Washington, Roma, Gerusalemme: il miraggio di un fronte comune?_ di Yrieix Denis

Quel che bolle in pentola_Giuseppe Germinario

Il 4 febbraio si è tenuto a Roma un Congresso che ha riunito vari intellettuali e politici europei e americani. Sovranisti, conservatori, “illiberali” o anche identitari, i relatori a loro volta hanno esposto i loro impegni intellettuali e condiviso la loro esperienza di potere. Ma quale credito intellettuale possiamo dare a un “asse Washington-Roma-Gerusalemme”, come difeso da uno degli organizzatori, Francesco Giubilei (Nazione Futura)?


Via del Corso attraversa la città di Roma da nord a sud per un chilometro e mezzo, in linea retta da Piazza del Popolo a Piazza di Venezia. È tradizionalmente sul “Corso”, come dicono i romani, che si svolgevano le principali feste carnevalesche. Goethe, che visse nel famoso viale nel febbraio 1788, ne racconta i gioiosi eccessi nel suo Secondo soggiorno a Roma. Per lo scrittore, il carnevale romano era del resto molto più che “una festa data [al] popolo”: era una festa “che il popolo [dava] a se stesso”.

Vedi Conservatorismo nazionale: una conferenza a Roma

Ma in questo mese di febbraio 2020 il carnevale, ristabilito nel 2010, non è ancora iniziato ed è tutto un altro spettacolo quello che si svolge al numero 126 del famoso viale. Questo martedì 4 febbraio il Grand Hotel Plaza di Roma ha ospitato un grande evento intellettuale, sotto lo sguardo curioso dei passanti. Un congresso, sponsorizzato principalmente da due think tank americani (la Fondazione Edmund Burke e l’Herzl Institute), si è tenuto lì come parte di una serie di conferenze intitolate “National Conservatism”, e ha riunito quasi 250 persone.

Ospiti di diversa provenienza

Doveva riunire intellettuali, politici e giornalisti tutto il giorno nella sala da ballo del palazzo. Il tema di questa seconda sessione, la cui prima si è tenuta la scorsa estate a Washington, potrebbe sorprendere: “Dio, onore e patria: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”.

La Piazza Romana, inizialmente residenza di una numerosa famiglia piemontese, fu trasformata in albergo nel 1860. Da allora ha ospitato numerose personalità. Papa Pio IX vi soggiornò nel 1866 quando ricevette Carlotta del Belgio, imperatrice del Messico. Ma anche, un secolo dopo, De Gaulle e Churchill. È qui che hanno soggiornato anche molti dei firmatari del Trattato europeo del 1957. Ironia della sorte, lo staff dell’hotel questa volta si aspetta di accogliere, tre giorni dopo lo storico evento Brexit, i sostenitori di un’Europa completamente diversa: l’ex ministro degli Interni e Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, oltre al premier ungherese Viktor Orbàn.

Erano attesi anche intellettuali conservatori come il britannico Douglas Murray e il polacco Ryszard Legutko; politici come il deputato del Partito conservatore britannico Daniel Kawczynski, Thierry Baudet, del Forum voor Democratie o l’ex deputato della Marina militare Marion Maréchal, nonché i francesi Édouard Husson e Alexandre Pesey. Attesi anche Mattias Karlsson dei Democratici svedesi e Georgia Meloni dei Fratelli d’Italia.

schiavitù imperiale

L’organizzatore principale di questa serie di conferenze è un filosofo e teologo israeliano, classe 1964: Yoram Hazony. Presidente dell’Herzl Institute, è uno dei cardini della Fondazione Burke. Lo accompagnano la moglie ei due figli, che partecipano all’accoglienza degli ospiti. Il dottore in scienze politiche, passato da Princeton, si è distinto nel 2018 con l’uscita del suo libro La virtù del nazionalismo [1], la cui traduzione è appena uscita in Italia. Con questo saggio, colui che fu anche assistente di Benjamin Netanyahu, cerca di dimostrare che ci sono due regimi politici in competizione che attraversano la storia e conducono una guerra spietata: l’impero e la nazione. L’Unione Europea apparterrebbe, nonostante la sua apparente novità, alla prima categoria.

