LA QUESTIONE MIGRAZIONE: LA NECESSITA’ DI LIBERARSI DALLA SERVITÙ DEGLI USA E DELL’UNIONE EUROPEA. di Luigi Longo

UN SENSO

Voglio trovare un senso a questa sera. Anche se questa sera un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa vita. Anche se questa vita un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa storia. Anche se questa storia un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa voglia. Anche se questa voglia un senso non ce l’ha

Sai che cosa penso. Che se non ha un senso

Domani arriverà…Domani arriverà lo stesso

Senti che bel vento. Non basta mai il tempo

Domani è un altro giorno arriverà…

Voglio trovare un senso a questa situazione. Anche se questa situazione un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa condizione. Anche se questa condizione un senso non ce l’ha

Sai che cosa penso. Che se non ha un senso

Domani arriverà. Domani arriverà lo stesso

Senti che bel vento. Non basta mai il tempo

Domani è un altro giorno arriverà…

Domani è un altro giorno… ormai è qua!

Voglio trovare un senso a tante cose. Anche se tante cose un senso non ce l’ha

Domani arriverà. Domani arriverà lo stesso

Senti che bel vento. Non basta mai il tempo

Domani è un altro giorno arriverà. Domani è un altro giorno arriverà

Domani è un altro giorno

Vasco Rossi*

Ma, il popolo? Il popolo come sempre segue il fortunato e maledice al caduto, purché

non gli manchino il pane e le feste.

Giovenale**

1. Lo spazio italiano, da non confondere con il territorio, svolge un ruolo determinante nelle strategie USA-NATO sia per la presenza delle infrastrutture militari di altissimo livello (1) sia per l’approntamento delle infrastrutture per la gestione della immigrazione (2).

Ho scritto (lo scavo si mantiene ancora ai primi strati di superfice: occorrono lavori di diversi saperi per capire in profondità i processi), sulle infrastrutture funzionali agli obiettivi militari USA-NATO, obiettivi che riguardano le diverse strategie ( costruzioni di aree di influenze, distruzione di stati, spostamenti di popolazioni, terrorismo, controlli di città, eccetera) dei dominanti statunitensi nelle aree nevralgiche ( Europa, Mediterraneo, Medio Oriente) per il conflitto egemonico mondiale tra la potenza dominante (USA) e le potenze mondiali che iniziano, in questa fase multicentrica, a difendersi dal dominio USA ( declinante e pericoloso visto la incapacità di rilanciare una nuova visione di società, avendo scelto la strada della egemonia sfruttatrice), in particolare la Russia ( lo spettro americano) e la Cina ( la futura potenza marittima) (3).

2. Tratto, in questo scritto, la questione migranti come strumento USA sia per creare squilibri pericolosi territoriali, economici e sociali nelle aree importanti per la nuova strategia USA (Europa), sia per dividere ed ostacolare l’espandersi delle aree di influenza della Russia e della Cina (Medio Oriente, Europa orientale e balcanica, Africa, Mediterraneo): << Sono sedici anni che gli Stati Uniti sono in guerra in Medio Oriente e Nord Africa, spendendo trilioni, commettendo crimini di guerra e mandando milioni di rifugiati in Europa. >> (4).

E’ opportuno precisare che la strategia di fondo degli Stati Uniti è quella di dominare lo spazio europeo attraverso diverse tattiche che, a seconda delle fasi e degli agenti strategici dominanti, comportano soluzioni diverse: gli agenti strategici che hanno espresso presidenti come George H.W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), Barack Obama (2009-2017) vedevano il controllo europeo attraverso l’utilizzo di un coordinamento esercitato dal vassallo tedesco ( una sorta di continuazione del progetto Europa da loro ideato, attuato e coordinato nel secondo dopoguerra con l’affermazione della loro egemonia nel mondo occidentale).; gli agenti strategici che hanno espresso Donald Trump (con grandi difficoltà, dovute al conflitto distruttivo tra agenti strategici statunitensi che non riescono a ritrovare una sintesi di visione della potenza mondiale, uno dei tanti sintomi dell’inizio del declino), vedono il controllo dello spazio europeo attraverso accordi bilaterali tra nazioni. Entrambe queste tattiche convergono nella strategia di dominare lo spazio europeo e quello che più preoccupa è che si sta andando nella direzione di una Europa delle Regioni (5) che significa la distruzione delle nazioni con conseguenze sociali e territoriali inimmaginabili. D’altronde gli USA sono maestri in questo. Per questo ritengo che la tattica di Trump acceleri, nella fase multicentrica sempre più incalzante, soprattutto per il dinamismo aggressivo statunitense, il progetto dell’Europa delle Regioni.

3. L’immigrazione, in questa fase multicentrica, è vista come uno strumento di geopolitica e di geostrategia; non è considerata nè nella logica dello sviluppo ineguale del sistema capitalistico che vede i flussi di migranti come una convenienza a migliorare i benefici della economia e della società delle cosiddette nazioni a sviluppo avanzato e maturo (6), né nella logica ( tutta ideale) di un fenomeno di confronto e scambi tra nazioni e continenti, di cultura, storia, sviluppo e formazione sociale diverse, per un reciproco arricchimento della propria idea di società e di relazioni sociali, perché come ci ricorda Guido Barbujani :<< Siamo tutti bastardi [ corsivo mio], tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcelo […] Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto. Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenza ci siano fattori che spiegano le nostre diverse tendenze […] E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura [ corsivo mio] >> (7).

Non prenderò in considerazione le seguenti esternazioni del Presidente dell’Inps, Tito Boeri: << […] Gli immigrati regolari versano ogni anno 8 miliardi contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps […] Proprio mentre aumenta tra la popolazione autoctona la percezione di un numero eccessivo di immigrati, abbiamo sempre più bisogno di migranti che contribuiscano al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale […] Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci hanno regalato circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni […] >> (8).

Una domanda si pone: se accogliere i migranti è così vantaggioso perché gli altri paesi europei chiudono i confini? (9). La verità è che Tito Boeri con questo ragionamento tutto interno ai tecnicismi da entrate contributive e agli scenari di previsione (con strane correlazioni delle variabili presenti in essi) dimostra di non conoscere la questione delle migrazioni in relazione al territorio, alla economia, alla società. Una cuoca leniniana, nell’accezione di Luisa Muraro (10), gestirebbe con grande sapienza e inquadrerebbe in maniera corretta l’andamento dei flussi migratori e i relativi conti dell’Inps.

Non tratterò delle assurdità del ministro Marco Minniti che parla di aiuti finanziari per i migranti che scelgono volontariamente di tornare ai propri paesi di origine né delle vacue proposte contenute nelle dichiarazioni di Tunisi (11).

4. E’ difficile essere d’accordo con Massimo Livi Bacci quando sostiene che:<< […] il crescente consenso all’idea che l’immigrazione, per essere utile allo sviluppo, debba essere di “qualità” o – in altre parole – ricca di capitale umano. Solo così può contribuire alla crescita della produttività e quindi allo sviluppo economico. Nel concreto, molti paesi hanno sviluppato politiche migratorie volte ad attrarre migranti con alte qualifiche e buone specializzazioni, con livelli di istruzione relativamente elevati, buona conoscenza della lingua e della cultura del paese ospite.[…] Insomma, in sintesi brutale, meno migranti, ma di migliore qualità. Anche l’Italia finirà col muoversi su questa linea, pur tenendo conto che continuerà a essere sostenuta la domanda di manodopera generica assai richiesta in molti settori dell’economia e della società. Questo implicherà una profonda revisione della politica migratoria e l’adesione convinta al principio che l’immigrazione si governa e si guida, non si subisce [ corsivo mio]. […] E’ comprensibile che l’ondata di rifugiati prodotta dai conflitti e dall’instabilità di vaste regioni che circondano l’Europa appanni la visione circa il futuro dell’immigrazione e che la gestione di questi flussi si presenti come un’assoluta priorità. Ma anche l’eccezionalità di questa fase storica può essere volta a vantaggio del paese e il peso dell’accoglienza trasformata in un’opera di istruzione e formazione dei rifugiati, di investimento per la ristrutturazione di un patrimonio infrastrutturale abbandonato e fatiscente per l’accoglienza stessa, finanche di insediamento nelle tante aree interne in abbandono [ oltre a un ripensamento della questione agraria, mia aggiunta] >> (12).

5. Un governo per guidare e non subire l’immigrazione deve avere una idea di politica migratoria e una idea di relazione territoriale, economica e sociale con altri Paesi. Per esempio, Massimo Livi Bacci, nulla dice sul ruolo infame che ha avuto la classe dirigente italiana ( oggi, è Emmanuel Macron a gestire la questione Libia su indicazione e nella logica delle relazioni bilaterali di Donald Trump, che si innerva con il progetto dell’Europa delle regioni, che significa frantumazione delle nazioni europee) nella distruzione della Libia ( territorio filtro sotto il coordinamento di Mu’ammar Gheddafi) per le strategie di Barack Obama e Hillary Clinton contro i nostri stessi interessi, così come accade con le sanzioni imposte ad altre nazioni ( Russia, Iran, eccetera) (13) << […] La guerra alla Libia nel 2011, con il determinante contributo italiano, è stata diretta dalla Nato attraverso il Jfc Naples ( Joint Force Command, mia specificazione ). Sempre da Napoli sono state condotte operazioni militari all’interno della Siria. Questa è la prima causa del drammatico esodo dei profughi e della “crisi dei migranti che l’Italia sta vivendo quasi in solitudine” >> (14).

Per attuare le politiche migratorie secondo le indicazioni di Massimo Livi Bacci, c’è bisogno di un governo sovrano e autodeterminato, espressione di agenti strategici egemoni che hanno una idea di progetto e di ruolo dell’Italia nell’Europa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, che sappia allearsi con le potenze mondiali che pensano a un mondo multipolare e non monocentrico. La domanda che si pone è: Abbiamo noi agenti strategici egemoni ( sia tra i dominanti che, ahimè, tra i dominati) capaci di tale strategia?.

Nella sostanza la questione immigrati viene gestita dalle strategie pre-dominanti USA e dal maggiordomo tedesco che di fatto obbliga l’Italia all’accoglienza senza limiti e si accorda con la Turchia per fare da barriera di contenimento dei flussi migratori in condizioni inumane [ << considerate la vostra semenza: fatti non foste a vivere come bruti ma per seguir virtute e canoscenza >>(15)] e selezionare i migranti che servono ai diversi settori delle economie europee.

Con buona pace di Limes che vede la Germania come una nazione in conflitto con gli USA capace di creare una Kerneuropa ( un progetto geopolitico della Germania di costruire uno spazio di influenza europea orientato verso la Russia) e non invece, in una logica subordinata, un progetto contro una parte di essa: il blocco di potere che esprime Donald Trump (16).

