato nella seconda repubblica queste non sembrano particolarmente interessate a rivedere la costituzione formale[21].

In effetti le riforme costituzionali sono rimaste fuori dall’azione di governo (e dal dibattito politico) tutta orientata ad agire sul “sociale” (redditi di cittadinanza, quota 100 e così via).

Lo stesso contratto di governo vi dedica scarsissima attenzione (ed ancora meno enfasi). In sostanza abbiamo una coalizione di partiti – cioè un decisivo “pezzo di costituzione”, avrebbe scritto Lassalle – che si cura poco o punto della costituzione formale.

Sosteneva Lassalle che determinanti l’ordinamento normativo (e non solo) sono gli effettivi rapporti di potere[22].

Tali rapporti di potere non sono limitati per “materia” o “settore” ma distribuiti; rientrandovi sia quelli strettamente politici che quelli economici, sia organizzazioni di settore che ceti e apparati burocratici. La costituzione formale è la mera conseguenza di quelli “Abbiamo ora visto quindi, miei Signori, cos’è la costituzione di un paese, cioè: i rapporti di forza effettivamente sussistenti in un paese. Come ci si pone allora, però, non ciò che si chiama abitualmente costituzione, con la costituzione giuridica?… Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora diritto, istituzioni giuridiche, e chi oppone resistenza viene punito!”[23].

In realtà nell’attuale situazione italiana risulta qualcosa di assai differente: la sostituzione completa del personale di governo e la riduzione elettorale a meno di un terzo delle forze politiche della c.d. “seconda repubblica” non ha provocato alcun “terremoto” nella costituzione formale, e neppure un tentativo di “buttare su un foglio di carta” una normativa coerente alla nuova costituzione materiale.

Le spiegazioni di tale inerzia possono essere due.

La prima, più semplice: non è detto che il nuovo assetto di potere creatosi sia in contrasto con la costituzione formale. Se è impossibile che alla trasformazione di una monarchia assoluta in “Stato rappresentativo” (come successo in gran parte d’Europa nel secolo XIX) non corrispondesse una nuova costituzione formale; e del pari che ciò non succedesse col mutare uno Stato borghese di diritto in repubblica comunista o in Stato nazista, tuttavia non è detto che un radicale cambiamento della classe politica (e del “sistema dei partiti”) comporti altrettanto radicali trasformazioni della costituzione formale[24].

La sostituzione dei laburisti ai liberali nella Gran Bretagna tra le due guerre mondiali, o dei popolari all’UCD nella Spagna post-franchista ne costituiscono esempi[25]. Questo pare dovuto al fatto che la nuova classe politica non ha una “tavola di valori” e ancor meno principi di forma di stato e di governo differenti da quella detronizzata. Si parla, in altri casi, come oggi per l’Ungheria e la Polonia di “democrazie illiberali”, ma, a parte la componente retorica di tale definizione, sempre di democrazie si tratta, con elezioni popolari aperte, distinzione dei poteri e possibilità di alternanza tra forze politiche contrapposte. Ossia gli elementi essenziali delle costituzioni nuove in quei paesi promulgate nel 1997 e nel 2012 sono gli stessi delle “costituzioni” della “transizione” tra regimi comunisti e ordinamenti democratici. Molto simili a questi come radicalmente diversi da quelli.

Il che significa che a seguire l’espressione di Lasalle la “forza attiva” dei nuovi rapporti effettivi di potere – cioè l’essenza della costituzione – non necessita di una revisione della costituzione formale per esercitarsi.

La seconda – assai vicina – è che proprio per la prossimità della tavola dei valori e della concezione dello Stato, di revisioni radicali non si sente il bisogno pur con i limiti e i difetti della nostra Costituzione del dopoguerra.[26]

  1. Resta il fatto che il cambiamento della scriminante amico/nemico non ha portato ad alcuna revisione costituzionale. In questo senso è peraltro vero che la scriminante della repubblica “nata dalla resistenza” era l’antifascismo. Di guisa che, dell’antifascismo hanno nostalgia gran parte dell’élites detronizzate.

Ma ciò non significa che Salvini sia fascista come si sforzano a dimostrare i dottor sottili dell’antifascismo. E tanto meno che la dicotomia fascismo/antifascismo, ereditata dalla seconda guerra mondiale e dall’ordine planetario di Yalta, né quella comunismo/anticomunismo possono di nuovo influenzare il sentimento politico dei popoli, e così ri-politicizzarsi.

