Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?_di Hajnalka Vincze

Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?

“Suggerire che la nuova tecnologia possa cambiare la natura immutabile della guerra, non solo il modo in cui viene combattuta, è ignorante. È come dire che un nuovo orologio cambierà la natura del tempo. (
Sean McFate, Le nuove regole della guerra )

Tra dieci anni una nuova grande guerra in Europa sarebbe una iperguerra”: è in questi termini inequivocabili che due ex comandanti della NATO e un eminente specialista britannico dell’Alleanza introducono, al grande pubblico, la nozione di iperguerra nel loro recente libro ( 1). Hanno quindi messo una parola evocativa e facile da ricordare su un fenomeno annunciato da molti, ovvero un imminente cambio di paradigma della cosa militare, dovuto all’arrivo sui campi di battaglia di tecnologie dirompenti, in prima linea l’intelligenza artificiale ( AI). Il lettore perspicace sperimenterà senza dubbio una vaga sensazione di déjà vu. Le formule e l’atmosfera sono inequivocabilmente simili alla RAM (Revolution in Military Affairs) degli anni 90. Solo le tecnologie variano. Resta il fatto che gli europei si trovano ancora una volta di fronte a un dilemma. Trarranno le giuste lezioni dalle loro recenti esperienze o si condanneranno piuttosto a un puro e semplice seguito nei confronti dell’alleato americano? Per una volta, la risposta potrebbe essere meno ovvia di quanto sembri.

Nuovi gadget, nuovi concetti

il generale John R. Allen, ex comandante delle forze Nato in Afghanistan, ora presidente della prestigiosa Brookings Institution, il generale Ben Hodges, ex comandante dell’esercito degli Stati Uniti in Europa, ora a capo degli studi strategici presso il CEPA (Centro per le Policy Analysis), e il professore britannico Julian Lindley-French, consigliere onnipresente nei cenacoli dell’Alleanza, non si sono dilungati nel loro libro di recente pubblicazione, “La guerra futura e la difesa dell’Europa”. Notano che è in corso una “rivoluzione nelle tecnologie militari” e criticano “il desiderio pericolosamente limitato degli europei di cogliere questo cambiamento”. Anche se tutti i tipi di nuove tecnologie all’avanguardia (IA, quantistica, nanotecnologia, ecc.

Tuttavia, secondo questo trio di autori, “la tecnologia guiderà la politica e la strategia in modi senza precedenti”. Non a caso, citano come esempio gli Stati Uniti, dove nel 2018 è stato istituito dal Pentagono un Joint Artificial Intelligence Center (JAIC: Joint Artificial Intelligence Center), sulla base della National Defense Strategy (NDS: National Defense Strategy) di lo stesso anno. Per l’NDS, l’ambiente di sicurezza sempre più complesso è definito, in primo luogo, dal rapido ritmo del cambiamento tecnologico che altererà il carattere della guerra. Il documento elenca sinteticamente le tecnologie in questione: informatica avanzata, “big data”, intelligenza artificiale, autonomia, robotizzazione, ipersonica, biotecnologia e armi ad energia diretta. La persona responsabile di quest’area al Pentagono,

La logica americana è sempre stata chiara: non potendo prevedere il futuro o le minacce future, il modo migliore per premunirsi contro ogni eventualità è garantire, su base costante, una superiorità tecnologica, se possibile “schiacciante”. Nonostante le poche voci di dissenso qua e là, l’accordo su questo punto è, come si suol dire, bipartisan. L’ultima incarnazione di questo approccio è la cosiddetta Third Offset Strategy, lanciata sotto l’amministrazione Obama e da allora perseguita senza sosta. Come riassunto in un rapporto dell’Assemblea Parlamentare della NATO sull’argomento, “la Terza Strategia di Compensazione è in definitiva quella di preservare e aumentare la supremazia tecnologica americana” ( 2). Con il notevole vantaggio che oltre ad irrigare decine di miliardi di dollari di commesse pubbliche del tradizionale complesso militare-industriale, prevede esplicitamente un’ampia collaborazione con aziende private che non hanno alcun legame con la difesa, Silicon Valley guarda caso.