Mentre l’impero (persiano, romano, spagnolo…), che è, secondo Yoram Hazony, universalista e progressivamente razionalista, appiana i particolarismi ed estende costantemente i suoi confini, il particolarismo della nazione sarebbe il miglior garante della cultura, di pace e libertà. Per il teorico, l’imperialismo (che oggi assume sia le nuove vesti del diritto che della cooperazione internazionale come i tratti bellicosi del passato), alla fine ci lascerebbe solo una triste alternativa: la sottomissione alla “servitù eterna. O alla “guerra”. Per difendersi da questi due mali bisognerebbe dunque evitare ogni compromesso e non rinunciare ad alcuna libertà civile a favore di alcun organismo sovranazionale.

Rispetto agli imperi cinese, egiziano e greco, la nazione era “qualcosa di nuovo nella storia”, disse Ernest Renan (1823-1892), che identificò l’essenza della nazione nel fatto che gli individui che la mantennero in forma hanno entrambi molto di punti in comune, ma anche che tutti hanno “dimenticato un sacco di cose”. “Qualsiasi cittadino francese” avrebbe così, secondo lo studioso bretone, “dimenticato Saint-Barthélemy e le stragi del Sud nel XIII secolo [2] “. Oggi, però, secondo i relatori, le nazioni sarebbero minacciate dall’oblio di ciò che costituisce il cuore della loro cultura e dal risentimento per le ferite del passato.

I nuovi vestiti dell’utopia progressista

A sostenerlo, in ogni caso, il primo relatore della giornata, il giornalista e saggista americano classe 1967 Rod Dreher. L’autore della scommessa benedettina, dall’aspetto giovane nonostante la barba bianca e i capelli sale e pepe, ha messo in guardia il pubblico contro questa “dittatura rosa” che sovverte il nome di “giustizia sociale” per dedicare un culto “fanatico”. , sessuale…), erette come “vittime sacre”.

Rod Dreher è caporedattore di The American Conservative, dove scrive una rubrica quotidiana . Il suo intervento è disponibile in francese integralmente ed esclusivamente, su Conflits .

Dietro l’abito compassionevole, “i mezzi dello Stato e del capitalismo” si ibriderebbero infatti per dare vita a “una società di sorveglianza”, che tanto più facilmente si insedierebbe quanto più in Occidente si accentua l’atomizzazione sociale in proporzione al discredito soffrono le nostre istituzioni e il successo di nuove ideologie. Contro questa “dittatura rosa” (concetto ripreso dal saggista James Poulos), che difende certe libertà e ne aliena altre, i conservatori devono coltivare la loro memoria e trasmettere il loro patrimonio, rafforzare i loro legami di solidarietà (famiglie, istituzioni, circoli, partiti ecc. .), e soprattutto per ravvivare la loro fede, perché “contro il male che viene”, “l’umanesimo non basterà”.

Vedere James Poulos, “Benvenuti nello stato di polizia rosa: cambio di regime in America”, The Federalist , 17 luglio 2014

L’autore, che “sta preparando un nuovo saggio sull’argomento”, racconta, a sostegno della sua tesi, le testimonianze raccolte dai dissidenti dei paesi dell’Est sulla loro lotta al comunismo e che avevano per la maggior parte di loro una fede forte e fervente, come un Vaclav Havel o un Karol Wojtyla, appunto. Per molti dei sopravvissuti a quest’epoca passata, il totalitarismo sta tornando con un volto nuovo, e non solo in Cina, ma anche in Occidente, “dove potrebbe trionfare se i cittadini non stanno attenti”.

“ Le libertà di opinione, espressione e religione ci sembrano eterne e intangibili. Ma non subiscono aggressioni quotidiane? La correttezza politica non sta sovvertendo le istituzioni liberali che stanno perdendo la loro presunta neutralità a favore di una nuova ideologia? », si sono chiesti recentemente molti intellettuali conservatori americani, vicini a Rod Dreher, e tra questi il ​​giornalista cattolico Sohrab Ahmari e il filosofo Patrick Deneen.

