Lo spionaggio economico: un’antica arte nata in Italia, di Giuseppe Gagliano

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Roma, 6 gen – Dal punto di vista storico nel corso del medioevo spetta certamente ai paesi mediterranei, ed in particolare all’Italia, il merito di avere travalicato gli avamposti asiatici sulle sponde del Mar Nero, in Siria e in Terrasanta. L’opera di predicazione dei mis.sionari non impedì loro di osservare e di svolgere una collaterale azione diplomatica e di spionaggio economico ragguagliando i propri committenti – ora papi ora sovrani – sulla presenza di determinati prodotti nelle piazze mercantili, sulle condizioni delle strade e sulle città lungo le piste carovaniere. Alle spalle dei più avventurosi viaggi di mercatura durante il medioevo ci furono spesso importanti compagnie commerciali e talora cancellerie degli Stati che avevano bisogno di informazioni strategiche sia in ambito strettamente economico che in ambito militare.

A questo proposito pensiamo al viaggio commissionato da Papa Innocenzo IV nel 1245 al francescano Giovanni del Carpine allo scopo di studiare – fra l’ altro – la strategia e la tattica militare dei mongoli (viaggio che si concretizzerà in un’opera composta nel 1247 dal titolo Storia dei mongoli). Oppure pensiamo al viaggio fatto dal francescano Odorico da Pordenone, attorno al 1318, in direzione di Costantinopoli – partendo da Venezia – grazie al quale sarà in grado di fornire un prezioso quanto preciso elenco di merci, di prodotti esotici e di spezie che troverà nei paesi orientali (dalla manna della Caldea al pepe di Malabar, dallo zenzero di Ceylon alla canfora e alla noce moscata dell’isola di Giava). Un’altra fonte preziosa di informazioni sia economiche che di natura politica furono quelle date dal mercante Nicolò de’ Conti a Papa Eugenio IV nel 1400 relative ai suoi 25 anni di viaggio tra Damasco, India e Sumatra.

Un altro illuminante esempio di “spionaggio medievale” ci viene offerto dal mercante di pietre preziose veneziano Cesare Federici che, intorno alla seconda metà del 1500, avrà modo di viaggiare a Baghdad e in India. In particolar modo descriverà, con estrema accuratezza, i movimenti commerciali dei porti indiani e degli empori sia di Ceylon che dell’arcipelago malese. Inoltre, dato l’interesse specifico per le pietre preziose, sarà in grado di redigere un vera e propria carta geografica delle pietre presenti sia a Delhi sia a Giava.

Tuttavia, a partire dal 1500, la presenza italiana ed in particolare quella veneziana, genovese e fiorentina, verrà profondamente ridimensionata a causa del dominio delle grandi potenze nazionali come la Spagna e il Portogallo in un primo momento e in un secondo momento a causa della spietata guerra economica tra le compagnie olandesi ed inglesi come d’altronde avranno modo di testimoniare sia il mercante Filippo Sassetti verso il 1578 che il mercante fiorentino Francesco Carletti nel 1602.

Ieri – come oggi – cercando di semplificare l’assenza di una politica statale di lungo respiro (quando non addirittura l’assenza dello stato in quanto tale), di una politica di potenza e l’assenza di una sinergia (certo contraddittoria e complessa) tra soggetti statali e attori economici privati saranno alcune delle cause che determineranno il tramonto delle potenze marinare italiane più propense a farsi guerra tra di loro che ad avere una politica comune come accade oggi nel contesto europeo.

Giuseppe Gagliano

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO

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L’Italia è tornata ad essere laboratorio politico. Media, giornalisti, insegnanti d’università e di liceo, blogger, filosofi, banchieri, scienziati ed altri s’interrogano sul populismo e sul perché il nostro sia il primo paese europeo occidentale ad essere governato da un bicolore popul-sovran-identitario. Certezze scosse e novità impreviste rendono inutili strumenti (ed autori) usuali fino a pochi anni fa. Dato il carattere di svolta e novità epocale, abbiamo provato a chiedere lumi a Niccolò Machiavelli. Il quale ci ha gentilmente concesso questo colloquio.

Qual è la principale causa del successo populista?

Gli è che tutti i reggimenti politici sono come gli uomini: nascono, crescono, decadono e muoiono.

Il vostro reggimento, nato da una sconfitta militare, e con una classe divenuta dirigente “per grazia di chi lo concede” (il potere) è durato tanto: segno che quei governanti, divenuti tali per fortuna, non erano scarsi d’ “ingegno e virtù”. Ma col passare dei decenni l’uno e l’altro si sono consunti. I nipoti di quei vecchi, ossia i governanti di quella che chiamate la seconda repubblica, non potevano ereditare “ingegno e virtù” né comprarli al mercato.

Quindi i populisti vincono per demerito degli altri?

Non so se quanto per demerito o per il decorso del ciclo politico (nascita, crescita, decadenza, fine). Sicuramente un po’ per assenza di ingegno e virtù, un po’ per tale “regolarità” politica.

E perché nessuno ne parla?

Non sia ingenuo. Parlare della propria assenza di virtù è come ammettere di essere inadatto a governare da una parte; dall’altra sminuire i propri meriti di vincitori. Quanto al ciclo politico, tale idea è contraria a quella di progresso sulla quale le vecchie elite avevano costruito la propria fortuna. Ammettere che non avevano la ricetta per realizzarle le “magnifiche sorti e progressive”, è confessarsi dei Dulcamara, ricchi di parole e poveri d’ingegno. Per gli altri vale sempre il discorso sui loro meriti; che non sono gli stessi se dipendono da quella regolarità. Seneca scriveva volentem ducunt fata, nolentem trahunt: ma se è il fato a decidere, loro di che possono vantarsi?

Gli sfrattati dal governo dicono che quello populista durerà poco. Che ci può dire?

Che questi ragazzi (Salvini, Di Maio) non sono grulli! Forse non mi hanno letto ma hanno capito. Come ho scritto, quando qualcuno conquista il potere “con il favore degli altri suoi cittadini” e questi quel favore ce l’hanno perché hanno vinto le elezioni, l’essenziale è non inimicarsi il popolo: non hanno ottenuto il potere col “favore dei grandi” ma con quello del popolo e “debbe pertanto uno che diventi principe”, “mantenerselo amico”.

Ciò è facile, perché gli basta non opprimerlo. E così sarà sostenuto dal popolo anche nelle avversità, come quelle in cui vi trovate. Avendolo i loro predecessori oppresso, caricato di tasse e privato di risorse, non gli è difficile, con poco, far capire che la musica è cambiata.

Che ne pensa a proposito delle tasse degli italiani?

I predecessori non avevano capito che i cittadini possono perdonare o meglio sopportare governanti che gli hanno ammazzato il padre o il fratello, ma non perdonano né dimenticano chi gli ha tolto la roba. Quelli credevano di imbrogliarli con discorsi commoventi, ma alla lunga non hanno retto.

Ma i vecchi governanti distribuivano quanto prelevato. Non è così?

Se anche lo fosse – e non lo è o non lo è del tutto – hanno trascurato che un principe può essere liberale quando spende denaro d’altri, ma non quando distribuisce quello proprio o dei propri sudditi. Chi lo vota non lo dimentica. E c’è altro.

Che cosa?

I vecchi governanti contavano troppo di tenersi su col favore dei grandi più che del popolo. Grandi che sono alemani, francesi ed altro. Hanno persino dato la fiducia – loro eletti dal popolo – ad un governo di persone mai elette neanche in un condominio, ma graditi ai grandi. I quali hanno governato di guisa da non scontentare quelli (dal cui favore dipendevano), ma dispiacendo il popolo. Hanno dimenticato che quando si governa con i grandi, che sono – almeno – pari a loro, questi non si possono “comandare né maneggiare a suo modo”. E infatti, i grandi li hanno aiutati poco o punto, quando ne avevano necessità.

Non è che i vecchi pensavano di poter persuadere il popolo della bontà della loro politica?

Si può governare con due mezzi: la forza del leone o l’astuzia della volpe. Ma non si può credere che, ripetendo le stesse cose per anni, e con risultati coì modesti tutti potessero essere abbindolati per sempre credendo a quei ritornelli. A volte capita, come a Messer Nicia “Quanto felice sia ciascun sel vede/chi nasce sciocco ed ogni cosa crede”. Ma si trattava di uno e non di tutti. E lo stesso Messer Nicia era vittima dei raggiri di Ligurio in quell’occasione specifica. Questi pretendevano di andare avanti per sempre e con tutti, con le loro azioni buoniste.

E se le cose fossero andate bene, forse queste astuzie sarebbero state utili. Orazioni e cerimonie lo sono, quando c’è tempo buono “ma non sia alcun dì sì poco cervello/ che creda, se la cosa sua ruina che Dio lo salvi senz’altro puntello/ perché morrà sotto quella ruina”. Cosa, per l’appunto, loro capitato con la crisi.

In definitiva cosa consiglia ai nuovi governanti?

Di tenersi stretto il popolo, perché non possono contare – o possono poco – sul favore dei grandi.

Non pensa che alemani ed altri possono profittare della divisione degli italiani? E far cadere il governo?

Di sicuro: e dividere i nemici è la prima regola per il successo della lotta. Ma attenzione: “la cagione della disunione delle repubbliche … è l’ozio o la pace, la cagione della unione è la paura e la guerra”. A minacciare sempre spread, sanzioni ed altro, il consenso del popolo al governo viene ad essere rafforzato. Come capitato nella guerra tra Roma e Veio.

La ringrazio. Mi concederà un’altra intervista?

Certo. Sa qui sto bene come a S. Casciano tra una briscola e una scopetta con i beati. Ma son tutti così buoni! E io mi annoio un po’. Meglio così tornare di quando in quando con i viventi, tutti intenti a sporcarsi le mani con la politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

Elogio dello Stato nazione, di Andrea Zhok

Elogio dello Stato nazione

Ogni tanto, più frequentemente di quanto si creda, si incontrano persone convinte in buona fede che gli Stati nazione siano un reperto archeologico, un vecchiume prossimo a finire nella famosa pattumiera della storia. Esse vagheggiano un mondo senza confini, magari governato in modo discreto e non intrusivo da un remoto ente amministrativo neutrale, premurosamente sollecito a garantire i diritti di ciascuno. In questo mondo da spot della Coca-Cola, tra un coro alla luce degli accendini ed eccitanti viaggi in luoghi esotici, essi sognano una serena grande famiglia umana, pacificata e cosmopolita…

Ed è a quel punto che suona la sveglia, fuori diluvia, e ti sta piovendo in casa.

Purtroppo i vagheggiamenti di questi garbati sognatori non sono mere fantasie ludiche, ma opinioni politiche che vanno a detrimento dell’unica cosa che li separa da qualcosa che è l’esatto opposto dei loro auspici.

  • Sull’origine degli Stati.

A partire dall’età del Bronzo, organizzazioni statali hanno cominciato a subentrare a quelle tribali come forma di governo secondo legge. Ogni comunità umana, anche la più primitiva ed esigua, ha sempre sentito il bisogno di munirsi di leggi, orali o scritte, per gestire i rapporti tra i membri della comunità al di là della ‘legge del più forte’ (che equivale all’assenza di legge). Le più diffuse e tradizionali forme di ordinamento politico ricalcavano le forme di autorità proprie dei nuclei famigliari, con un centro di comando inteso come ‘padre’ della comunità, cui ci si rivolge per ottenere giustizia. Questo modello, familistico e poi tribale si amplia ed estende enormemente nelle successive forme statali: regni o imperi. Continua qui a vigere un ordinamento autoritario e paternalistico in cui gli inferiori sono vincolati al potere del sovrano in quanto quest’ultimo è legittimo; al tempo stesso vige una ‘reciprocità asimmetrica’, tale per cui il superiore deve ‘prendersi cura dell’inferiore’ (difesa, sostentamento emergenziale).

La legittimità del sovrano premoderno è conferita dalla discendenza corretta (sangue reale) o dalla nomina secondo forme tradizionalmente legittimate (es.: l’adozione degli imperatori romani). In ogni caso al sovrano si deve assoluta lealtà in quanto è il garante di ogni ordine e in ultima istanza della stessa vita civile. (Il regicidio condivide con il parricidio/matricidio lo stigma di peggiore dei reati concepibili.) Dal vertice di comando discende poi una piramide di parziali, e revocabili, deleghe di potere ad altri soggetti, che emulano il ruolo del sovrano con funzioni e territori più circoscritti (ciò è evidente nel feudalesimo, ma onnipresente).

  • Le radici delle democrazie negli Stati nazione

Fino a tempi recenti gli ordinamenti statali democratici sono stati un’assoluta rarità, di cui trovavamo traccia episodica nel mondo antico. La precondizione per tentativi di governo su basi egualitarie era una forte unità popolare, culturalmente consapevole di sé, operante nei limiti circoscritti di una città-stato. Tutti i pochi casi registrati prima del mondo moderno hanno queste caratteristiche di località e omogeneità culturale, dalle città greche (Megara, Argo, Chio, e paradigmaticamente Atene) agli isolati esperimenti medievali in Svizzera e Islanda.

Per vedere la nascita di Stati democratici di estensione superiore a quella di una città dobbiamo prima vedere la nascita degli Stati nazione, che cominciano a germogliare dopo la Rivoluzione Francese. La Rivoluzione del 1789 fa venir meno le forme di legittimazione attribuite alle dinastie tradizionali (a partire dall’ereditarietà) e con ciò la capacità del sovrano di esigere lealtà e di esercitare la propria sovranità.

Con il venir meno del collante rappresentato dalla lealtà al sovrano gli Stati esistenti avevano bisogno di trovare un collante sociale alternativo. Tale collante non poteva essere semplicemente inventato dal nulla, pena l’inefficacia, e tuttavia esso non era già disponibile in forma compiuta: questo è il ruolo che è stato assegnato appunto all’idea di nazione come comunità naturale/culturale. Come ricorda Federico Chabod nella sua celebre analisi dell’Idea di Nazione (1961) il modello su cui si è costruita tale idea era tributario di due componenti, una di ordine naturalistico, legata all’identità territoriale ed etnica, ed una di ordine culturalistico, legata all’identità culturale e linguistica. Come ricorda Chabod, tra le nazioni che presero forma nel corso dell’800 la Germania presentava una preponderanza di tratti naturalistici e l’Italia una preponderanza di tratti culturalistici.

  • La nazione tra tradizione e volontarismo

La nazione è il popolo ‘accomunato da una medesima nascita’, dove tale comunanza di nascita può essere definita con riferimento a una pluralità di aspetti: territoriali, linguistici, religiosi, di costume, etnici, ecc. In questo senso la nazione non è mai bell’e pronta, pur non essendo mai una creazione fantastica: essa è, dall’inizio, in parte un fattore realmente dato in una tradizione storica, ed in parte un fattore che si cerca volontaristicamente di portare alla luce, e talora di inventare (si pensi all’omogeneizzazione di una lingua standardizzata in comune). L’operazione che porta alla luce le moderne nazioni è un’operazione politica straordinaria, la cui novità e potenza è spesso molto poco apprezzata.

Lo Stato nazione non è mai stato un mero fatto di cui prendere nota. La moderna mentalità politica, maturata ai banchi del supermercato, con l’idea che o qualcosa è pronto o ti rivolgi a un altro fornitore, tende a considerare lo Stato nazione come un artificio, perché non lo si trova mai pronto sul bancone della storia. Ma senza una componente volontaristica nessun consorzio umano, famiglie di sangue incluse, può esistere. Soltanto un’umanità enervata, che prende la dimensione della vita sociale come un ‘prodotto’ tra gli altri, può azzardare una tale assurdità. Nessuna famiglia, nessuna città, nessuno Stato possono funzionare senza che vi sia anche una componente volontaristica nel voler costruire qualcosa insieme.

Gli Stati nazione sono perciò nati da una base reale, ma ovviamente imperfetta, che ha richiesto uno sforzo storico costato fatica, lacrime e sangue. L’idea fondativa dello Stato nazione era quello di portare una struttura istituzionale e operativa all’altezza di un popolo in embrione, che aveva bisogno per esprimersi di disporre di un’organizzazione demografica e territoriale abbastanza ampia per potersi difendersi economicamente e militarmente. Lo Stato nazione era un’entità intermedia tra la dimensione politica della comunità locale (come la città stato) e quella anonima degli imperi, tenuti insieme dalla fedeltà ad una linea dinastica (l’ultimo di questi imperi sovranazionali fu quello austroungarico, il cui collante fino alla fine fu la fedeltà agli Asburgo). Lo Stato nazione moderno si presenta perciò come una sintesi tra l’esigenza di comunanza e affinità sufficiente a creare un corpo politico, e l’esigenza di forza e autonomia sufficiente a difendersi. In generale, omogenità culturale e limitatezza territoriale conferiscono forza come compattezza, mentre l’estensione demografica e territoriale conferiscono forza come potenza economico-militare; le due tendenze operano in senso inverso. Possono essere Stati nazione efficienti sia Stati relativamente piccoli, ma omogenei e compatti, sia Stati più vasti, ma meno omogenei: storie diverse in luoghi diversi hanno trovato compromessi diversi.

  • Il nesso interno tra nazione e democrazia

Come detto, è nel contesto dei moderni Stati nazione e solo qui che trovano spazio le istanze delle moderne democrazie. Le pretese democratiche degli stati moderni si fondano sullo spostamento del soggetto della sovranità dal monarca al popolo nazionale. Il processo di democratizzazione notoriamente non è stato immediato, tuttavia nel momento stesso in cui la sovranità dello Stato è stata attribuita alla nazione, cioè al ‘popolo accomunato da una medesima nascita’, il percorso verso l’estensione del suffragio e le istituzioni democratiche era aperto.

Il nesso tra democrazia e idea di nazione è profondo e non accidentale. Il primo presupposto della democrazia, infatti, è l’assunto per cui ciascun cittadino si affida al giudizio di tutti gli altri, accettando l’esito della volontà maggioritaria, anche quando avversa. In questo comportamento non c’è niente di scontato. La storia mostra come, chi sia convinto che una ‘maggioranza’ vuole distruggere la propria forma di vita, o la propria comunità, opponga ogni tipo di resistenza, legale o illegale, anche al prezzo eventualmente di soccombere a quella maggioranza. La maggioranza non conferisce automaticamente legittimità. Sul piano individuale, se un elettore dichiarasse di votare per massimizzare il danno verso il paese in cui vota difficilmente questa si presenterebbe come un’opzione di voto legittima: potrebbe essere tollerata, ritenendola ininfluente, ma essa resterebbe di principio inaccettabile.

L’accettazione degli esiti di un voto in una democrazia presuppone l’assunto che tutti i votanti siano idealmente accomunati dall’interesse per il proprio paese e dalla prosperità del suo popolo. Solo sotto questo assunto tacito si può accettare la sconfitta democratica come una sconfitta relativa e non come la resa ad un nemico. Il votante in una democrazia accetta che il proprio voto valga di diritto quanto quello di chiunque altro in quanto esiste un punto di vista accomunante da cui, nonostante tutte le differenze individuali, l’altro cittadino è un alter ego, un ‘altro-come-me’. E tale punto di vista è fornito dall’idea di un interesse comune per il bene del paese. Il diritto di voto, e in generale i diritti politici, sono idealmente definiti da un presupposto valoriale, ovvero dal comune ‘amore per il paese’.

Una democrazia non è un astratto esercizio istituzionale, ma un costrutto che ha come presupposto etico e pratico l’esistenza di uno Stato nazione. Se, o nella misura in cui, questo fattore accomunante viene meno, la democrazia perde di tenuta e legittimazione, fino all’ineffettualità o alla scomparsa.

La sovranità democratica esige un ampio spazio di condivisione di interessi e valori, per lo più taciti, in quanto è solo sotto queste premesse che essa può imporre il riequilibrio dei poteri alle parti più forti della società: solo nel nome di un superiore interesse comune divengono possibili, ad esempio, norme che impongono tassazioni redistributive o servizi pubblici universalistici.

Questo spazio di condivisione ha due caratteristiche essenziali:

1) Deve trattarsi di un spazio definito in termini territoriali e demografici: coloro i quali partecipano del patto sociale, conferiscono legittimità democratica, operano le scelte politiche, subiscono prelievi fiscali e godono dei servizi pubblici in un certo territorio devono essere sostanzialmente entità coincidenti, con piccoli margini di aggiustamento. Questa è la ragione di fondo dell’esistenza di confini amministrativi.

2) Deve essere uno spazio di condivisione che consente un’interazione fattiva tra i soggetti che lo abitano, che devono perciò avere tradizioni materiali, culturali e linguistiche comuni, o affini. Senza questo strato comune non c’è modo che un edificio normativo possa mai venire implementato. Ci possono essere gradi di comunanza variabili e differenze parziali, ma il grado di diversità deve essere sorvegliato e non può variare liberamente. Questo è un tratto che il liberalismo ha sistematicamente sottovalutato, ignorando il ruolo decisivo delle normatività silenti che abitano i significati sociali: parole, simboli, atti. (Questa sottovalutazione si percepisce in maniera trasparente nell’imbarazzo a trattare istanze etiche allotrie, come quelle mosse da ampie fasce della cultura islamica trapiantata in occidente).

Non basta dunque parlare di Stato per nominare un’istituzione capace di difendere i più deboli e di operare in una dimensione egalitaria. È necessario uno Stato dotato di un collante sociale diffuso, e questo è quanto lo Stato nazione ha fornito. Quando uno Stato viene depauperato del suo collante sociale, come accade con le moderne dinamiche di mercato, ad esso deve progressivamente subentrare un controllo autoritario, che supplisce alla tacita normatività condivisa con norme repressive rinforzate da sanzioni. Questo è in effetti il modello dello ‘Stato minimo’ o ‘Stato sentinella’ auspicato dal liberalismo, che, lungi dal rappresentare una garanzia delle libertà individuali, rappresenta invece una riduzione drastica di ogni libertà autentica. Lo ‘Stato sentinella’, infatti, è uno Stato dove il cittadino non è partecipe con altri cittadini ad alcun progetto comune, ma esiste in competizione costante con tutti gli altri. Questa situazione moltiplica gli spazi di conflitto potenziale e reale all’interno della società, che perciò esige interventi punitivi e securitari. In questo senso il destino paradossale dello Stato auspicato dalla tradizione liberale è di produrre una società sorvegliata, irrigidita, impaurita, in ultima istanza priva di libertà (salvo quella di contratto).

  • Conclusioni

Lo Stato nazione democratico è di gran lunga la più efficace forma istituzionale mai inventata a sostegno dell’egalitarismo e a tutela dei più deboli. I diritti, quali che siano, non fluttuano a mezz’aria e non cadono dal cielo: essi esistono solo se e dove c’è uno Stato. E solo uno Stato nazione democratico concepisce i diritti in forma egalitaria, cioè come appartenenti a tutti i cittadini parimenti soggetti alle medesime leggi. Solo dove ci sono giudici formati e nominati secondo procedure sorvegliate da uno Stato, e solo dove c’è un diritto forgiato democraticamente, esiste la possibilità che il debole sia giudicato come il forte, il povero come il ricco, che il più giusto possa avere la meglio sul più forte. A garantire tutto ciò è solo il potere sovrano dello Stato e nient’altro.