Di fronte a tanta determinazione e slancio, gli europei non mostrano né lo stesso entusiasmo né lo stesso impegno. Il suddetto rapporto osserva: “Alcuni alleati temono che la Terza strategia di offset ponga troppa enfasi su soluzioni tecnologiche avanzate progettate per ambienti operativi specifici in cui gli alleati europei non sarebbero attualmente in grado o disposti a intervenire”. Di qui le varie e varie ingiunzioni. I tre autori di “The Future War” avvertono: “Hyperwar sta arrivando in Europa, spinto non dagli europei, ma dal cambiamento tecnologico in corso negli Stati Uniti, in Cina e in Russia. Se gli europei non si comportano di conseguenza, potrebbero “trovarsi di fronte a una nuova Pearl Harbor”.3 )”. Solo che in Europa, questa volta, c’è riluttanza. E non sono estranei a certe esperienze recenti.

Ritorno della RAM, in modalità turbo: strumento di manutenzione sotto la tutela degli alleati

Dalla prima guerra del Golfo si cominciò a parlare di “rivoluzione” per designare i cambiamenti apportati nell’arte della guerra dall’uso massiccio delle tecnologie informatiche. Oggi si annuncia un salto qualitativo ancora più decisivo: nuove tecnologie emergenti e dirompenti dovrebbero accelerare ancora di più, in proporzioni “sovrumane”, il ritmo della guerra, anche – perché, in parte, di questa velocità – escludere completamente l’umano essere, a lungo termine. Va notato che questa riedizione, in meglio, della RAM arriva in un momento di crescenti rivalità tra grandi potenze. La posta in gioco è quindi molto più alta che nell’era relativamente spensierata degli anni ’90, quando l’aspetto geopolitico della RAM era più preoccupato del suo impatto sugli equilibri di potere all’interno del mondo occidentale.

Uno dei progettisti della RAM, e vicepresidente del Joint Chiefs of Staff, l’ammiraglio William A. Owens, lo scrive nero su bianco: la corsa alle nuove tecnologie è un nuovo modo di perpetuare la “leadership americana nell’Alleanza” . Nel suo libro Alto mare, pubblicato nel 1995, sviluppa l’idea secondo la quale “la superiorità americana in questi campi può darci lo stesso tipo di influenza politica che abbiamo avuto in passato grazie alle nostre capacità nucleari. In quanto superpotenza nucleare occidentale, gli Stati Uniti godevano di un’autorità preminente all’interno della NATO per organizzare e dirigere le difese dell’Europa occidentale. Per l’ammiraglio, la scomparsa dell’Urss ha svalutato questa leva nucleare, con il corollario “il crollo dell’argomento a favore del dominio americano nell’Alleanza e, per estensione, quello dell’influenza degli Stati Uniti negli affari europei. Per preservare la nostra influenza con i nostri alleati, dobbiamo trovare un sostituto dell’ombrello nucleare”.

Con la promozione delle nuove tecnologie digitali nello spazio militare, la soluzione è stata trovata. Secondo l’ammiraglio Owens, gli Stati Uniti possono “stabilire una nuova relazione [con i suoi alleati] basata sul progresso tecnologico americano nei settori del C3I, della sorveglianza e dell’acquisizione di bersagli e delle armi a guida di precisione. Questi strumenti offrono un margine di superiorità e sono attraenti per tutte le nazioni, ma sono molto costosi da sviluppare; [per gli europei, che vogliono] trarne vantaggio senza doverne sostenere i costi, lavorare a fianco degli Stati Uniti diventa un’opzione allettante. L’America avrebbe quindi voce in capitolo su ciò che fanno con le loro forze armate”.