Fonte: Limes

In questa assurda gestione dei migranti, trova la sua logica l’accordo del baro Matteo Renzi, che in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, ha firmato il protocollo dell’operazione Triton ( partita nel 2014 dopo il termine di quella italiana Mare Nostrum) (17) che prevede che tutti gli sbarchi dei migranti avvengano nei porti italiani anche in violazione del trattato internazionale in tema di diritto di asilo ( Convenzione di Dublino e relativo regolamento UE di Dublino III). La logica dell’accordo è basata infatti su queste ragioni: a) maggiore disponibilità finanziaria a disposizione del proprio potere ricavata dai tecnicismi sulla flessibilità al pareggio di bilancio e al debito pubblico concessa dai subdominanti europei; b) maggiori risorse finanziarie, italiane ed europee, alle strutture che gestiscono i migranti per la filiera di potere incardinata attorno alle leghe delle cooperative (rosse e bianche), movimenti e istituzioni religiosi ( Comunione e Liberazione, Caritas), imprese, fondazioni e consorzi onlus (18).

6. Alcune città incominciano a ribellarsi alla ingovernabilità dei flussi migratori e al ruolo di accoglienza assegnato all’Italia con i relativi costi sociali, economici e territoriali a carico della maggioranza della popolazione e con vantaggi economico-finanziari a favore di una ristretta minoranza della suddetta filiera di potere.

Le città ribelli sono il sintomo del malessere e del disagio di chi non ha una idea e un progetto di trasformazione complessiva della questione migranti né ha la forza di incidere sulle reali cause che producono tale malessere: i migranti sono sradicati dai loro territori ( Africa, Medio Oriente, Mediterraneo, Europa orientale e balcanica) e orientati per fini geopolitici, geostrategici e geoeconomici in aree nevralgiche come l’Europa ( continente strategico nei futuri scenari di conflitto mondiale), in questa fase multicentrica, soprattutto per il dinamismo aggressivo degli USA che vuole limitare le aree di influenza e vuole prevenire future cooperazioni tra l’Europa e le potenze emergenti della Russia e della Cina (19).

7. Per sconfiggere la servitù italiana dello spazio a completa disposizione della potenza mondiale statunitense bisogna uscire dalla NATO e smilitarizzare i territori europei. Non è possibile ragionare sulla sovranità delle nazioni avendo sui propri territori infrastrutture militari USA e USA-NATO. E’ un non senso parlare di libertà, di democrazia e di sovranità avendo i territori occupati dalle basi militari (20). Bisogna uscire da questa Europa subordinata alle strategie di dominio mondiale statunitense

per tre ragioni fondamentali:

  1. Il progetto dell’Europa è stato pensato e attuato dagli Stati Uniti per le loro strategie di dominio mondiale a partire dalla seconda guerra mondiale;

  2. Il ri-emergere del progetto dell’Europa delle Regioni comporterebbe la eliminazione delle nazioni ( con conseguenze drammatiche e inenarrabili sulle popolazioni) a favore di microregioni e romperebbe definitivamente qualsiasi progetto di Nazioni sovrane e di una Europa federata (espressione di nazioni sovrane) in relazione con l’Oriente, una cooperazione eurasiatica;

  3. La difficoltà di costruire relazioni con la Russia e la Cina per le continue politiche di contrasto ( che provocano danni e devastazioni ai territori europei) nelle diverse sfere sociali eseguite dai sub-decisori europei su precise strategie dei predominanti statunitensi ( dall’uso delle sanzioni e delle militarizzazioni dei territori, all’impedimento dell’uso delle fonti energetiche e della costruzione delle vie della seta).

8. Vi è la necessità di non sottostare più al potere degli agenti subdominanti europei che ci fissano i parametri della vita: dalla lunghezza dei prodotti agricoli (che nasconde la distruzione economica delle piccole aziende agricole soprattutto quelle delle aree interne), alla identità sessuale ( che vela la rottura dei fondamentali legami di relazione tra madre-figlio/a e tra la natura umana e madre natura), all’esperimento del controllo sociale tramite le vaccinazioni di massa ( che cela l’indebolimento del sistema immunitario, la creazione di futuri malati e la verifica di pratiche di reazione popolare agli obblighi imposti) (21). Dice Marco Della Luna:<< Il contratto di appalto per la fornitura dei vaccini obbligatori non è ancora stato reso pubblico, ma se è come gli ultimi, è illegittimo, è un abuso. Il problema di fondo con i vaccini è che i politici (italiani) si vendono per professione e soprattutto che vendono gli interessi nazionali a quelli stranieri, coi vaccini come con le banche, con l’euro, col fiscal compact, coi migranti […] quindi non possono essere mai credibili, quando impongono qualcosa in cui qualcuno guadagna somme. Finché rubano i risparmi in banca è un conto, ma quando per profitto ti entrano nel corpo, è un altro conto >> (22).

Questo è degrado umano individuale e sociale a livello nazionale, europeo e mondiale.

Vi è la necessità di uscire da questa Europa e pensare ad una Europa federata tra nazioni sovrane (23) perché non ha senso stare nella austerità degli investimenti pubblici; nella privatizzazione dei servizi e delle infrastrutture; nel patto del bilancio europeo; nel pareggio di bilancio; nella riduzione del debito pubblico; nella deflazione salariale quale unica forma consentita per la competitività europea che fa bene all’economia del maggiordomo tedesco e alle strategie dei dominanti USA che puntano a disintegrare l’Europa con le sue nazioni per renderla sempre più debole, divisa e strumento di aggressione alla Russia e alla Cina(24).

Bisogna trovare, per dirla con Antonio Gramsci, il sistema di vita originale e non di marca americana, per far diventare libertà ciò che oggi è necessità (25).

9. E’ possibile pensare ad una idea e ad un progetto di nazione capace di recuperare la distruzione storica ( la memoria, l’identità, la tradizione, la cultura ), economica ( le nostre industrie strategiche e la nostra degna industria manifatturiera), sociale ( i servizi fondamentali che incidono sulle condizioni reali ), territoriale ( le risorse, le città, il paesaggio, le infrastrutture ) e geografica ( la posizione strategica mediterranea ); è possibile guardare, nel lungo periodo, alle nazioni e alle potenze mondiali che lottano per un mondo multipolare. Per fare questo e avere un Paese mediamente protagonista nella scena mondiale occorrono gli agenti strategici dominanti capaci di dare un ruolo, una visione, una idea alla nazione Italia; gli agenti strategici dominati possono solo, in attesa di epoche rivoluzionarie fuori dal capitale inteso come rapporto sociale, appoggiare e allearsi ai suddetti agenti strategici dominanti (26).

10. Restano alcune domande a cui la storia italiana contemporanea, soprattutto del secondo dopoguerra, deve dare risposte. Perché l’Italia esprime degli agenti strategici subdominanti così servili e mediocri che non hanno il senso dello sviluppo dell’intero Paese? Perché gli agenti strategici, dal secondo dopoguerra, fatta qualche eccezione che comunque conferma la regola, sono stati espressione di potere (derivante dalla sfera sociale di appartenenza, per esempio, quella economica della famiglia Agnelli) e non di dominio (27) che non hanno pensato allo sviluppo e alle relazioni europee e mondiali della nazione? Perché lo stato, inteso come luogo di una architettura istituzionale di una nazione dove il conflitto per l’egemonia è la norma non l’interesse generale, è stato usato, diretto, gestito da agenti strategici di potere e non di dominio?. Il problema è di egemonia degli agenti strategici che dominano l’insieme della società: è come se gli agenti strategici economici e di altre sfere sociali fossero proiettati allo sviluppo del Paese, ma non riescono ad esprimere egemonia politica.

E’ da rivedere la storia del periodo della ricostruzione e del cosiddetto boom economico italiano come nuovo modello di penetrazione americana in Italia e in Europa che già si differenziava dalla logica coloniale e neocoloniale. Eppure, già il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel avvertiva il limite di affidarsi alle strategie dei singoli potenti o famiglie di potenti:<< […] La storia insegna quanto la sproporzionata ricchezza di alcuni cittadini sia pericolosa anche per la più libera forma costituzionale, e quanto sia in grado di distruggere la stessa libertà: ci sono gli esempi di un Pericle ad Atene, dei patrizi a Roma-la decadenza della quale invano i Gracchi ed altri, premendo minacciosamente, cercano di bloccare con la proposta di leggi agrarie-, dei Medici a Firenze; e sarebbe importante ricercare in qual misura sarebbe necessario sacrificare il rigido diritto di proprietà per avere una stabile forma di repubblica. >> (28).

11. Attualmente l’Italia è una nazione bordello :<< Ahi, serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello >> (29). Occorre pulire il bordello da rubagalline, imbroglioni, mistificatori e da bari e ridurre la stupidità e l’imbecillità ( ontologicamente intesi) (30): basta pane e feste; bisogna creare un senso da dare alla realtà da trasformare, con un timoniere in grado di guidare nella tempesta mondiale ( multicentrica e policentrica) la nave Paese; in attesa di epoche storiche capaci di esprimere le formazioni sociali autodeterminate (sovrane) e gli agenti strategici dei dominati, in grado di rivoluzionare la realtà verso gli interessi della maggioranza della popolazione. La realtà, come insegna Gyorgy Lukacs nella sua grande Ontologia dell’essere sociale, è da intendere come qualcosa da trasformare e non semplicemente da manipolare e gestire:<< […] Per quanto rilevanti siano le diseguaglianze e profonde le contraddizioni che contribuiscono a determinare il cammino, le fasi del processo complessivo, è certo che il genere umano non potrebbe mai realizzarsi completamente, non potrebbe mai staccarsi dal mutismo ereditato dalla natura, se negli individui non si avesse in modo socialmente necessario una tendenza verso il proprio essere-per-sé: solo essere umani consapevoli di se stessi come individui ( non più singoli che si diversificano solo nella loro particolarità in-sé) sono in grado mediante la loro coscienza, mediante le loro azioni guidate dalla coscienza, di convertire in prassi umano-sociale, cioè in essere sociale, la genericità autentica. Nonostante tutte le ineguaglianze e contraddizioni, lo sviluppo della società su scala storico-universale spinge parallelamente verso la nascita della individualità essente-per-sé nell’uomo singolo e verso il costituirsi di una umanità che nella sua prassi è consapevole di sé come genere umano. >> (31).