Chiunque vagheggi di un mondo dove non ci siano Stati, dove non ci siano confini, dove non ci siano appartenenze nazionali e linguistiche, o dove tutto ciò sia ridotto ai minimi termini, che lo sappia oppure no, sta supportando oggettivamente la legge del più forte.

Chi sostiene tali idee sta virtualmente consegnando ogni individuo all’arbitrio delle multinazionali, e/o alla prevaricazione della criminalità organizzata, e/o alle violenze dei signori della guerra, ecc.

Chiunque vagheggi la fine degli Stati nazione, senza sapere bene con cosa sostituirli, ma perseguendo qualche irenica visione cosmopolita, di fatto sta lavorando per il dominio di gruppi di interesse privato dalle agende imperscrutabili e fatalmente antidemocratiche.

Chiunque chiacchieri a cuor leggero di fine degli Stati nazione, potrà credersi la persona migliore del mondo, ma sta concretamente aiutando la presa di potere dei peggiori.

Elogio dell’identità, di Andrea Zhok

Andrea Zhok
Elogio dell’identità

tratto da https://www.academia.edu/37853989/Elogio_dellidentit%C3%A0
I problemi posti dalle rivendicazioni identitarie e dalla natura delle identità
collettive sono, politicamente e moralmente, tra i più scottanti della nostra
contemporaneità. Nel dibattito italiano, probabilmente, la più autorevole voce
critica rivoltasi reiteratamente contro ogni pretesa identitaria è quella
dell’eminente antropologo Francesco Remotti, che vi ha dedicato due monografie
a quasi tre lustri di distanza: Contro l’identità (1996) e L’ossessione identitaria
(2010). Nelle pagine seguenti prenderemo l’eccellente lavoro argomentativo ivi
svolto come punto di partenza per sostenere una tesi per certi versi
diametralmente opposta a quella promossa da Remotti: laddove quest’ultimo
perviene ad un vero e proprio tentativo di eradicare ogni riferimento all’identità
come pericoloso e fuorviante, noi andremo a sostenere che intorno al tema
dell’identità gravitano alcune delle questioni più centrali ed imprescindibili per la
nostra epoca e, invero, per l’umanità in generale.
Contro l’identità?
La posizione aspramente critica di Remotti verso ogni rivendicazione
identitaria è andata radicalizzandosi nel corso del tempo. Nel lavoro del 1996,
nonostante la visione univocamente negativa delle rivendicazioni identitarie
come fenomeno storico, l’antropologo concedeva che la spinta alla ricerca di
un’identità (come identità di gruppo) fosse “un’esigenza irrinunciabile” (Remotti
1996: 57). Nel testo più recente invece egli giunge a sostenere senz’altro che
“si può fare a meno dell’identità” (Remotti 2010: XVIII). Radicalizzazione a
parte, la batteria argomentativa dei due testi è sostanzialmente omogenea, e
può essere presentata senza differenziare tra di essi. Secondo Remotti la nozione
di identità applicata alla realtà sociale e psicologica rappresenterebbe una
finzione esiziale, che “promette ciò che non c’è” (Remotti 2010: XII), e che non
ci può essere. Ad essere promessa sarebbe un’identità intesa come stabilità e
chiusura, che si fonderebbe in ultima istanza sull’idea metafisica del permanere
di una sostanza (Remotti 2010: XIII). Con le rivendicazioni di identità noi
chiederemmo “che questo nucleo sostanziale venga riconosciuto a monte e
preliminarmente rispetto ai nostri diritti e alle nostre caratteristiche” (Remotti
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2010: 95). A sostegno della sua polemica, Remotti si richiama ripetutamente
alla critica hegeliana al principio di identità, per mostrare che “l’alterità si insinua
nell’identità” divenendone una dimensione fondamentale e irrinunciabile
(Remotti 2010: 27). In questo senso “l’identità per Hegel è improponibile, perché
il mondo è una continua trasformazione” (Remotti 2010: 28). L’idea stessa di
applicare il principio di identità alla sfera della realtà e dell’esperienza sarebbe
un’assurdità, un “pasticcio concettuale” (Remotti 2010: XXII), in quanto nulla si
presenta mai come compiutamente identico a se stesso.
Questo errore concettuale tuttavia, lungi dall’essere un errore veniale,
comporta per l’autore gravi pericoli sul piano sociale. L’appello all’identità come
dimensione storico-sociale fomenterebbe fatalmente l’intolleranza, la xenofobia,
lo sciovinismo. Remotti giunge fino ad affermare che a suo avviso non ci sarebbe
“poi molta differenza tra razzismo e identitarismo.” (Remotti 2010: XIV) La
rivendicazione di un’identità sarebbe fatta sempre contro un’alterità (Remotti
1996: 62), con un atto di separazione artificiale e violenta. Istanze di
‘purificazione’ e ortodossia sarebbero cruciali per ogni identitarismo, sia esso a
base etnica, religiosa, o altro. Ma anche quando non si dovesse giungere agli
estremi dello scontro e della violenza, gli appelli all’identità promuoverebbero
pur sempre un “impoverimento culturale”. L’identità infatti “si avvinghia alla
particolarità, perché la particolarità è garanzia di coerenza, e la coerenza è un
valore tipico dell’identità.” (Remotti 1996: 21) L’identitarismo sarebbe dunque
strutturalmente incline al particolarismo, all’allontanamento da ogni dimensione
di universalità e comprensività, e questo nel nome dell’omogeneità e della
coerenza.
In questo quadro, che si configura come univocamente negativo, l’autore si
pone giustamente la domanda su come sia possibile che gli appelli all’identità
possano attecchire in prima istanza. E la risposta che si dà è duplice. Da un lato
egli sostiene che la ricerca dell’identità culturale si presenterebbe come una
pulsione rilevante in quanto la specie umana sarebbe caratterizzata da una sorta
di incompletezza biologica (cfr. Remotti 1996: 14): l’uomo, diversamente dagli
altri animali, non avrebbe già in sé le risorse per affrontare il proprio ambiente,
ma richiederebbe necessariamente un complemento culturale. Questa natura di
‘bisogno’ quasi-biologico spiegherebbe la tenacia con cui si presentano le fedeltà
culturali, e con ciò anche il successo degli appelli all’identità culturale (cfr.
Remotti 1996: 17). A questa ragione essenzialmente psicologica per motivare la
tenacia dell’identitarismo, Remotti ne aggiunge un’altra utilitarista. Sulla scorta
di alcune analisi di Ugo Fabietti, egli ammette che la ricerca di identità può essere
uno strumento “per avere successo nell’accaparramento delle risorse” (Remotti
2010: 35): l’identità di gruppo darebbe forza e coerenza alle richieste del gruppo
stesso. Queste due ‘ragioni identitarie’ vengono trattate da Remotti alla stregua
di accidenti, psicologici e antropologici, privi di una giustificazione profonda e
dunque sacrificabili. E per illustrarne la contingenza egli adduce svariati esempi,
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tratti dalla sua grande esperienza di antropologo culturale, e relativi a comunità
dell’Africa sub-sahariana o dell’entroterra amazzonico, dove l’identità di un’etnia
o di una società presentano tratti (relativamente) fluidi.
Naturalmente questo breve riassunto non può esaurire la ricchezza
argomentativa delle pagine di Remotti, cui rinviamo il lettore, ma questi ci
sembrano gli snodi cruciali delle sue tesi, quegli snodi che portano a ritenere il
riferimento all’identità collettiva qualcosa da eliminare, e che ora proveremo a
rileggere in chiave alternativa.
Sull’identità semantica del termine “identità”
Dalle pagine di Remotti si può avere a tratti l’impressione che l’intento di fondo
sia di delegittimare un concetto, come se il problema fosse la natura
semanticamente fuorviante del riferimento all’identità. Balena più volte l’idea
che la parola identità evochi un’irraggiungibile persistenza sostanziale, la quale
spingerebbe ad immaginare situazioni di ‘purezza’, ‘ortodossia’ e ‘intolleranza’
che colliderebbero inevitabilmente con la realtà. Ora, che nell’uso politico degli
appelli all’identità ci possano essere aspetti fuorvianti, tendenziosi ed esiziali è
certo; peraltro questo può accadere per qualunque concetto che venga brandito
per promuovere un’agenda politica. Ma che nel concetto di identità collettiva, o
nel suo uso culturale e politico, siano intrinsecamente incluse propensioni alla
purezza, all’ortodossia e all’intolleranza, questo è senz’altro falso.
La prima cosa da osservare, pur non potendola approfondire quanto
meriterebbe, è che “identità” è una parola la cui identità semantica funziona
esattamente come per tutte le altre parole, dipendendo dall’uso pubblico che se
ne fa. Esiste un uso logico del termine identità, dove si fa riferimento ad una
sovrapponibilità rigida di qualità o predicati tra occorrenze differenti. Questo uso
è chiaramente inadatto a qualsiasi applicazione alla realtà fenomenica, dove non
esistono mai due entità compiutamente identiche. Ma ciò naturalmente non
significa che non siano sensatamente esprimibili identità fenomeniche: possiamo
dire che l’oggetto A sembra una sedia, che l’oggetto B somiglia a una sedia, e
che l’oggetto C non sembra affatto una sedia. Il fatto che nessuna applicazione
identificativa di un termine determini univocamente un numero chiaro e definito
di predicati non implica che quel termine non abbia identità semantica. I
significati materiali (non logico-tautologici) hanno senza eccezioni ‘bordi
sfumati’: esistono tratti considerati nell’uso comune più centrali, tratti
considerati più contingenti o periferici, e tratti senz’altro estranei (cfr. Rosch &
Mervis 1975; cfr. Zhok 2014: 113-175). Se qualcuno vuole utilizzare la rigidità
del principio logico di identità sul piano delle ordinarie unità semantiche, è
qualcosa che rappresenta un uso irragionevolmente restrittivo, che non
delegittima in alcun modo l’uso comune delle identificazioni e reidentificazioni
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materiali. Pensiamo al caso, più prossimo alle identità sociali, dell’identità di una
persona. Un soggetto può avere un saldo senso della propria identità personale,
può successivamente entrare in una crisi psicotica che lo fa dubitare della propria
identità (con grave sofferenza psichica), e lo stesso soggetto può infine guarire,
ristabilendo, magari in forma rettificata, la propria identità. Dovremmo dire che
la persona in crisi psicotica che lamenta la sensazione di ‘perdita di identità’ si
sta lamentando a vuoto perché non c’è mai stata davvero alcuna identità? Lo
psicotico in sofferenza starebbe fraintendendo se stesso? O non dobbiamo
piuttosto fare spazio ad una nozione di identità più realistica e meno astratta di
quella logica?
Quando parliamo di identità, applicando il termine ad entità biologiche,
personali o sociali, il termine non può per essenza significare un’immobilità
statica o una separazione netta tra nocciolo permanente e tratti contingenti.
Torniamo all’esempio dell’identità personale: tra il me stesso infante e il me
stesso adulto posso avere difficoltà a indicare quali cose siano rimaste
precisamente le stesse, e anche laddove fossi in grado di farlo (es.: il mio
genoma) non è affatto detto che quel nucleo comune sia ciò che rappresenta la
mia identità personale. In effetti, se un incidente mi avesse reso perennemente
incosciente, il mio genoma sarebbe lo stesso, ma la mia identità personale
sarebbe perduta. Non è quella presunta unità sostanziale ad essere da me
percepita come mia identità. Sul piano fenomenologico ciò che percepiamo come
identità è piuttosto l’unità di senso intertemporale che connette i vari momenti
della nostra vita in una sequenza intelligibile, unità tale per cui ogni momento
successivo è reso intelligibile dai momenti precedenti, pur superandoli. Lasciamo
da parte le svariate teorie dell’identità personale, da Locke a Parfit, e limitiamoci
a portare alla luce il fenomeno associato qui all’idea di identità: ciò che
chiamiamo intuitivamente nostra identità personale è qualcosa che, lungi dal
configurarsi come isolamento di un nucleo sostanziale, richiama la capacità di
sentirsi connessi al proprio passato in vista del proprio futuro. In questa
continuità di sviluppo non c’è niente che vieti l’assimilazione del nuovo, la
sostituzione di abiti obsoleti, il rilancio di nuovi progetti. Questo senso di
un’identità ‘organica’, come unità di senso di un’azione nel tempo, è molto più
consona all’idea d’identità collettiva di ogni riferimento ad astratte formulazioni
logiche. Da questa prospettiva la battaglia anti-identitaria promossa da Remotti
corre il rischio di risultare meramente nominalistica e fuori bersaglio.
Hegel e la natura delle identità collettive
Nella proposta teorica di Remotti il riferimento a Hegel gioca un ruolo tanto
centrale quanto paradossale. Hegel viene infatti chiamato giustamente in causa
come pensatore del divenire e della storicità, e come critico dell’astrattezza del
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principio di identità. Tuttavia lo stesso Hegel potrebbe essere letto come uno dei
più autorevoli pensatori ad aver sviluppato un’argomentazione organica a
sostegno di quei principi che stanno al centro delle moderne rivendicazioni
identitarie. Lungi dall’essere un semplice ‘fautore della diversità e del
cambiamento’, Hegel presenta un modello di sviluppo delle comunità storiche
che consente precisamente di concepire lo sviluppo come assimilazione del
diverso e come sintesi. Nelle stesse pagine in cui introduce la sua celebre critica
all’astrattezza del principio di identità Hegel fa spazio al proprio concetto
concreto di identità, posizionato idealmente come télos del processo dialettico.
L’Assoluto è definito da Hegel come “identità dell’identità e della non-identità”
(Hegel 1986: 96), formulazione volutamente paradossale con cui si intende ciò
che guida il processo storico (e ontologico) di unificazione del diverso. Al netto
di questioni di filologia hegeliana in cui qui non possiamo entrare, è essenziale
rilevare come l’istanza ‘identitaria’ che Hegel mette alla porta nella versione
intellettualistica del principio d’identità rientra dalla finestra nella forma della
tendenza di ogni sviluppo storico alla sintesi. Il processo di sintesi delle
opposizioni attraverso cui, nella descrizione hegeliana, progredisce lo Spirito è
un processo che cresce attraverso la diversità, ma che non si acquieta affatto
nel mero riconoscimento della diversità in quanto tale. La tendenza sintetica
degli sviluppi storici è una tendenza verso l’identità, ma non un’identità statica
e omogeneizzatrice (come l’Assoluto schellinghiano), bensì un’identità dinamica
e assimilatrice. Il significato storico attribuito a questo processo risulta chiaro
guardando alla natura ideale dello Stato come sintesi terminale dello Spirito
Oggettivo: lo Stato hegeliano, sulla scorta delle idealizzazioni classiche delle
città-stato, è concepito come una dimensione sociale dove le istanze centrifughe
dell’interesse privato, proprie della “società civile”, vengono ricondotte
all’interesse comune, proprio dei rapporti famigliari. Lo Stato, come Hegel lo
descrive, ha un’identità, e conferisce identità ai propri membri, pur non
eliminandone le differenze individuali, né delegittimando il perseguimento dei
loro interessi personali. Naturalmente, se qui stessimo valutando nel merito la
proposta teorica hegeliana, potremmo osservare, come è stato spesso fatto, che
contrariamente alle intenzioni del suo autore, lo Stato hegeliano si configura più
come un ideale normativo che come un’effettiva realizzazione storica. Ciò
rappresenta forse una critica alla concezione hegeliana della storia e dei rapporti
tra razionalità e realtà, ma non impedisce in alcun modo di usare criticamente
quella concettualità.
Un concetto hegeliano in particolare può risultare specialmente utile per una
lettura della nozione di ‘identità collettiva’ che sia produttiva e non cada in
formulazioni astratte e insostenibili: si tratta del celebre concetto di Aufhebung
(“superamento”). Come noto, Hegel concepisce la Aufhebung come il momento
cardine dei processi di sintesi storica: nel corso di uno sviluppo storico (ma
potremmo estendere il ragionamento all’evoluzione naturale), il superamento di
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una parzialità (‘errore’, ‘falsità’) avviene negandola, e al contempo inglobandola,
cioè assimilando le ragioni che l’avevano portata alla luce in prima istanza.
L’Aufhebung è negazione determinata che, nel momento in cui supera una
parzialità, ne conserva le ragioni (cfr. Hegel, 1986b: 94). Ciò che, nel presente
contesto, è particolarmente rilevante nella nozione di Aufhebung è che essa
consente di concettualizzare un tratto comune ai processi di sviluppo di
un’identità organica. Così, un’identità personale in sviluppo incontra
ripetutamente situazioni che segnalano la parzialità o inadeguatezza di abiti e
conoscenze pregressi; quando ciò accade, se uno sviluppo personale ci
dev’essere, esso avviene prendendo quel limite come la base da cui promuovere
un’integrazione di abiti o conoscenze passate, ipotizzando una soluzione
all’altezza della nuova situazione. In questo processo gli abiti o le conoscenze
precedenti non vengono annullati, giacché il loro funzionamento pregresso viene
riconosciuto nella sua (parziale) validità, e ampliato. Ciò che essi erano in grado
di fare rimane in gioco, anche se la metamorfosi cui vengono sottoposti nel
venire assorbiti da una sintesi superiore può renderli a prima vista irriconoscibili.
Ogni ‘nuova verità’ non oblitera la validità delle vecchie verità, ma trasforma
queste ultime, conservandole ed ampliandone la portata. Così, in uno sviluppo
biografico, esperienze, conoscenze e abiti passati possono essere o non essere
direttamente accessibili al recupero mnemonico, ma in ogni caso è costruendo
su quelle esperienze, quelle conoscenze, quegli abiti che ciascuno diviene la
personalità che in ciascun momento è. In analogia con lo sviluppo dell’identità
personale possiamo ora provare a introdurre una nozione plausibile di identità
collettiva.
L’identità come universalità situata
Come osservato, un’identità organica, personale o sociale, non può essere
concepita secondo il modello statico della sostanza, ma solo secondo il modello
dinamico della continuità di sviluppo. In ogni momento della storia di una
comunità (così come di una persona, o persino di una specie biologica)
l’affidamento all’esperienza passata in vista del futuro è la chiave per uno
sviluppo che sia tale. Come ricorda Hayek (cfr. Hayek 1982: 17), ogni
società/comunità elabora nel corso della propria storia abiti collettivi e regole di
comportamento comune che vengono messi alla prova nel contesto ambientale
e culturale in cui si trova. Tali regole si consolidano nella misura in cui
consentono al gruppo di prosperare, o si dissolvono se la loro adozione va a
detrimento della sopravvivenza del gruppo. Tali regole ed abiti non sono
escogitati sulla base di un calcolo realistico della possibilità di condurre ad esiti
positivi; tentativi di anticipazione razionale naturalmente ci sono, ma il
funzionamento storico di ogni organismo sociale è di gran lunga troppo
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complesso per confidare in predizioni astratte: ciò che permane come eredità
culturale e regolativa per le prossime generazioni è essenzialmente ciò che, per
buona volontà o buona sorte, ha ‘funzionato’, permettendo a quella
comunità/società di prosperare.
Nessun singolo membro ha mai una conoscenza dettagliata di cosa,
nell’apparato vigente di regole e costumi, ha fatto funzionare quella
comunità/società. In ogni momento successivo di sviluppo, perciò, ogni nuova
iniziativa deve partire come datità inaggirabile, non solo dal contesto ambientale
e storico, ma anche dalla stratificazione reale di abiti collettivi, costumi, regole
sociali tacite o esplicite, e ‘valori’. Si tratta di un dato necessario per una
successiva condotta razionale, non perché ci siano state ragioni incontrovertibili
per l’adozione proprio di quell’ordine normativo invece di altri, ma perché
nessuno domina razionalmente tutte le buone o meno buone ragioni che hanno
fatto ‘funzionare’ quell’ordine normativo. E proprio per questa ragione nessuno
è in grado di stabilire con certezza a tavolino cosa dev’essere cambiato e come.
Questo ordine normativo consolidato di una comunità in un presente è ciò che
possiamo legittimamente nominare come l’identità di quella comunità.
Qui l’analogia con lo sviluppo biologico di una specie può essere illuminante.
Nelle descrizioni evoluzionistiche ortodosse ogni specie è divenuta ciò che è, non
perché fosse a priori necessario giungere a quegli esiti, e neppure perché in
assoluto quello status quo debba essere considerato l’unico ottimale. Specie
differenti avevano antenati comuni. Fenotipi alternativi, generati per variazione
genetica casuale, e confrontati con contesti ambientale divergenti, hanno
prodotto specie diverse: certe soluzioni si sono imposte in certi gruppi, e
soluzioni diverse in altri. Per quanto, in linea di principio, un medesimo
antecedente potesse portare tanto alla specie A che alla specie B, una volta che
la variazione si è consolidata nel tempo, le due specie hanno identità differenti
e il percorso evolutivo non può essere omesso come irrilevante, anche se di fatto
è stato generato accidentalmente. Questo significa che anche se, in linea di
principio non c’erano ragioni cogenti per l’esistenza di A, o per la sua diversità
da B, ora le due specie hanno la loro irriducibile identità, dipendente dal percorso
di storia naturale da cui derivano.
Un ragionamento simile può essere esteso alle comunità o società storiche.
Possiamo prendere la comune appartenenza alla specie umana come analogo
del comune antecedente biologico nell’esempio delle specie. Che un esemplare
della specie Homo Sapiens sia nato e cresciuto nell’entroterra rurale cinese, in
un quartiere sovraffollato di Buenos Aires o in un paesino delle alpi svizzere,
possiamo certamente pensarlo come mero accidente. Ma crescendo nel contesto
fisico, culturale e normativo di ciascuna di queste comunità, per ciascun
individuo, un’identità specifica ha preso forma, e insieme a questa identità anche
una rete di dipendenze, indebitamenti morali, impegni, promesse, progetti. Il
fatto che ‘in linea di principio’ tutto avrebbe potuto essere diverso, non toglie
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che ora è come è, e che tale realtà ha valore normativo per chi la vive. Ciascuno
di noi è vincolato a rapporti di indebitamento morale con i propri genitori o
famigliari, di affetto con i propri figli, di lealtà con i propri collaboratori, di
obbedienza al medesimo ‘patto sociale’ con i propri concittadini, ecc. E il tutto
avviene secondo l’ordine normativo sviluppatosi in quel luogo, in relazione a
quell’ambiente fisico, ereditando quella cultura materiale, quelle istituzioni, ecc.
Tutti questi elementi elevano richieste reali nei nostri confronti e sono il
presupposto affinché si possano sviluppare progetti riconoscibili e funzionanti.
Possiamo concedere senza difficoltà che se fossimo nati in un villaggio cinese, in
un paesino svizzero, in una metropoli sudamericana, o in mille altri contesti le
nostre dipendenze, lealtà, doveri e possibilità sarebbero diversi. Noi saremmo
diversi. Ma questo riconoscimento di contingenza ‘di diritto’ non comporta affatto
la possibilità di ignorare la realtà del percorso storico-culturale cui apparteniamo
e che ci porta in questo momento ad essere ciò che siamo. In ogni momento
presente quel percorso storico-culturale co-determina identità personali e
definisce un’identità collettiva. Che tale identità collettiva non abbia confini ben
definiti e che non sia rappresentata da un elenco pronto di tratti e qualità non è
un’obiezione, ma un fatto che riguarda tutte le identità semantiche in generale.
Noi riconosciamo facilmente la nostra identità di gruppo, di norma vissuta
tacitamente, quando siamo esposti ad identità differenti (ad esempio andando a
vivere all’estero). Ma tale riconoscimento intuitivo non è conoscenza e, dunque,
non equivale alla capacità di nominare cosa vi rientra e cosa no.
Queste identità collettive, molto diversamente da come definite da Remotti,
non sono temporalmente immote, e non hanno dimensioni precise. Non sono
immobili perché sono entità in perenne sviluppo, che in condizioni di evoluzione
fisiologica acquisiranno gradualmente nuove potenzialità e lasceranno cadere in
disuso regole ed abiti nati per confrontare circostanze non più attuali. In questo
senso il riconoscimento di un’identità collettiva non comporta affatto il
riconoscimento di qualcosa come una “essenza perenne”. Anche se possiamo
riconoscere spesso alcuni tratti persistenti nel percorso storico di un popolo, di
una città, di una nazione, ma non sono quei tratti, eventualmente permanenti,
a rappresentare l’identità di quel popolo, di quella città o nazione. L’identità qui
non è una presunta sostanza identica al variare degli accidenti, ma è il portato
storico-culturale ora disponibile, che crea lo spazio per il rispetto di regole
comuni e per la produzione di progetti comuni.
Tali identità non hanno poi neppure dimensioni precise, in quanto si tratta
sempre di sfere di appartenenza vigenti a ‘cerchi concentrici’: possiamo
riconoscere simultaneamente in noi un’identità locale o urbana, un’identità
regionale, nazionale, europea o mediterranea o mitteleuropea, ecc. L’identità ha
dunque una sorta di ‘molteplicità’ interna, ma si tratta di una molteplicità che
non comporta, o non necessariamente, un conflitto tra identificazioni differenti.
Può accadere, per dire, che le lealtà verso la propria città e la propria nazione
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entrino in tensione, ma tali appartenenze hanno il potenziale per coordinarsi
armonicamente, condividendo la medesima natura.
È qui importante distinguere queste identità collettive da un’altra forma di
identità collettiva con cui vengono spesso confuse. Non di rado le rivendicazioni
identitarie vengono associate a istanze particolariste, legate alla difesa di gruppi
speciali, che come tali si percepiscono (cfr. Taylor 1994). Ma le identità collettive
di cui parliamo qui sono relative a gruppi che hanno, almeno in linea di principio,
la complessità interna sufficiente ad un’autoriproduzione nel tempo: anche se di
fatto una città moderna non vive se non in relazioni, commerciali e politiche, con
realtà esterne, essa ha una struttura organizzativa, una divisione del lavoro e
dei ruoli sociali tali da potersi concepire come un’entità potenzialmente
autonoma. Questa nozione di identità collettiva non è un’idiosincrasia
sociologica, ma il modo fondamentale in cui i gruppi sociali si sono sempre
identificati nella storia: come ‘microcosmi’. Le città-stato dell’antichità ne sono
rappresentanze eminenti, ma ciò appare anche registrato nell’area semantica di
molte parole che nominano tali identità collettive: non è un caso che
originariamente la parola tedesca per stato (Staat) e quella per città (Stadt)
coincidessero; come non è un caso che la parola russa per ‘villaggio’, e poi
‘comune’ (Mir) fosse la stessa per ‘mondo’; o che in italiano ‘paese’ possa
indicare tanto la comunità locale che quella nazionale, ecc. Questo senso di
‘identità collettiva’ va tenuto nettamente distinto da altre forme di identità
particolari, che si possono formare attorno a singole caratteristiche, singoli gusti
o singole passioni. Nell’ambito delle discussioni comunitariste è stato elaborato
per questo secondo senso di identità collettiva l’espressione “life-style enclaves”
(Bellah et al. 1985: 335). Essere juventini, melomani, o vegetariani, ma anche
buddisti o anabattisti, caucasici o afroamericani, donne o uomini, eterosessuali
o omosessuali, ecc. non rappresenta identità collettive coordinate intorno alla
possibilità di un’autoriproduzione sociale autonoma. Non sono comunità, non
hanno una storia, né un’organizzazione, né un radicamento territoriale comune.
In alcuni casi, naturalmente, potrebbero in linea di principio diventare comunità
(un gruppo etnico o religioso può pretendere di diventare nazione), ma di norma
tali identità collettive esistono e operano rivendicazioni, rappresentando
particolarità che vogliono presentarsi come tali. Rispetto a tale identitarismo
particolare l’identità collettiva di cui qui parliamo è invece un’identità che si
concepisce come una “universalità potenziale”. Qui di nuovo il modello hegeliano
dello Stato può tornare utile: tali identità collettive, come lo Stato di Hegel, sono
universalità situate, ovvero punti di vista storici sul mondo tutto. Si tratta cioè,
come gli Stati hegeliani, di esistenze storiche circoscritte, che al tempo stesso
ambiscono di principio ad incarnare lo Spirito Oggettivo, la Ragione divenuta
Realtà. Fuori dal linguaggio hegeliano: un’identità collettiva è qualcosa che
emerge da un percorso storico comune, radicato in un ambiente comune
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(geografico, urbanistico), idealmente capace di autoriproduzione sociale
autonoma e di formulare a tal fine progetti comuni.
I rischi dell’identitarismo
Giunti a questo punto, bisogna concedere a Remotti che le sue preoccupazioni
intorno a usi pericolosi dell’invocazione identitaria non sono immotivate. Quando
un’identità collettiva è solo tacitamente vissuta è difficile che l’identità stessa
venga invocata o divenga tema di discussione. L’identitarismo come
rivendicazione segnala tipicamente una preoccupazione: la reazione ad una
minaccia percepita. Talvolta tali minacce hanno carattere di invasione culturale
o religiosa, ma in epoca moderna la forma primaria di minaccia all’identità è
rappresentata da una pluralità di fenomeni connessi alla globalizzazione
economica. I processi economici tipici del capitalismo maturo tendono infatti ad
erodere ogni identità di gruppo.
Il funzionamento ordinario del mercato spinge verso flessibilità di mansioni e
competenze, dislocazioni di attività produttive, migrazioni di forza lavoro e
precarizzazione contrattuale. La facilità con cui i capitali si spostano produce una
spinta al movimento delle forze produttive e delle merci, movimento che ha
sempre carattere provvisorio, giacché variazioni delle esigenze di mercato
possono modificare, anche repentinamente, i flussi tanto delle forze produttive
che delle merci. Al tempo stesso, la natura di concorrenza su base individuale
dei moderni rapporti di produzione tende a rompere solidarietà locali, a creare
divergenze di interessi, e a mettere in competizione idealmente ogni agente
economico con ogni altro. Infine, l’intercambiabilità dei modi e delle forme di
produzione sul pianeta produce da un lato un incentivo allo spostamento degli
apparati produttivi (delocalizzazioni) e dall’altro un incentivo agli spostamenti
delle persone, in cerca di lavoro e condizioni di vita migliori (migrazioni intra- e
inter-nazionali). Tutti questi processi convergono in un processo costante di
destabilizzazione che spinge l’individuo in un tendenziale isolamento, spezzando
lealtà e appartenenze sovraindividuali (cfr. Zhok 2006: 295-370).
Di fronte a questi processi possono sorgere, e spesso sorgono, movimenti
politici che nel nome di un’identità collettiva (locale, etnica, nazionale, ecc.)
cercano di porre un argine a queste tendenze disgregative. Purtroppo il carattere
difensivo-reattivo di queste istanze le predispone facilmente a tesi aggressive e
populiste. Questo è ciò che accadde con i movimenti nazionalisti e sciovinisti in
Europa negli ultimi decenni prima della Prima Guerra Mondiale, e questo è
quanto accade oggi in Europa con movimenti non di rado alimentati da istanze
xenofobe. È innegabile che queste tendenze possano degenerare. E tuttavia è
opportuno comprendere che niente è risolto se di fronte ai problemi reali posti
dall’erosione contemporanea delle identità collettive ci si limita a stigmatizzare
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le reazioni degenerate di identitarismo provinciale, ottusamente conservatore,
xenofobo o addirittura razzista. Un problema storico reale, se non è affrontato
bene, verrà comunque affrontato, male.
Identità come mezzo e come valore
Nel quadro fornito da Remotti, alle rivendicazioni identitarie era concessa una
specifica e circoscritta funzione: l’appello all’identità poteva risultare utile ad un
gruppo nella lotta per l’ottenimento di risorse. In questo senso l’identità veniva
letta come una dimensione strumentale, talvolta favorevole alla gestione delle
proprie finalità. Ora, questa interpretazione è, a nostro avviso, singolarmente
fuorviante, e conduce effettivamente a considerare l’identità come un tratto
sociale (o anche personale) sacrificabile. Remotti scrive che l’identità sarebbe
“la forma estrema di rivendicazione dell’unità da parte dei soggetti – individuali
e collettivi – che invece sono contrassegnati al loro interno da un’inesorabile
molteplicità” (Remotti 2010: 52).
Ma qui dobbiamo chiederci: come è possibile che soggetti, individuali e
collettivi, contrassegnati da tale “inesorabile molteplicità” mirino poi ad un’unità
di senso? Su quale base dovrebbero trovare tale ispirazione all’unità, se essa
non inerisce loro? Forse perché ciò sarebbe strumentalmente utile al
raggiungimento di certi fini? Ma se io non avessi alcuna identità come potrei
intendere che qualcosa è un mio fine? Esso potrebbe essere un fine altrui, e il
mio perseguimento di esso potrebbe tornare a mio detrimento.
Supponiamo che io desideri X, ma che l’ottenimento di X comporti la perdita
integrale della mia identità: in che senso potrei davvero volere X? Certo, posso
naturalmente sacrificare me stesso, ma un sacrificio sarà per un’identità diversa,
a favore di un altro individuo o gruppo. Finalità esistono solo per soggettività
dotate di un’identità. Posso volere X perché ciò promuove la mia sopravvivenza,
o posso posporre Y perché ciò consentirà a un mio piano di imporsi, o posso
ambire a Z perché ciò si confà al mio progetto di vita. Certi obiettivi sono comuni
ad ogni essere vivente (all’identità che il vivente è), altri obiettivi saranno
comuni ai membri di una specie (all’identità che quella specie è), altri saranno
obiettivi comuni ai membri di una comunità storico-culturale (all’identità che
quella comunità è) e altri ancora a diversi momenti della vita di un individuo (alla
sua identità personale).
Come osservava Alasdair MacIntyre, virtualmente la totalità delle finalità
specificamente umane sono rese possibili solo dall’esistenza di specifiche
pratiche, specifiche tradizioni, con specifiche finalità interne (cfr. MacIntyre
2007: 188). Posso mirare a fare scacco matto solo all’interno della pratica storica
degli scacchi, posso aspirare a comporre un capolavoro sinfonico solo all’interno
della tradizione della musica occidentale, posso ambire ad essere eletto deputato
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solo all’interno delle pratiche istituzionali della democrazia parlamentare, posso
sperare di eccellere nelle performance ‘poetico-musicali’ tipiche dei griot solo
entro quella tradizione orale africana, posso bramare la decapitazione del mio
primo nemico solo in una cultura come quella degli ilongot filippini, ecc. ecc. Non
ha alcun senso fare una comparazione di valore, per dire, tra le performance del
griot e quelle di un pianista classico, così come tra le aspirazioni di eccellenza
del primo di contro a quelle del secondo. Solo nella cornice definita da una certa
identità, personale e/o collettiva (culturale), certe finalità hanno senso. Fini
emergono in relazione a ciò che un soggetto (individuale o collettivo) è, e senza
identità di un soggetto nessun fine viene alla luce. L’identità avrà pure la sua
importanza come strumento per facilitare l’ottenimento di risorse, ma prima di
ciò essa è quel qualcosa per cui si cercano risorse: prima di essere un mezzo per
implementare senso e finalità, l’identità appartiene alla sfera di ciò che fornisce
senso e finalità.
Un’identità collettiva è ciò che consente a ciascun individuo di concepire la
propria azione storica come qualcosa che trascende i limiti della propria finitezza
e caducità. Solo nella misura in cui riusciamo in qualche misura ad identificarci
con altri possiamo considerarli eredi potenziali di qualunque cosa, grande o
minima, desideriamo lasciare di noi stessi. E solo nella misura in cui una tale
identificazione può avvenire vi sono ragioni autentiche per ottemperare a regole
comuni, leggi, patti sociali. Come osservava Douglass North (cfr. North 1981:
45), in assenza di una dimensione di appartenenza collettiva fatalmente
proliferano i ‘free riders’: violatori di regole, evasori, corrotti, criminali, ecc.
Infatti in nessuna società o comunità l’ottemperanza a regole, leggi, patti, ecc.
può avvenire sulla sola scorta della minaccia di sanzioni: le occasioni di
violazione senza rischio sono onnipresenti. In ogni gruppo sociale funzionante,
a tenere in piedi l’adesione personale a quella comune dimensione normativa è
un certo grado di identificazione con il gruppo stesso, i cui membri si sentono
perciò vincolati reciprocamente da diritti e doveri, aspettative etiche e lealtà
personali. Quanto più debole l’identità di un gruppo, tanto più forti le tendenze
centrifughe, le violazioni normative, gli opportunismi.
Concludendo questa breve analisi possiamo dire che, se da un lato i rischi
legati a forme ottuse di rivendicazione identitaria non vanno sottovalutati,
dall’altro le istanze legate al tema di un’identità collettiva sono istanze profonde,
non sradicabili senza gravi danni sul piano del senso e del valore. Definire forme
intelligenti e fertili di tutela identitaria, forme capaci di confrontarsi con il diverso
senza né aggredirlo, né disgregarsi, è un compito complesso, rischioso e, in un
contesto come quello della moderna economia globalizzata, anche schiettamente
‘inattuale’. Ma tralasciare, o persino screditare, quel compito è un errore senza
remissione.
13
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MANCA TRADUZIONE IN ITALIANO? O SI TRATTA DI UNA TRADUZIONE DELL‘AUTORE?
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Zhok, A., 2006, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo. Antropologia filosofica delle
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Zhok, A., 2014, Rappresentazione e realtà. Psicologia fenomenologica dell’immaginario e degli
atti rappresentativi, Milano, Mimesis.

QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?

1.0 Dall’ascesa del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di democrazie illiberali.

Si è scoperto che “democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne evidenziava le differenti caratteristiche[1].

  1. Per lo più tale illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale). Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale” questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana, quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Riggiero, nella sua Storia del liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.

Il tutto prefigura uno scontro di civiltà; come si legge sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo contenuto della prevalente opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che gli avversari[2].

La concezione della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi” è stata esposta da Carl Schmitt[3].

  1. Sul piano concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica” per la limitazione del potere. In questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”: monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente associato alla democrazia.

Secondo la critica di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre, che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali” (il corsivo è mio).

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è , una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura” costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].

Pertanto è evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia – e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti, garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.

L’ “illiberalismo” non consisterebbe nella mancanza  di protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi,  particolarmente incidenti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti il corpo elettorale.

Nella tipologia dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del Dizionario di politica, le democrazie illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso torinese[5].

Quindi democrazie non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.

Nel notissimo discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste avevano (da poco) autorevolmente interpretato a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso di considerare.

Il Presidente dopo aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.

Lincoln ribadiva così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del 1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”.

L’espressione di Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede, come scritto, quale aggettivo.

  1. Comunque è un fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico) e garanzie dal potere politico (distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica, o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.

E, indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale: così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa, perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].

Democrazia e liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma politicamente sinergici. La prova storica a contrario è che, laddove si sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo “ncl tecum nec sine te vivere possum”.

5.0 Tuttavia, dato che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici dell’U.E.).

Ad esaminare il testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi (art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt. 48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.

Nel complesso, e per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto, e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della Costituzione materiale). appare  che sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.

L’altro caso, che ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione del 1997.

Tuttavia le preoccupazioni dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri della polizia e sul Difensore civico.

Tale normativa – che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e giustizia”) e le opposizioni – concerneva l’accesso al Parlamento dei giornalisti e il rinnovo  della dirigenza dei media pubblici. La legge sui media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni, nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia  non sono state riesumate le disposizioni, abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.

In altre parole sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati): un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.

Situazione sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come “illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.

Vero è che altro è scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.

La stufenbau nazionale è essenzialmente cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7], emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito” della norma superiore.

Pertanto appare maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi nella Convenzione EDU – ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta per l’Italia dalla Corte EDU – la violazione negli atti concreti (sentenze, provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.

D’altra parte, se andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei confronti del potere, e sul principio di legalità.

Non c’è quindi un sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da una Corte apposita sugli atti legislativi.

Tuttavia è chiaro che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare l’espressione di “illiberali”.

Piuttosto il fatto che i leaders di Ungheria e Polonia dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto più illiberalismo di quanto ce ne sia.

Del pari quell’ “illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la garanzia dei diritti, fondamentali e non.

Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]: senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che cercano – e in gran parte riescono – a dominare.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Costant parlava di “libertà” più che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin) ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo “è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie umana nell’antichità non permetteva a un’istituzione di questo tipo di introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale tra regimi politici.

[2] Mi si consenta di rinviare al mio articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico” pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad de los  Cesares (Santiago – Chile) n. 110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..

[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und Entpolitisierungen  trad. it. di P. Schiera in C. Schmitt Le categorie del politico, pp.    Bologna 1972.

[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo Dottrina della costituzione, Milano 1983, p. 64.

[5] v. “Modelli ideali più che tipi storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro A preface to Democratic Theory (1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini (in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la libera espressione del voto, la prevalenza  delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.

[6] Per la giustizia politica ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generaleVerfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Temi e Dike nella decadenza della Repubblica in Rivoluzione liberale.

[7] Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt

[8] § 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.

IL NEMICO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Un saggio, già pubblicato sul periodico “Rinascita” nel 2012, un po’ datato nei riferimenti, attuale negli argomenti_Giuseppe Germinario

IL NEMICO PRINCIPALE

In Italia si vota tra qualche mese, e l’ “antipolitica” la fa da padrona; prodotti dell’antipolitica sarebbero (sono?) Monti, Grillo, Di Pietro e molte altre figure secondarie. Un’affollata compagnia in cui regna il disaccordo su cosa sia l’antipolitica e cosa proponga. Se ne fa, per connotarla, talvolta una questione di stile (sobrietà, loden) talaltra di ricambio di classe politica, altra di “moralità”, o si riecheggia Saint-Simon e la sua utopia tecnocratico-economicista.

D’altra parte, per i partiti “tradizionali” (quelli che sarebbero – o farebbero parte – della politica) si profila, per definire la propria posizione, il ricorso ai consueti argomenti (non disdegnati neppure da alcune fazioni “antipolitiche”): da un lato opporsi al comunismo (defunto – per fortuna tranquillamente – da più di vent’anni), dall’altro al berlusconismo, combattere il quale sarebbe scelta di civiltà (ma anche di bon ton). Si fa anche riferimento a temi che, sia pur d’importanza fondamentale, non si definiscono per contrapposizione.

È evidente che tali posizioni sono accomunate dal distacco dai problemi concreti e reali in questo momento storico, e dall’evidente incapacità o non volontà di comprenderli chiedendo, intorno a qualche idola (o pregiudizio condiviso) un consenso del tutto inidoneo, poi, a risolvere la crisi che attanaglia l’Italia e l’Europa.

Se la politica è, in primo luogo, scelta tra l’amico e il nemico, la “politicità” dev’essere valutata in quanto porta (e consegue) a questa scelta: in un mondo dove tutti gli uomini fossero amici, solidali, ispirati da reciproci sentimenti fraterni la politica non avrebbe senso[1].

Anzi come scrive Schmitt la politica trova i suoi momenti più intesi laddove è visto, con chiara determinazione, il nemico e, di converso, quelli più pericolosi (o inutili) quando questi non è percepito (vuoi perché non “visto”, vuoi per rifiuto di ammetterne l’esistenza e così via)[2].

Occorre che si tratti tuttavia, del nemico reale (e non di un nemico immaginario o secondario) e non prendere (indicare) come nemico colui che non lo è nella concreta situazione storica.

Orbene considerare come nemico reale (cioè principale ed attuale) il comunismo, a vent’anni dall’implosione del medesimo, è fare archeologia politica. Né il collasso (avvenuto pacificamente senza nessuno che morisse per difenderlo) né le vicende successive (quante “restaurazioni” di regimi comunisti abbiamo visto in questo ventennio?) ne fanno un nemico credibile[3]. È un nemico ascrivibile alle situazioni e nelle contrapposizioni politiche del “secolo breve” e non sopravvive a queste.

Dall’altra neanche Berlusconi (e il berlusconismo) possono costituire un nemico reale, non appena si consideri la situazione concreta. Di fronte ad una crisi che coinvolge tutta l’eurozona (soprattutto, ma anche tutto il mondo occidentale), addossarne le responsabilità al cavaliere, che anzi ne è stato una “vittima”, essendo uno dei quattro leaders politici europei “detronizzati” dall’inizio (e in conseguenza) della crisi, è comicità involontaria. Se Berlusconi avesse, con la propria opera (anche con i propri errori) il potere di far tremare l’economia occidentale, sarebbe prossimo a conseguire l’onnipotenza. Ma ciò, checché ne pensino i suoi avversari (e lo stesso interessato) non è.

Quindi non può essere nemico né principale, né attuale. Quanto agli altri attori: Monti ha parlato una o due volte di “guerra”, relativamente alla crisi dell’eurozona, senza indicare il nemico, cioè l’elemento più importante. Grillo, nella varietà delle esternazioni, è orientato a ritenere nemica la classe politica e forse l’intera classe dirigente;: anche qua, anche se qualche ragione il comico ce l’ha, vale il discorso fatto per Berlusconi: non è credibile che, per quanto la si possa considerare modesta e pusilla, abbia la responsabilità di tanto sconquasso. Di Pietro muove guerra (a parole) al soggetto politico mediaticamente più esposto: dato il calo dell’ “effetto Berlusconi” indirizza il grosso delle esternazioni contro Monti e Napolitano, anch’essi nemici improbabili (perché non principali, anche se attuali).

La realtà è che fare politica, ancor più in un momento di crisi, e non indicare  cause, conflitti e i soggetti (tra cui il nemico), è, come cennato, inutile: una lunga ammuina, una sceneggiata in cui l’oggetto reale del contendere sono posizioni di (ormai) sottopotere: se (il potere, ed) il conflitto reale non è individuato (e quindi non è combattuto) chi governa come “testa di legno” o gauleiter del (realmente) potente è comunque uno strumento di questo, il collaboratore/esecutore della potestas indirecta (fin quando non si voglia appalesare directa). La situazione è nuova; nella contrapposizione che ha dominato dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le posizioni erano chiare, e attraversavano il confine degli Stati,  com’era evidente nei regimi di democrazia liberale e pluripartitica (e occultato invece in quelli di socialismo reale): alla competizione planetaria tra due superpotenze, con ideologie contrapposte, corrispondeva un antagonismo interno tra partiti e organizzazioni sociali che si richiamavano, peraltro in modo palese, all’una o all’altra superpotenza. Il nemico (il capitalista, il comunista) era insieme interno ed esterno.