Tra i tanti svantaggi, da parte europea, di tale dipendenza (come l’insicurezza dell’approvvigionamento o il prosciugamento della base di difesa industriale e tecnologica), ne citiamo qui solo uno, quello che riguarda direttamente l’operatività delle forze armate attrezzo. Tenere il ritmo imposto dal tecnologismo americano comporta, per gli alleati, spese colossali e comporta, di conseguenza, una riduzione del numero dei mezzi. Possono rimediare a ciò in due modi, optando per la specializzazione o accettando il formato di un esercito campione. In entrambi i casi, diventano incapaci di fare la guerra in modo indipendente. Finirebbero, come dice questo monito rivolto agli inglesi da Raymond Odierno, comandante dell’esercito americano, “combattendo non ‘accanto’,

Hubris tecnologica, eminentemente controproducente

RAM, inoltre, ha già evidenziato due punti deboli che non potranno che aumentare con gli scenari di tipo “hyperwar”. Queste sono le vulnerabilità intrinseche dell’eccessiva digitalizzazione (come evidenziato dall’aumento degli attacchi informatici) e la mancata corrispondenza con gli obiettivi politici (illustrati in modo lampante in Iraq, Libia, Afghanistan). Nel 2017, il Defense Science Board del Pentagono ha osservato che praticamente nessun sistema d’arma in servizio negli Stati Uniti era immune da un attacco informatico. L’apparato militare americano è sia il più digitalizzato che, non essendo questo nuovo, il più vulnerabile. Un rapporto della Brookings Institution, dedicato all’evoluzione della tecnologia militare 2020-2040, riassume la situazione: “Gli eserciti moderni hanno effettivamente messo i talloni d’Achille in tutto ciò che usano, creando enormi opportunità per i loro nemici. (4 )”

La scommessa americana su tutto ciò che è tecnologico va di pari passo, infatti, con una cronica incapacità di vincere le guerre. Il generale Vincent Desportes discute questo argomento nel suo libro L’ultima battaglia di Francia “La tecnologia è solo una dimensione dell’efficacia strategica. Gli armamenti vanno ovviamente considerati in termini dei loro effetti militari, ma soprattutto della loro capacità di partecipare utilmente al raggiungimento dell’effetto politico desiderato. Il minimo che si possa dire è che durante i conflitti degli ultimi trent’anni, questa efficienza e questa capacità della tecnologia all’americana non sono state dimostrate. Un recente rapporto del Parlamento europeo invita anche alla prudenza di fronte a “l’eccessivo affidamento sui sistemi tecnologici dovuto a percezioni eccessivamente ottimistiche dell’efficacia delle soluzioni tecnologiche a problemi politici complessi”. Resta il fatto che, sempre secondo questo rapporto,5 ).

Insidie ​​e sfide in Europa: dipendenze di rete

Di fronte alla prospettiva di tecnologie dirompenti, gli europei non possono più nascondersi: i rischi di dipendenza e vulnerabilità aumentano con il cambiamento rappresentato dal 5G, dalla robotizzazione avanzata, dall’intelligenza artificiale o dalla tecnologia quantistica. La sovraesposizione delle nostre aziende e dei nostri dispositivi militari sta aumentando esponenzialmente. E questo, anche se la chiusura del sistema prescelto – sovrano o sotto controllo straniero – diventa quasi completa.