Le citazioni in epigrafe sono tratte da:

*Vasco Rossi, Un senso, www.angolotesti.it;

**Concetto Marchesi, Giovenale, A.F. Formiggini editore in Roma, 1921, pag.66

NOTE

1.L’ultima infrastruttura NATO è la trasformazione del Comando NATO di Napoli in Hub per il Sud ( con notevole esborso finanziario a carico dell’Italia), formato dal Comando NATO, dalle Forze navali USA per l’Europa e dalle Forze navali USA per l’Africa, agli ordini dell’ammiraglio statunitense Michelle Howard. I tre comandi di Napoli, sempre agli ordini dell’ammiraglio statunitense nominato dal Pentagono, hanno una “area di responsabilità” che abbraccia l’Europa, l’intera Russia, il Mediterraneo e l’Africa si veda Manlio Dinucci, Per il Sud niente investimenti ma un Hub di guerra, il Manifesto del 18/7/2017; Idem, Pentagono: top secret la dislocazione delle atomiche in Italia, il Manifesto del 22/7/2017.

2.Sulle diverse tipologie delle strutture del sistema di accoglienza italiana si rimanda ai siti del Ministero dell’Interno: www.interno.gov.it/it/temi/immigrazione-e-asilo/sistema-accoglienza-sul-territorio e www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/pubblicazioni/rapporto-annuale-sprar .

3.Luigi Longo, Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia in www.italiaeilmondo.com, maggio 2017; sulla Cina come futura potenza marittima in Maurizio Blondet, La Cina intanto diventa grande potenza navale, www.maurizioblondet.it, 8/7/2017; sulla strategia conflittuale tra le potenze di terra e le potenze di mare si legga la bella sintesi storica di Carl Schmitt, Terra e Mare, Adelphi, Milano, 2002.

4.Paul Craig Roberts, Washington è in guerra da 16 anni: perché?, www.comedonchisciotte.org, 3/7/2017.

5.Paolo Perulli-Angelo Pichierri, a cura di, La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, Einaudi, Torino, 2010.

6.Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, il Mulino, Bologna, 2014; Enrico Allasino, Le radici sociali dell’immigrazione in Paolo Perulli-Angelo Pichierri, a cura di, op.cit., pp.305-339; per una analisi storica delle forme di migrazioni in Jean-Pierre Raison, Migrazione in Enciclopedia Einaudi, Volume nono, Einaudi editore, Torino, 1980, pp.285-311; per l’analisi della totalità degli aspetti dell’immigrazione in Maria Immacolata Macioti- Enrico Pugliese, Gli immigrati in Italia, Laterza, Bari, 1991.

7.Guido Barbuyani, Cultura, razze, confini in www.eddyburg.it, 28/5/2017. Per un approfondimento si rimanda a Guido Barbuyani, L’invenzione della razza. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano, 2008.

8.Audizione di Tito Boeri alla Camera dei Deputati del 20/7/2017 in www.webtv.camera.it/evento11618; Relazione annuale del Presidente INPS, 4 luglio 2017 in www.inps.it. Sono molte le critiche e le riflessioni suscitate dall’intervento di Tito Boeri ne segnalo alcune significative: Francesco Forte, Quanti danni fa il teorema degli immigranti salva-pensione, www.ilgiornale.it, 21/7/2017; Eugenio Benetazzo, Soli con loro, www.eugeniobenetazzo.com, 20/7/2017; Alessandro Visalli, Tito Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento, www.tempofertile.blogspot.it, 26/7/2017; Ennio Abate, Appunti politici: Visalli e i migranti, www.poliscritture.it, 21/7/2017.

9. La domanda mi è venuta leggendo l’articolo di Michele Rallo, Migranti: se sono un “arricchimento” perché gli altri non li vogliono?, www.ildiscrimine.com, 16/7/2017.

10.Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma, 2011.

11. Ministero dell’Interno: Immigrazione, Minniti: Europa e Africa devono lavorare insieme e Dichiarazione di Tunisi: Seconda Riunione ministeriale del Gruppo di Contatto sulla rotta della migrazione nel Mediterraneo centrale (24 luglio 2017) in www.interno.gov.it.

12.Per una lettura geodemografica e del ruolo della demografia nello sviluppo dell’Italia supportato da dati e da analisi interessanti anche se non inquadrate in una logica geostrategica e geopolitica del conflitto mondiale si rimanda a Massimo Livi Bacci, La demografia prima di tutto in Limes n.4/2017, pp.46-47; Idem, All’Italia servono persone prima che braccia in Limes n.7/2016; Germano Dottori, Non sarà l’immigrazione a rilanciare l’Italia in Limes n.7/2016.

13.Sulla distruzione della Libia si invia a Luigi Longo, Che ci fa l’Islamic State (IS) in Libia? Perché non lo chiediamo agli USA, www.conflittiestrategie.it, 2/3/2015; sugli scenari economici che si aprono in Libia si veda Rosanna Spadini, Fincantieri: a volte sei il parabrezza e a volte sei l’insetto, www.comedonchisciotte.org, 29/7/2017; sulle sanzioni USA contro la Russia per le interferenze nelle elezioni americane del 2016 e per le aggressioni militari in Ucraina e Siria (SIC) e i conseguenti danni alle aziende soprattutto tedesche e francesi si veda Maurizio Blondet, Saprà la Merkel gestire in modo razionale l’inevitabile Italexit?, www.maurizioblondet.it, 26/7/2017; Idem, Le nuove sanzioni USA ci rovineranno e l’Europa può farci poco, www.maurizioblondet.it, 27/7/2017; Marco Valsania, Sanzioni alla Russia via libera della Camera USA. Trump “commissariato” in Il Sole 24 Ore del 26/7/2017.

14. Manlio Dinucci, Per il Sud niente investimenti, op.cit.

15.Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Canto XXVI, versi 118-120, BUR, Milano, pp.529-530.

16..Limes n.4/2017, in particolare: Editoriale, pp.7-27; Dario Fabbri-Federico Petroni, Il limes germanico ferita e destino d’Italia, pp.31-39; Dario Fabbri, Spaccata e ideologica. L’Italia tra Germania e Stati Uniti, pp. 75-83; si legga anche l’analisi della situazione europea in relazione agli USA di Gianfranco La Grassa, Dagli USA al mondo: incertezze e imprevedibilità, www.conflittiestrategie.it, 24/7/2017; Idem, Europa unita=Europa sottomessa, www.conflittiestartegie.it, 30/3/2017.

17.Sulle operazioni Mare Nostrum, Triton e Frontex si rinvia al sito del ministero dell’interno (www.interno.gov.it ). E’ stata Emma Bonino a parlare ( perché proprio ora?) dell’accordo di Matteo Renzi. Tale accordo è stato confermato anche da Marco Minniti, si veda rispettivamente Redazione, Migranti in Italia in cambio di flessibilità. L’accusa della Bonino al Governo, www.quifinanza.it, 7/7/2017; Redazione, Immigrazione, Marco Minniti conferma la ricostruzione di Emma Bonino: l’invasione l’ha voluta Matteo Renzi, www.liberoquotidiano.it, 20/7/2017.

18. Prossimamente tratterò il caso di studio del CARA di borgo Mezzanone, un borgo della città di Manfredonia in Puglia, per capire le ragioni e le funzioni delle strutture di gestione dei flussi migratori a livello nazionale come conseguenza delle strategie statunitensi ed europee. Una sorta di intreccio tra sistema locale e sistema europeo e una possibile costruzione della filiera del potere ( non del dominio) della questione migrazioni. Cioè capire le responsabilità dei predominanti USA ( il dominio), la responsabilità dei subdominanti europei ( il potere) e la responsabilità dei servi subdominanti italiani ( il sotto potere).

19.Per una analisi storica delle città ribelli si rimanda, con una lettura critica, a David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano, 2013, soprattutto pp. 141-181; sui flussi migratori si veda Gianfranco La Grassa, Chi conduce il gioco e chi dovrà condurlo, www.conflittiestrategie.it , 5/7/2017.

20.Sul regime di servitù nazionale e militare italiana nei confronti degli Stati Uniti si veda l’interessante articolo del Generale Fabio Mini, USA-Italia. Comunicazione di servizio in Limes n.4/2017.

21.Italia 2014 Renzi a Bari promette alle Pharma “ Noi vi garantiamo un progetto di lungo-periodo, invitiamo le università, le imprese a investire i territori a credere nel settore farmaceutico perché il made in Italy non deve significare solo food e fashion ma anche settore farmaceutico” e poco dopo il ministro Beatrice Lorenzin si reca da Barack Obama dove l’Italia viene incensata come capofila della GHSA: l’Italia guiderà nei prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel mondo. E quanto deciso al Global Health Security Agenda (GHSA) che si è svolto alla Casa Bianca. Il nostro Paese, rappresentato dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, accompagnata dal Presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) prof. Sergio Pecorelli, ha ricevuto l’incarico dal Summit di 40 Paesi cui è intervenuto anche il Presidente Barack Obama. “E’ un importante riconoscimento scientifico e culturale per l’Italia, soprattutto in questo momento in cui stanno crescendo atteggiamenti ostili contro i vaccini-ha dichiarato il prof. Sergio Pecorelli. Dobbiamo intensificare le campagne informative in Europa, dove sono in crescita fenomeni anti vaccinazioni” in Emanuela Lorenzi, Fanta-epidemia e veri sciacalli, www.comedonchisciotte.org, 26/6/2017.

22.Marco Della Luna, Vaccini: proposta di legge, www.marcodellaluna.info, 9/7/2017.

23.Una Europa federata tra nazioni sovrane significa, come la storia europea dimostra, che non può esserci nessuna nazione egemone all’interno della nuova configurazione, si veda Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, il Mulino, Bologna, 1988.

24.Luigi Longo, L’uscita dall’euro non è un problema prioritario. Priorità è la sovranità nazionale ed europea, www.conflittiestrategie.it, 16/1/2015.

25.Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, volume III, quaderno 22, Einaudi, Torino, 1975, pp.2178-2179.

26.Sull’aspetto delle alleanze per una fase di miglioramento avendo sullo sfondo un progetto altro della società ( due progetti, due tempi) si veda Pierluigi Fagan, L’eterno ritorno della servitù volontaria. Riprendendo in mano l’intuizione di Etienne de La Boètie, www.pierluigifagan.wordpress.com, 24/7/2017.

27.La capacità di egemonia di agenti strategici come espressione della sintesi nazionale degli agenti strategici di potere delle diverse sfere sociali ( economiche, politiche, culturali, eccetera).

28.Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi, Torino, 1972, pp.344-345.

29.Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, Canto VI, versi 75-78, BUR, Milano, 1975, pp. 125-126.

30.Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria, il Mulino, Bologna, 2016.

 31.Gyorgy Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, Volume II, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp.278-279.

Tragicomiche, a cura di Roberto Buffagni

In calce il testo tradotto della lettera che i Presidenti dei paesi del gruppo di Visegrad hanno inviato al Capo del Governo Italiano. Non è escluso che l’iniziativa goda del placet dei paesi capofila dell’Unione Europea. La nostra classe dirigente si è costruita un recinto nel quale è facile entrare, ma dal quale è sempre più difficile uscire. Deve aver smarrito le proprie chiavi dei cancelli e deve aver consegnato troppe copie di esse in giro_Giuseppe Germinario

Gentile Signor Primo Ministro,

seguiamo con attenzione e simpatia gli sforzi eccezionali che l’Italia sta facendo per affrontare l’attuale pressione migratoria.