Ma se, come ora, il “nemico”, peraltro da identificare, appare come (ed esercitante un) potere supernazionale, asseritamene non politico, non ideologico (nel senso che tale termine aveva fino a qualche decennio orsono), e neppure “strutturato” (organizzato in istituzioni tra loro collegate, fino alla dipendenza), il tutto rende da un lato difficile identificare il nemico; ancor più, dall’altro, i rapporti tra questi e le forze politiche (e “non politiche” come poteri forti e così via) interne.

L’unica affermazione che si può fare  con alto grado di probabilità è che il nemico è globale, cioè è “internazionale” “superstatale”, e così tendenzialmente (anche perché la dimensione nazionale costituisce  una piccola frazione di quella globale) esterno. Non solo perché l’incidenza del capitale italiano nella finanza è una (piccola) frazione del totale, ma anche perché anche questa è sostanzialmente svincolata dal potere “interno” esercitato dallo Stato, normalmente, su basi, rapporti, attività di carattere, oggetto e regolazioni totalmente diverse, inapplicabili in tutto o in parte alla finanza globale[4].

Alle difficoltà di applicazione di misure, pensate per l’ “economia reale”, cioè che ha a che fare con res, si aggiunge quella di identificare il nemico, e quella di “classificare” le azioni intraprese dai poteri finanziari globali secondo l’attività umana alla quale devono ricondursi.

Come già scritto altrove[5], anche se l’intenzione della speculazione internazionale (e della grande maggioranza degli speculatori) è quella, ovvia, di far soldi, gli effetti sono stati sicuramente (in gran parte) politici. Sono cambiati quattro governi dell’eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Francia); è modificato (si sta modificando) il  modo di esistenza delle popolazioni europee, in ordine al reddito, alle chances di vita, alle abitudini, e anche alle regole (principi e/o consuetudini giacché non  prescritte nella costituzione formale) della forma politica, in particolare in Italia[6].

D’altra parte neppure il fine di arricchirsi è carattere peculiare e “proprio” dell’attività economica giacché da sempre è uno degli scopi ed effetti della politica e del dominio politico (prede, tributi, riparazioni, confische a carico dei governati o dei nemici vinti)[7].

Ne consegue che l’effetto esclusivamente o principalmente economico non esclude che si tratti di nemico (politico) e non di concorrente (economico). È comunque opportuno chiarire chi e come possa identificarsi (e considerarsi) nemico.

  1. Secondo Hegel il nemico è la “differenza etica”[8]. A considerare in termini più moderni (e conseguenti all’egemonia delle ideologie negli ultimi due secoli) ciò significa che il nemico si caratterizza non tanto per la diversità di nazionalità, di religione, di interessi economici, quanto per la diversa visione ideologica, cioè sull’ordinamento futuro delle comunità umane. La differenza etica, secondo una terminologia corrente (anche in ambito giudiziario) si definisce in una differente “tavola di valori” fondamentali: da un lato libertà, individualismo, separazione dei poteri (e quanto ne consegue). Dall’altro eguaglianza, collettivismo, proprietà collettiva (e quindi concentrazione dei poteri). Altre varianti: Dio, patria, famiglia; o razza, spazio vitale, popolo superiore.

Come Max Weber ha chiarito tra i “valori” c’è lotta senza quartiere: valorizzare significa insieme svalorizzare[9].

L’effetto polemogeno della valorizzazione è stato quanto mai chiaro nel secolo scorso, ideologico per eccellenza, quindi portato a vedere i conflitti (esterni e anche interni alle unità politiche) come risultato di differenti “visioni del mondo” e conseguenti “tavole di valori”. Il tutto poneva in secondo piano che, in primo luogo, il nemico è colui che attenta alla mia esistenza (politica e, spesso, anche fisica) e alla mia indipendenza: e che i motivi delle guerre spesso – anzi quasi sempre nella storia – hanno avuto nulla (o poco) a che fare con le “tavole dei valori”. È il pericolo minacciato all’esistenza indipendente che determina la scelta del nemico reale, e non la contiguità o la distanza ideologica. Un convinto anticomunista come Churchill si alleò con Stalin contro Hitler, perché dall’altra parte della Manica stazionavano le Panzerdivisionen, mentre quelle sovietiche stavano, tranquille, ad oriente della Vistola. Ciò non toglie, che quando queste, all’esito del secondo conflitto mondiale, avanzarono fino all’Elba, Churchill identificasse nuovamente nel comunismo sovietico il nemico reale[10].

L’enfasi sulle “tavole di valori” ha portato a trascurare come la primaria esigenza di ogni sintesi (unità) politica, sia conservare la propria esistenza, capacità d’azione e protezione (dei cittadini). Di fronte a ciò differenze etiche, “tavole di valori” e rispetto delle norme sono relative: la massima romana, universalmente valida “salus rei publicae supremo lex”, va coordinata al detto “primum vivere, deinde philosophari”. Come aveva colto Max Scheler[11].

Scrive Miglio – seguendo in ciò quanto già intuiva Eschilo nelle Eumenidi – che l’esistenza del nemico è essenziale all’unità politica, al punto che “là dove il nemico non c’è, lo si inventa, lo si va a cercare. Dove il nemico poi c’è, ma non ha nessuna voglia di minacciarci, lo si immagina in modo minaccioso”[12].

Per cui c’è l’errore speculare a quello che qui stigmatizziamo: quando il nemico reale non c’è, si costruisce un nemico immaginario[13]. Cioè inesistente (o non animato da intenzione ostile). Errore capitale, al pari dell’inverso. Come sostiene Eric Werner[14] “Affinché il nemico svolga il suo ruolo di cemento, sono dunque necessarie due cose: da una parte che esista oggettivamente, ma dall’altra parte che sia anche effettivamente riconosciuto e designato come tale. E questa seconda condizione, per essere soddisfatta, ne suppone a sua volta un’altra. Bisogna che la collettività accetti di guardare in faccia la realtà, senza lasciarsi indurre in errore da discorsi seducenti”. In un caso non c’è il nemico, nell’altro non lo si riconosce. A tutto profitto del medesimo. Se la guerra è un camaleonte, come pensava Clausewitz, tale può essere anche il nemico[15]: una delle qualità dell’animaletto è la mimetizzazione, che consente di non essere percepito, quindi da un lato non essere vulnerabile, dall’altro di poter compiere atti ostili a proprio comodo.

  1. La crisi – ormai quasi secolare – del sistema Westfaliano è particolarmente acuta in relazione a chi possa essere (legittimamente) nemico. Se Rousseau poteva scrivere che la guerra è una relazione tra due Stati sovrani, nel dopoguerra seguito al secondo conflitto mondiale, la maggior parte delle guerre (circa tre quarti) sono state combattute da soggetti (o con soggetti) che non sono Stati ma partiti rivoluzionari, movimenti guerriglieri, talvolta tribù. Tuttavia ai combattenti irregolari era garantito dal diritto internazionale un trattamento, che li assimilava agli eserciti regolari. Con ciò viene depotenziata, quasi annichilita la massima del diritto romano che “sono nemici (hostes) coloro che ci hanno – o cui abbiamo – pubblicamente dichiarato guerra: gli altri sono briganti o pirati”[16].

Se il nemico non è più lo Stato (e non è più pubblico, in quanto soggetto ordinato, con organi e rappresentanti), ma può essere privato, la guerra cosa diventa?

  1. La guerra è pubblica, se non nel senso soggettivo, sicuramente in quello oggettivo, ovvero di confronto tra parti perché l’una sia costretto a compiere la volontà (e l’interesse) dell’altra; e il tutto al fine di modificare i rapporti di potere e di dominio che, già da Tucidide, sono considerati una delle “costanti” della politica. E così cambi di governi, mutamenti del modo di esistenza, aumento delle imposte onde remunerare gli interessi sul debito pubblico.

Un tempo si chiamavano tributi, indennità, riparazioni, danni di guerra, oggi spread. Se, come appare dalle notizie di stampa, le varie “manovre” economiche (prima di Tremonti, poi di Monti) ci sono costate circa 200 miliardi di euro (anche se “spalmati” in più anni) abbiamo anche l’importo (per ora) del “tributo”. Non è il caso di ripetere quanto già scritto[17] sulla guerra contemporanea, in epoca di pacifismo imperante, da due colonnelli cinesi (riprendendo le concezioni dell’antico pensiero strategico cinese e indù) nel noto volume “La guerra senza limiti”: e cioè che per la guerra non è necessario (sempre) ricorrere alla violenza: basta un embargo, impedimenti al transito di beni e servizi, manovre coordinate di borsa, attacchi informatici, e così via. D’altra parte l’uso di mezzi economici per piegare la volontà del nemico non è neppure una scoperta moderna (pur essendo stata spesso praticata nella modernità).

La situazione creatasi negli ultimi due anni, in particolare in Europa, rientra appieno nelle pratiche di guerra economica, come negli effetti politici della guerra.

  1. A questo punto, tornando al punto di partenza, è il caso di chiedersi se l’antipolitica non trovi il proprio brodo di cultura nell’assenza di guida politica. Se infatti la politica, nel nocciolo duro e nei momenti decisivi, è riconoscimento e indicazione del nemico, che senso ha una guida politica che non lo indichi e non prenda le decisioni conseguenti?

A leggere i discorsi, che nelle emergenze, sono stati pronunciati dai capi politici, si ritrova sempre l’indicazione del nemico. Dall’orazione di Calgaco prima della battaglia con Agricola, a quella di Cromwell contro la Spagna, dal Churchill delle “lacrime, sudore e sangue” all’appello di De Gaulle del 18 giugno 1940.

Certo sono tutti discorsi pronunciati in situazioni estreme, e questa non è, neppure lontanamente, paragonabile a quelle. Ciò non toglie che non vi sia il bisogno di trovarsi in circostanze drammatiche per riconoscere il nemico e prendere le misure opportune per contrastarne gli “atti ostili non violenti”, in cui consiste questo tipo di conflitto. Ma se il riconoscimento non viene fatto, non è dato neppure prendere quelle; non resta che far buon viso a cattivo gioco, riversando sui cittadini il costo emergente, come se si trattasse di un terremoto.

In tal caso, se la guida politica non indica il nemico, non prende le misure necessarie a risolvere il (determinato) conflitto, con quell’(individuato) nemico, vuol dire che non è una “guida” politica, ma tutt’al più un governo dimezzato, ridotto alla sua funzione di comando interno.

In fondo, se si considera la storia, le sintesi politiche dipendenti da altre sono state in primo luogo private del potere di riconoscere (designare) il nemico: questo a partire dalle città federate romane fino ai protettorati coloniali dei secoli passati.

In tali condizioni, con una (classe) politica che non svolge il proprio ruolo, è naturale che vi sia un rifiuto della politica. Ma non è dato intendere quanto ciò sia rifiuto della classe (politica) e quanto della politica in se, dovuto all’effetto affabulatorio delle (varie) ideologia antipolitiche, a cominciare dal marxismo (della società comunista realizzata) alle utopie tecnocratiche-economiciste, alle ipotesi di fine della storia.

  1. Se si va a votare in queste condizioni, ci si sorprende non perché l’astensionismo cresca, ma perché cresce troppo poco. Dare i suffragi a frazioni di classe politica (e aspiranti tali) che considerano solo nemici interni (quando è evidente che attori e fattori della crisi sono soprattutto esterni), appare – innanzitutto – inutile. Come parteggiare per dei duellanti che non si contendono la guida di un paese, ma come spartirsene le spoglie e accollare i costi (sotto la supervisione del vincitore).

Tuttavia per ripartire le spese di una guerra perduta, bastano degli amministratori; per lottare dei capi politici. La gente, forse inconsapevolmente, l’ha capito. E si comporta di conseguenza: che un voto dato non vale una scampagnata persa.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Carl Schmitt Der Begriff des politischen, trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 143 ss.

[2] v. Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico… dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine politica” op. cit. p. 154-155.

[3] Il che non significa che non vi sia (e non vi sarà) una “sinistra”, dato che l’esistenza di forze politiche riconducibili al di essa concetto è una costante  storica; né che sia opportuno conservare istituti e norme di un’epoca (e di una visione del mondo, di una situazione politica) tramontata.

[4] Dovrebbero far oggetto di un’autonoma riflessione, a tale proposito, quelle considerazioni nel pensiero politico e giuridico degli ultimi due secoli che legano i caratteri dello Stato e del diritto “classico” alla terra, al territorio (e quindi al “confine”, che delimita il diritto applicabile). A cominciare dalle affermazioni di Louis de Bonald, che sottolineava come il capitale commerciale non avesse limiti al proprio accrescimento, a differenza della proprietà fondiaria (e feudale): con le relative conseguenze di ordine politico “I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. Observations sur l’ouvrage de M.me la Baronne de Staël, trad. It. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 44; di M. Hauriou che ritiene il diritto e l’ordine vigente legato all’età sedentaria dell’umanità v. Precis de droit consitutionnel, p. 41 ss. e  che sia detto incidentalmente, scriveva che “le organizzazioni della società reale (positive) sono tutte disorganizzate dal denaro” e portava ad esempio l’impero romano, il basso medioevo e l’organizzazione  capitalista (a lui) contemporanea (v. La science sociale traditionnelle in Écrits sociologiques, Paris 2010, pp. 239-241); di Hegel nei paragrafi  245-248 dei Grundlinien; di Carl Schmitt che vi è tornato sopra più volte, elaborando la dicotomia terra-mare, determinante diversi tipi di esistenza, e quindi di diritto di guerra. Occorre considerare quanto questo apparato istituzionale (e concettuale) sia adatto a “proteggere” (ossia a difendere, governare e regolare) attività umane che sono esattamente l’opposto del “sedentario” del “territoriale” del “delimitato”. Un diritto elaborato per società sedentarie è – quanto meno – depotenziato dal carattere immateriale della finanza globalizzata. Su questo è interessante leggere gli interrogativi che si è posto G. Tremonti in Uscita di sicurezza (Milano 2012, in particolare pp. 20 ss.).

[5] Ci si permetta di richiamare quanto da me scritto in “Nemico, ostilità e guerra” pubblicato elettronicamente sul sito del Cestudec; su stampa in Cile su Ciudad de los Cesares n. 96; e in Francia su Catholica n. 116, pp. 63 ss., cui rinviamo.

[6] Ci si riferisce al carattere tecnico del governo Monti, il cui primo connotato è di essere tale in negativo, nel senso che i componenti dell’esecutivo non sono politici (di professione o di vocazione o d’ambedue).

Ma un governo tecnico nel senso cennato, contraddice a due principi dello Stato e della democrazia moderni: che l’apparato burocratico abbia al proprio vertice personale politico (Max Weber); e questo sia tale per “carriera” (il cursus honorum “normale” del politico, cioè l’elezione o la nomina in organi designati dal corpo elettorale, come assemblee regionali o degli enti locali, e non per aver passato un concorso pubblico). E che l’organo così composto sia riferibile alla volontà del corpo elettorale. Che è il carattere (anche) della repubblica parlamentare, cioè della forma di governo vigente. Nel caso del governo Monti a collegarla alla lettera della Costituzione (ed al carattere democratico) è solo il voto parlamentare di fiducia, dato che non risulta che alcuno dei componenti l’esecutivo sia stato mai eletto, neppure in un consiglio di quartiere.

[7] V. sul punto G. Miglio Lezioni di scienza della politica, vol. II, Bologna 2012, in particolare pp. 320 ss. (ma il tema dell’ “appropriazione” e della “rendita” politica è trattato in più punti dell’opera citata).

[8] Hegel scrive: “Quella differenza nel suo manifestarsi è la determinatezza, e questa è posta come qualcosa che va negato. Ma questo qualcosa da negare dev’essere essi stesso una totalità vivente […]. Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” trad. it. in Il dominio della politica, a cura di Nicolao Merker, Roma 1997, p. 174.

[9] V. sul punto anche Carl Schmitt in Die Tirannie der Werthe.

[10] Sul nemico reale v. le pagine di Carl Schmitt in Teorie des partisanen, trad. it. Milano 1981, pp. 68 ss.

[11] Il quale sosteneva, in Politica e morale (trad. it. Brescia 2011) “La politica ha a che fare, in primo luogo, con i valori vitali della collettività: non con la «felicità del maggior numero», né con i valori spirituali. Esistenza vitale e libertà vengono prima di tutto il resto”; per cui la “politica non è in alcun modo subordinata alla «legge morale»: l’agire morale è essenzialmente differente dall’agire politico, anche nel singolo. L’agire politico e quello morale, e il diritto, tuttavia sono subordinati all’ordine oggettivo dei valori (assiologia)” e proseguiva “La politica non può mai essere vincolata a «norme» (corrispondenti all’ordine dei valori). Le norme si modificano, mentre l’ordine dei valori resta fisso”. In effetti anche l’ordine dei valori si modifica, anche se molto più lentamente delle norme. Ad esempio dell’Unità d’Italia a considerare le “tavole di valori” deducibili dalle costituzioni (formali e materiali) ne abbiamo avute almeno tre, corrispondenti ai regimi liberale, fascista e repubblicano.

[12] Op. cit., p. 248; v. (tra i tanti) sul punto E Werner L’anteguerra civile, Roma, 2004, pp. 72 ss..

[13] Occorre considerare che in molte lingue indoeuropee il nemico è linguisticamente il non-amico (cioè il non appartenente alla “comunità” politica, potenzialmente ostile); v. A.A.V.V. Amicus (inimicus) hostis, Milano 1992 in particolare il saggio di A. Vitale p. 87 ss.

[14] Op. loc. cit.

[15] In effetti Clausewitz chiama camaleonte la guerra perché “in ogni momento modifica la sua natura” (v. Vom Kriege trad. it. Milano 1970, p. 40). Il nemico lo fa con l’aspetto; la guerra cambia di natura.

[16] D 118, 50, 16.

[17] V. nota 5.

HAURIOU E LA PREVISIONE DELLA CRISI, a cura e con la traduzione di Teodoro e Federica Klitsche de la Grange

HAURIOU E LA PREVISIONE DELLA CRISI

già apparso sul nr 52 della rivista Behemoth del 2012 http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01

Per valutare la consistenza di un pensiero (e di un pensatore) s’adotta al giorno d’oggi il criterio della concordanza con i valori, le convinzioni (e i pregiudizi, più diffusi, i residui (paretiani), le illusioni, gli idola (nel senso di Bacone); ma se, invece, si adoperasse quello di considerare quanto, e quanto prima abbia pre-visto eventi futuri (purtroppo la verifica di ciò è, forzatamente, … demandata ai posteri) ne sarebbe accresciuto il valore di questo, dato essenzialmente dalla capacità – riscontrata – di essere un’affidabile e concordante rappresentazione (e previsione) della realtà, cioè di “andare d’accordo” con la medesima.

Così la statura di pensatori come Tocqueville, che previde sia l’egemonia  russo-americana della seconda metà del XX secolo (e la decadenza dell’Europa), sia la guerra di secessione e, cosa che ne dimostra, del pari, l’acume sociologico e di osservatore, i modi con cui sarebbe stata combattuta; di Donoso Cortes che profetizzò più facile la vittoria del socialismo a S. Pietroburgo che a Londra (contrariamente a Marx); e di altri (pochi) ancora (talvolta misconosciuti), sarebbe ingrandita. Tant’è: la cultura contemporanea, specie italiana, orientata, in gran parte, alla credenza in un illusione come quella marxista-leninista, culminante nella società comunista (che nessuno ha visto neppure da lontano), si industria a tenersi lontana da un siffatto criterio di corroborazione: quello di far verificare – in sostanza – il pensiero dalla storia e non dalle opinioni soggettive, anche se largamente condivise.

Fatta questa – lunga – premessa, il lettore sarà sorpreso dal seguente paragrafo di un libro dell’illustre giurista francese Maurice Hauriou “La Science sociale traditionnelle” pubblicato nel 1896, in cui Hauriou – che non crede che l’umanità vada in una sola direzione (del progresso) ma che periodi di progresso e di decadenza si alternino – indicava come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal Sallustio della “Guerra contro Giugurta” che è rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi giorni).

Lo spirito critico – oggi si direbbe relativismo; anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che il relativismo possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Infine la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Il primo fattore è in azione sotto gli occhi di tutti; del secondo, anche se non chiaro, è comunque percepibile il rafforzamento, almeno nelle comunità come l’islamica.

Va da se che quello che più colpisce di tali pagine è, da un lato, la compresenza, nella crisi contemporanea, di tutti i fattori di crisi individuati e previsti da Hauriou (anche se in misura non paritaria); dall’altro che il giurista francese aveva preceduto altri (sgraditi al pensiero unico) teorici della decadenza e della crisi dell’Occidente, da Spengler a Mosca, da Eisenstedt ad Huntington, da Pareto ad Olson.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

La produzione delle crisi

Come mai  le organizzazioni sociali fondate ed istituite, anche quelle che appaiono più solide, finiscono per  distruggersi? Come sono generate le crisi? A tale proposito si possono osservare due fenomeni. Il primo è dato dal fatto che qualsiasi sistema sociale stabilito dall’uomo tende all’esagerazione, diventa per l’uomo motivo di stanchezza e sofferenza e provoca una reazione dell’opinione a favore del sistema opposto. Il secondo è il fatto che vi sono cause di dissoluzione, il denaro nell’organizzazione della società positiva, lo spirito critico fattori di coesione (tissus)[1] destinati a garantire il fenomeno istituzionale.

  1. Le istituzioni delle epoche organiche finiscono per autosfruttarsi. Ciò deriva in primo luogo dal fatto che ve ne sono di due tipi e che bisogna credere che nessuno dei due risponda completamente ai bisogni dell’uomo, in quanto, per l’appunto , sono due. Ci si stanca del medio evo perché vi è il rinascimento e viceversa. Ma questa stanchezza è accresciuta dagli errori dei regimi stessi  che con il passare del tempo esagerano e tendono a divenire troppo estensivi (totalitari?). Aspirano a far rientrare  a forza nel loro stampo tutta l’attività umana, ma ne rimane sempre una parte che resiste e non si lascia inquadrare  se non nel regime opposto.