Un assaggio di ciò che potrebbe attendere gli europei in questa logica di iperconnettività è offerto dal sistema informatico di supporto logistico ai velivoli F-35, compresi quelli acquistati da partner o clienti esteri, denominato Autonomic Logistics Information System, e meglio conosciuto come ALIS. È stato progettato per affrontare il problema insito negli aerei militari all’avanguardia, vale a dire costi di manutenzione esorbitanti e tassi di disponibilità ridotti. Per fare ciò, ALIS invia continuamente informazioni sullo stato del velivolo, tutti i dettagli tecnici, inclusi piani di volo, profili di missione, dati di comunicazione e immagini video, al produttore Lockheed Martin, quindi negli Stati Uniti. Se l’obiettivo era facilitare la manutenzione dei dispositivi, è chiaro che è mancato. Secondo un rapporto della Corte dei conti americana, i suoi malfunzionamenti causano più di 45.000 ore di attività aggiuntive all’anno per un’unità dell’aeronautica. Il segretario dell’aeronautica americana ha anche scherzato, dicendo:

La situazione è infinitamente più problematica per gli acquirenti stranieri. Si trovano in un sistema altamente inefficiente, sul quale non hanno alcun controllo e nessuna speranza di staccarsene. Un eccellente specialista dell’F-35, l’americano Bill Sweetman, ha osservato nel 2009 che era “difficile vedere come l’aereo potesse operare senza il supporto americano diretto e costante”, dato che “senza accesso all’ALIS, il dispositivo sarà rapidamente messo a terra. Inoltre, questo accesso comporta il continuo trasferimento di informazioni altamente sensibili, i cosiddetti dati sovrani, verso gli Stati Uniti e Lockheed Martin. Italia, Australia e Norvegia non sono riuscite a trovare soluzioni che avrebbero permesso loro di tenere per sé le proprie informazioni, e nemmeno la soluzione collettiva tramite Lockheed Martin (finanziata per 26 milioni di dollari, direttamente dai partner) ha portato i risultati sperati. L’SDM (Sovereign Data Management) progettato successivamente in aggiunta ad ALIS è sempre basato sulla fiducia, ovvero il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra i dati che possono essere trasmessi o meno sarà realmente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare.

L’architettura JEDI (o chi le succederà) è ALIS alla potenza di dieci. La nuvola di guerra) immaginato dal Pentagono e la cui realizzazione è stata affidata a Microsoft si è presentato come la soluzione perfetta. Certo, questa Joint Enterprise Defense Infrastructure – che avrebbe gestito il cloud computing di tutto l’esercito americano, tutti i servizi e le agenzie messi insieme – è stata appena cancellata per ragioni interne, ma il concetto di un’interconnettività sempre più avanzata e sempre più avvolgente, rimane il corso. L’ottimo analista britannico Paul Cornish non ha sbagliato quando ha scritto: “JEDI è vitale non solo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma anche per garantire che la rete informativa strategica dell’Occidente sia il più coerente e decisiva possibile”. Qualunque forma prenderà la sua successione, riapparirà la nota ingiunzione:

Orologio tiepido per l’UE

Stretto tra, da un lato, la sua dipendenza militare dagli Stati Uniti (ma anche dai colossi digitali americani, il famoso GAFAM per il quale non ha equivalenti) e, dall’altro, la sua esposizione alla Russia (nel campo della cyber ) e la pressione cinese (in termini di infrastrutture di telecomunicazioni, in particolare reti 5G), l’Europa è più una facile preda che una potenza “geopolitica” in divenire. In questo contesto, la Commissione di Bruxelles mostra un volontarismo indiscutibile, raramente visto da parte sua. Nel suo ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione”, nel settembre 2021, la presidente Ursula von der Leyen ha affermato: “Il digitale è la questione decisiva”. Non “un”, ma “le”: si noti l’articolo determinativo (lo stesso nel testo inglese: “the”problema decisivo ). E sottolinea: “Non si tratta solo di competitività, ma anche di sovranità tecnologica”.