Ci teniamo ad assicurarLe, signor Primo Ministro, che i nostri Governi sono come sempre pronti a contribuire, nei limiti dei loro mezzi, agli sforzi che Italia ed Europa sostengono allo scopo di fermare  le partenze dalla Libia e da altre località dell’Africa Settentrionale, e per arginare i flussi d’immigrazione irregolare verso l’Europa, e in particolare verso l’Italia.

Il nostro orientamento complessivo è che dovremmo affrontare con incisività le cause di fondo  delle migrazioni, e adottare politiche adeguate al fatto che la larga maggioranza dei compositi flussi migratori è composta da migranti economici.

Siamo persuasi che i richiedenti asilo autentici dovrebbero essere identificati prima di entrare nel territorio dell’Unione Europea. Le nostre frontiere esterne vanno protette. La UE e i suoi Stati membri dovrebbero mobilitare risorse, finanziarie e d’altra natura, per creare condizioni sicure e umane in centri di raccolta (hotspots) o strutture di accoglienza esterne al territorio UE. In spirito di solidarietà, i paesi del Gruppo di Vysegrad sono pronti a dare un significativo contributo, finanziario e d’altra natura, a tutti gli sforzi europei e nazionali volti ad alleviare il peso gravante su Stati Membri che, come l’Italia, si trovano in prima linea,  in conformità al il nostro orientamento complessivo e nei limiti delle nostre capacità nazionali, con l’esclusione di azioni e strumenti che possano creare ulteriori e più forti fattori d’incremento della pressione migratoria, quali, in particolare,  i riallocamenti e il meccanismo obbligatorio e automatico di ridistribuzione. Sulla base delle necessità identificate, i paesi del Gruppo di Vysegrad offrono il loro contributo in particolare nelle seguenti aree:

  1. Contributo, dietro richiesta, alle attività UE alla frontiera meridionale della Libia,
  2. Contributo all’allestimento, protezione, creazione di umane condizioni di vita in centri di raccolta (hotspots) situati all’esterno del territorio UE,
  3. Contributo all’addestramento della Guardia Costiera libica,
  4. Contributo al rafforzamento delle capacità dell’EASO[1],
  5. Contributo al Codice di Condotta delle ONG.

Ci si consenta di reiterare il nostro sostegno al vostro Paese e di proporre un dialogo volto a identificare i contributi più necessari.

Distinti saluti,

Beata Szydlo, Primo Ministro della Repubblica di Polonia

Bohuslav Sobotka, Primo Ministro della Repubblica Ceca

Robert Fico, Primo Ministro della Repubblica Slovacca

Viktor Orbàn, Primo Ministro d’Ungheria.

Copia per conoscenza: Membri del Consiglio d’Europa

[1] https://www.easo.europa.eu/, European Asylum Support Office [N.d.T.]

MARCO TULLIO CICERONE E TAJIP ERDOGAN. DEMOCRAZIE GEMELLE CON SUGGERIMENTI PER NOI. di Antonio de Martini

Tratto dal blog www.corrieredellacollera.com, con la notazione, per altro implicitamente evidenziata anche dall’autore, che tale politica trova adepti convinti tra gli alleati soprattutto europei

Marco Tullio Cicerone, nel pieno della confusione creata dalla congiura di Catilina, prese una decisione “antidemocratica” che oggi farebbe rabbrividire quei campioni di ipocrisia anglosassone di Amnesty International.

Diede ordine, in spregio alla legge romana, di strangolare i senatori Lentulo e Cetego che si sapeva essere la quinta colonna di Catilina in città.

Questo gesto fece capire ai romani che non si trattava più di politica ma di sopravvivenza e  Catilina capì  che la Repubblica gli aveva tagliato le unghie ed era pronta a combattere.

Erdogan ha licenziato tutti gli appartenenti alla numerosa ( 60.000) congrega diFetullah Gulen che operava silenziosamente per sabotare la Repubblica Turca su mandato – o sotto lo sguardo benevolo- del governo USA. Non si capisce perché non avrebbe dovuto, visto che la Germania democratica , riunificandosi, ha licenziato tutti gli impiegati statali della Repubblica Democratica Tedesca, senza che nessuno fiatasse. Un milione e mezzo di individui.

Lo scopo recondito, ma sempre più evidente, è quello di ridurre le dimensioni di ogni protagonista della vita politica mediterranea in maniera da rendere meno pericolose eventuali crisi per la ridotta capacità militare di ciascuno.

La Jugoslavia è spaccata in quattro, il Sudan in tre, la Libia in tre, la Siria in tre ( operazione in corso), lo Yemen in tre. Con l’Algeria ci hanno provato con dieci anni di guerra civile, come pure nella Russia mussulmana ( Cecenia).

Si vuole privare la Turchia del kurdistan ( paese mai esistito come nazione indipendente, proprio come il Kosovo o la Repubblica di Macedonia) , dividere in due l’Irak, minacciare – per ora solo politicamente – la Spagna e l’Italia con la secessione rispettivamente della Catalogna e del Lombardo Veneto.

Gli stessi fremiti disgregatori interni alla Unione Europea, sono alimentati dagli Stati Uniti e la secessione inglese è emblematica di quanto dico.

I paesi più riottosi verso l’Unione. Sono i più amichevoli verso gli USA ( gruppo di Visegrad) e i più aiutati ( Bulgaria e Romania).

Si analizzano con pretesti sociologici le diversità ( religiose, di lingua etc) e si finanziano individui ambiziosi che i media mondiali si incaricano di rendere famosi e intoccabili per minacciare prima e provocare poi spaccature e secessioni vere e proprie con l’aiuto di ONG tutte finanziate da ” fondazioni” nate e cresciute in America. La difesa è non tener conto delle cosidette regole democratiche che  sono loro i primi a violare quando gli conviene ( in patria – con le pantere nere- e all’estero, ormai ovunque)

La reazione, in nome del principio unitario è legittima, doverosa e giusta e deve giungere alle logiche conseguenze.

Come è avvenuto per gli agitatori ” egiziani” e ” siriani” tutti dotati anche di passaporti USA, dei nove cittadini tedeschi detenuti oggi in Turchia per attività pseudo democratiche, quattro hanno la doppia cittadinanza. Chiedono cose che negli USA, ai neri, costano ancor oggi la vita.

La Turchia è stata subappaltata alla Germania come Libia e Siria alla Francia.

La ragione è di fingere l’ amicizia USA vista la superiore necessità strategica di contenere la Russia nel fianco sud della NATO.

La Turchia reagisce, per ora, punzecchiando, come ad esempio facendo rivelare alla Agenzia Anadolu la posizione di due basi segrete USA in territorio siriano.

Diventa sempre più necessaria una nuova politica estera italiana e la creazione di una struttura statuale in grado di resistere a questo nuovo tipo di guerra, rafforzare la solidarietà europea e limitare drasticamente le attività delle fondazioni, ONG , Think Tank e tutti gli altri strumenti di sovversione miranti- nei fatti- a disgregare il nostro stato. La Patria è finita a puttane da un bel pezzo.

Ne riparleremo dopo averli cacciati.

I RIMPATRIATI, di Giuseppe Germinario

DELLA MAGNANIMITA’ DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

Doveva arrivare Emma Bonino ( https://www.youtube.com/watch?v=Y4En-tVTH2E&feature=youtu.be ), ex ministro degli esteri, a svelare gli arcani che rendessero intelligibili le ragioni dell’attuale gestione dei flussi migratori provenienti dal sud del Mediterraneo. Un protocollo segreto, tutt’ora in vigore e non smentito, gestito in ambito comunitario e sottoscritto dall’allora Governo Italiano stabilisce che, non si sa se per accordo o magnanima disponibilità unilaterale del nostro Bel Paese, i porti italiani garantiscano l’esclusiva dell’accoglienza non ostante l’obbligo di soccorso preveda lo sbarco presso l’approdo più vicino, nella fattispecie Malta o la Tunisia. Non si comprendono le ragioni del vaticinio della nostra sacerdotessa dei diritti umani; verosimile ricondurle alla guerra di successione e di secessione ascrivibile alle trame piddine e al riemergere di antichi eterni rivali ai danni di Renzi, tra i tanti Enrico Letta. La data di sottoscrizione di quel protocollo contribuirebbe ad illuminare il bersaglio degli strali; vista la prossima scadenza elettorale non si dovrà, presumibilmente, attendere troppo.

A corollario di quel protocollo, si precisa con certosina accuratezza, questa volta evidentemente dagli accoglienti di risulta, che l’eventuale ripartizione tra i paesi europei, per altro disattesa, dovesse riguardare i soli profughi di guerra, in particolare siriani, eritrei e libici; la minoranza di un flusso proveniente ormai soprattutto dall’Africa Subsahariana. A condizione che gli immigrati fossero ovviamente censiti e con la possibilità, quindi, di rimpatrio nel paese europeo di primo approdo.

Colpisce certamente il contrasto evidente tra l’italico slancio emergenziale tanto compassionevole quanto refrattario ad una pianificazione degli inserimenti e la presunta chiusura ostile del resto della civiltà europea. Una rappresentazione di sentimenti degna di una sceneggiata napoletana.

La qualità della vita quotidiana di gran parte degli accolti e di quella degli accoglienti occasionali e fortuiti da adito a qualche perplessità sulla genuinità di tale pulsione specie degli accoliti della nostra classe dirigente; è sufficiente trascorrere qualche ora tra i comuni mortali sui treni regionali e nei giardini urbani, specie in prossimità delle stazioni per constatare che alla compassione non seguono adeguate “opere di bene”.

Tutto fa pensare che questo contrasto evidenzi piuttosto le motivazioni e gli aspetti più oscuri e avventati di tali scelte, se non la meschinità più banale dei loro protagonisti.

Di seguito una rassegna certamente non esaustiva:

  • l’insufficiente levatura dei quadri dirigenziali pubblici

nella gran parte dei centri decisionali, compreso il corpo diplomatico, si assiste ormai da alcuni decenni ad uno scadimento della capacità operativa dovuto ad una formazione sempre più aleatoria, ad un collocamento non corrispondente alle competenze possedute e richieste, ad una presenza poco qualificata e autorevole nei luoghi decisivi di formazione e preparazione delle decisioni politiche. Eppure questi centri costituiscono la nervatura essenziale il cui corretto funzionamento e controllo consentono le scelte consapevoli dei decisori politici di ultima istanza

  • la rappresentazione passiva e contingente dell’interesse nazionale dei nostri decisori politici

la gestione dei flussi migratori mette in luce la particolare visione delle dinamiche internazionali e della difesa dell’interesse nazionale di cui soffrono i nostri centri decisionali.