Tale esagerazione di ogni regime non è altro che il socialismo, del quale ve ne sono due tipi: quello dei medi evi e quello dei rinascimenti. Il socialismo medievale è quello delle corporazioni;  queste si proponevano di confiscare la libertà di lavoro che è l’insieme dell’iniziativa economica e del diritto di proprietà, il quale al tempo stesso rappresenta il frutto dell’attività e il suo agente trainante. Ci si ricorda perfettamente come nel corso del medioevo  i mestieri ed il corpo degli ufficiali giurati erano diventati odiosi  nel commercio e nell’industria avendo voluto sopprimere il lavoro libero. Ciò che invece non si ricorda a sufficienza è che contemporaneamente il sequestro di beni e proprietà da parte della corporazione feudale era sfrontato. Nel dodicesimo e tredicesimo secolo il sistema feudale non aveva ancora occupato tutto il territorio; sussistevano molti allodii, ed in più i canoni censuari ed i diritti feudali erano minimi. Invece durante il quattordicesimo e quindicesimo secolo, quando il diritto feudale si era logicamente sistemato, ne sono state tirate delle deduzioni sempre più rigorose. Si voleva applicare dappertutto il principio “nessuna terra senza signore” e sopprimere gli allodi. Contemporaneamente  i profitti feudali erano aumentati, si era creata tutta una fiscalità feudale ed i giuresconsulti del XVI esimo secolo si erano dovuti inventare una serie di finzioni giuridiche al fine di affrancare dal pagamento dei diritti determinati atti correnti quali i negozi di diritto di famiglia.  Ancora sotto il regno di Luigi XIV una grande questione si agitava nel paese. Difatti, i signori feudali che nel XII secolo  avevano  lasciato i boschi  alle comunità intendevano riprenderseli: da questo processi ed evizioni. L’ordinanza sulle acque e le foreste prevedeva una transazione sotto il nome di censita, che durò fino alla Rivoluzione[2] . Il Re stesso si era giovato della massima feudale e si comportava come proprietario di tutte le terre del regno.

Il socialismo (dell’epoca) rinascimentale è quello dello Stato. Poco a poco lo Stato esagera sia nei propri servizi amministrativi, sia nella legislazione che nelle imposte. Amministrazione e legislazione finiscono per  paralizzare l’iniziativa privata: attraverso la riscossione dei tributi la fiscalità grava e confisca lentamente la proprietà; in particolare ciò va a detrimento delle piccole proprietà in quanto, diversamente, la grande proprietà riesce a sfuggire all’organizzazione statale e si ricostituisce. Questo tipo di socialismo è stato applicato dall’impero romano alla fine del rinascimento antico. Dobbiamo sperare che ciò ci sarà  risparmiato alla fine del rinascimento moderno.

La stanchezza, la noia, le sofferenze provocate da ciascun tipo di socialismo sono le cause che spingono gli uomini verso tipi di organizzazioni alternative ed opposte. Durante il Medio Evo i borghesi esclusi dalla proprietà si volgono agli investimenti mobiliari; all’epoca della decadenza imperiale i potenti stanchi dello Stato si estraniano dallo stesso ritirandosi nei loro grandi domini.

L’eccesso non si sviluppa solo nelle istituzioni ma anche nelle idee. Lo spirito di fede del medio evo evolve nell’idealismo più intollerante, lo spirito critico si sviluppa in un naturalismo materialista [3]. Si è spinti verso l’uno dal disgusto per l’altro.

Il passaggio dall’uno all’altro è determinato dall’azione dei (fattori) dissolventi.

Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico. L’apparizione del denaro segna la fine del medio evo; questa ricchezza pratica e mobile, che racchiude in potenza tanti godimenti diversi, stimola la cupidigia e lentamente induce all’abbandono della terra. Le crociate segnarono l’inizio della fine delle baronie feudali in quanto nei ricchi paesi orientali i crociati appresero il gusto del lusso e del denaro. Anche la rapida corruzione dell’ordine dei Templari è da ricondurre all’opera del perfido metallo.

Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta[4] che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve.

Lentamente, dunque, i capitali vengono reinvestiti sulla terra. Si è arrivati a tanto anche alla fine della civiltà antica quando gli imperatori romani al fine di arginare le fonti speculative svilupparono a dismisura la macchina amministrativa ed è solo dopo qualche secolo di tale socialismo statale che la grande proprietà si è ricostituita.

L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[5]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare. Questo percorso è rapido. Nel corso della rivoluzione francese vi era il culto positivo della ragione e dello Stato. Cento anni dopo, vi sono lo scetticismo universale e le critiche spassionate contro lo Stato.

Lo spirito critico finisce come il denaro nell’aggio (provvigione).                  .[6]

 

LA SUCCESSIONE DELL’ERA PAGANA E DELL’ERA CRISTIANA

In conseguenza delle osservazioni sopra esposte appare chiaro che i medioevi e i rinascimenti devono essere presi in coppia. Un medioevo seguito da un rinascimento produce ciò che si può chiamare un’era. L’era antica è costituita dal medio evo pagano e dal rinascimento pagano mentre l’era moderna dal medio evo cristiano seguito dal rinascimento cristiano.

La crisi che separa le due epoche è delimitata da determinate caratteristiche quali la migrazione dei popoli e le innovazioni religiose. Essa è più violenta e più profonda rispetto a quella che separa le due fasi, medioevo e rinascimentale, all’interno della medesima era.

E’ all’inizio dell’era moderna che avvengono le migrazioni di popoli che hanno rinnovato la società positiva ed è sempre in tale periodo che si è avviata la propagazione del cristianesimo.

All’inizio dell’epoca antica si è avuta una migrazione di popoli poco nota , ma di cui si è conservata la memoria, soprattutto in Grecia. Ed in quello stesso periodo che si sono propagati i culti degli dei pagani. Certamente in un prossimo futuro,  visto che siamo alla fine dell’età moderna, si dovrà avere una migrazione di popoli e un rinnovamento religioso.

Nondimeno, indipendentemente da ciò che sarà nell’avvenire cerchiamo di renderci conto della successione di ere nel passato.

Alla fine del Rinascimento tutto è chiaramente esaurito, la società positiva e i fattori di coesione. La società positiva è usurata perché gli stessi uomini della stessa razza hanno successivamente provato sia l’organizzazione feudale sia l’organizzazione statale talché sono loro rimasti impressi i vizi e i rancori di ambedue i sistemi. Ugualmente sono esauriti anche i fattori di coesione (tissus) redentori, quelli religiosi per via della lotta contro lo spirito critico, quelli metafisici per via del suicidio nello spirito critico e nello scetticismo universale.  La razza ha cessato di esprimersi ed ha eaurito qualsiasi combinazione.

L’unica cosa che potrebbe rinnovare la società attuale sarebbe un apporto di nuove popolazioni. La migrazione dei popoli e le invasioni barbariche si producono con facilità perché la civilizzazione nell’epoca rinascimentale è volentieri cosmopolita; inoltre, non appena attirate nella civiltà tali popolazioni sono stimolate dalle ricchezze accumulate e dal fatto che la loro forza avrà a servizio armamenti perfezionati e invenzioni distruttive.

Il solo evento che potrebbe rigenerare i fattori di coesione sarebbe un risveglio della fede. Cosa assai notevole dato che già per due volte il germoglio di una nuova fede è venuto da fuori o almeno da regioni eccentriche. I culti pagani venivano quasi tutti dall’Asia, il cristianesimo è venuto dalla Giudea. L’oriente sembra avere sulla civilizzazione occidentale un effetto singolare, nel bene come nel male. Esso corrompe ed offre salvezza. In ogni caso interviene nel corso di ogni crisi. Può darsi che nell’avvenire il cristianesimo sarà resuscitato grazie a quelle popolazioni orientali che ancora oggi forniscono dei martiri.

Una volta rinnovato il mondo attraverso l’invasione e la religione è prevedibile che l’età moderna sarà seguita da un medio evo, atteso che l’organizzazione feudale è naturale nella società positiva; e siccome lo spirito critico è sparito insieme ad una parte della cultura intellettuale, solamente la religione potrà istituire le organizzazioni. E’ così che il ciclo ricomincia.

 

Maurice Hauriou

(traduzione di Federica Klitsche de la Grange)

[1] Traduciamo con “Fattori di coesione” il termine tissu (tessuto, ordito) che il giurista impiega in diverse sfumature di significato, prevalentemente riferentesi a rappresentazioni del mondo ordinanti ovvero a elementi/fattori di ordine sociale e organizzazione di e tra le istituzioni.

[2][2] O.1669, art.4 tit.25; L. 15-28 marzo 1970, art.30, titolo II; L.28 agosto 1792; V.Merlin, Répertoire, V triage.

[3] La dissociazione delle idee e dei sentimenti provocata dallo spirito critico si estende sfortunatamente fino alla morale. Quest’ultima non sembra più pertinente a ogni ruolo sociale, ma come ristretta a determinati stati, come ad esempio la professione ecclesiastica. Si sono create delle morali sempre più leggere. Vi è quella del commerciante, quella  del figlio di famiglia, ecc. D’altronde l’arte si dissocia dalla morale;  fa capolino la teoria dell’arte per l’arte, ecc. Ne consegue che dalla penitenza fatale si arriva al materialismo pratico.

[4] Sappiamo bene che il denaro è anche una mercanzia ma se tale bene non servisse che a fare dei gioielli e non fosse il segno di misura per tutti gli altri esso avrebbe ben poco valore.

[5] I veri fondatori del pensiero laico sono  di gran lunga antecedenti a Galileo e Descartes, si tratta dei giuristi del XIV secolo che studiavano il diritto romano come ragione scritta.

[6] Il ruolo dissolvente dello spirito critico è stato perfettamente stigmatizzato da Auguste Comte (46esima lezione, Cours de phil.positive). Vale sottolineare che ad oggi ciò che rende il partito conservatore quasi incapacitato ad opporsi alla disorganizzazione sociale deriva dal fatto che è diviso in due dalla questione del clero; ciò è opera dello spirito critico.

 

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico_Intervista su “scenari economici”

Gianfranco La Grassa ripropone in questa intervista la sua chiave di lettura delle dinamiche sociopolitiche in corso: la teoria del conflitto tra centri strategici. In Italia uno dei tentativi più riusciti di superamento delle categorie di pensiero politico dominanti nel XX secolo_Giuseppe Germinario

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico

https://scenarieconomici.it/intervista-esclusiva-a-gianfranco-la-grassa-crisi-economica-mutamenti-geopolitici-conflitto-strategico/

Per Scenari Economici, un’intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa, già docente di economia politica nelle Università di Pisa e Venezia, studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica. Autore di decine di saggi pubblicati con le più importanti case editrici italiane (Editori, Feltrinelli, Dedalo, ManifestoLibri, Mimesis) avendo traduzioni in varie lingue. Fra gli ultimi lavori pubblicati: Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli (2015), Tarzan vs Robinson. Il rapporto sociale come conflitto e squilibrio (2016), L’illusione perduta. Dal modello marxiano verso il futuro (2017), In Cammino – Verso una Nuova Epoca (2018). Qui la sua bibiografia completa.

1. Nel nuovo anno uscirà il suo libro su “Crisi economiche e i mutamenti geo(politici)” per l’editrice Mimesis. La sua interpretazione dei fenomeni finanziari e di quelli economici in generale è molto differente da quella delle scuole di pensiero dominanti. Lei propone un diverso livello teorico per interpretare la crisi delle società capitalistiche, parlando di terremoti di superficie che interessano la sfera economico-finanziaria e di scontri in profondità che interessano quella (geo)politica-militare. Quest’ultimi sarebbero più decisivi perché attinenti alla “potenza”. Di cosa si tratta?

R. Di quello di cui si dice appunto nella domanda. Bisognerebbe certo partire da molto lontano. Con la fine dei rapporti di tipo schiavistico o servile (com’erano nel mondo antico e in quello feudale), nella società moderna – detta fin troppo genericamente capitalistica – si afferma sempre più nettamente la libertà ed eguaglianza dei diversi individui, fra i quali si generalizzano progressivamente delle relazioni basate sullo scambio di merci, considerato appunto il fondamento ultimo e decisivo di detta libertà ed uguaglianza. E’ questo processo (storicamente abbastanza lungo) a portare in evidenza la sfera produttiva (le merci si devono produrre), che nelle formazioni sociali precedenti era decisamente subordinata a quelle del potere politico (e militare) e ideologico-culturale. Non viene preso in attenta considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei componenti la società possiede una sola merce da scambiare: la propria capacità lavorativa (di vario genere), la cui “produzione” implica particolari processi d’ordine biologico, socio-culturale, ecc. abbisognanti d’altre merci fornite da chi controlla i mezzi tecnici (e organizzativi) della loro produzione. Ripeto che qui il discorso dovrebbe diventare molto lungo e impossibile in questa sede. Sintetizzando, diciamo che la particolare libertà ed uguaglianza, fondamento del sistema dei rapporti sociali capitalistici, porta nella sfera produttiva quel conflitto (detto, con eccessiva bonarietà, concorrenza) che nelle precedenti società era specifico delle altre sfere sociali già prima nominate. E tale tipo di conflitto – e lo si constata appunto benissimo nelle società in cui esso era concentrato soprattutto nella sfera politica (e bellica) – alterna fasi in cui un dato potere predomina, almeno in una determinata area territoriale e sociale, il complesso dei rapporti tra gruppi sociali, con altre fasi in cui s’indebolisce tale predominio (definiamolo “centrale”) di una parte sulle altre; da qui inizia il periodo di crescente “disordine globale” che esige uno scontro, più o meno lungo e con l’impiego di svariati mezzi, fino ad arrivare a quello decisivo e “d’ultima istanza” (bellico), che potrà condurre ad una nuova fase di preminenza di una parte (in genere diversa dalla precedente). Nella società capitalistica, tenuto conto di quanto detto molto sommariamente in merito al tipo di affermazione (mercantile e “concorrenziale”) della libertà ed eguaglianza degli individui (in genere raggruppati in date associazioni di “unione e alleanza”, ma sempre per libera scelta), la tipologia di conflitto appena considerata – con l’alternanza tra fasi di predominio di una parte e dunque di relativo “ordine” e “pace” e altre di esplosione del conflitto aperto con disordine globale – si estende alla sfera produttiva. Proprio per questo, ho sempre aderito alle tesi secondo cui le crisi economiche dipendono soprattutto dalla cosiddetta “anarchia mercantile”, che si afferma periodicamente con netta evidenza. Di conseguenza, mai mi ha convinto la tesi che le crisi si attenuassero con il formarsi di imprese oligopolistiche; anzi, più sono grandi e potenti i contendenti e più, alla fin fine, si arriverà a scontri di accentuata violenza e portatori di ampio disordine. Inoltre – ma questo l’ho potuto spiegare solo in numerosi libri e non posso sintetizzarlo qui – ritengo che le crisi economiche di notevole portata dipendano alla fine dall’indebolimento di un potere predominante “centrale” (cioè posto all’apice di una piramide che si allarga al controllo di un’ampia sfera territoriale e sociale, al limite il mondo nella sua globalità) con crescita di tanti altri poteri. Ma questo potere “centrale”, o invece l’insorgere di altri con l’acutizzarsi del reciproco conflitto, sono fenomeni che si manifestano, con principale e netta influenza sul resto, nella sfera politica (con le sue “diramazioni” belliche) e semmai, ma in subordine, in quella dell’egemonia ideologico-culturale.

2. La sua critica all’economicismo, che si erge a chiave di lettura esclusiva dei fenomeni sociali, è radicale. Lei, infatti, porta in primo piano la conflittualità tra gruppi dominanti in ogni sfera dell’agire umano: economica, politica e ideologica. Lei sostiene che la Politica, intesa come sapere strategico, serie di mosse per primeggiare e conquistare il potere, è prevalente in ogni ambito sociale. L’utilizzo di questo paradigma apre nuovi scenari interpretativi, anche rispetto alla vecchia analisi marxista. Dove conduce il suo pensiero?

R. Dove lo conduca non saprei dirlo, anche perché non sono Marx, in grado di condurre ad una teoria abbastanza conchiusa con una buona coerenza interna nei suoi passaggi tra premesse, argomentazioni intermedie e conclusioni. So che in effetti io – pur avendo letto moltissimo nei più svariati campi: scientifici, storici, filosofici – ho fatto una scelta marxista che quindi condiziona il mio pensiero anche nel momento in cui mi sono allontanato da quel pensiero, che resta il punto d’orientamento generale. Ho discusso il modello marxiano in dieci video-puntate che credo siano ben riuscite, e ho già approntato ben tre ridiscussioni critiche dello stesso. La premessa centrale di Marx credo si possa così sintetizzare. Senza produzione di una varietà di beni, storicamente sempre più ricca e mutevole, la nostra specie umana non potrebbe né saprebbe sopravvivere (cosa fin troppo ovvia). La sfera produttiva è caratterizzata da sistemi di rapporti, anche questi storicamente mutati (a volte lentamente, in dati momento in modo rapido e “rivoluzionario”); si tratta appunto dei rapporti sociali di produzione che costituiscono in un certo senso lo “scheletro” del “corpo” delle diverse società succedutesi nel tempo e che quindi hanno una loro forma “storicamente specifica”. Tale “scheletro” condiziona anche la collocazione (e perfino il funzionamento) dei diversi organi collocati in quel “corpo”. Qui sono cominciati i miei dubbi perché in definitiva è in quello “scheletro” che vengono poste le due grandi “classi” decisive per i mutamenti subiti dalle diverse formazioni sociali (sintetizzando: schiavista, feudale, capitalistica e quella che si sarebbe dovuta formare per gestazione interna a quest’ultima: socialista in quanto fase di transizione al comunismo, che NESSUN marxista ha mai dato per nato in una qualsiasi area del globo). In effetti, per Marx, le due grandi “classi” antagonistiche – con cui infatti egli inizia il “Manifesto” del 1848 scrivendo che tutta la storia è storia di lotte di classi: proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia (capitalisti) e proletariato (gli operai); in sintesi e generalizzando, tra i gruppi sociali dominanti e quelli dominati – si formano nella sfera produttiva (cioè nello “scheletro”) e sono costituite dai proprietari dei mezzi di produzione e dai produttori privi di quella proprietà. E sarebbe appunto la lotta tra queste due classi a marcare la storia umana e il succedersi delle varie forme di società. In effetti, ho pensato invece che il conflitto, causa delle trasformazioni dei rapporti sociali, non avvenga principalmente nella sfera produttiva. Non posso certo sintetizzare tutto l’arco del mio ragionare. Diciamo semplicemente (e con mancanza di molti passaggi intermedi, che si trovano soltanto nei miei libri, soprattutto da metà anni ’90 in poi) che il “conflitto è vita”, non esiste alcun tipo di esistenza vitale senza lo scontro, l’urto di “elementi contrapposti” tra cui scorrono più o meno violente cariche energetiche. D’altra parte, soprattutto nella nostra società umana, il conflitto è guidato dall’obiettivo della conquista della supremazia. E questa non si conquista senza lo studio e poi l’applicazione di una strategia, di una serie di mosse concatenate miranti a quell’obiettivo supremo. Ma le strategie appartengono a più parti in conflitto e dunque ognuna deve tener conto anche delle mosse delle altre. Inoltre, è assai importante l’analisi del “terreno”, del “campo”, in cui si svolge lo scontro. Allora, quello che indico come “conflitto strategico” riguarda ovviamente tutte le sfere sociali, anche quella economica (produttiva e finanziaria) e ideologico-culturale; e i soggetti in queste implicati perseguiranno i loro specifici interessi e stabiliranno alleanze e connubi con soggetti delle altre sfere. Tuttavia, a me sembra evidente che quella politica (con annessi apparati bellici e i vari Servizi, ecc.) sia quella di maggiore impatto per la vittoria nel confronto per la preminenza. E inoltre, mi sembra un po’ forzata l’idea che il conflitto avvenga direttamente tra dominanti e dominati. Credo che la storia veda assai più lotte tra dominanti (e quella moderna proprio tra Stati, tra vari paesi/nazione). Anche quando scoppia il malcontento delle cosiddette masse popolari si va al completo disordine e disgregazione se non vi sono gruppi dirigenti (anche tra i dominati) che guidano “strategicamente” l’urto tra fazioni. Le più grandi rivoluzioni finiscono sempre con l’emergere di nuovi gruppi dirigenti che, in definitiva, promuovono nuove stratificazioni sociali. E si torna ai dominanti e dominati. La stessa cosa avviene nell’arena internazionale, mondiale. Si alternano periodi di relativa calma (e sedicente pace) quando una parte (un paese ad es.) predomina e assicura un certo coordinamento generale, quello che i liberisti cantano come armonica globalizzazione mercantile e fine degli Stati nazionali (altro che il sedicente economicismo dei marxisti). Poi il predominante entra in declino, entriamo progressivamente nel cosiddetto multipolarismo e tutto inizia a scombinarsi investendo infine, nel mondo moderno (“capitalistico”) la sfera economica. Ecco allora le crisi in quest’ultima, che si risolveranno quando avverrà un nuovo decisivo scontro per la predominanza (“coordinatrice”).

3. Lei parla spesso di solidarietà antitetico-polare tra (neo)liberismo e (neo)keynesismo che propongono formule ormai ineffettuali, benché dirimenti, per affrontare le crisi. Mercato e Stato rappresentano i loro totem, anche se con qualche minimo aggiornamento. Considera questi due approcci persino più inadatti del marxismo (il cui totem fu invece la classe operaia) per rispondere ai problemi odierni. Ci può spiegare perché?

R. Anche questa risposta è un po’ complicata. Comunque, non ho mai creduto ad una vera teoria marxista delle crisi. I seguaci di Marx, quelli a mio avviso che più hanno impoverito la sua teoria di ben altra apertura, hanno inseguito visioni economicistiche particolarmente rozze e povere di contenuto, anche quando ben rivestite di formule matematiche (troppo spesso usate nelle scienze sociali per nascondere la propria pochezza d’intelletto). Mi sono dovuto sorbire i dibattiti sul “sottoconsumo” (alla Luxemburg) conditi con le tesi dell’“impoverimento assoluto” della classe operaia; anche questa ridotta dalla definizione marxiana del III libro de “Il Capitale” (cap. XXVII: “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”) alle semplici “tute blu”. Altri si sono dilettati con la “caduta tendenziale del saggio di profitto” dovuta ad un progresso tecnologico con capitale “fisso” in crescita e aumento quindi della “composizione organica del capitale” (C/V): capitale impiegato nei mezzi di produzione diviso per quello impiegato in salari, cioè per pagare i produttori di “valore” e “plusvalore” (dovuto al pluslavoro), che è il profitto capitalistico (e proprio per questo il capitale con cui si pagano i lavoratori è detto variabile, mentre l’altro è detto costante perché può solo riprodurre il suo valore). Chi sa qualcosa di marxismo ha capito ciò che sto dicendo, ma si tratta di cose noiose che è meglio dimenticare. Per me sta bene che si dibatta sulle crisi economiche tra liberisti e keynesiani; entrambi partono dalla teoria del valore come utilità e non come lavoro, che era la tesi dei “classici”, seguiti da Marx ma con un intento preciso che ho chiarito in mille altre occasioni (e certo non mi ripeto qui). Resto allibito dalle discussioni che sento in TV e nella stampa, dove è totalmente ignorato quanto mi avevano insegnato fin dal primo anno di Università sessant’anni fa. Tutti addosso a chi è contro l’“austerità” (necessaria per liberisti di scarsa levatura a salvarci dal debito pubblico, a ridurre il rapporto deficit/Pil), causa non ultima della caduta della domanda (globale: consumi più investimenti) con effetti di crisi. Ma su questo mi sembra si basi quanto mi viene chiesto nella domanda successiva.