In sostanza hanno una ormai limitata capacità di mobilitazione delle masse, di gran lunga inferiore alla nuova dicotomia tra globalizzatori e sovran-populisti.

Nel Proemio delle Istorie Fiorentine, Machiavelli critica quegli “eccellentissimi istorici” che avevano trascurato l’incidenza dei conflitti e delle divisioni interne nella Firenze medievale[27]. Così errando perché “lezione è utile a’ cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra le cagione degli odi e delle divisioni della città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti”. Sicuramente trascurare (occultare, minimizzare) il conflitto (e la lotta) interna è, come scrive Machiavelli, la strada maestra per ripetere errori già fatti[28].

È interessante applicare questa massima del Segretario fiorentino alla situazione contemporanea.

Dato che la politica implica la lotta sia come presupposto (Freund) che come mezzo (Duverger) che come carattere essenziale (Schmitt), è proprio dal contenuto (il discrimine) della contrapposizione amico-nemico che è dato comprendere meglio il senso della politica. Anche di quella interna; come scrive Freund la funzione di Stato e costituzione è quella di trasformare la lotta interna in duello (combat) proprio perché, a meno di guerre civili, la lotta politica interna è sempre relativizzata dal riconoscimento reciproco tra contendenti e, ancor più da quello di regole della e nella lotta.

Peraltro la “funzione” del nemico è stata sempre aggregante rispetto alle potenze ostili: sia nello scenario internazionale con coalizioni ed alleanze disomogenee ideologicamente sia in quello interno. Il nemico asburgico fu l’elemento che aggregò l’alleanza tra la Francia cattolica (governata, in successione, da due cardinali) e i protestanti tedeschi e nordici nella guerra dei Trent’anni; così la volontà di limitare e distruggere il Terzo Reich quello che cementò l’alleanza tra Stalin, Roosevelt e un anticomunista di ferro come Churchill. All’interno le coalizioni di partiti (come, ad esempio i fronti popolari negli anni ’30) avevano lo stesso effetto di far alleare e cooperare forze eterogenee sotto tanti aspetti, compreso quello ideologico. La lotta per il potere rendeva poco rilevanti le differenze di idee; e il pericolo nell’esistenza politica lo riduceva ancora.

Nel caso italiano la co-presenza – di due “sistemi di partito” ordinati secondo scriminanti amico/nemico diverse, pone tra l’altro, il problema se, al fine d’intendere la situazione non sia preferibile anche perché più esaustivo – valutarla in base ai criteri della “sociologia comprendente”, come formulati da Max Weber. Oggetto della quale, scrive Weber “non è ogni tipo di «stato interiore» o di comportamento esterno, bensì l’agire … L’agire che riveste un’importanza specifica per la sociologia comprendente, è in particolare un atteggiamento che: 1) è riferito, secondo il senso oggettivamente intenzionato di colui che agisce, all’atteggiamento di altri; 2) è con-determinato nel suo corso da questo riferimento dotato di senso; 3) e può quindi essere spiegato in modo intelligibile in base a questo senso (soggettivamente) intenzionato”[29]; in altra opera sostiene anche “per agire si deve intendere un atteggiamento umano (sia esso un fare o un tralasciare o un subire, di carattere esterno o interno), se in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per agire sociale si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo”[30].

D’altro canto l’orientamento secondo il senso dell’agire (nel caso il “razionale rispetto allo scopo”) spiega gli eventi, anche, come nella vicenda, aventi carattere di transizione tra regimi (e formule) politici, quando un “sistema” non possiede (ancora) il connotato della stabilità (come, ad esempio, aveva nella “prima” repubblica italiana). Al riguardo il sistema dei partiti che conseguirà alla nuova discriminante appare ancora in formazione.

Ciò stante il rifiuto dei partiti sovran-populisti italiani di “ordinarsi” secondo la scriminante destra/sinistra e la costituzione di un governo sovran-populista (il primo dell’Europa occidentale) pare spiegabile e interpretabile (nel senso di Weber) secondo il criterio del politico in modo più decisivo che secondo altri parametri.

In effetti con la nuova contrapposizione  che ha sostituito quella borghese/proletario era prevedibile che i sovran-populisti, ottenuta la maggioranza alle elezioni del 4 marzo, e pur nella possibilità di maggioranza alternativa (come M5S + PD) avrebbero costituito un governo omogeneo secondo la nuova discriminante.