Sono viste come dinamiche ineluttabili sia nella tendenza che nelle modalità di svolgimento; sono dinamiche gestibili da organismi sovranazionali dotati di forza propria,  guidati da un presunto interesse più generale e ai quali gli stati nazionali devono delegare più o meno volontariamente e consapevolmente competenze e poteri.  Si fatica a vederli piuttosto come campi di azione di stati nazionali e tramite di essi di apparati e centri di potere.

Si tratterebbe quindi tutt’al più di rimediare un successo di immagine immediato e contingente, la rappresentazione quindi di un paese aperto ed accogliente; di raccogliere ed approfittare dei benefici finanziari immediati, nella fattispecie i finanziamenti europei; di confidare nell’afflato universalistico, nel buon cuore e nella cecità altrui per la redistribuzione delle “risorse umane”, magari assecondata da qualche furba inadempienza nei censimenti.

Un approccio ancora una volta reso repentinamente inadeguato e controproducente dall’imponenza dei movimenti, dal carattere strutturale dei flussi migratori e dagli effetti scatenanti di grandi decisioni geopolitiche del tutto estranee alla nostra classe dirigente.

 

I VIZI ATAVICI DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

La gestione paradossale dei flussi migratori non è, purtroppo, un episodio estemporaneo ed isolato, come pure il mercimonio, l’oggetto di scambio citato dalla Bonino.

È solo l’ultimo ma purtroppo non definitivo atto di una serie di scelte effettuate con le stesse identiche caratteristiche e modalità operative.

Concentrandosi solo sugli ultimi due decenni, l’ingresso nell’Euro, la regolazione del mercato unico europeo, le privatizzazioni, il processo di unione bancaria, il controllo europeo dei deficit di bilancio con annesso l’obbligo di pareggio, il coordinamento delle politiche fiscali, l’adesione alle avventure militari in Jugoslavia e in Libia sono gli esempi, solo i più appariscenti, di accordi frettolosi ed emergenziali i cui termini hanno dovuto essere regolarmente e rapidamente rinegoziati con deroghe ed elusioni pagate a carissimo prezzo nel lungo periodo e nel peso strategico del paese.

A ben vedere si tratta di un vizio di origine dell’Italia repubblicana sorta da una disastrosa sconfitta militare che ha pervaso, salvo brevi momenti, e innervato sempre più l’azione politica della nostra classe dirigente, specie paradossalmente quando, con la caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto venir meno la ragione dei vincoli militari e politici di sudditanza.

Già agli albori della Comunità Europea, la maggiore preoccupazione di De Gasperi fu quella di garantirsi l’esodo di milioni di italiani in Europa e Sudamerica anche rispetto ai progetti di sviluppo industriale.

Da lì nasce la propensione ad acquisire pochi incarichi dalla immagine significativa ma dallo scarso  potere fattuale e di controllo. La nomina della Mogherini al Alto Rappresentante degli Affari Esteri dell’UE rappresenta solo l’ultimo colpo di scena ben riuscito ma dalle conseguenze peregrine nel prosieguo dell’azione politica. Sulla scia di questi “successi” prosegue pervicacemente altrimenti la maniacale attenzione, manifestata già negli anni ‘50, nell’occupare posti di basso rango negli organismi internazionali glissando allegramente sui posti più vicini ai centri decisionali.

Si tratta di un approccio dalle conseguenze deleterie che pregiudicano la stessa possibilità di formazione di una classe dirigente alternativa adeguatamente preparata ad affrontare le dinamiche politiche di un mondo multipolare.

Qualche dubbio deve assillare lo stesso establishment; tant’è che, a cose praticamente fatte, in Banca d’Italia, ad esempio, hanno recentemente deciso di organizzare un corso di formazione sulla conduzione di una trattativa

In un mondo nel quale le connessioni tra centri strategici nello scacchiere planetario sono sempre più strette e pervasive, tale condizione spinge interi ambiti degli apparati, in particolare i loro vertici, a sentirsi esponenti e portatori più dei centri dominanti e dei loro apparati  che del proprio Stato e della propria comunità nazionale oppure, nella maggior parte dei casi induce ad identificare gli interessi di questi ultimi con i desiderata dei primi. I fautori di “podestà stranieri” in Italia sono particolarmente numerosi e sfacciati.

Un rapido sguardo alle carriere e al mutamento dei rapporti politici della gran parte di questi funzionari, compresi quelli militari e dei servizi, concede del resto poco spazio alle illusioni.

Dall’altra  spinge la gran parte del nostro ceto politico nella condizione di ostaggio e complice dei settori più conservatori e parassitari, se non collocati nella loro corretta posizione di ambiti essenziali ma complementari di una formazione sociale che ambisce a scelte consapevoli.

Nella fattispecie della gestione dei flussi migratori, comincia ad affiorare, purtroppo con colpevole e ovvio ritardo, il ruolo pesante che il terzo settore, le ONlUS, le associazioni ormai non più collegate solo al Vaticano, ma a centri altrettanto se non più potenti, svolgono nel determinare tali condotte politiche. E quello dell’immigrazione è solo uno degli ambiti operativi di questi ambienti. Per non parlare poi della fronda  presente ad esempio nelle gerarchie militari, in particolare della Marina e dell’Aviazione Militare al sorgere di un minimo sussulto di ripensamento.

 

A PROPOSITO DI INTERESSE NAZIONALE

Ne deriva, di conseguenza, una visione per così dire alquanto ristretta, precaria, volubile di interesse nazionale.

Tacciare di tradimento questa conduzione politica e di traditori i portatori di essa serve a ben poco se non ad esorcizzare il problema nella propria condizione di impotenza e a ridurre il contenzioso  ad una mera liquidazione e sostituzione del ceto politico con qualche fugace bella figura al tribuno di turno. Le recenti esperienze di Syriza in Grecia e del Front National in Francia dovrebbero indurre a qualche riflessione.

Il termine interesse nazionale induce spesso ad una retorica esacerbata di comunanza indistinta di interessi, di punti di vista e di emozioni che tende a nascondere e perpetuare le ineguaglianze più deleterie, la fragilità di un movimento politico, la ristrettezza di un blocco sociale consenziente e la inconfessabile dipendenza dal sostegno esterno. Non è un caso che la retorica più accesa e vuota si sia affermata ad esempio in quei movimenti come quello slavo nella dominazione ottomana e quello polacco nella componente a dominazione zarista privi di esperienza di gestione del potere e largamente dipendenti dal sostegno di potenze rivali.

Lo stesso termine, però, può servire alla formazione di una comunità capace di una sintesi estesa di interessi, punti di vista, e centri di potere diversificati ed ineguali tale da garantire la coesione solida ed estesa di una formazione sociale dinamica, in grado di sostenere un confronto sempre più complesso e acuto. Una formazione capace quindi di esprimere poteri ed apparati forti, élites determinate e comprensive.

 

La prima strada, prima o poi sarà quella che dovrà imboccare l’attuale classe dirigente o i suoi epigoni, ormai privi di una significativa compiacenza esterna. L’esperimento di costruzione del Partito della Nazione è stato il primo tentativo maldestro, consumatosi rapidamente per la qualità dei promotori e per l’incapacità e l’impossibilità di associare alla riorganizzazione istituzionale un progetto di rinascita del paese. Ne seguiranno altri, dopo una fase di decomposizione, resi probabilmente più credibili dalla condizione più precaria del paese piuttosto che dalle qualità intrinseche dei programmi.

 

In mancanza di alternative, l’attuale classe dirigente nazionale appare interessata a dilaniarsi in attesa che si ridefiniscano le linee e le gerarchie esterne di comando ed indirizzo nel mondo. I barlumi di verità che squarciano la nebbia, comprese le affermazioni della Bonino, sono uno strumento estemporaneo di questo regolamento di conti con scarse probabilità di innescare un dibattito serio sull’argomento. Trascinano il paese in una condizione talmente peregrina da far rifulgere nazioni come la Francia e la Germania, anch’essi in realtà in una condizione di netta sudditanza.

Sia la Francia che soprattutto la Germania hanno rivelato doti di chiaroveggenza nell’attestarsi in condizioni più favorevoli nel contesto internazionale e, soprattutto, nella gestione del processo di integrazione comunitaria. Contrariamente all’Italia, sono state capaci, soprattutto la seconda, di riorganizzarsi a tempo prima e durante il processo di integrazione avviato negli anni ‘90.

Anche questo è un modo particolare di definire l’interesse nazionale.

Merito probabilmente della migliore qualità della loro classe dirigente e della maggiore coesione dei loro apparati istituzionali; merito, soprattutto, del riconoscimento del loro ruolo di interlocutori principali della potenza dominante nella gestione delle “quistioni” continentali che ha consentito loro una parziale pianificazione delle tattiche e delle strategie ai danni degli ultimi gironi danteschi.

Non è un caso che la Germania di Angela Merkel, a suo rischio e pericolo, non abbia esitato a decidere a quale gregge appartenere nel contenzioso americano tra una componente speranzosa di perpetuare e conseguire un dominio unipolare troppo costoso in termini economici e di coesione della propria formazione sociale ed una al contrario più pronta a prendere atto della formazione di nuove potenze e di nuove aree di influenza più marcate e diversificate. La Francia di Macron apparentemente sostiene la fedeltà teutonica al vecchio establishment, ma a costi interni più gravosi e con l’obbligo di appoggiarsi all’ombrello americano per salvaguardare parte dei propri legami africani e nel Pacifico.

L’Italia è lì che aspetta con l’evidente probabilità di continuare ad essere il luogo di attenzione e di spoliazione di più contendenti, priva delle scappatoie del servizio a più padroni di goldoniana memoria concesse sino a poco tempo fa.

Le opportunità che nell’attuale contesto internazionale si stanno aprendo, rischiano di chiudersi nel giro di pochi anni se non di mesi. Noi continuiamo a sorbirci i Calenda, i Renzi, i Gozi, i Berlusconi di turno impegnati a predicare le magnifiche sorti e progressive del mercato e del governo mondiale. Gran parte dei cosiddetti oppositori stanno contribuendo generosamente a mantenerli in auge o a sostituirli in copia conforme.