4. Nei suoi interventi dice che la crisi del ‘29 non fu definitivamente superata grazie alle politiche espansive del New Deal ma solo in seguito alla guerra,  dalla quale il mondo uscì diviso in due campi contrapposti, ciascuno con un paese egemone a capo. In questa fase, Lei vede principiare lo stesso tipo di scollamento con il declino relativo degli Usa e l’emergere sulla scena mondiale di alcune potenze concorrenti ad est. Quali saranno i risvolti di questa nascente disputa?

R. Qui il discorso dovrebbe essere veramente lungo. Partiamo dal fatto che il New Deal del 1933 attenuò la crisi iniziata con crollo di Borsa nell’ottobre del ’29 e che raggiunse il suo acume (produttivo e non più semplicemente finanziario) nel ’32 con forte calo del Pil e con disoccupazione indicata a più del 30% della forza lavoro. Di fronte ai “superficiali” (diciamo così), che ancor oggi parlano di austerità e di necessità di contenere il debito e che trattano un paese (e lo Stato che lo rappresenta) come fosse un singolo soggetto, un “buon padre” che deve risparmiare per il bene della “famiglia”, si prese atto che le crisi capitalistiche non sono certo le carestie del Medioevo, ma sono invece caratterizzate da sovrapproduzione, in definitiva da carenza di domanda dei cittadini (dei “privati”, diciamo) non in grado di assorbire tutto quanto può essere prodotto in una situazione di piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro in primo piano). Si ovvia a tale carenza con la spesa (domanda) statale e in deficit di bilancio; altrimenti, se si cerca il pareggio, si dà con una mano e si toglie con l’altra. Comunque, sarebbe certo interessante seguire la polemica tra il liberista Pigou (che attribuiva la crisi alle eccessive richieste sindacali comportanti un salario superiore alla produttività marginale del lavoro, tesi tipica della teoria neoclassica tradizionale) e Keynes, che insisteva appunto sulla carenza di domanda complessiva (consumi più investimenti) in un sistema capitalisticamente avanzato dove si manifesta un relativo eccesso di risparmio, non richiesto dai privati investitori anche a bassissimi tassi di interesse; per cui cade uno dei “pilastri” del neoclassicismo, cioè la “legge di Say”, secondo cui, in ogni caso, l’offerta (cioè la produzione) crea sempre la sua domanda, il che impedisce di afferrare i motivi della sovrapproduzione, caratteristica fondamentale della crisi economica dei sistemi di tipo capitalistico. Comunque dobbiamo sorvolare su tutto ciò e sulla fondamentale opera di Keynes del 1936 “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”). Diciamo solo che il New Deal (fortemente negletto da coloro che dibattono sulla crisi iniziata nel 2008 e non affatto superata come pensano tanti sciocchi odierni) ebbe effetti benefici e ridusse l’impatto della crisi per alcuni anni successivi al 1933. Indubbiamente però, direi già con il ’37, si manifestarono sintomi di “appesantimento” e ristagno con nuova preoccupante crescita della disoccupazione del lavoro. La situazione rimase, diciamo così, incerta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che risolse completamente quella crisi. Autori keynesiani (alcuni divenuti poi anche marxisti: penso a Baran e Sweezy e anche a Magdoff) ne diedero una interpretazione conseguente: eccezionale spesa per armamenti, prodotti che non vanno a “ingombrare” il mercato, dando però vita a profitti e salari con accrescimento della domanda complessiva, che imprime il rilancio della produzione non bellica, quella propriamente mercantile. Dopo la guerra e per un lungo periodo di tempo, nel campo detto capitalistico sembrò superata la crisi “classica” e si parlò al massimo di “recessioni”. La tesi, che mi sono permesso di pensare (e anche qualche altro, di cui non ricordo il nome, ne ha formulato una simile), è che ancora una volta si è data eccessiva rilevanza alla sfera economica, tralasciando quella a mio avviso più decisiva. Nel polo capitalistico del sistema detto bipolare, vi è stato il predominio netto degli Usa, di cui quel polo era la specifica sfera d’influenza. Non posso adesso diffondermi sull’argomento, ma quel predominio ha creato un intero sistema di paesi relativamente coordinato tramite generali influssi (anche economici quindi) promananti dal centro. Questo mi ha portato a ripensare il relativo monocentrismo inglese tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la seconda metà di quel secolo, quando avanzano come nuove forti potenze gli Stati Uniti (dopo la decisiva guerra civile con schiacciamento dei cotonieri e forte sviluppo industriale) e la Germania (dopo lo scontro fondamentale con la Francia nel 1870-71). Inizia il periodo del crescente multipolarismo (nell’età detta dell’imperialismo, cioè dello scontro tra potenze per la supremazia). Si verifica un lungo periodo di stagnazione (non generale e non priva di modesti aumenti del Pil; 1873-95 all’incirca), nel mentre si è in piena seconda rivoluzione industriale. Ho assimilato a quel periodo quello iniziato nel 2008; ci si accorgerà prossimamente che la relativa stagnazione odierna (malgrado ci si bei dei tassi di crescita degli Usa e di quelli cinesi; in rallentamento come quelli giapponesi e, mi sembra, indiani) non è ancora superata. Il multipolarismo andrà avanti, crescerà la disarticolazione del sistema a causa di spinte ora centrifughe. A questo punto mi arresto e rinvio a miei testi teorici, che si susseguono già da tempo e che cercherò ancora di approfondire.

5. Lei critica aspramente l’ideologia statalista, al pari di quella del libero mercato. Spesso ha sostenuto che tra pubblico e privato non vi è molta differenza e che molto dipende, non dalla forma giuridica della proprietà, ma dalla visione dei gruppi strategici che guidano gli apparati di vertice istituzionali o imprenditoriali, di una determinata area o Paese. Quelli italiani ed europei, in particolare, come sono messi?

R. Diciamo, più specificamente, che non vi è sostanziale differenza tra impresa pubblica e privata. Nel senso che la prima non è certo dedita a interessi di carattere generale, riguardanti una intera collettività nazionale. Ogni gruppo dirigente di una qualsiasi iniziativa, avente il carattere dell’impresa di tipo capitalistico, deve utilizzare i metodi e perseguire le finalità proprie di tale iniziativa. Certamente, appare assai limitativo rifarsi al semplice scopo del “massimo profitto” (come sostenuto anche da parte di certo marxismo, a mio avviso abbastanza lontano dal pensiero di Marx). Tuttavia, è ovvio che una simile impresa deve puntare al suo rafforzamento; anche se può a volte accettare – per limitati periodi di tempo – di soffrire di perdite, questo deve avvenire in funzione di un indebolimento dei suoi competitori per riprendere poi in mano la situazione da posizioni di preminenza. L’impresa pubblica è importante in Italia perché si diffonde in settori strategici per motivi storici particolari. Nel 1933, proprio a causa della violenta crisi iniziata quattro anni prima, fu necessario il salvataggio di grandi banche come il Credito Italiano, la Commerciale, ecc.; nasce così l’IRI, che poi diventa controllore pure di industrie come AnsaldoTerniIlvaSIPSMEAlfa RomeoNavigazione Generale ItalianaLloyd Triestino di NavigazioneCantieri Riuniti dell’Adriatico e molte altre. IRI significa infatti “Istituto per la ricostruzione industriale”. Esso doveva essere transitorio, ma poi invece divenne definitivo; nel dopoguerra al settore imprenditoriale pubblico si aggiunsero Finmeccanica (1948), Eni (1953) ed Enel (1962). E nel 1962 quel settore giunse a controllare una buona metà dell’industria italiana. Proprio in quell’anno, con l’incidente/assassinio di Mattei, si può dire che parte l’attacco all’imprenditoria pubblica, che si accelera in particolare dopo la “distruzione” (via giudiziaria) della prima Repubblica. Una parte resiste ancora, ma l’indebolimento è stato forte. E quando si sente anche il nuovo governo parlare dell’importanza delle PMI (piccolo-medie imprese), del “made in Italy” (soprattutto moda e prodotti culinari), del turismo, ecc. si capisce che non ci rimetteremo in sesto tanto presto. E allora, ancora una volta, ci si rende conto come il problema centrale per il rafforzamento di un paese – anche della sua sfera economica – è essenzialmente politico; cioè riguarda quella strategia fatta di mosse mediante le quali si tenta di assumere la preminenza in una data area territoriale, diciamo geografico-sociale, più o meno estesa a seconda dei mezzi a disposizione dei diversi paesi. La politica, intesa in questo senso di “conflitto strategico”, riguarda tutte le sfere della società, anche quella economica (caratterizzata dall’impresa e mercato). Tuttavia, la potenza massima della politica (come strategia) si esprime negli apparati ad essa specificamente “dedicati”, al cui vertice c’è lo Stato. Ed è qui che si apre un discorso d’impossibile esaurimento in una intervista. Vi è la questione della politica (cioè del conflitto strategico) in campo internazionale e in quello interno; i collegamenti tra i due e la loro articolazione in termini di principale e secondario in differenti fasi storiche, tra cui molto importante è quella del crescente multipolarismo, com’è quella attuale. Concludo semplicemente manifestando il massimo disappunto (termine molto “morbido”) per come si sta sviluppando il dibattito in questo paese in merito al contrasto con la UE (parte di un confronto/scontro ben più vasto e di grande rilevanza). Tutto un arzigogolare intorno alle misure economiche governative (il tutto condito con menzogne spudorate dalla parte ancora prevalente in Europa e negli Usa, che sente il suo potere in forte crisi) senza alcun coraggio di dire: il problema è POLITICO, e se deve permanere un assetto internazionale ancora predominato da un paese (con i suoi servi privilegiati in Europa; Germania e Francia) o se bisogna “rovesciare il tavolo” con violenza e spostare gli assi delle varie alleanze. E qui mi fermo.

 


Il prossimo libro di Gianfranco La Grassa:

CRISI ECONOMICHE E MUTAMENTI (GEO)POLITICI

  • Editore: Mimesis
  • Collana: Eterotopie
  • Data di Pubblicazione: febbraio 2019

Descrizione

Questo libro nasce dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti fondamentali delle crisi economiche mondiali, troppo spesso trascurati dai sedicenti esperti. Già il titolo contiene un intendimento ben preciso, che punta a tenere insieme due piani, quello economico e quello (geo)politico, da non separarsi perché, in verità, essi sono connessi quasi da un rapporto di causa ed effetto. Tuttavia, questa relazione appare rovesciata, in quanto non si utilizzano lenti teoriche ben calibrate per interpretarla, con l’economia che prende impropriamente il davanti della scena, nelle narrazioni ufficiali, rispetto alla politica. Si tratta di un errore, come quello commesso da chi guardando ad occhio nudo il sole crede che esso giri intorno alla terra. Ci vogliono strumenti analitici più raffinati per scoprire che è l’esatto contrario. I fenomeni finanziari vanno trattati come meri elementi segnalatori di sconquassi ben più sostanziali e profondi che avvengono a livello delle strutture sociali internazionali e nell’articolazione dei rapporti di forza tra aree di paesi, egemonizzate da poli di potenza in crescente attrito. La crisi sistemica si manifesta, epidermicamente, con le cadute in borsa, la volatilità dei titoli azionari, lo scoppio delle bolle speculative per poi riversarsi sui fattori reali quali l’arretramento della produzione, la crescita della disoccupazione, il fallimento degli operatori industriali. Ma questo è solo l’inizio di trasformazioni più vaste che toccano inevitabilmente l’architettura geopolitica del mondo. Il libero mercato, a maggior ragione in fasi di trapasso epocale come quella presente, è una esiziale ideologia di distorsione della realtà; ma lo è anche quella mistificazione dei fondamentalisti keynesiani che ritengono di poter superare la débâcle con un altro New Deal. Non fu quest’ultimo a risolvere il ’29, fu la II Guerra Mondiale dalla quale gli Usa emersero quale paese predominate dell’Occidente e l’Urss come il loro contraltare ad Est. La crisi non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (in Keynes almeno si tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva). La crisi, quando non è mera recessione, si sviluppa per processi storici inevitabili che riguardano la lotta per la supremazia tra agenti strategici in campo (geo)politico. Allorché questo conflitto si fa più acuto saltano le regole del gioco in ogni sfera sociale, a cominciare proprio da quella economico-finanziaria che rappresenta l’esteriorità del capitalismo. Ma chi si ferma a questa apparenza non coglie ciò che ci aspetta e non troverà soluzioni alle attuali difficoltà.

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO

già pubblicato sul periodico Behemoth ( http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01 ) nel 2012

  1. Nelle “Lezioni di politica – Scienza della politica” Gianfranco Miglio dedica un capitolo dell’opera alla “teoria delle istituzioni” facendo considerazioni acute ma in qualche misura non del tutto conseguenti sia all’opinione dei giuristi cui riconosce di aver elaborato la teoria delle istituzioni (Maurice Hauriou e Santi Romano) sia (in qualche misura) con i presupposti, altrove svolti, delle proprie concezioni.

Sostiene Miglio che la teoria istituzionalista di Hauriou “è l’estremo prodotto di una capacità di elaborazione concettuale che si è avuta, in particolare fra i giuristi di scuola tedesca, durante la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo”; e spiega come nasce questa teoria”Abbiamo visto come l’uomo sia interessato a conoscere le regolarità del mondo che lo circonda e del comportamento dei suoi simili, perché operando in questo modo sa anche come regolarsi. Ma proprio per questo, l’uomo tende a costruire queste regolarità: in altri termini, tende ad organizzare il suo avvenire, proprio regolando il suo comportamento e tentando di regolare il comportamento degli altri. Qui abbiamo a che fare con regolarità non meramente ontologiche… siamo in presenza di norme e di regole teleologiche… Hauriou dice: «Ciò che fa un’istituzione è un complesso di norme legate, tenute insieme da un fine». In realtà cerchiamo di organizzare teleologicamente il mondo che ci sta intorno, in relazione ai fini”, pertanto “le istituzioni si presentano come giuochi preordinati” e così “l’istituzione è la manifestazione più concreta della vocazione che ha l’animale uomo a organizzare il futuro”; è lo sviluppo della tendenza peculiare della natura umana “l’istituzione è la manifestazione più tipica dell’uomo. Il passaggio da una regolarità ontologica a una teleologica, cioè preordinata e voluta, non è nient’altro che l’estendersi di questa capacità di organizzare ‘previsionalmente’ il futuro”[1]. Subito dopo Miglio distingue tra istituti-norma e istituti-organo.

Distinzione non nuova; per Miglio “generalmente ogni ‘istituto-organo’ nasce da un ‘istituto-norma’”: all’obiezione per cui esistono istituti-organo che nascono “di fatto”, replica che l’istituto-organo può non essere generato da una norma formale e prosegue “Nessuna legge, nessun regolamento l’ha posto in essere. Ma è proprio vero che non esiste un meccanismo normativo, un complesso di norme a monte di questo processo?… se più persone si ritrovano abitualmente – ad esempio convengono di ritrovarsi ogni settimana, ogni mese – e compiono determinati atti, determinate azioni, secondo precisi rituali, ciò accade perché coloro che così si comportano hanno come convinzione questa regolarità” e conclude “In altri termini, ciò che caratterizza la regolarità indispensabile per poter parlare dell’‘istituto-organo’, è l’esistenza di un certo modello di comportamento, che non è consolidato in nessuna norma formale, ma attiene all’ordine della consuetudine, che è anch’essa un ‘istituto-norma’… La verità è che l’unica entità originaria, che sta a monte, è l’‘istituto-norma’. L’‘istituto-organo’ è una sottospecie dell’‘istituto-norma’. Non può esistere un ‘istituto-organo’ se non c’è a monte un ‘istituto-norma’, un modello dal quale dipende, una consuetudine”. Per cui “Quelli che chiamiamo ‘istituti-organo’ e che crediamo siano cose concrete, legate a fattori materiali, in realtà non sono altro, in quanto istituzioni, che procedure convenute”. Anzi tutto il diritto consiste di procedure: per cui “Allora ecco il sospetto: che tutto il diritto si riduca a procedura convenuta; che le istituzioni siano proprio procedure convenute, comportamenti prefissati e siano tutte soltanto diritto”.

Miglio, quindi, contesta che “Legioni di storici e di giuristi hanno affermato senza dubbi: «Attiene all’ordine del “diritto pubblico” , che è “politico”». Allora come mai all’interno dello Stato si è prodotto il “politico” che è entrato in conflitto distruttivo con lo Stato?”[2]. Politica e diritto pubblico non coincidono: da una parte perché “la politica oggi si svolge  in gran parte contro lo Stato e comunque al di fuori dello Stato, i partiti, le corporazioni e via dicendo. E’ perché l’apparato che definiamo “Stato moderno” è in gran parte “diritto” e quindi struttura del “privato”. Originariamente lo Stato moderno è nato come un’aggregazione politica e come sintesi politica, ma tutto quello che ha fatto il suo “gran corpo” è nell’ordine del privato, perché è nell’ordine del diritto e là dove c’è diritto è inutile parlare di diritto pubblico”, dall’altra “Il “pubblico” o è politico o non è niente, perché se è diritto è privato. Esistono numerose prove, specialmente nella storia del diritto amministrativo, dei rami più recenti del diritto e nella storia del diritto pubblico”; e prosegue “Nel sistema politico che caratterizza la nostra età, lo Stato (moderno), ci sono un’origine e un nucleo politico e c’è un nucleo che attiene all’ordine del “privato” e che “politico” non è, perché appunto è diritto e appartiene all’area del contratto”[3].

  1. Secondo i giuristi istituzionalisti e in particolare i due più noti citati da Miglio, cioè Santi Romano e Maurice Hauriou il problema posto da Miglio (o meglio i problemi, tra loro concatenati), riconducibile al rapporto tra politico e diritto nello Stato moderno, non può risolversi separando, anzi negando, il diritto pubblico, né riconducendo agli strumenti prevalentemente impiegati (contratto o “provvedimento”) la linea di confine, né ritenendo che se entra in campo una regolazione giuridica, esce di scena la politica.

E’ d’uopo ricordare quanto scriveva Santi Romano. Questi nell’“Ordinamento giuridico” contesta che il diritto  sia norma (regola) “Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse”[4], e prosegue “In altri termini l’ordinamento giuridico così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere , le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”.

Nella concezione di Santi Romano l’istituzione è un’organizzazione dei poteri e, in quella statale (e pubblica) – del rapporto di comando-obbedienza e quindi è questa a essere la realtà del diritto quale collegamento di autorità e forza che produce, modifica, applica, garantisce le norme. Più tardi nel “Diritto costituzionale generale” scrive che lo Stato non ha ma è un ordinamento giuridico[5].

Quindi lo Stato è in primo luogo un’organizzazione di poteri (prima che un insieme di norme).

Il rapporto tra potere e regole trova la propria valvola di sicurezza nella necessità che è fonte del diritto, superiore alla legge[6]: la tensione tra “obbligazione politica” e “contratto-scambio”, il dualismo ricorrente nel pensiero di Miglio, è risolto nell’ordinamento , cioè nel diritto (che non s’identifica, è appena il caso di ricordarlo, con la legalità).

Hauriou distingue “due specie di regole d’origine istituzionale, il diritto disciplinare e il diritto statutario che sono, in una certa misura, la controparte e il correttivo l’uno dell’altro”[7], e così contribuiscono all’equilibrio dell’istituzione e delle forze che la sostengono.

Il diritto disciplinare “rappresenta” (représente) l’interesse del gruppo espresso dalla coercizione del potere di dominio”. Il diritto statutario “rappresenta l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale dei componenti alle procedure collettive della vita dell’istituzione”.

Il diritto disciplinare è repressivo e organico. E’ organico perché la forza di un’istituzione e il suo peso non si esercitano solo sui “trasgressori” ma su tutti, per forzarli ad accettare le organizzazioni create all’interno dell’istituzione”[8]. Il diritto disciplinare non comporta solo regole generali per l’oggetto (regolato) ma anche ad oggetto particolare, tuttavia opponibili a tutti e sanzionabili nei loro confronti.

Caratteristica ancora più importante è la sanzione. La sanzione del diritto disciplinare è la coercitio pura e semplice, ossia l’esecuzione con la forza a disposizione del funzionario (magistrat)[9]. Il diritto disciplinare va distinto dal diritto pubblico dello Stato, la cui caratteristica è di non ammettere sanzione se non statuita da un Giudice pubblico[10]. Il diritto pubblico ha progressivamente ammesso (e annesso) intere aree del diritto disciplinare, e ciò ne rivela l’origine e l’importanza che ha nella storia del diritto “constituant une des couches profondes du tuf juridique”[11]. Il diritto statutario è anch’esso generato dall’istituzione, Comporta delle regole, ma ancora più interessanti sono gli atti e le procedure che implica. Queste procedure sono legate alla vita dell’istituzione, sono i percorsi che segue nel suo movimento uniforme[12]; costituiscono un diritto che differisce da quello disciplinare perché ammette il punto di vista individualista dei componenti il gruppo combinato con le necessità sociali. Tipico è il procedimento (e le regole) maggioritario[13].

Nel “Précis de droit constitutionnel” la distinzione che Hauriou evidenzia è tra diritto disciplinare e diritto comune. Il primo è disciplinare, interno, gerarchico, dove le parti non sono pari, neanche davanti al Giudice. Già esisteva nelle famiglie patriarcali e nei clan: “les grecs appellaient Thémis cette sorte de justice organique”. Ma accanto a questa, si costituiva un altra giustizia che i Greci chiamavano Diké[14].

La sorgente di Thémis era l’organizzazione sociale, quella di Dikè l’attitudine sociale dell’uomo (sociabilité) “qui ne perd pas ses droits même vis-à-vis des étrangers, même vis-à-vis des ennemis”. All’epoca della formazione dei premiers états, confederazioni di clans, fu necessario dirimere dalle liti tra clan diversi (e i loro membri) con Tribunali arbitrali, accanto alla giustizia (interna) ai clan. Così questo diritto nato prima della polis (cité) fu integrato in questa[15]. Ciò che ha impedito al diritto comune (Diké) di confondersi con lo Stato “sont ses tendances internationales”: come il commerce juridique non conosce frontiere e si applica sia ai rapporti con gli stranieri che a quelli tra nazionali. Per cui “Entre un État, qui est forcément national, et un droit commun à tendances internationales, la fusion est impossible”. Diritto comune e Stato sono due sistemi d’idee che possono rendersi utilità reciproche e un mutuo appoggio, ma cui le tendenze divergenti impediscono di confondersi completamente.

Il diritto comune corrisponde a quello che nei “Principes de droit public” Hauriou chiamava le “commerce juridique”. Questo è un insieme di forme giuridiche generate dal “commerce economique” legato ad una forma di società assai diversa dalla forma politica[16]. Forze politiche e forze economiche, lottando tra loro, generano due forme di società e di diritto[17]. Non bisogna comunque esagerare con la contrapposizione di questi due “tipi” di convivenza sociale: in primo luogo perché ambedue compongono la società e sono inseparabili[18]. In se “le phénomène de l’échange et des relations d’affaires n’est pas dans la donnée logique de l’institution politique. Celle-ci repose sur le pouvoir, l’échange repose sur la valeur, deux notions qui sont hétérogènes l’une à l’autre”[19].