Per due ottime ragioni, ambo derivanti da presupposti, costanti, regole del pensiero politico: la prima che il nemico (anche interno) è la globalizzazione e i partiti della seconda Repubblica erano compromessi con quella e  le conseguenti politiche di “rigore”, invise all’elettorato, la seconda che una volta individuato il nemico la regola essenziale della lotta è accrescere il proprio potere e, correlativamente, ridurre  quello del nemico. Il potere, , sempre riferendoci a Max Weber è la possibilità di far valere i propri comandi in un ambito dato (comunità, gruppo sociale): conquistare il governo e sottrarlo all’avversario è quindi il passo principale. Un governo metà populista e metà globalista sarebbe stato un autodepotenziamento ed un insperato aiuto ai detronizzati. Il primo passo è quindi toglierlo agli avversari: è in se una mossa destituente e d’altra parte è ovvio che in ogni conquista del potere da parte di nuove èlite, si comincia col licenziamento delle vecchie.

Interpretare l’agire dei soggetti politici secondo le classiche categorie del politico, a cominciare dalla regolarità della lotta per il potere ha un valore euristico più gratificante in termini di comprensione e – salvo il caso d’eccezione – di previsione del comportamento dei protagonisti. Schmitt nella premessa all’edizione italiana delle Categorie del politico scriveva che la gioia del pensiero indipendente non è solo quella di “computare e misurare”. Miglio nel commentarlo notava “La penultima frase della Premessa va letta probabilmente in chiave ironica: il gusto di “computare o di misurare” sembra riferito all’accezione ed al metodo piattamente quantitativi (di matrice anglosassone) nella scienza della politica”. Così sembra anche in questo caso

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] v. “Sarebbe ridicolo concepire una nazione vincolata essa stessa all’insieme di formalità o alla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione avesse dovuto aspettare una condizione positiva, non sarebbe mai divenuta tale. Una nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere” il che implica che “…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga” onde “Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema”

[2] v. Che cos’è il terzo Stato? trad. it. p. 255, Milano 1933; v anche la lunga esposizione di R. Carré de Malberg in Contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1922, pp. 484 ss.

[3] v. Considerations….. trad. it. La Costituzione come esistenza, p. 27, Roma 1985.

[4] v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975, p. 31 (il corsivo è mio).

[5] op. cit. p. 35 (il corsivo è mio)

[6] Op. cit., p. 31.

[7] Op. cit., p. 32.

[8] Op. loc. cit..

[9] v. la voce (con la bibliografia ivi citata) “Sistemi di partito” di G. Pasquino in Dizionario di Politica cui si fa riferimento.

[10] v. Pasquino op. cit. p. 386.

[11] Ne Le categorie del politico, Bologna 1972 p. 167 ss. (il corsivo è mio). Della tesi di Schmitt, in relazione alla situazione odierna, mi sono ripetutamente occupato. Per una più estesa trattazione si rinvia al mio articolo Sentimento ostile, zentralgebiet e Criterio del politico, pubblicato (su carta) in traduzione spagnola su Ciudad de los césares (Santiago del Cile) n. 110, marzo 2017, e ora in italiano negli Annali 2018 della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (p. 135 ss.).

[12] V. Voce Costituzione dottrine generali Ed. D. vol. p. 162 e prosegue “Sono i gruppi, prevalenti in virtù del potere di fatto esercitato, che ricercano nella costituzione lo strumento idoneo alla tutela degli interessi di cui sono portatori”.

[13] Op. loc. cit.

[14] Op. ult. cit. p. 166 e prosegue “non la validità si deduce dalla legalità, ma che viceversa quest’ultima in tanto opera come elemento dell’ordine giuridico, in quanto sia collegata al più profondo ordine sociale che la legittima”.

[15] Op. ult. cit. p. 167.

[16] Op. ult. cit. p. 168 e prosegue “Avviene così che proprio là dove più gravi si presentano i pericoli per la stabilità dell’assetto cui si da vita, più accentuata si manifesta la tendenza ad irrigidire la funzionalità del sistema, moltiplicando le garanzie ed ampliando la serie di proclamazioni di principio, con il risultato di aggravare il distacco fra i precetti costituzionali e la prassi. È infatti quest’ultima che influenzata dai rapporti di forza quali riescono di fatto ad instaurarsi, conduce lo svolgimento della vita dello Stato verso una o altra direzione svuotando via via di significato le «menzogne convenzionali» consacrate nella Carta e conferendo alle formule un significato diverso da quello che esse esprimono”.