 

LA NUOVA POLITICA ESTERA DELLA GERMANIA E LE CRISI NELL’EST EUROPA, di Massimo Morigi_ Testo del 5 febbraio 2014

Proseguono le spigolature di Massimo Morigi sul “Repubblicanesimo Geopolitico” con una breve introduzione dell’autore

«Non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile, si aprì subito un problema del tutto nuovo e sino ad allora inimmaginabile: quello di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre. La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un nuovo ordinamento globale dello spazio. Questa la situazione che emerse in seguito alla circumnavigazione della terra  e delle grandi scoperte dei secoli XVI e XVII. Contemporaneamente si iniziava con ciò l’epoca del moderno diritto internazionale europeo, che si sarebbe conclusa solo nel secolo XX. La scoperta del Nuovo Mondo provocò subito anche l’accendersi della lotta per la conquista delle terre e dei mari facenti parti di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora in misura crescente una faccenda riguardante tutti gli uomini e le potenze coesistenti sullo stesso pianeta. Vennero ora tracciate linee per dividere e ripartire la terra intera.»: Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006, p. 81.
Nel secondo  capitolo del Nomos della Terra, “La conquista territoriale di un nuovo mondo”, al suo primo paragrafo, “Le prime linee globali (Dalla “raya” attraverso la “amity line”, alla linea dell’emisfero occidentale)”,  Carl Schmitt inizia così a tracciare la logica storico-genetica della nascita delle amity lines. Da una parte la lotta delle grandi potenze cristiane per accaparrarsi la maggior quota possibile delle nuove terre conosciute attraverso le scoperte geografiche cinquecentesche. Dall’altra la necessità di arrivare fra queste potenze ad una sorta di entente cordiale per la spartizione di queste terre. La risultante fra queste due spinte contrastanti (lotta di rapina fra le potenze cristiane per strapparsi le nuove terre e necessità di addivenire ad un accordo di spartizione) fu la nascita delle cosiddette  amity lines, amity lines che nell’argomentare schmittiano rivestono una doppia natura, potevano cioè essere semplici accordi di spartizione territoriale, insomma accordi alla stregua del Trattato di Tordesillas fra Spagna e Portogallo, oppure l’amity line può avere un significato più metapolitico, può essere cioè il riconoscimento dell’alterità fra il mondo cristiano e le nuove terre e genti da conquistare e questa alterità aveva la conseguenza che contro questo mondo ogni forma di aggressività era consentita mentre nella lotta fra le potenze per la conquista dello stesso la guerra doveva seguire delle regole, insomma la guerra fra potenze doveva assumere la forma di iustum bellum e la potenza che si batteva contro un’altra assumeva  così  la natura di  iustus hostis, un nemico che per quanto avverso era riconosciuto nella sua dignità di cristiano e  contro il quale non era così consentito impiegare l’indiscriminata violenza che poteva e doveva essere esercitata contro il nemico dimorante nei territori al di là delle amity lines. Erano cosi state poste le basi per quel ‘Nomos della terra’ che verrà sconvolto dalle due guerre totali del Novecento scatenate per Schmitt per responsabilità delle due potenze talassocratiche Inghilterra e Stati uniti, potenze le quali proprio per la loro natura marina e liquida non potevano riconoscere né una divisione more geometrico del globo terrestre né giusti nemici o giuste guerre caratterizzanti l’ormai sorpassato nomos della terra  perché per Schmitt la mentalità marittima  può solo mettere in atto azioni di sregolata  pirateria ai danni del nemico (ciò che per Schmitt sono state la prima e seconda guerra mondiale ai danni della Germania da parte dell’Inghilterra  e degli Stati uniti) e ripudiare la guerre en forme del Nomos della terra implicante “giusti nemici” e non nemici da annientare nati con le due guerre totali novecentesche e quindi mettere al bando farisaicamente la guerra (e da questo farisaico ripudio della guerra en forme, la nascita del nemico dell’umanità, nel Novecento storicamente rappresentato dalla Germania che aveva perso le due guerre mondiali).  Da questa lunga premessa schmittiana, la grammatica elementare per comprendere gli elementi di continuità fra la situazione descritta nell’articolo “La nuova politica estera della Germania e le crisi nell’est Europa”, scritto nel febbraio del 2014, e l’odierna situazione dell’estate del 2017, dove a differenza che nel 2014 sembra che apparentemente le posizioni della Germania e degli Stati uniti stiano sempre più divaricandosi. Certamente, come magistralmente insegna Gianfranco La Grassa, il quadro internazionale è in via di una progressiva ed incalzante frantumazione e questo processo dal 2014 ad oggi non ha fatto altro che accentuarsi ma il punto è, e qui il pensiero di Schmitt, può veramente venirci in soccorso per comprendere la situazione, che non è affatto detto che la frantumazione all’interno del vecchio perimetro delle alleanze debba necessariamente portare ad una sorta di guerra totale all’interno fra i vecchi soci dello stesso. Insomma, all’interno del vecchio perimetro dell’alleanza occidentale è possibile e verosimile che si costituisca una sorta di amity line che, se apparentemente assume le movenze della guerra politica e/o militare (allo stato la seconda ipotesi è veramente molto remota), si tratta di una guerra en forme tipica del periodo della nascita e sviluppo delle amity lines. Ma purtroppo da questa ipotesi di evoluzione del quadro internazionale non deriva alcunché  di buono per il nostro paese, perché in questo quadro l’Italia rischia veramente di fare la fine di quel mondo extracristiano per il quale non valevano amity lines e guerre più o meno in forma. Questi  paesi fuori dal perimetro della cristianità e all’esterno delle amity lines dovevano subire guerre di depredazione delle risorse e guerre di sterminio e/o genocidiare. E se qualcuno pensa che magari il brave new world della democrazia potrà sì implicare gerarchie certamente dure ma ha definitivamente abbandonato queste pratiche barbare, noi da modesti geopolitici invitiamo a considerare quello che è accaduto negli ultimi anni dal punto di vista economico all’Italia con la distruzione della sua capacità produttiva a vantaggio del capitale straniero e dal punto di vista dello stravolgimento dell’assetto demografico-culturale, quello che si continua a perseguire favorendo sul nostro territorio il flusso e la permanenza di popolazioni allogene, flusso indiscriminato e permanenza culturalmente assimilabile solo in un demente delirio multiculturale alla united colors of Benetton o lucidamente desiderabile solo in un cosciente e criminale disegno di cancellazione dell’identità storico-culturale italiana tali da poter dire che in Italia si rischia di mettere in atto un novello tipo di genocidio, un genocidio che al contrario di quelli novecenteschi non contempla lo sterminio di una popolazione ma il suo annegamento e il suo azzeramento a dosi omeopatiche attraverso l’immane afflusso di nuove popolazioni allogene (quindi genocidio  per diluizione attuato sotto regime “democratico” e degli universalisti diritti umani anziché genocidio per sterminio  e con il mito della razza o dell’uomo nuovo tipico dei totalitarismi novecenteschi). Il tutto con la benedizione interessata delle potenze la cui vicendevole aggressività è regolata e delimitata  dalle nuove amity lines post guerra fredda e che fra  litigi ed accordi tipici della guerre en forme di un mondo sempre più multipolare, grandemente  prediligono  per compiere le loro incontrollate e violente  scorrerie assai poco en forme ma tipiche dell’ hobbessiano homo homini lupus la presenza di territori coloniali dove tutto è consentito ai danni di questi territori. E l’Italia fa purtroppo pienamente parte di questi nuovi tristi e sempre più depredati territori coloniali dell’era post caduta muro di Berlino e di un mondo sempre più frantumato e multipolare.

Massimo Morigi – 30 giugno 2017

Gli interventi sul “Corriere della Collera” di Antonio de Martini sulla crisi Ucraina – e sulla prossima crisi della Moldova che già si intravvede – ci offrono una doppia chiave di lettura in merito al delinearsi e disporsi delle forze che si contendono il dominio dello scenario internazionale.
In primo luogo, come peraltro rilevato da più osservatori, c’è da rilevare che la Germania sta definitivamente abbandonando il ruolo di gigante economico ma nano politico a favore di una politica che al posto della vecchia Ostpolitik, consunto ricordo di una Germania ancora divisa, intende piuttosto sposare l’ancor più vecchio – e carico di lugubri e tragici ricordi – Drang nach Osten che fu uno degli slogan non solo della criminale politica nazionalsocialista ma anche la linea guida della politica guglielmina riguardo l’Europa orientale, che già nei piani di guerra della Germania imperiale doveva essere completamente asservita (vedi il September Programme che fra le altre cose, tipo l’annessione del Belgio, contemplava ad est la creazione di stati satelliti completamente sottomessi alla Germania ed in funzione anti-russa).

Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 8 di 11

Oggi, a differenza che nel September Programme e nel Drang nach Osten, questa spinta verso oriente non viene più effettuata dalla Germania manu militari ma in modo indiretto sobillando tumulti verso quelle aree dell’ex impero sovietico che si mostrano più credulone – ed anche più corrotte nelle loro classi dirigenti – riguardo alle “magnifiche sorti e progressive” assicurate dall’ingresso nell’Unione europea (alla quale non a caso è stato conferito il premio Nobel per la Pace …).
E con ancor maggior differenza che nel passato novecentesco, in quest’opera di tentata disgregazione dell’area di influenza russa in Europa, la Germania viene spalleggiata dagli Stati uniti, ai quali non sembra vero di aver trovato finalmente un attivo proconsole che nell’area del Vecchio continente la possa appoggiare nella sua “strategia del caos”, peraltro praticata in altre aree con alterne fortune.
La seconda considerazione riguarda, more solito, la totale disinformatzia di cui ha goduto l’evento in questione. Come al solito (vedi primavere arabe, vedi caso Siria) nessun mass media e nessun intellettuale – tranne le solite pochissime eccezioni – ha proferito una sillaba su quello che sta realmente accadendo in Ucraina, sulle forze che si stanno scontrando e sugli interessi che realmente sono sul tappeto. E a costo di ripeterci ancora, questo occultamento della verità se è da un lato è spiegabile con l’ “umano, troppo umano” di coloro che operano nei mezzi di informazione (mezzi di informazione che anche all’estero, contrariamente a quanto si crede, sono anch’essi quasi totalmente funzionali al rincretinimento delle masse), dall’altro richiama in campo la necessità di fuoruscita dagli idola fori ereditati dalla seconda guerra mondiale.
Il Repubblicanesimo Geopolitico è il tentativo di operare questa fuoruscita e in nome di un autentico e concreto praticato percorso di libertà vuole far sì che il disvelamento delle menzogne ideologiche che hanno prosperato all’ombra dei nobilissimi concetti della tradizione politica occidentale non porti il ripiombare – de facto – nelle vecchie forme di autoritarismo.
Un’impresa per la quale, come tutte le evidenze stanno a mostrarci, è veramente molto vocata – mutatis mutandis – l’Unione europea e prima di tutti il caposcalo di zona agli ordini degli Stati uniti, che risponde a nome di Repubblica Federale di Germania.
Massimo Morigi – 5 febbraio 2014