Vedi i dibattiti seguiti alla pubblicazione del manifesto “Against the Dead Consensus” di First Thing , 21 marzo 2019

Cacce alle streghe

Fu anche uno degli ultimi moniti dell’intellettuale britannico Roger Scruton, la cui memoria fu salutata calorosamente all’inizio del Congresso e di cui Rod Dreher rese un pesante tributo. Quando era venuto a Parigi per il convegno “Democrazia e libertà”, organizzato lo scorso maggio dall’Accademia di scienze morali e politiche e dall’Istituto Thomas More, lo spiritoso filosofo aveva denunciato la violenza e la slealtà degli araldi del politicamente corretto, ai quali doveva la perdita della sua reputazione e della sua posizione nel movimento conservatore.

Istituto Thomas More: Vedi “Democrazia e libertà: i popoli moderni mettono alla prova le loro contraddizioni”

Era stato infatti sgridato per affermazioni ritenute oltraggiose (“Chi non crede che ci sia un impero di Soros in Ungheria non ha osservato i fatti”) e islamofobi (“Gli ungheresi furono spaventati da questa improvvisa e popolosa invasione. di tribù musulmane “;”L’islamofobia è una costruzione della propaganda dei Fratelli Musulmani per soffocare ogni dibattito”), tenuta durante un’intervista al magazine di sinistra The New Statesman.

È stato il suo stesso intervistatore, l’editore associato George Eaton, a denunciarlo nell’intervista prima di tagliare lo champagne e celebrare pubblicamente la caduta del “razzista e omofobo Roger Scruton” (sic). Prima di morire nel gennaio 2020, l’intellettuale ha tenuto a ricordare sulla rivista Spectator che la caduta del comunismo è stata prima di tutto la vittoria della sovranità popolare e non quella della “libertà di movimento”, come “affermava. la propaganda dell’Unione europea Unione”.

Le tentazioni totalitarie delle società democratiche

Un parere chiaramente condiviso da un oratore al Congresso, ex ministro polacco e storico membro del sindacato Solidarnosc, Ryszard Legutko. Durante una tavola rotonda con l’americano John Fonte dell’Hudson Institute e il saggista francese Édouard Husson, ha presentato gli insegnamenti della sua esperienza di dissidente e membro del governo polacco. Come ha spiegato in un libro con accenti tocquevillian, The Demon of Democracy [3] , il filosofo ed ex ministro dell’Istruzione polacco ritiene che la democrazia attuale assomigli all’ideologia comunista più di quanto pensiamo. .

Édouard Husson: Autore in particolare, per le edizioni Gallimard (novembre 2019) di Parigi-Berlino: la sopravvivenza dell’Europa .

Condividendo le stesse radici intellettuali (sia in termini di filosofia della storia che di religione), queste due ideologie perseguono gli stessi obiettivi: liberare gli uomini dagli obblighi del passato, emancipare i cittadini dalla tradizione e dal costume. Inoltre, la democrazia condivide una caratteristica distintiva con i regimi comunisti: non ammette altri criteri di giudizio se non quelli del sistema politico e quindi rifiuta di sottoporre i propri pregiudizi all’esame di criteri morali o religiosi.

È alla luce di questa storia di resistenza al comunismo che si può comprendere il persistente malinteso che oppone i difensori di un’Unione europea positivista e tecnocratica al patriottismo e all'”illiberalismo” dei paesi dell’Is. Come ha ricordato di recente il saggista Max-Erwann Gastineau, “non siamo i discendenti dello stesso trauma”. In effeti :

“ In Oriente, è la memoria del comunismo che continua a lavorare sulla memoria collettiva e a forgiare una cultura della resistenza che valorizzi le radici nazionali. In Occidente, si crede che siano i limiti della legge a proteggere l’Europa dal ritorno dell’autoritarismo nazionalista di ieri. 

Vedere The New East Trial , Cerf, 2019  ; e l’intervista che Conflits gli ha dedicato di recente.

L’Ungheria di Viktor Orbàn

L’intervento più atteso, nell’imprevista assenza di Matteo Salvini, il cui gruppo politico al Parlamento europeo (il PPE), temeva di vederlo intervenire in una manifestazione che riuniva ospiti di correnti ritenute troppo disparate per non essere compromettenti, è stato quello di Viktor Orban. Il premier ungherese, che nel maggio scorso aveva dichiarato a Bernard-Henri Lévy di “non aver niente a che fare con Marine Le Pen”, non ha avuto paura da parte sua di parlare sullo stesso palco della nipote di quest’ultima, l’ex vice Anche Marion Maréchal, attualmente direttrice dell’ISSEP di Lione, è stata invitata a intervenire durante un notevole discorso di cui la stampa francese ha già fatto eco.