[17] v. V. Zangara Costituzione materiale e convenzionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. I, Milano 1977, p. 339 e prosegue “La costituzione materiale, infatti, esprime l’esigenza qui richiamata e deve essere considerata come il modo di essere di un ordinamento, che concreta una caratterizzazione ideologica sulla base delle convergenze delle forze politiche preponderanti in un determinato momento storico; caratterizzazione ideologica che viene ad essere costituita dal collegamento tra il fine politico e l’ordine normativo e che configura e delinea la costituzione in senso materiale”.

[18] op. cit., p. 343.

[19] op. cit., p. 345

[20] Op. cit., p. 432.

[21] Anche se spesso il maggior attivismo in materia dei partiti della seconda repubblica appariva più esternato che praticato. Avente cioè fini prevalentemente, anche se non totalmente, di propaganda.

[22] “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. Über verfassungswesen trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, p. 6.

[23] op. cit., p. 8.

[24] L’ “eccezione” in tali casi fu proprio l’Italia fascista, in cui il regime instaurato da Mussolini conservò sempre lo Statuto albertino, ossia la costituzione formale della monarchia liberale, malgrado la radicale trasformazione da democrazia parlamentare a Stato corporativo a partito unico.

[25] In altri Stati europei il cambiamento della classe politica sta avvenendo senza particolari volontà di cambiamento della costituzione formale; anche se spesso i partiti populisti attraggono (prevalentemente) l’elettorato dei partiti socialisti, condannandoli ad un (lento) deperimento. Esempio tra tutti la Francia dove due volte i Le Pen sono andati al ballottaggio nelle presidenziali, a scapito proprio dei socialisti francesi.

[26] La prossimità della “tavola dei valori” non risolve il problema della Costituzione italiana del dopoguerra che è poi il problema principale di qualsiasi costituzione: di rendere possibile l’esistenza politica – quindi indipendente – della comunità. Come ciò possa avvenire nel XXI secolo con una repubblica parlamentare è tutto da verificare.

[27] “Fu trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno” Op. cit., Lib. VII, cap. 3.

[28] “Coloro che sperano che una republica possa essere unita,  assai di questa speranza s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche e alcune giovono. Quelle nuocono che sono delle sètte e da partigiani accompagnate, quelle giovano che sanza sètte e sanza partigiani si mantengono. Non potendo adunque provedere uno fondatore di una republica che non sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi sieno sètte” (op. loc. cit.)

[29] V. Il metodo delle scienze storico sociali, a cura di P. Rossi, Milano 1980, p. 243.

[30] M. Weber, Economia e società, introduzione di P. Rossi, Comunità, Milano 1974, vol. 1, p. 4.

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE

  1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano 2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica
  2. Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica.

Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C’è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti”[1]. Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l’opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire”[2]. E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti”[3].

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito[4].

Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch’esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale)[5]. Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli”[6]. Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l’una assieme all’altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.

Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l’ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità”[7].

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all’elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie[8].

Con queste premesse, nell’indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest’ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l’opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell’aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie”[9].

  1. Tale conclusione di Santi Romano presenta caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un’analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in categorie.

Fin da Platone – secondo una di queste – il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza[10] in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana[11]; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo[12]. Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un’altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.

A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l’opinione e l’azione politica di massa[13].

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) – verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch’essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine – in senso ampio – differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l’ordine e l’unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s’ “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli[14]; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall’alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell’istituzione (cioè del diritto) e/o dell’ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest’ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un’istituzione è la durata, perché il proprio “dell’istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome”[15].

Santi Romano in un’altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s’impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors’anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi – e ciò è implicito nel loro stesso concetto – non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia[16].

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino[17].