Intervista a Giorgio Panattoni, ex dirigente ed AD di società del Gruppo Olivetti, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di una intervista su un argomento sempre attuale riguardante la storia della grande industria italiana. L’ascesa e il mesto declino dell’Olivetti, a partire dalla metà degli anni ’60. L’Olivetti è probabilmente l’esempio emblematico delle grandi potenzialità industriali e della genialità espresse dal paese, ma rimaste alla fine in un limbo che ne hanno impedito la definitiva affermazione per l’incapacità e la mancanza di volontà della nostra classe dirigente di sostenere la costruzione di una piattaforma industriale in grado di determinare gli standard in uno dei settori strategici del mercato e delle infrastrutture dei paesi negli anni a venire. L’intervista a Giorgio Panattoni che in qualità di dirigente e AD delle società del gruppo ha percorso tutti gli ambiti e i meandri dell’Azienda, è già apparsa sul sito conflittiestrategie il 27 novembre 2012. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Intervista a Giorgio Panattoni I Parte

II parte

III parte

IV parte

V parte

VI parte

Intervista a Giorgio Panattoni II Sezione I Parte

II parte

III parte

IV parte

V parte

VI parte

7° PODCAST _ Le Filippine sono vicine, di Gianfranco Campa

Ci siamo lasciati nel podcast di sette giorni fa con un accenno finale alla situazione nelle Filippine ed eccoci a commentare, con l’audio odierno, le prodezze militari degli affiliati ISIS di quel paese, precisamente nell’isola di Mindanao. Un salto di qualità inquietante dell’azione militare che lascia presagire analoghe iniziative in altri punti critici del mondo. Sino ad ora in Europa abbiamo assistito all’azione terroristica di gruppi almeno in apparenza limitati; le enclaves presenti in varie città europee, la chiusura in comunità poco permeabili di vasti insediamenti di immigrati, la recente scoperta in Spagna di un naviglio carico di tonnellate di armi destinate a gruppi interni lascia intendere che anche l’Europa coltiva l’humus e comprende questi punti critici. L’azione militare legata all’integralismo islamico, per quanto rozzo e strumentale possa apparire il bagaglio ideologico, nasce da conflitti interni al mondo musulmano, in particolare arabo e nordafricano; è sempre più una componente di giochi geopolitici di forze, centri strategici e stati di gran lunga più potenti e pervasivi. Sia in maniera passiva, consentendo, come in Francia e Gran Bretagna, una azione di influenza perniciosa di paesi arabi, in particolare quelli più integralisti della penisola arabica, tra le comunità di immigrati di quei paesi in cambio di investimenti finanziari, commesse e quant’altro; sia in maniera attiva con il sostegno diretto alle loro politiche estere. Le primavere arabe rappresentano l’apoteosi di questo impegno scellerato. Adesso rischiamo di pagare lo scotto di tanto avventurismo. Il generale Mattis, Segretario alla Difesa americano, nella intervista pubblicata tre giorni fa, ha del resto dichiarato che la lotta all’ISIS rappresenta almeno a parole la priorità, ma va inquadrata nell’ambito di uno scontro con forze ben più potenti: l’Iran, la Cina, la Russia quindi. Non ci resta che fissare bene nella memoria nostra e della popolazione più attenta le responsabilità di queste classi dirigenti, specie europee, perché è qui che ci tocca vivere e qui si concentreranno gran parte degli interessi in conflitto, costrette a pescare sempre più nel torbido e nel trasformismo per sopravvivere. Intanto a Londra mentre scrivo un altro autista un po’ distratto…Buon ascolto_ Giuseppe Germinario

LA NATO E L’ADDESTRAMENTO PREVENTIVO PER LE CITTÀ RIBELLI EUROPEE. (a cura di) Luigi Longo

 

Riporto due scritti sulla militarizzazione del territorio europeo attraverso la NATO. Il primo riguarda il processo di americanizzazione e di militarizzazione delle città europee a partire dal Trattato di Velsen che istituisce la Eurogendfor, la polizia continentale con ampi poteri che fa capo alla NATO e, quindi, agli USA ( per una conoscenza ufficiale della Eurogendfor si veda il sito www.eurogendfor.org ).

Il primo scritto comprende lo stralcio dei paragrafi 3 “ l’americanizzazione del territorio europeo e italiano “ e 3.2 “ la militarizzazione delle città e dei territori” tratti dal mio, l’americanizzazione del territorio ( appunti per una riflessione), pubblicato su www.conflittiestrategie.it, 29/3/2014.

Il secondo scritto concerne la costruzione di una città-modello per l’addestramento di truppe al fine di combattere i cittadini europei che potrebbero ribellarsi ai loro sub-agenti dominanti a causa della grave crisi d’epoca che si accentuerà, tra alti e bassi congiunturali, mano a mano che la fase multicentrica avanza. La costruzione della città-modello è in realizzazione nella parte nord-orientale dello stato federale della Sassonia-Anhalt in Germania. Lo scritto è di Peter Koenig, Germania e Nato-Repressione fascista in Europa? ed è apparso su www.comedonchisciotte.org., 21/5/2017.

 

 

L’AMERICANIZZAZIONE DEL TERRITORIO

(appunti per una riflessione)

 

di Luigi Longo

 

 

Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente:                                          non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire                                             dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle

                                               armi moderne, la sua stessa esistenza): ma le teorie scientifiche, i                                                processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di                                                        comportamento americani penetrano, per il bene come per il male,                                              tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente                                            non appaia.

Raimondo Luraghi

 

 

In questo dopoguerra non si capisce più niente, questi                                                                   americani hanno cambiato tutto […] questi americani ne                                                              combinano di tutti i colori.

Antonio de Curtis (Totò)

 

 

[…] non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive                                                 degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre in                                                abbondanza tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, vivono popoli la cui                                             vita si svolge nella mitezza presso cui la coercizione e l’aggressione

                                               sono sconosciute. Posso a stento crederci; mi piacerebbe saperne di                                            più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a                                             far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento                                            dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri                                         aspetti tra i membri delle comunità. Io la ritengo una illusione.                                                  Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono                                     uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli                                                           stranieri. D’altronde non si tratta, come Ella stessa [ Einstein, mia                                               precisazione] osserva, di abolire completamente l’aggressività umana;                                               si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione                                          nella guerra.[…] finché gli Stati e nazioni pronti ad annientare senza                                          pietà altri Stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi                                              alla guerra.

Sigmund Freud[1]

 

 

  1. L’americanizzazione del territorio europeo e italiano. I segni del processo di americanizzazione del territorio, sia europeo, sia italiano, intesi come conseguenza della egemonia del modello sociale americano, che si ramifica in maniera profonda dopo il secondo conflitto mondiale ( fine della fase policentrica), con la ricostruzione e il conseguente sviluppo economico e sociale dei Paesi ( fase monocentrica), possono essere così delineati per comodità di sintesi:
  • La perdita della impalcatura urbana e territoriale europea.
  • Lo sviluppo quantitativo della città e del territorio ( la cultura quantitativa del territorio, la città diffusa, la città infinita, la ruralizzazione delle città, eccetera).
  • Il declino della città e del territorio come patrimonio sociale.
  • Le città e i territori della sicurezza e del controllo.
  • Il progetto di realizzazione del Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership).
  • La militarizzazione delle città e dei territori.

 

 

Tratterò brevemente gli ultimi due segni su evidenziati perché li ritengo prioritari in questa fase sociale europea e italiana che vede un aumento di temperatura della fase multipolare per le strategie di attacco degli USA – soprattutto via Siria e Ucraina – nei riguardi della Russia.

Premetto due brevi considerazioni, una storica per comprendere la nascita della potenza mondiale americana; l’altra territoriale per capire la costruzione della sovranità europea.

La prima. L’americanizzazione del territorio europeo e italiano è un processo che inizia con la dottrina di Monroe[2], cioè l’alt dato alle potenze europee di interessarsi al continente America, ovviamente negli interessi degli Stati Uniti e non dell’autodeterminazione dei popoli, e si consolida con la guerra civile americana[3], che rappresenta  per gli USA la svolta che permetterà loro sia di divenire una potenza mondiale, sia di operare una de-europeizzazione del territorio americano che consentirà la costruzione e la riorganizzazione del territorio (città e campagna), a partire da una propria identità, progettualità, disegno e visione[4].

La seconda. La città e il territorio europeo e italiano devono essere oggetto di un processo di de-americanizzazione[5] a partire da un progetto di sovranità su cui innestare una strategia di relazioni sociali altre, cioè, <<[…] trovare il sistema di vita << originale >> e non di marca americana, per far diventare << libertà >> ciò che oggi è << necessità >> >>.

 

 

3.2 La militarizzazione delle città e dei territori. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA ( la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[6]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali ( 900 miliardi di dollari annui), e il suo presidente Barack Obama ha fatto sapere, in queste giornate europee, che<< […] «aerei Nato pattugliano i cieli del Baltico, abbiamo rafforzato la nostra presenza in Polonia e siamo pronti a fare di più». Andando avanti in questa direzione, avverte, «ogni stato membro della Nato deve accrescere il proprio impegno e assumersi il proprio carico, mostrando la volontà politica di investire nella nostra difesa collettiva». Tale volontà è stata sicuramente confermata a Obama da Napolitano e Renzi. Il carico, come al solito, se lo addosseranno i lavoratori italiani[7]>>. Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati[8], porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali ( soprattutto Russia e Cina).

Ho già trattato, nei miei precedenti scritti, la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato (l’intervento sulla TAV) e le città NATO ( i due interventi sull’Ilva di Taranto). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 ( legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente.[…] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della UEO ( Unione dell’Europa Occidentale) che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’UEO da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >>[9].

Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare ( viene sempre più velato ) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale ( di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana.

Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola ( New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta)[10] >>[11]; 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).

Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo.

Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >>[12], questo modello così delineato cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana?[13].

 

 

 

 

 

[1] Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da: Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà, volume sedicesimo, Torino, 1974, pag. XXI; Film: Totò, Fabrizi e i giovani di oggi, 1960; Sigmund Freud, Perché la guerra?. Carteggio con Albert Einstein, La città del sole, Napoli, 1996, pp. 24-25-28.

[2] Nico Perrone, Progetto di un impero 1823.L’annuncio dell’egemonia americana infiamma le borse, La Città del Sole, 2013, Napoli.

[3] Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie, Donzelli, Roma, 2007.

[4] Per una introduzione alla costruzione e contrapposizione politica e ideologica della concezione del territorio tra USA e URSS si veda Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp.63-85.

[5] Non leggo gli Usa come uno stato canaglia o una superpotenza canaglia alla Noam Chomsky (come fa nel suo “De-americanizzare il mondo”, 8/11/2013, www.comedonchisciotte.com ), ma leggo la de-americanizzazione dell’Europa come un processo che limiti l’egemonia degli USA per agevolare un mondo multipolare, possibilmente basato sull’autodeterminazione dei popoli.

[6] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.