Le sue osservazioni sono in linea con una moltitudine di iniziative intraprese negli ultimi tre anni. Che si tratti di costituzione di alleanze industriali (per semiconduttori e tecnologie cloud), di proposte legislative (sulla governance dei dati, o sull’AI), di meccanismi di screening per gli investimenti esteri o dell’ennesima spinta di bilancio (almeno il 20% del recovery plan deve essere dedicato allo sviluppo digitale), l’intenzione della Commissione è chiara. Il commissario Thierry Breton difende, con un certo successo, il punto di vista della “sovranità”. Avverte costantemente che “la padronanza della tecnologia è al centro del nuovo ordine geopolitico”. Il Consiglio Atlantico non si sbaglia: uno dei suoi ultimi rapporti rileva che l’ambizione europea della “sovranità digitale” suscita, da parte americana, le stesse preoccupazioni del concetto di autonomia strategica. Rileviamo lo stesso desiderio di non dipendenza, persino di emancipazione. È chiaro che, in effetti, siamo lontani dal segno.

Non appena si tratta degli elementi costitutivi essenziali che darebbero sostanza a questa sovranità digitale, vale a dire le tecnologie chiave e le infrastrutture critiche, riaffiorano le tensioni degli Stati membri, e lì ritroviamo le solite prime linee. Le conclusioni del Consiglio europeo dell’ottobre 2020, relative alla politica industriale e alla dimensione digitale, parlano certamente di “riduzione delle dipendenze” e di “autonomia strategica”, ma la formulazione contorta la dice lunga sulla strada che resta da percorrere. “Il raggiungimento dell’autonomia strategica preservando un’economia aperta è un obiettivo chiave dell’Unione”. Detto così, il requisito dell’autonomia ne esce diluito e prevale l’imperativo dell’apertura. Nel gennaio 2021, dodici Stati membri hanno pubblicato una lettera aperta per sottolineare questo punto:

Sulle iniziative concrete, riaffiorano le stesse divisioni tra gli Stati membri, intorno alla distinzione tra dichiarata ambizione di autonomia e atti di reale autonomia. Diciannove paesi dell’UE si sono formalmente opposti all’iniziativa della Commissione sulla ricerca quantistica, perché vogliono che aziende e Stati stranieri possano partecipare a questo programma altamente strategico (finanziato con fondi pubblici e finalizzato, in linea di principio, all’autonomia strategica). Sul cloud Gaia-X, il supercomputer che supera la soglia dell’exaflop, equivalente a un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, o anche sulle alleanze industriali, è sempre la solita storia: per la maggior parte dei partecipanti, oltre alla Francia, l’apertura (ovvero l’accesso concesso a partner stranieri, in particolare americani) prevale su considerazioni di non dipendenza e, di conseguenza, distorce i progetti. Tuttavia, senza questi “mattoni” critici, è impossibile costruire un ecosistema digitale fidato che permetta di garantire, in completa autonomia, il funzionamento delle nostre società e dispositivi militari sempre più digitalizzati.

Fatalità autoinflitta?

Non servono quindi scenari tipo “iperguerra” perché la questione digitale sia cruciale. Secondo il Ministro delle Forze Armate, Florence Parly, “la tecnologia digitale è ovunque nella nostra vita quotidiana. Il Ministero delle Forze Armate non fa eccezione, nelle sue fregate, nei suoi aerei, nei suoi veicoli corazzati sempre più imbottiti di microprocessori, chip o software. Le nostre comunicazioni si basano su reti digitalizzate”. Precisando che «questa realtà sarà moltiplicata per un fattore 50 o 100 in futuro». Certamente. Tuttavia, come ha affermato il generale Thierry Burkhard, capo di stato maggiore della difesa: “Sì, dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica, ma se si tratta di avere una F1 efficace solo su un circuito con una scuderia intorno, è un’esca . Quindi non lasciarti trasportare dall’altissima tecnologia. I nostri sistemi d’arma devono essere sempre relativamente resistenti e stabili e, inoltre, devono essere in grado di operare in modalità degradata (6 )”. Un recente rapporto del Senato riprende da solo questo ragionamento e aggiunge altri due criteri: a costi contenuti e senza grosse dipendenze nei confronti del mondo esterno ( 7 ) .