L’altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell’arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell’arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell’ “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E’ da notare che per miti del genere l’eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce[18]. Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell’altra (la società comunista) non s’è vista neppure l’ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

  1. Nelle concezioni del mito c’è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l’inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  – ma logica – è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere – e organizzazione dello stesso – e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d’ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse… La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”[19]. E’ da notare l’insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all’assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all’autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

  1. Questo rapido – e forzatamente lacunoso – percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell’utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così – al contrario – il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del…pasto, ma l’ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l’uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l’istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell’ “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E’ specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s’intende per la comunità e per l’istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all’istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d’essere utili a ristrette cerchie della popolazione – in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l’essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell’anarchia e della dissoluzione della Polonia del ‘700.

  1. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall’aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d’istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l’uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l’idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E’ oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all’epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale[20] (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi[21] (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione[22]; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica[23] si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”[24] (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni[25] e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”[26] (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune[27]

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci”[28].

  1. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale)[29].

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti[30].

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla”[31].

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità[32].

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”[33] ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile[34]; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.

Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta[35].

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).

Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

  1. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati)[36].

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso[37].

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né       cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene[38], non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.

T.K.

 

[1] Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonchè, non solo in questo senso traslato e improprio,ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.

[2] A tale proposito chiarisce “ gioverà ricordare e precisare che la verità o realtà giuridica è quella che è stata accolta o addirittura creata da un determinato diritto positivo, anche se diversa dalla realtà che, in contrapposizione a quella puramente giuridica, si dice effettiva, o di fatto, o materiale, e, quindi, anche se esiste solo nella concezione di un ordinamento giuridico, purchè esso sia vigente ed operante” op. cit. p.127 (il corsivo è nostro).

[3] “Perchè ciò sia possibile, è necessario che esse abbiano quel carattere o quella forma fantastica o semifantastica, non certo facile a definirsi con precisione, che concordemente  si afferma essenziale perchè si abbia la figura del mito. Il mito è una non verità, un errore, una “inopia”, ma è anche immaginazione, una immaginazione “favolosa” ” op. loc. cit.

[4] “Il mito ha altresì un senso mistico, è una credenza che ha carattere di fede e quindi assume sempre un certo tono religioso, anche quando non riguarda la religione propriamente detta: il che, del resto, è in connessione con gli altri suoi caratteri che si sono accennati” op. cit. p. 128.

[5] E prosegue “Di solito, è credenza accolta da un numero molto variabile, ma sempre notevole, di individui che partecipano in  un modo o in un altro alla vita pubblica…..E può anche darsi che il mito rimanga circoscritto fra puri studiosi, particolarmente fra i seguaci di qualche sistema filosofico. Politica e filosofia sono campi particolarmente  favorevoli alla formazione e all’affermazione dei miti che interessano il diritto”.

[6] Con le conseguenze che vi sono teorie giuridiche che sono diventati miti. Un po come gli idola theatri di Bacone.

[7]  E prosegue “mentre in sostanza questo  loro carattere accentua e aggrava gli errori che stanno a base di esse. I miti, per così dire, ingenui sono di conseguenza più innocui dei miti, per così dire, sapienti, che meglio nascondono la contraddizione fra ciò che effettivamente sono, cioè errori, e ciò che vorrebbero essere, cioè verità” op. cit. p.129.

[8] Perchè “I popoli fondatori che rimangono fedeli alle loro tradizioni e ai loro ordinamenti politici,  che non si lasciano facilmente lusingare dai miraggi di radicali trasformazioni, sono, come è naturale, quelli che hanno più netta e precisa la percezione della realtà giuridica e non amano immaginare quegli “universali fantastici”, in cui i miti si risolvono” op. cit. p. 130.

[9] Op. cit., p. 134 (il corsivo è nostro).

[10] Gorg. 527 a.

[11] Gorg. 527 a  “Queste cose che ti sto raccontando forse ti sembrano le favole di una vecchietta, e non te ne importa niente. Avresti perfettamente ragione a disprezzarle, se fossimo capaci di trovarne altre, migliori e più vere”.

[12] “Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, e dalla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole” (Scienza nuova, II).

[13] v. G. Sorel, Réflexions sur la violence, trad. it. di A. Sarno, Bari 1970, p. 181. Peraltro Sorel sostiene che i miti “racchiudano le tendenze più spiccate di un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà” (ibidem, p. 180). Onde “importa, dunque, molto poco sapere ciò che i miti contengano di particolari, destinati ad apparire realmente sul piano della storia futura: essi non sono almanacchi strologici. Può anche accadere che niente di ciò che contengono si realizzi – come fu della catastrofe attesa dai primi cristiani” ciò perché “I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione”.