Inoltre il commercio ha una “vocazione” internazionale: ha delle sfere territoriali ma queste non si confondono con le frontiere politiche[20].

Il “commerce juridique” sostiene poi Hauriou, con le sue regole peculiari è penetrato nel diritto amministrativo (quindi pubblico) francese[21]. A tale proposito appartiene – scriveva Hauriou – ai giudici amministrativi “ce que l’on appelle un contentieux de la pleine juridiction qui est originairement le contentieux du commerce juridique[22]. Quindi Thémis e Diké hanno dei “punti” d’incontro, distinguibili concettualmente, ma assai meno sotto il profilo organico e oggettivo: l’accumulo di differenti “tipi” di giurisdizione (per i giudici amministrativi italiani quella generale di legittimità, quella esclusiva e quella di merito) ne è un esempio, così come la tutela da parte dello stesso Giudice di situazioni soggettive diverse (diritti e interessi legittimi).

  1. A questo punto è opportuno evidenziare le differenze. Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura[23]. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”[24]. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perchè lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”[25].

Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”. Quindi contrariamente a quello che sosteneva Hauriou del dualismo delle fonti del diritto (e della giustizia), (ossia l’istituzione e “commercio giuridico”), ma che sempre diritto (di tipi e origine diversa) era, il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione ha generato (e/o conservato), seguendo Hauriou, due tipi di diritto; e il fatto che il diritto “pubblico” sia tale deriva non soltanto dall’ovvio argomento che esiste, ma anche da un’analisi concettuale e storica.

La distinzione tra due diritti risale, com’è noto, al diritto romano ed al frammento di Ulpiano che “apre” il Digesto[26]. Il fundamentum distinctionis più rilevante è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione[27] . Anche se si pone il problema della difficoltà del criterio,potendo lo Stato (e gli altri enti pubblici) operare anche come “subietto economico privato”; come, d’altra parte, insegnava la dottrina del Fisco (Fiskuslehre)[28], anche se evolutasi in concezioni più moderne. Per cui “Diritto pubblico è quello che vincola un ente collettivo fornito di potere di signoria nei suoi rapporti con persone ad esso eguali oppure subordinate” e “Un potere di signoria diviene giuridico per il fatto di esser limitato: diritto è forza giuridicamente limitata”. Kelsen rileva, in relazione alla distinzione tra diritto pubblico e privato che “Secondo l’opinione più diffusa, si tratta di una suddivisione dei rapporti giuridici tale che il diritto privato indica un rapporto fra soggetti di ugual ordine e del medesimo valore giuridico, e il diritto pubblico indica un rapporto fra un soggetto sopraordinato e uno sottordinato, un rapporto quindi fra due soggetti dei quali l’uno ha un valore giuridico maggiore dell’altro. … Il maggior valore giuridico che spetta allo stato, e cioè ai suoi organi in rapporto ai sudditi, consiste nel fatto che l’ordinamento giuridico attribuisce alle persone qualificate come organi dello stato, oppure a certuni fra loro, i così detti organi dotati  di potestà d’impero, la capacità di obbligare i sudditi per mezzo di una manifestazione unilaterale di volontà (ordine)”. Ed esemplifica la distinzione facendo gli esempi dell’ordine amministrativo o del negozio giuridico. In quest’ultimo “i soggetti che sono obbligati partecipano alla produzione della norma che obbliga, e in ciò consiste del resto tutta l’essenza della produzione del diritto contrattuale, là, nell’ordine amministrativo di diritto pubblico, il soggetto che deve essere obbligato non ha nessuna parte nella produzione della norma che lo obbliga. Questo è il caso tipico di una produzione autocratica di norme; il contratto di diritto privato rappresenta invece un metodo espressamente democratico di produzione giuridica”. Dopo di che la conclusione è che “… la dottrina pura del diritto, dal suo punto di vista universalistico, sempre rivolto alla totalità dell’ordinamento giuridico, come alla così detta volontà dello stato, scorge anche nel negozio giuridico privato, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento giuridico. Con ciò la dottrina pura del diritto relativizza il contrasto fra diritto pubblico, e privato che la scienza giuridica tradizionale aveva considerato come assoluto; essa lo trasforma da una distinzione extrasistematica, cioè fra diritto e non diritto, tra diritto e stato, in una distinzione intrasistematica, e con ciò si convalida come scienza appunto perchè supera anche l’ideologia che è unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto”. La distinzione quindi tra diritto pubblico e privato non ha nulla di essenziale e così i corollari e le conseguenze della medesima[29].

Questa, e altri criteri distintivi simili a quello (e/o al frammento di Ulpiano) sono stati ripetuti così sovente che non è il caso di ricordarli[30].

Come sostiene Miglio, anche sulla base (di parte) della dottrina amministrativista italiana del tardo novecento, lo Stato moderno (e soprattutto lo Stato “sociale”) ha acquisito molte più funzioni (e servizi), e li esercita con strumenti e modelli di diritto privato (tipico è il caso degli enti e delle aziende pubbliche economiche), per cui quello che guadagna in estensione lo perde in imperatività; resta il fatto che un nucleo – robusto – delle funzioni dello Stato, minoritarie come costo (e importanza) economica, ma maggioritarie come incidenza e orientamento sulla vita comunitaria, restano gestite con i sistemi “tradizionali”. Il cui connotato comune (relativamente agli atti) è la c.d. “imperatività”, ossia la trasposizione nella terminologia degli amministrativisti del rapporto di comando-obbedienza, uno dei presupposti – come scrive Freund – del politico[31].

Tale rapporto – quasi sempre – si esercita attraverso atti e procedure giuridiche, e il cui connotato è di poter essere controllate (annullate, disapplicate) dal Giudice. Rarissimo – ancorché politicamente decisivo – è il caso di atti sottratti al sindacato giurisdizionale; più frequente invece, quello di atti – e anche di mere azioni (non “formalizzate” in un provvedimento) – che si fondano sul potere di comando e sulla correlativa coercitio[32]. Quanto alla prima classe di atti (i quali) non sono justiciables: e la giurisprudenza francese, con un lavoro più che secolare li ha ricondotti  ad una liste jurisprudentielle, includendovi in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. Se poi si prova a raggruppare i caratteri comuni peculiari di tali atti consistono nello scopo per cui sono presi: la difesa della società o del governo dai nemici (esterni ed interni), la sicurezza della comunità, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte con quelli che costituiscono il fine dello Stato quale istituzione. Cioè quello “politico” per eccellenza.

Il problema era posto anche in Italia, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo  nell’esercizio del potere politico”[33].

Quindi, se è vero che lo sviluppo dello Stato borghese ha da un lato “separato” la società dallo Stato, garantendo i diritti fondamentali, e dall’altro ha sviluppato tutta una serie di controlli e limiti interni ed esterni all’esercizio dell’attività pubblica – amministrativa (che è quella quantitativamente prevalente) – restano comunque degli atti, pertinenti al politico, non controllati né dal Giudice né da altri; così come azioni (di soggetti pubblici) che non si fondano (e non si estrinsecano con) atti e provvedimenti formali, ma sul potere di coercitio spettante al funzionario.

Proprio questi sono i principali indici che il diritto pubblico  è da una parte il rivestimento in forme giuridiche del “presupposto del politico” (Freund) di comando-obbedienza, dall’altra proprio perciò, questo genera un diritto, che, pur essendo tale, presenta connotati differenti e per certi versi opposti a quello privato. Come scrive Hauriou riguardo alla teologia (e alla metafisica) anche qui il diritto non è che l’involucro di un “fond”, nella specie, politico. Che, a seguire le doyen, comincia molto presto con lo Stato moderno, già sotto Luigi XIV: “i grandi ufficiali della corona sono sostituiti da sotto-segretari di Stato come Colbert e Louvois: la monarchia diviene amministrativa e il suo potere politico si riveste (se double) d’un potere amministrativo”[34].

Resta il fatto che, come notato da Carl Schmitt, lo Stato borghese, malgrado la regolamentazione giuridica, ha comunque i suoi poteri eccezionali, per cui c’è un’espansione della regolamentazione giuridica nelle attività pubbliche, ma mai totale. A conclusioni analoghe era giunto Jellinek, partendo dalla distinzione tra attività statale libera e vincolata[35].

Per cui non è condivisibile la concezione di Miglio dell’opposizione irriducibile tra politica e diritto (se non in senso concettuale “puro”). É invece preferibile l’ipotesi che con l’incontrarsi nel concreto (in particolare dello Stato borghese), esigenze politiche da un lato, dall’altro principi del Rechtstaat, (e precedentemente, la razionalizzazione (anche) giuridica perseguita dalla monarchia assoluta), hanno generato un tipo di diritto a se:  il diritto pubblico dello Stato moderno. Categoria che non può essere ricondotta né al diritto privato, per le differenze essenziali, come, prima tra tutte, l’eguaglianza tra le parti del rapporto; né alla politica, per la proceduralizzazione, e la sottoposizione ai controlli, soprattutto a quello giudiziario, della quasi totalità dell’attività pubblica per così dire “quotidiana”.

D’altra parte la distinzione che fa Hauriou tra diritto disciplinare e diritto comune, ricorda da vicino quella di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo.

Secondo Weber gli ordinamenti statuiti possono sorgere: “a) mediante una libera stipulazione; b) mediante un’imposizione e una corrispondente disposizione ad obbedire. Un’autorità di governo in un gruppo sociale può pretendere la forza legittima per l’imposizione di nuovi ordinamenti” (ovviamente lo Stato moderno è un ordinamento politico, territoriale, imposto). Tra gli ordinamenti è essenziale distinguere amministrativi e regolativi[36]. Definendo cosa sia “l’agire del gruppo” Weber premette che l’ordinamento “può contenere anche norme in base alle quali deve orientarsi in altre cose l’agire dei membri dei gruppo sociale: per esempio, nello stato, l’«economia privata» che serve non all’imposizione coercitiva della validità dell’ordinamento del gruppo, ma a interessi particolari, deve orientarsi in base al diritto «privato»”; ma solo nel caso dell’ “agire dell’apparato amministrativo” si può parlare di “agire riferito al gruppo”[37].

Si può notare come l’ordinamento amministrativo ricordi da vicino il diritto generato dall’istituzione di Hauriou (sia disciplinare – in primo luogo – che statutario) e l’ordinamento regolativo il diritto comune del giurista francese. Le analogie non nascondono tuttavia le differenze. Weber pone l’accento prevalentemente sull’imposizione dei comandi (le statuizioni) riferibili all’istituzione, Hauriou, senza trascurare l’aspetto del comando, sottolinea maggiormente la necessità dell’ “accettazione”, o meglio del consenso perché vi sia un ordinamento stabile, un pouvoir de droit che comandi quale rappresentante dell’istituzione fondamentale, creando e garantendo l’ordine. Ordine che comprende anche il (rispetto del) diritto comune (Diké) non generato dall’istituzione (ma prima e/o fuori). L’eccezione ovvero il gouvernement de fait (il governo rivoluzionario o di fondazione) tende sempre a diventare governo di diritto attraverso il riconoscimento (interno ed esterno) e il ripristino di una situazione normale, segnatamente dal punto di vista istituzionale[38].

Anche Santi Romano scrive, a proposito del riconoscimento popolare di un ordinamento “nuovo” (cioè rivoluzionario) “quando di riconoscimento in tal senso si parla, non s’intende accennare ad un atto, ad un procedimento cosciente di un subbietto che sia fornito di capacità, di volontà suscettibile di produrre effetti dal diritto sanzionati, ma di un procedimento che può anche essere incosciente e che non è dal diritto regolato. In altri termini, non si tratta di un principio, di una norma, di un istituto giuridico, ma di un fenomeno sociale[39].

A prendere il più diffuso criterium differentiae tra diritto pubblico e privato, e cioè il carattere imperativo/impositivo del primo (e la connessa, indispensabile ineguaglianza tra i soggetti del rapporto), opposta a quello pattizio-paritario del secondo, appare evidente che il diritto pubblico è frutto della “giuridificazione”, come cennato, del rapporto di comando-obbedienza, cioè di un presupposto del politico. Ed è quindi essenzialmente politico. Né può inficiare questa considerazione il fatto che il costituzionalismo e tutto lo sviluppo dello Stato borghese abbiano costruito intorno a tale rapporto una rete di limiti, garanzie e controlli. Da un lato perché questi vengono meno – in tutto (o in quasi tutto) – nello stato d’eccezione, dall’altro perché concettualmente, non è razionalmente possibile l’esistenza politica di una comunità senza quello; mentre lo è senza controlli e limiti al potere, come la Storia dimostra, a partire dai Faraoni e per finire (per ora) alle dittature del proletariato; e come tanti da Hegel[40] fino a Santi Romano hanno sostenuto[41]. Quindi il fatto che lo Stato moderno sia il risultato della “fusione” di principi di forma politica e dei principi del Rechtstaat, come sottolineato da Carl Schmitt, non comporta che non sia un regime politico, e non una scorciatoia per “uscire dalla Storia”: piuttosto esso è il modo di esercitare il comando in società frutto dello spirito cristiano e del razionalismo occidentale in cui il tipo di potere prevalente è quello razionale-legale.

  1. Ci sono altri aspetti che occorre ricordare. Il primo è che molte delle funzioni acquisite (esercitate) dagli Stati nel XX secolo (e nella seconda metà del XIX secolo), non attengono all’essenza dello Stato (quale ente politico) ma all’accidentale, cioè non incidono, se non mediatamente, sul nucleo politico; senza le quali questo sarebbe perfettamente in grado di assolvere il proprio ruolo (idée directrice la chiamava Hauriou). Nel passo, sopra citato, di Hegel la distinzione tra essenza dello (Stato) politico e accidentalità dei compiti che assume è delineata con concisione ed efficacia. Ma se lo Stato (il potere pubblico-politico) assume compiti che non sono essenziali alla sua natura, non è neppure necessario, anzi per lo più è inopportuno, che lo faccia con i modelli propri delle funzioni politiche. Come scriveva Engels sia pure argomentando una tesi solo parzialmente assimilabile a quanto qui sostenuto “Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive…Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”.[42]

Più tali compiti sono servizi del tutto analoghi a quelli che rende un’impresa privata (ad esempio le pensioni, analoghe alle rendite vitalizie; le prestazioni sanitarie, che possono parimenti essere rese da professionisti e società private, e tante altre), più i modelli di gestione e funzionalità si allontanano dal politico per accostarsi al privato. Ma questo non vuol dire che lo Stato non è più politico: ma che si allarga l’area del pubblico annettendo dei servizi e compiti privati[43].  Il politico si espande come appartenenza, ma tende a ridursi quanto ai “modelli” di gestione[44].

Ma non è solo l’ “annessione”  massiccia di compiti per così dire eudemonistici che spiega come lo Stato contemporaneo si sia, sotto tale profilo, “privatizzato”; c’è un altro aspetto, attinente alla stessa struttura, anche politica, dello stesso.

Ossia la partizione/distinzione del potere pubblico, politico e amministrativo; con una serie di status e garanzie diverse a seconda del carattere della funzione, nonchè procedure e requisiti (di nomina) diversi. Dato che però normalmente personale politico esercita (anche) funzioni meramente amministrative (ad es. il Sindaco o gli assessori del Comune) e di converso – anche se con frequenza (forse) minore – funzionari di carriera rivestono cariche a carattere (anche) politico[45], sorge il problema di distinguere, nell’ambito pubblico ciò che è politico da ciò che non lo è (e così il funzionario politico dal burocrate di carriera). Sul punto è stato già sopra scritto (relativamente all’ “atto politico”). A volerne ulteriormente precisare la connotazione occorre ricordare le considerazioni di due giuristi sul punto. Carl Schmitt, dopo aver ricordato il criterio della giurisprudenza francese del mobile politique per distinguere atti politici e no, ne da la definizione seguente “Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in se stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo”[46]. Costantino Mortati sostiene che occorre distinguere tra ordinamenti giuridici a fini particolari e a fini generali: “gli enti del secondo tipo si costituiscono per il perseguimento di un fine generico, suscettibile cioè di comprendere in sé la soddisfazione di tutti i possibili interessi che possono o potranno essere avvertiti come necessari alla conservazione di un dato gruppo sociale”[47]. Una circostanza ricorrente e significativa è peraltro da ricordare ulteriormente: quando la funzione è (squisitamente) politica, non c’è tutela giudiziaria, nel senso del giudice indipendente e “terzo” (o è molto ridotta) e minori controlli. Non è solo il caso dell’”atto politico” ci sono – ad esempio – quelli dei diritti dei dipendenti di organi costituzionali o del controllo dei loro bilanci.[48]

Ne consegue che nell’ordinamento politico il perseguimento diretto del fine/i generico/i è ciò che connota la natura politica della funzione; diversamente dalla cura del fine specifico dei compiti particolari. Ma, il tutto non chiarisce esaurientemente la questione. Infatti l’altra “faccia” del problema è che alla funzione pubblica sono prescritti dei modi di funzionamento specifici; così come al funzionario-burocrate degli status e delle garanzie istituzionali specifiche. Ambedue aventi (prevalentemente) la propria radice nel rechtstaat.

Riguardo a ciò è particolarmente significativo quanto disposto nelle norme della Costituzione italiana relative alla pubblica amministrazione ed ai funzionari pubblici. Il relatore alla costituente, Ruini, sottolineava a proposito delle norme costituzionali relative che “Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia ben amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia”: con ciò “politico” era distinto (se non in sostanza contrapposto), dalla buona amministrazione[49]. Così carriere, obblighi, responsabilità, garanzie sono prescritti nella Costituzione e sotto riserva di legge[50].

  1. Miglio individua tra la classe politica e il seguito la categoria dell’ “aiutantato” cioè “quella dei ‘seguaci attivi’, di coloro i quali si dispongono in modo da aiutare la classe politica, i suoi membri”[51]. La tripartizione che fa Miglio (classe politica, aiutantato, seguaci) innova a quella sostanzialmente dualistica di Mosca e Pareto[52]. Nell’analisi dell’aiutantato lo studioso comasco inizia proprio dal criterio del comando (in base alla quantità del comando)[53].

Il primo elemento per quantificarlo è il quantum di discrezionalità[54]. Mano a mano che si scende nella scala di comando (dal vertice alla base dell’ “aiutantato”) la discrezionalità decresce, e aumenta la specializzazione (conseguenza peraltro, in tal senso, della “professionalità” della burocrazia nel tipo di potere razionale-legale di Weber). Per cui sul punto Miglio conclude “disponiamo di un mezzo per classificare i tipi di aiutantato. Gli aiutanti sono capi politici che presentano limiti nella loro discrezionalità, nella loro capacità di decidere”[55]. Dopo di che, e su questa base, Miglio imposta una tipologia dell’aiutantato, basata sul  rapporto tra decisione ed esecuzione (di evidente  ascendenza weberiana).

Al criterio della discrezionalità e della specializzazione – settorialità – se ne può aggiungere un altro, d’importanza (almeno) pari: è quello della subordinazione (controllo) per cui gli atti del funzionario subordinato sono sottoposti al controllo del funzionario gerarchicamente superiore, onde la discrezionalità del primo non ha la possibilità di esercitarsi del tutto “liberamente” nel proprio ambito, ma gli atti che pone in essere possono essere sostituiti, modificati o annullati dal secondo. Tale aspetto, non sempre presente nell’organizzazione dello Stato, è comunque particolarmente evidente nel corpo principale di essa, cioè quello della pubblica amministrazione, data la pluralità dei rimedi contro le decisioni degli organi subordinati (il ricorso gerarchico, connotato dal carattere “generale”, i ricorsi a commissioni speciali), mentre gli atti del potere supremo sono per definizione immodificabili e inappellabili; e più ci si avvicina al vertice, più la possibilità di riforma, riesame, sostituzione, diventa marginale ed eccezionale.

É interessante leggere all’uopo un “classico” dei manuali di diritto amministrativo, come quello  di Guido Zanobini “L’azione di quelle autorità, che fanno parte di uno stesso ramo della pubblica amministrazione, ha bisogno di  essere coordinata e diretta all’attuazione dell’unico fine, secondo criteri unitari. Questa coordinazione e unificazione viene attuata per mezzo di un particolare ordinamento, che prende il nome di gerarchia e che ha per essenziale principio la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori”[56].

Al contrario, come cennato, salendo verso il vertice i controlli, anche quelli di altri poteri (come il giudiziario) scemano, per estinguersi del tutto quando si arriva al potere sovrano. Il quale, per definizione, ha il connotato di non poter essere limitabile (giuridicamente) cioè di essere assoluto: carattere che lo distingue da tutti gli altri poteri pubblici[57]. Ne consegue che oltre essere limitato dall’oggetto (competenza) e nella discrezionalità, la materia affidata all’ “aiutantato” è anche soggetta alla sorveglianza, ai controlli (anche sostitutivi) degli organi e uffici sovraordinati.

Questo è un carattere decisivo, che ha colpito in particolar modo i giuristi, a partire dal passo, sopra citato, di Santi Romano (v. nota 4) per arrivare alle note critiche che Carrè de Malberg rivolgeva alla Stufentheorie di Kelsen, sostenendo che la gradazione delle norme non era data della qualità delle stesse (se legislative, amministrative, contrattuali) ma dal “grado di potere” che gli organi emananti hanno nell’organizzazione dello Stato[58]. O anche al concetto di gerarchia esposto da De Valles[59]. É chiaro che gli “aiutanti” non incardinati nell’organizzazione pubblica (privi cioè sia degli obblighi che dei diritti dei funzionati) non rientrano in tale distinzione.

  1. Occorre riscontrare in che misura il concetto di istituzione e di diritto pubblico dei giuristi sopra ricordati confligga con quello di Miglio: a mio avviso assai meno di quanto pensi quest’ultimo.

In primo luogo per la preminenza che nella concezione d’istituzione ha quello di potere e di organizzazione. Come scrive Schmitt, la distinzione tra le tre forme di pensiero giuridico che distingue non si fonda sull’esclusione del concetto dell’uno o dell’altra dal mondo giuridico, ma sulla prevalenza del concetto centrale di una rispetto a quello delle altre; onde non si nega che il diritto sia composto di istituzioni, norme e decisioni, ma che una lo caratterizza e lo comprende meglio delle altre[60].

I giuristi suddetti rifiutavano che, come scrive Miglio, alla radice degli istituti-organo vi fosse un istituto-norma.

L’istituzione è organizzazione dei poteri pubblici e del rapporto comando/obbedienza, al fine di conservare l’ordine sociale. Hauriou scrive che gli Stati moderni sono delle armate (civili) in marcia, come l’agmen tenuti a conservare l’ordine; i popoli (il “seguito” di Miglio) sono inquadrati “par une forte hiérarchie administrative” la cui rete ricopre il territorio; la prima opera dello Stato è fare di una comunità non organizzata e (quindi) incapace ad agire, “un corps organisé, vivant et puissant”[61].