Il capo del governo ungherese ha voluto ricordare al suo pubblico che la politica richiedeva di saper conquistare e mantenere il potere e che il dilettantismo non era d’obbligo. Ci vuole anche, secondo lui, coraggio per difendere le sue idee e metterle in pratica una volta eletto. Questo mettere in pratica le idee su cui è stato eletto un governo è essenziale per consentire una rielezione. Una lezione che sembrò conquistare tutti i partecipanti, sedotti da un Capo di Stato che, a soli 24 anni, aveva osato sfidare il regime comunista e che parve loro incarnare una risposta coerente e solida sia sul piano culturale, sociale, che economico. Il presidente del Consiglio ha quindi voluto ricordare il vigoroso tasso di crescita del Paese (4,8% nel 2018), e di aver mantenuto all’“80%” la sua promessa di creare un milione di posti di lavoro.

Viktor Orbàn ei suoi sostenitori ritengono che il suo Paese, occupato a più riprese “dagli ottomani, dagli slavi e dai comunisti”, debba la sua sopravvivenza solo alla determinazione degli stessi ungheresi. Tuttavia, secondo lui, il liberalismo ei suoi promotori a Bruxelles si stanno rivelando una nuova forza distruttiva per questo Paese di 10 milioni di abitanti. Primo, perché il liberalismo distrugge i vincoli di solidarietà e di affetto che fondavano le nazioni, e perché le sue istituzioni, lungi dall’essere neutrali, sono sostenute da uomini che hanno una propria ideologia.

Aveva così dichiarato, nel febbraio 2019, alla piattaforma delle Nazioni Unite:

“ Da nessuna parte nel grande libro dell’umanità è scritto che gli ungheresi devono esistere. Questa legge è scritta solo nei nostri cuori – e nessuno tranne gli ungheresi se ne preoccupa . ”

Citato da Christopher Caldwell, “L’Ungheria e il futuro dell’Europa” , Claremont Review , primavera 2019

Nonostante il successo che sembrò incontrare il pubblico – che lo ricompensò con pesanti applausi, il presidente del Consiglio ungherese non si atteggiò a leader dei movimenti conservatori e sovranisti, ma anzi insistette nel ricordare il ruolo trainante dell’Italia e di Matteo Salvini in particolare.

Una convergenza dottrinale impossibile?

L’impressione generale di questa convenzione, come ha notato Douglas Murray nel suo intervento, ha suggerito una serie di malintesi. Ad esempio, è possibile trovare, al di là dei comuni avversari, una dottrina comune tra sovranisti, atlantisti, conservatori, identitari, intellettuali cristiani, agnostici ed ebrei?

Questo fronte comune è davvero paragonabile a quello che si oppose al comunismo, e che già suggeriva molte differenze, se non altro tra le visioni molto diverse difese a loro tempo da Giovanni Paolo II e Ronald Reagan? C’è stato infatti un altro grande assente dal dibattito, a parte Matteo Salvini: è stata la stessa Chiesa cattolica, una delle figure più emblematiche della quale è stata convocata nella sua casa a Roma, anche se non era presente nessun ecclesiastico a rappresentarla. La religione, tuttavia, vi occupava un posto importante. Forse si dovrebbe capire, come ha suggerito Max-Erwann Gastineau nel suo lavoro sull’Europa orientale, che i relatori avevano fatto propria questa massima di Alexis de Tocqueville:

“Non dipende dalle leggi per far rivivere credenze sbiadite; ma dipende dalle leggi interessare gli uomini ai destini del loro paese”.

D’altronde è certo che i temi sollevati in questa giornata alimenteranno un dibattito che non potrà che essere fertile, se non altro per chiarire le differenze tra generazioni e correnti molto disparate.

https://www.revueconflits.com/nationalisme-conservatisme-souverainisme-eglise-viktor-orban/