[14] Principe, XV.

[15] v. Précis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 19 (il corsivo è nostro); ma vi ritorna più volte op. cit., p. 72, 76, 93 e così via.

[16] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 155 (il corsivo è nostro).

[17] A proposito del comunismo è interessante notare come Hauriou nel Précis citato (edizione del 1929, cioè più di dieci anni dopo la rivoluzione d’ottobre) scriva: “La Russia sovietica non avrà che un governo di fatto fin quando non avrà ristabilito l’essenziale dell’ordine sociale civile. D’altronde, il governo sovietico si considera da se come semplice potere di fatto, e, per consolazione, decreta l’identificazione di fatto e diritto… Di più questo governo di fatto resterà abusivo e tirannico… anche se questo governo è stato riconosciuto de facto e anche de jure da potenze straniere, in diritto internazionale il riconoscimento di un governo non ha lo stesso significato e la stessa portata che nel diritto pubblico interno”. Questo riporta il discorso – che sarebbe lungo approfondire- sulla legittimità del potere e sul rapporto di questa con il diritto (op. cit.).

[18] Scriveva Oswald Spengler a proposito di quello che, con termine desunto dalla mineralogia chiamava “pseudomorfosi”, e che applicava i rapporti tra forme espressive e sostanza spirituale “Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo a altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contradice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto la specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi” (Der undergang des abeslandes, trad. it. Di J. Evola, Milano, p. 951).

Ne caso ovviamente non si tratta di rapporti tra forme e concezioni del mondo, e tra culture diverse, ma di miti mobilitanti e realizzazioni istituzionali. Tuttavia la forza mobilitante del mito qui s’incanala e prende la forma non conforme alle aspirazioni, ma a quello della concretizzazione possibile.

 

[19] Elementi di Scienza politica, Torino 1923, pp. 73 ss. (il corsivo è nostro)

[20] Ciò, a seguire quanto sostenuto dal coro dei mass-media.

[21] v. Du Pape, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 161.

[22] Nello specificare in che consiste la razionalità (degli atti) dell’autorità Vico scrive “Requiras igitur ab auctoritate rationem civilem, hoc est communem utilitatem, quam legibus omnibus aliquam subesse necesse est … Quae ratio civilis cum dictet publicam utilitatem, hoc ipso pars rationis naturalis est. Non tota autem ratio est, quia, ut utile dictet omnibus acquum, aliquando aliquibus iniqua est” v. De uno universi juris principio et fine uno caput LXXXIII.

[23] V. G. Zagrebelski, Imparare la democrazia (il corsivo è nostro). Sul piano del metodo il richiamo all’eccezione conferma l’affermazione di Schmitt che “l’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione” (v. Politische theologie, trad. it. di P. Schiera ne le Categorie del politico, Bologna 1972, p. 41) .

[24] V. G. Zagrebelski, op. loc. cit.

[25] “Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico” e “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente” (trad. di Federica Klitsche de la Grange). M. Hauriou La science sociale traditionelle, Paris 1896, ora rist. in Ecrits sociologiques, Paris 2008 p. 239.

[26] V. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, trad. it. di L. Ciaurro, Torino 1990, p. 119.

[27] Il quale scriveva nella Deutchlands Verfassung “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale … L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli ….. L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità”, mentre “Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” v. trad. it. di A. Plebe in Scritti politici, Bari 1961 pp. 44-45 e p. 32-33.

 

[28] E aggiungeva che “La soluzione del problema, prospettata dalla dottrina pura del diritto è la seguente: come la norma (contenete un dover essere: Sollnorm), considera come senso dell’at concreto per mezzo del quale è statuita, non coincide con questo stesso atto, così la validità normativa (Soll-Geltung) di una norma giuridica non coincide con la sua efficacia concreta (Seins-Wirksamkeit), Reine Rechtslehre trad. it. di Mario Losano, Torino (ed. 1975), p. 241; ma la soluzione del giurista austriaco, pur elegante, lascia perplessi: se il diritto appartiene all’attività pratica dell’uomo, un diritto che sia fatto valere poco o niente non ha alcuna funzione, se non quella, per l’appunto, mitica (nel terzo dei sensi esplicitati prima).

[29] Si sintetizza così un terreno assai frequentato, perché approfondirlo non è necessario per il tema trattato.