[7] Secondo i dati del Sipri, l’autorevole istituto internazionale con sede a Stoccolma, l’Italia è salita nel 2012 al decimo posto tra i paesi con le più alte spese militari del mondo, con circa 34 miliardi di dollari, pari a 26 miliardi di euro annui. Il che equivale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all’estero in Manlio Dinucci, Quando ci costa la libertà della Nato, il Manifesto, 29/03/2014.

[8] Sui limiti della politica estera degli USA collegati al vecchio retaggio da guerra fredda, sulle difficoltà di impostare una politica estera adatta alla nuova fase multipolare che si sta delineando e sulle lacune nonché sui conflitti decisionali basati su vecchi schemi cognitivi e su un modello decisionale istituzionale che esalta l’esecutivo, la natura elitaria, la lotta interistituzionale, i “groupthink”, si veda l’interessante articolo di Giulia Micheletti, Le origini interne della strategia geopolitica statunitense, 03/03/2014, www.eurasia-rivista.org.

[9] Matteo Luca Andriola, Il trattato di Velsen e l’Eurogendfor, 13/03/2014, www.comunismoecomunita.org.

[10] Per la città di New York come simbolo della modernità, si veda Marshall Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna, 1985.

[11] Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola ,in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79. Si legga Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo ( secoli XV-XVIII), Einaudi Torino, 1982, volume primo.

[12] Commissione delle Comunità Europee, Libro verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, 6/10/2008, www.europa.eu, pp. 3 e 5.

[13] Si veda David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano, 2006;Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia 3a parte. di Luigi Longo

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

http://italiaeilmondo.com/2017/05/16/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo-2a-parte/

http://italiaeilmondo.com/2017/05/09/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo/

Lo spettro della Russia

 

 

La paura degli agenti strategici statunitensi nei riguardi della Russia (14) scaturisce, oltre che dalla forza militare ( soprattutto nucleare), dal ruolo centrale che la potenza emergente può avere nella formazione di un polo aggregante ( una sorta di polarizzazione di blocchi tra potenze mondiali) che pone dei limiti all’arroganza egemonica sfruttatrice di una superpotenza in declino.

 

La strategia di Kissinger

 

Henry Kissinger, un protagonista delle strategie di dominio statunitensi, aveva capito l’importanza della centralità della Russia, sia come nazione vettore tra i due continenti, Asia e Europa, sia come nazione strategica per l’egemonia mondiale, sin dai tempi del tentativo di apertura delle relazioni sino-americane, alla fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta del Novecento. L’apertura della collaborazione tra USA e Cina si inseriva allora nel conflitto acuto tra URSS e Cina ed era indirizzata formalmente alla costruzione di “un ordine internazionale più pacifico”, mentre nella sostanza mirava a contrastare l’URSS, ritenuta, forse, già allora un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla. Questa apertura tattica avrebbe potuto accelerare il processo storico di implosione del sistema del socialismo irrealizzato e la fine del mondo bipolare. Il tentativo non riuscì per il conflitto interno agli strateghi statunitensi nel quale prevalse la continuazione della logica del mondo bipolare (15).

Oggi Henry Kissinger ri-lancia, nella logica del tutto torna ma in maniera diversa, per la seconda volta, la politica estera degli Stati Uniti verso una coevoluzione ( una sorta di comunità pacifica sulla scia della comunità atlantica) delle relazioni sino-americane in modo da contrastare la eventuale nascita di un polo Russia-Cina, in questa fase di loro collaborazione soprattutto nella sfera economico- finanziaria ( le nuove vie della seta cinese, gli accordi di area, il sistema bancario alternativo, eccetera), che metterebbe in seria difficoltà gli USA e ne accentuerebbe, nel medio-lungo periodo, il declino (16).

In una recente intervista, apparsa su “La Stampa” del 27/3/2017 a cura di Paolo Mastrolilli, Henry Kissinger ribadisce sia la logica di contenimento della Russia (la Russia non ha diritto a stare in Medio Oriente) sia la logica di apertura verso la Cina ( un negoziato diretto tra Washington e Pechino per raggiungere un accordo di sicurezza dell’intera regione dell’Estremo Oriente a partire dalla questione della Corea del Nord).

 

La strategia di Brzezinski

 

Zbigniew Brzezinski, un altro importante protagonista delle strategie di dominio degli Stati Uniti, ritiene la Russia una nazione centrale, nel breve e medio periodo, per la nascita di poli di potenze mondiali in grado di sfidare l’egemonia USA che riconosce in declino e che rilancia con una architettura del dominio mondiale fondata nella sostanza sul monocentrismo statunitense. Egli è talmente ossessionato dalla Russia che  già nel 1997, anno di pubblicazione del suo libro “La grande scacchiera”, scriveva sulla divisione della Russia:<< Una confederazione composta da una Russia europea, una repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente, potrebbe sviluppare con maggior facilità rapporti economici più stretti con l’Europa, come pure con i nuovi Stati dell’Asia centrale e con l’Oriente.>>, ovviamente all’interno di << una comunità internazionale fondata su una reale cooperazione, che assecondi le antiche aspirazioni e garantisca i fondamentali interessi dell’umanità. Ma, nel frattempo, è assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America >> (17).

Zbigniew Brzezinski pensa l’Europa e la Nato ( non più solo militarizzazione del territorio europeo ma anche coesione economica, sicurezza dei territori e delle città, eccetera) come teste di ponte contro la Russia, mentre ritiene importante una intesa con la Cina nel rispetto della suddetta coevoluzione delle relazioni sino-americane. Sono importanti la Nato e la UE ( per il dominio statunitense non conta il suo l’asservimento unitario o fondato su relazioni tra stati) per la espansione ad Est ( vedasi la questione Ucraina) e nel Medio Oriente ( vedasi la questione Siria). E’ un attacco alla Russia molto pericoloso perché mira al suo contenimento e alla perdita della sua sovranità inviolabile, sia attraverso il blocco degli accessi al mediterraneo ( in Ucraina c’è la base navale di Sebastopoli, in “affitto” a Mosca fino al 2042, più una serie di caserme, poligoni e porti usati dalla Russia; in Siria c’è la base navale di Tartus, la base aerea di Humaymim e la stazione di ascolto di Lataqia), sia attraverso la riduzione delle risorse energetiche strategiche della Russia con la realizzazione del gasdotto del Qatar verso l’Europa (che taglierebbe la quota russa del mercato europeo), sia con la costruzione da parte della Turchia di un hub energetico ( che ne ridurrebbe la dipendenza dal gas russo) nell’Europa meridionale (18).

Gabriel Galice così analizza:<< […] L’Eurasia è centrale, l’America deve esservi presente per dominare il pianeta, l’Europa è la testa di ponte della democrazia in Eurasia, la Nato e l’Unione europea devono di conseguenza estendere la propria influenza in Eurasia, gli Stati Uniti devono giocarsi simultaneamente la Germania e la Francia ( carte delle rispettive zone di influenza alla mano), alleati fedeli anche se ciascuno a modo suo, irrequieti e capricciosi.>> (19).

Concludendo queste brevi riflessioni si può sostenere ragionevolmente che l’obiettivo della strategia USA è quello di impedire la formazione di un polo di potenza mondiale tra la Russia e la Cina in grado di metterne in discussione l’egemonia. Il giocatore più pericoloso, nel breve-medio periodo, in questa lotta per contrastare l’egemonia mondiale assoluta statunitense e per pensare un mondo multicentrico, è la Russia. E’ la nazione che va combattuta e ridimensionata con ogni mezzo. E’ lo spettro degli agenti strategici dominanti statunitensi.

 

 

En Passant

 

 

I sub-sub-dominanti italiani hanno subito rinnovato con l’amministrazione Trump le catene della servitù volontaria per un mondo monocentrico americano. Hanno le facce da servi di gaberiana memoria.

L’Europa va rifondata a partire dalla demolizione del progetto Europa tanto caro ai suoi padri fondatori, esecutori di un progetto pensato e attuato dagli USA per le loro strategie di dominio mondiale: fatto noto ma non conosciuto.

Ritengo che sia ancora valido quanto scriveva Costanzo Preve:<< Un’Europa delle nazioni, e nello stesso tempo delle nazioni eguali, ed in più delle nazioni amiche della Russia e della Cina, e infine disposte anche ad essere amiche degli Stati Uniti, se questi ultimi rinunceranno saggiamente alla pretesa di impero universale basato su di un dominio militare soverchiante e sull’imposizione di un’unica cultura linguistica anglosassone.>> (20).

Un nuovo progetto Europa: con chi? con quale pensiero? con quale organizzazione? con quale progetto di società? con quale relazione sociale? con quale prassi politica?

Sono domande che scaturiscono dalla grande lezione storica della rivoluzione russa.

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Sulla paura americana si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti editore, Roma, 2016, pp.272-312.

15.Per una minuziosa e interessante ricostruzione della prima fase di apertura delle relazioni sino-americane, soprattutto i colloqui Kissinger-Zhou Enlai-Mao, si rimanda a Henry Kissinger, Cina, Arnoldo Mondadori, Milano, 2011, pp.185-216; si veda anche l’intervista rilasciata da Henry Kissinger allo storico Niall Ferguson e pubblicata, a cura di Alfonso Desiderio, in www.limesonline.com, 4/10/2011; Gianfranco La Grassa, Sul mondo bipolare e la sua “pace”, www.conflittiestrategie.it, 7/4/2015.

  1. Sul rilancio delle relazioni sino-americane improntate alla coevoluzione, alla collaborazione e alla competizione economica-sociale si legga Henry Kissinger, Cina, op. cit., pp.401-473. Henry Kissinger specifica che << L’etichetta adatta a definire le relazioni sino-americane è più “coevoluzione” che “partnership”. “Coevoluzione” significa che entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti. Nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari.>>, ivi, pag. 470; si veda anche Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2015.
  2. Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pag.268 e pag.8. Zbigniew Brzezinski, come riporta lo storico Guy Mettan, << […] inserendosi nella più pura delle tradizioni geo-imperialiste di Mahan, Mackinder e Spykman, e in totale contraddizione con i discorsi di coloro che predicavano la fine degli imperi territoriali e l’obsolescenza della geopolitica occidentale […] pubblica La grande scacchiera. L’America e il resto del mondo, opera in cui riattualizza i concetti dei suoi predecessori applicandoli alla nuova situazione postsovietica. La stessa tesi verrà riaggiornata nel 2004 ( la vera scelta) per poi lasciar posto a un nuovo modello nel 2012 che teneva conto dell’ascesa della potenza cinese >> in Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag.288.
  3. Si veda Robert Kennedy jr., I retroscena della politica Usa in Siria che ha portato alla guerra attuale, www.vietatoparlare.it, 28/4/2017; Redazione l’antidiplomatico, La guerra dei gasdotti che brucia sotto la Siria, www.l’antidiplomatico.it, 26/9/2016.
  4. La citazione di Gabriel Galice è tratta da Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag. 288.
  5. Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2005, pag.82.

 

LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

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