Tuttavia, l’insistenza su un’eccessiva tecnologizzazione accelerata rischia di dirottare i bilanci europei a favore di ipotesi provenienti da culture strategiche e considerazioni economiche a loro estranee ea scapito degli investimenti in un ecosistema digitale veramente autonomo. Non è un caso che la maggior parte delle iniziative nel settore digitale, come negli armamenti in generale, inciampi sul tema della non dipendenza. Non dobbiamo solo trovare, come dice il generale Vincent Desportes, “la tecnologia giusta”, ma anche i partner giusti. In questo ambito, descritto dall’ex direttore dell’ANSII [Agenzia nazionale per la sicurezza dei sistemi informativi] Patrick Pailloux come “la sovranità della sovranità”, stare al sicuro da ogni pressione e ricatto è l’unica bussola rilevante. È chiaro che non è quello scelto il più delle volte dai partner europei della Francia.

Parlando dell’industria degli armamenti, il presidente Macron ha spiegato nel 2020: “L’autonomia è avere l’attrezzatura giusta ed essere sicuri che questa attrezzatura non dipenda da altri poteri. E quindi, non acquistare attrezzature che possono appartenere ai nostri alleati, ma che non sono sempre, in un certo senso, co-decisori di ciò che vogliamo fare. Se vogliamo una vera autonomia militare, vogliamo poter agire con gli americani ogni volta che lo decidiamo. Ma vogliamo anche poter agire anche quando non siamo d’accordo con gli americani su un argomento. E quindi, non vogliamo dipendere da loro. Ciò presuppone avere una vera industria della difesa per evitare che gli americani ci dicano, il giorno in cui interverremo in questa o quell’operazione, “no, no, no, con questo equipaggiamento che è mio,8 )”. Solo che è necessario andare fino in fondo a questa logica. In particolare per quanto riguarda l’uso della cooperazione europea per un ecosistema digitale. Intraprendere rapporti di interdipendenza con partner che si condannano – con il pretesto di rimanere “aperti” – a dipendere da qualsiasi terzo è lo stesso che accettare questa dipendenza. Con, di conseguenza, la definitiva perdita di alternative. A quel punto, qualsiasi pensiero indipendente sul futuro della guerra diventerebbe irrilevante, con gli europei che non avrebbero altra scelta che seguire l’esempio.

Giudizi

( 1 ) J. R. Allen, F. B. Hodges e J. Lindley-French, Future War and the Defence of Europe , Oxford University Press, 2021.

( 2 ) “Maintaining NATO’s Technological Edge: Strategic Adaptation and Defence Research and Development”, Report of the NATO Parliamentary Assembly, di Thomas Marino (Stati Uniti), settembre 2017.

( 3 ) “NATO 2030: Uniti per una nuova era”, analisi e raccomandazioni della Task Force istituita dal Segretario Generale della NATO, novembre 2020.

( 4 ) Michael E. O’Hanlon, Forecasting change in military technology, 2020-2040 , The Brookings Institution, settembre 2018.

( 5 ) “Innovative technologies shaping the 2040 battlefield, EPRS”, Servizio di ricerca del Parlamento europeo, agosto 2021.

( 6 ) Intervista al Generale Thierry Burkhard, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, La Tribune , 18 marzo 2021.

( 7 ) “Nagorno-Karabakh: dieci lezioni da un conflitto che ci riguarda”, rapporto di informazione (O. Cigliotti e M.-A. Carlotti), Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato, 7 luglio 2021.

( 8 ) Osservazioni del presidente Emmanuel Macron al dibattito dei cittadini con la cancelliera Angela Merkel, Aquisgrana, 22 gennaio 2020.

Didascalia della foto in prima pagina: Il termine “hyperwar” descrive un nuovo paradigma bellico, costruito attorno a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. ©USAF

https://www.deftech.news/2021/12/08/hyperguerre-leurre-ou-fatalite-pour-leurope/