[30] È esemplare quanto capitato al sen. Monti che, ritenuto all’inizio il “salvatore d’Italia” a giudizio della maggior parte dei mass-media, dopo un modesto risultato della coalizione che lo sosteneva nelle politiche del 2013, è precipitato alle elezioni europee allo 0,7% di “Scelta civica”, movimento ispirato dallo stesso. Una percentuale che ne rivela il gradimento popolare irrilevante.

[31] B. Croce, Etica e politica, Bari 1931, p. 165.

[32] Anzi, si può sicuramente affermare che un regime politico che non pretenda di detenere, (insegnare, ordinare, pretendere) la verità è sicuramente più accettabile del contrario. Ma pone una serie di problemi affrontati da millenni dal pensiero filosofico e teologico: dal quid est veritas di Ponzio Pilato, all’affermazione di Giustiniano di detenere il diritto di prescrivere ai sudditi i “veri dei dogmata” alla lotta di Guglielmo di Ockem contro la teocrazia papale alla rivendicazione di Lutero che non si può comandare alla coscienza; dalle pagine di Spinoza alla distinzione tra potere spirituale e temporale della de ecclesiastica potestate declaratio (e dell’obbedienza dovuta) attribuita a Bossuet. E che Vico aveva espresso sinteticamente e precisamente in quel titolo sopra ricordato. Ma una trattazione del genere esula dai limiti del presente scritto.

[33] Du Pape, trad. it. Milano 1994, p. 155; il presupposto e la sostanza di ciò era già affermato da Machiavelli Principe, cap. XVIII

[34] Dei tre componenti del “triedro della guerra” di Clausewitz, ricordiamo solo il primo perché il secondo è più “tecnico”, il terzo, assai importante e spesso decisivo, non sempre ricorre nelle guerre reali, onde è necessario suscitarlo con un’accorta propaganda: dal preteso uso dei gas agli stupri di massa, spesso non corrispondenti a verità né limitata ad una parte in causa.

[35] C’è poi – oltre a quelli ricordati – un mito giuridico a effetti ancor più generali. E’ quello stigmatizzato, tra gli altri, come scriveva Gustave Le Bon per la Francia del suo Tempo (ma lo stesso vale per tante altre ragioni e per il periodo storico attuale): “Ci s’imbatte in Francia in una  massa di gente che si dichiara libera da qualsiasi fede religiosa, che non crede più agli dèi, che disprezza le superstizioni … Eppure in questo Paese di liberi pensatori sarebbe difficile trovare cittadini che manifestino il più lieve dubbio riguardo all’infallibile potenza delle costituzioni e delle leggi. Siamo tutti fermamente convinti che i testi legislativi possono modificare a piacere le condizioni sociali di un popolo. Con le leggi ogni riforma è possibile. Non dipende che da esse arricchire il povero alle spese del ricco, pareggiare le condizioni di tutti e assicurare la felicità universale” v. La Psychologie politique, trad. it. di A. Popa, Roma s.d., p. 53.

È  un mito “moderno” per eccellenza, già sottolineato da Joseph De Maistre che osservava “L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. . Nell’ordine fisico intende  ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce … ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto … Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo” (v. “Essai sur le princpipe génerateur des constitutions politiques…”, trad. it. di Roberto De Mattei, Milano 1975, pp. 41 e 39)

Dalla fiducia nella volontà umana si passa a quella dell’onnipotenza, almeno in relazione alle “regolarità”, presupposti e costanti politiche e sociali

 

[36] V. Carl Schmitt, Die tyrannie der Werte, trad. it.di Forstohff – Falconi Roma 1997 pp.35 ss.; Max Scheler Politik und moral, trad. it. Di L. Allodi; Brescia 2011 pp. 125 ss..; Max Weber ne Il Metodo della scienza storico sociale, trad. it. di P.Rossi, Milano 1980, p. 332.

[37] Il che va ricondotto alla tesi di Hauriou che all’autorità statale è connaturale il potere di coazione (e così alla  funzione pubblica). Se jus dicere e potere di applicare il decisum del giudizio non appartengono alla stessa – com’è naturale per la giustizia “internazionale” – il grado di effettiva applicazione del diritto tende a ridursi e con esso l’efficacia. Lo stesso succede laddove ricorrono situazioni di grave crisi (guerra civile, dualismo dei poteri).

[38] De civitate dei, lib.XI, 17.

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

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