Essenziale è il ruolo del centro direttivo o fondatore e degli organi (e dell’organizzazione) di governo. Il ruolo delle “norme” non è considerato primario:ad esserlo è il pouvoir che lo fonda; l’ordine sociale è costituito da idee, interessi, poteri di organi e organizzazione; segno evidente del ruolo secondario delle norme. Alle quali peraltro anche Santi Romano assegnava un ruolo per così dire accessorio (e strumentale) rispetto all’organizzazione (v. sopra nota 4). Lo conferma più in particolare sostenendo “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. É stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”[62].

Anche per il giurista siciliano è essenziale il potere, e la di esso organizzazione; le norme – generalmente presenti – possono tuttavia non esserlo non essendo necessarie all’organizzazione (e all’azione) dell’istituzione.

Altra differenza è la relazione tra rapporto di comando-obbedienza e “giuridicizzazione”. Nel senso che il rapporto di comando-obbedienza (dal superiore all’inferiore) non è (sempre) mediato dalla norma, ma per così dire (dal “differenziale” di) potere e dal rapporto di subordinazione. Così Hauriou scrive (v. sopra nota 9) che la sanzione del diritto disciplinare si basa sulla coercitio che compete al magistrato, basata sulla forza propria dell’istituzione, che implica necessariamente di potersi fare giustizia da sola[63]. Il diritto, inteso come procedura e come attribuzione di competenza giuridicamente sancita e regolata, c’entra poco (o niente): il rapporto è essenzialmente fattuale e politico o meglio istituzionale. É tale perché altrimenti l’istituzione non esisterebbe: e l’esistente, nel caso di necessità, prevale sul (o non ha bisogno del) normativo; consegue dalla “natura delle cose” non dalla legalità dell’attribuzione.

Appare pertanto chiaro che nella concezione istituzionista la regola disciplina solo una parte – anche se quella quantitativamente (e di gran lunga) prevalente – ma non tutto il rapporto di comando/obbedienza ed il potere che è esercitato dall’istituzione (e dai suoi organi). La ragione è semplice: l’istituzione è diritto, ma non è norma[64]. L’estensione del concetto d’istituzione è maggiore di quella di norma (giuridica), e la concezione d’istituzione di Hauriou e Santi Romano non è quindi coestensiva con quella di Miglio.

  1. Resta ancora da fare delle considerazioni sul diritto pubblico, e approfondendo il rapporto tra questo e la politica. All’uopo è interessante notare cosa scrive Freund a proposito dell’ordine politico: che è gerarchico per natura “Sa nature hiérarchique découle à la fois de son présupposé du commandement et de l’obéissance et de sa fonction qui consiste à sauvegarder l’ordre en général… Politiquement, l’ordre est toujours imposé ou ordonné, parce qu’il n’y a pas de coordination sans subordination. Autrement dit, la coordination est l’oeuvre d’une volonté qui décide de la régle coordinatrice. Aucun ordre ne s’impose de lui-même ; il n’y en a pas non plus sans contrainte”[65].

Il tutto è parzialmente coincidente con l’enumerazione che Hauriou fa delle funzioni essenziali dello Stato[66]: in cui è evidente, come altrove nel pensiero del doyen, il rapporto comando/obbedienza.

In realtà la tesi degli istituzionisti (e non solo la loro) che il diritto è ripartito in “pubblico” e “privato” non si contrappone alla concezione fondamentale di Miglio dell’obbligazione politica distinta da quella giuridica (il “contratto-scambio”), quanto alle conseguenze che lo studioso lariano ne trae (che il diritto è privato o non è tale). E la ragione dell’esistenza di un diritto pubblico che regoli – fino ad un certo punto – la materia politica e, in particolare, il rapporto comando/obbedienza è provata da una serie di elementi.

In primo luogo l’evoluzione del diritto “moderno”, a sua volta tendente alla “giuridificazione” del politico per due “spinte” fondamentali: la prevalenza del “tipo” di potere razionale-legale negli ultimi secoli e la diffusione degli “stati di diritto” cioè di unità politiche fondate, come cennato, oltre che su principi politici su quelli del Rechtstaat (distinzione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali “borghesi”, nonché – a seguire Hauriou – funzionalizzazione di ogni potere pubblico, ossia la “de-patrimonializzazione” della funzione pubblica).

Quanto al “tipo” di potere: se è legittimo un potere che, normalmente adotta comandi ordinati secondo lo schema atto generale/atto di applicazione (e via discendendo nella scala gerarchica degli “esecutori”, riflessa in quella dei relativi atti), non vuol dire che quegli atti non siano comandi, né che non vadano obbediti. Anche se la forma di potere razionale-legale valorizza al massimo il ruolo della legge (e dell’organo statuente, come del diritto statuito) sempre potere e comando resta. Il comando è così esercitato (prevalentemente) per (o in base a) atti legislativi invece che per rescripta principis, senza che cambi alcunché dell’essere potere. Essendo un “tipo ideale”, peraltro, in concreto, non si presenta mai in forma “pura”[67].

Il fatto che, anche in uno “Stato di diritto” vi siano dei momenti irriducibili al diritto (come il gouvernement de fait di Hauriou, la necessità di Santi Romano, l’ausnahmezustand di Schmitt)[68] non implica che non vi sia un diritto pubblico. Quanto sopra è confermato non solo dal dato positivo, e cioè l’esistenza di una regolamentazione giuridica (non totale dei) rapporti di comando-obbedienza, ma dall’esistenza di diritti e obblighi, che è il primo criterio dell’esistenza di rapporti giuridici, ai quali è connaturata l’interdipendenza delle azioni di due soggetti[69].

Anche se c’è un rapporto – quello tra il Sovrano e i sudditi – connotato dall’aver il primo solo diritti e nessun dovere (giuridico) verso i secondi, e l’inverso per questi rispetto a quello[70]; è questa, di sicuro, l’unica “eccezione”. Per il resto nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà)[71] ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti[72].

D’altra parte, anche nelle istituzioni non pubbliche esiste un diritto disciplinare, connotato dal fatto che il giudice non ha vero carattere di “terzietà”, ma è un organo dell’istituzione (sorte de justice organique, la chiamava Hauriou)[73].

In secondo luogo il tutto è una conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non assoluta, al potere politico, e in particolare al rapporto di comando-obbedienza[74].

Miglio distingue l’obbligazione politica dall’obbligazione contratto-scambio rilevandone le differenze quanto all’oggetto, ai soggetti, ai limiti, ai contenuti strutturali, al tempo ed alle strutture del rapporto[75].

Se si vuole seguire Miglio e fare una partizione – di carattere generale – tra diritto pubblico e privato – è necessario partire dal tratto comune, e cioè l’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante, e dalla distinzione tra quelli differenti: i presupposti, che per Hauriou sono l’organizzazione sociale per quello pubblico, l’attitudine sociale (sociabilité) per il privato[76]; per l’oggetto ossia l’istituzione e i rapporti cui da luogo da un lato, i rapporti “interindividuali” (di scambio) dall’altro; la situazione dei soggetti, ineguale per il primo, paritaria per il secondo; la funzione, ossia l’esistenza dell’istituzione e della comunità e il perseguimento dell’interesse generale per il pubblico, la regolazione dei rapporti e degli interessi interindividuali per il privato[77].

Differenze profonde che non possono però eliminare il genere (comune) “diritto”, né le modificazioni dell’istituzione (sia sotto l’aspetto organizzativo che funzionale) che la “giuridificazione” del rapporto comando-obbedienza ha determinato.

Piuttosto la concezione di Miglio è spiegabile se si considera il diritto nella prospettiva (lato sensu) di una teoria  normativistica del diritto (come fa nello specifico lo studioso lariano, contrapponendo istituti-organo e istituti-norma); anche se questa affermazione può apparire imprecisa consegue dal ripetuto uso dei concetti e termini della teoria normativistica (ancorché tra le influenze vanno annoverate delle concezioni  giusnaturaliste, liberali, economiciste, non riducibili alla reine rechtslehre). L’istituto-norma di Miglio basantesi su consuetudini e procedure consuetudinarie non ha un significato uguale (e coestensivo) alla norma di Kelsen. Infatti questa, come notato da Schmitt, non è idonea a dar conto di  aspetti essenziali del diritto, come il momento dell’applicazione, la tematica dell’eccezione (la “necessità”), fino a quella dell’efficacia del diritto. Hauriou e Santi Romano avrebbero rifiutato l’idea di Miglio che dietro (e prima) di ogni istituto-organo vi sia un istituto-norma. Per Hauriou il genitore dell’istituzione è le pouvoir, (definito “una liberta energia della volontà che assume l’impresa (entreprise) di governare un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”) che fonda l’istituzione: istituzione che, da un canto deve proteggere la comunità, e il diritto generato dalla stessa, (Diké), ma, anche a tale scopo, genera un diritto proprio (Thémis), specificamente istituzionale; per Santi Romano il rapporto tra istituzione e norma è quello tra giocatore e pedine (v. sopra), e non occorre aggiungere altro.

La teoria istituzionista riesce a dare la spiegazione unitaria ed esauriente del “fenomeno” giuridico, fatto di organizzazione e regole, di norme ed eccezione, di validità ed efficacia. A quasi due secoli non si può che ricordare, a proposito della concezione istituzionista, l’affermazione di De Maistre quando, criticando realisticamente le teorie rivoluzionarie scriveva “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune exceprion”[78].

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Op. cit., pp. 439-444.

[2] Op. cit. p. 452.

[3] Op. cit. p. 453 (il corsivo è nostro).

[4] Op. cit. rist. Firenze 1967 p. 15 (i corsivi sono nostri).

[5] Scrive Romano  “Come ogni istituzione così anche lo Stato non ha , ma è un ordinamento giuridico. Se talvolta si dice che il diritto è l’anima e il principio vitale dei corpi sociali e, quindi, lo Stato, ciò non deve intendersi nel senso che diritto e corpo sociale siano due cose diverse, per quanto unite, e tanto meno che il primo sia un prodotto o una funzione del secondo, ché anzi quell’immagine vuol ribadire il concetto che l’uno non si può disgiungere né materialmente né concettualmente dall’altro, come non si può distinguere, se non per vuota astrazione, la vita dal corpo vivente. Si può anche dire che una istituzione ha un diritto, cioè un ordinamento, se per questo s’intendono soltanto i principi e le norme che ne fanno parte  e ne emanano, così come si dice che un tutto ha questo e quell’elemento fra gli altri che lo compongono; ma più comprensivamente si deve dire che esso è per intero un ordinamento giuridico” (i corsivi sono nostri). Op. cit. Milano 1947, p. 56.

[6] V. op. ult. cit. p. 92

[7] V. Principes de droit public  Paris 1916 (rist. 2010) p. 136.

[8] Op. cit. p. 137 e prosegue “Quand une organisation a été créée à l’intérieur d’une institution et s’est implantée d’une certaine façon, elle est liée à l’existence même de celle-ci, on sent qu’on ne pourrait pas arracher l’une sans détruire l’autre

[9] E così lo spiega “Le pouvoir disciplinaire s’appuie sur la force propre que l’institution a conscience d’avoir pour se faire justice elle-mêmeop. cit., p. 139.

[10] Op. cit, p. 141.

[11] Op. cit., p. 143.

[12] Op. cit., p. 144.

[13] Così lo descrive “cherche à dégager l’assentiment de tous les membres du groupe à une mesure déterminée, par une procédure liée à la vie même de l’institution, mai qui, par la nécessité sociale d’aboutir dans un temp donné, s’arrête à l’assentiment immédiat de la majorité”, op. cit., p. 144.

[14] v. Précis de droit constitutionnel, ed. 1929, pp. 97 ss. e specificando le caratteristiche di Dikè scrive “celle-là, était extérieure aux groupes, intergroupale, interfamiliale, et nous dirions aujourd’hui internationale; elle avait pour organes des tribunaux d’arbitres, devant lesqueles les parties étaient égales l’une à l’autre; elle était néè a l’occasion des guerres privées, des vendettas entre familles, et pour les faire cesser par des arbitrages”.

[15] Mais il ne fut jamais inhérent à l’insititution de l’Etat comme l’avait été, par exemple, le droit pénal public primitif, qui état disciplinaire”.

[16] E lo spiega così: “Tandis que, dans la société politique, les hommes sont tenus en groupe par leur soumission à la discipline d’une même institution, dans la société economique, ils sont tenus en relation les uns avec les autres par leur collaboration à l’oeuvre commune de la satifaction des besoins humains” e per cui  “on doit donc opposer les ‘situations de dépendance’ aux ‘rapports de collaboration”, op. cit., p. 177.

[17] Tendent à engendrer deux formes de société ed deux formes de droit qui se déterminent, l’une en institutions politique, l’autre en rapports ou relations du commerce juridique”.

[18] Scrive “L’institution politique n’est pas une forme sociale qui se suffise, pas plus que les rapports du commerce juridique n’en sont une. La véritable position de la question est de considérer la société complète comme composée des deux éléments de l’institution politique et du commerce juridique, et, quant à la combinaison des deux éléments, elle se présente comme l’équilibre de deux forces avec actions et réactions réciproques, mai avec légère suprématie de l’institution politique affirmée par le seul fait de l’existence des États”, op. cit., p. 180.

[19] Si noti che il valore ha qui un significato esclusivamente economico (i corsivi sono nostri).

[20] Op. cit., p. 181 ss.

[21] Op. ult. cit. p. 192.

[22] Op. ult. cit. p. 192; e prosegue in nota “Le véritable juge procédant de l’institution politique est le juge disciplinaire. Pendant que les nécessités de la discipline politique  engendrent le juge disciplinaire, celles du commerce juridique engendrent l’arbitre pour trancher les différends”.

[23] Scrive “Abbiamo allora ridotto a mal partito il mondo del diritto. Hanno ragione i giuristi a guardare lo scienziato della politica con sospetto. Qui abbiamo ridotto tutto il diritto a contratto e tutti i diritti sostanziali a procedure. Tutto il diritto diventa contratto, procedura pattuita, contrattuale. Le norme si riducono  tutte a procedura. L’ “istituto-norma” e l’ “istituto-organo” non sono che un complesso di procedure convenute”; e prosegue “A questo punto scopriamo le conseguenze del nostro lavoro d’indagine: quelle che probabilmente sono “istituzioni politiche”, in realtà sono espressione del contratto e del diritto”. Op. cit. p. 450.

[24] “Costante è il sospetto che l’interferenza della politica (perfino nei diritti pubblici soggettivi) sia macroscopica. Questo non è altro che la constatazione che area dell’obbligazione politica e area del diritto e quindi del contratto sono aree distinte in continua, conflittuale interferenza”. Op. cit. p. 451.

[25] Op. loc. cit.. Per una interessante riflessione sui rapporti tra politica e diritto (con particolare riguardo a Schmitt) V. R. Cavallo Le categorie politiche del diritto, Catania 2007.

[26] Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem,  D I, De Iustitia et jure, I,

[27] Jellinek scrive “L’antitesi fra i due diritti può essere ricondotta a questo concetto fondamentale: che, nel diritto privato, gli individui si trovano gli uni rispetto agli altri in una situazione essenzialmente di coordinazione, e quindi esso disciplina i rapporti degli individui come tali; mentre il diritto pubblico, invece, regola i rapporti tra subietti diversi dotati di autorità, nonché la organizzazione ed il funzionamento di tali subietti e le relazioni di essi con coloro che sono sottoposti alla loro autorità” v. Allgemeine Staatlehre, trad. it. di M. Petrozziello (con introduzione di V. E. Orlando) Milano 1949 p. 2. Le difficoltà di distinguere tra  pubblico e privato, e, nella specie, tra diritto soggettivo (privato) e diritto soggettivo pubblico era avvertita da Carnelutti. Dopo aver scartato che il fondamentum distinctionis  fosse il carattere del soggetto, dato che a soggetti privati possono competere diritti soggettivi pubblici, e all’inverso ad una persona giuridica pubblica un diritto privato “ad esempio, allo Stato la proprietà”; né che lo fosse la natura dell’oggetto (la cosa): ad esempio una cosa può essere demaniale (pubblica) o di proprietà privata “la demanialità o la patrimonialità deriva alla cosa dal diritto, non al diritto dalla cosa”, Carnelutti concludeva che “il fondamento va ricercato nella natura stessa del rapporto, e precisamente nel collegamento tra la forma e la sostanza e cioè tra il potere e l’interesse”. Teoria generale del diritto Roma, 1946, p. 151. Diversamente dal diritto soggettivo privato, che è “possibilità di comandare per la tutela del proprio interesse”, quello pubblico è la possibilità di comandare in funzione di un interesse collettivo (attribuito a ciascuno degli interessati).

giuridiche La concezione, distinguendo tra pubblico e privato, riguardo alle situazioni soggettive è originale; l’altro aspetto interessante – ai fini di questo scritto – della teoria di Carnelutti sul punto è che l’intera partizione tra diritti, obblighi, potestà e così via si fonda sul criterio del comando (e della soggezione relativa) e dell’interesse.

[28] Jellinek scrive “Questa dottrina del Fisco è della massima importanza per tutta la storia della concezione dei rapporti fra Stato e suddito ….. Nella Germania, pel contrario, il Fisco viene dichiarato come subietto di diritti privati, per cui è riconosciuta allo Stato una doppia personalità – di diritto pubblico e di diritto privato -: la qual cosa ha questa grande importanza pratica, che, fin dove si estende il diritto privato, sono escluse arbitrarie invadenze dello Stato nella sfera giuridica dell’individuo”.

[29] E ne conclude “D’altra parte l’attribuzione del carattere assoluto al contrasto fra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico, quale è prima di tutto quello del diritto costituzionale e amministrativo, sia il dominio della sovranità da cui sarebbe invece escluso il campo del diritto privato. Già anteriormente si è mostrato che questo contrasto totale fra «politico» e «privato» non sussiste nel dominio del diritto soggettivo perché i diritti privati sono diritti politici nello stesso senso di quelli che si suole designare unicamente in questo modo, perché entrambi, sia pure in senso diverso, garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. Con la distinzione di principio fra una sfera giuridica pubblica, cioè politica, e una privata, cioè non politica, risulta più difficile comprendere che il diritto privato prodotto nel negozio giuridico rappresenta una sfera d’azione della sovranità non minore del diritto pubblico prodotto nella legislazione e nella amministrazione”. Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik. Trad. it. Torino 1967, p. 132 ss.

[30] Vedasi, tra i tanti, O. Ranelletti Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1953, pp. 29 ss.

[31] Tra tutti citiamo per la connotazione dell’imperatività quanto scritto da M. S. Giannini “L’imperatività è la produzione unilaterale di effetti giuridici a realizzabilità immediata e diretta. Il provvedimento costituisce modifica ed estingue situazioni giuridiche soggettive altrui non solo senza il concorso o la collaborazione del soggetto a cui si dirige, ma anche contro la di lui volontà”, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, p. 299.

[32] Un esempio ne sono le c.d. “vie di fatto” e il divieto al Giudice ordinario, sancito dall’art. 4, ALL: E, L. 2248/1965 di “revocare o modificare” il provvedimento anche se illegittimo.

[33] É interessante a tale proposito il giudizio di Paolo Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” v. Atto del governo (e atto politico) in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, p. 220 ss.

[34] Précis de droit constitutionnel cit., p. 156 (i corsivi sono nostri).

[35] G.Jellinek Allgemeine Staatslehre,trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

 

[36] “Un ordinamento che regoli l’agire del gruppo, deve essere detto ordinamento amministrativo. Un ordinamento che regoli un agire sociale di altro genere, garantendo le possibilità degli individui scaturiti da tale regolamentazione, deve essere detto ordinamento regolativo… Evidentemente la maggior parte dei gruppi sociali è insieme dell’uno  e dell’altro tipo; un gruppo esclusivamente regolativo sarebbe un puro ‘stato di diritto’, teoricamente concepibile, in cui regna l’assoluto laissez faire (e ciò presupporrebbe che anche il compito di regolare la moneta fosse  affidato alla pura economia privata)” Wirtschaft und Gesellschaft, vol. 10, trad. it. Milano 1980, p. 50.

[37] La concezione di Weber è più articolata e ne riportiamo il passo essenziale: “Nel primo caso si può parlare di un «agire riferito al gruppo», e nel secondo caso di un agire regolato dal gruppo. Solamente l’agire dello stesso apparato amministrativo, e oltre ad esso ogni agire riferito al gruppo, da esso diretto in maniera sistematica, deve essere chiamato «agire del gruppo». Per esempio, «agire del gruppo» sarebbe per tutti i suoi membri una guerra che uno stato «conduce», o una «richiesta» che il comitato esecutivo dell’unione delibera, o un «contratto» che il capo stipula, imponendone o imputandone la «validità» ai membri del gruppo”, op. cit., p. 47.

[38] v. Hauriou Précis de droit constitutionnel, cit., pp. 17 ss.

[39] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 149 (il corsivo è nostro).

[40] v. “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale… L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli… L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità” (il corsivo è nostro).  Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1961, pp. 41 ss. Hegel prosegue distinguendo ciò che considera essenziale da quel che non lo è (unità della legislazione, della giustizia, fiscale, monetaria, ecc. ecc.) v. anche op. cit., pp. 30 ss.

[41] v. per Santi Romano “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto. Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato ‘non costituito’ in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile natura, lo Stato”  Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3

[42] Antidühring, trad. it. Roma 1971, p. 297 Alla logica della produzione capitalista, si può asssimilare quella conseguente al carattere privato dell’attività gestita dallo Stato.

[43] Questo non significa che poi l’annessione di servizi, funzioni, aree di azione private al pubblico, non venga utilizzata a fini politici – anche e soprattutto di politica di partito, come l’acquisizione di consenso, l’erogazione di rendite politiche e atro, che Miglio ricorda con acuto realismo.

[44] Così tipici ne sono stati le aziende municipalizzate e gli enti pubblici economici, e il relativo rapporto di lavoro con i dipendenti, indistinguibile da quello del settore privato.

[45] Tipica, tra tante quella di Commissario agli enti locali.

[46] Cfr. Schmitt C. Der Begriff des politischen, trad it. ne Le Categorie del politico, Bologna 1972, 104.

[47] E prosegue: “La necessità del raggiungimento di tale fine, che può, in via di prima approssimazione, ricondursi a quello della pacifica coesistenza e dello sviluppo dei vari soggetti appartenenti al gruppo, induce l’ente ad assumere di volta in volta compiti svariatissimi, anche culturali o religiosi o sportivi, ecc. e in misura e con l’estensione delle più varie… ne segue che ogni mutamento che si verifichi in ordine all’assunzione o all’abbandono di compiti particolari non determina la trasformazione dell’ordinamento, non muta la sua natura di ente ai fini generali, o, come anche e più comunemente si dice, di ente «politico»”, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1972, pp. 19 ss.

[48] A proposito di tutte queste immunità Vittorio Emanuele Orlando scriveva “che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”; e  Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva «Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza  e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guerentigia» Santi Romano, Corso di diritto costituzionale,  Padova 1928, 222.

[49] Diceva Mortati alla costituente “La necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei partiti” v. in V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 396.

[50] v. sulle garanzie istituzionali della burocrazia v. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 231.

[51] E prosegue: “Ho già utilizzato il termine di aiutanti. Questa definizione generica copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto e il seguito”, op. cit., p. 362.

[52] Ma chiarisce: “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica”, op. loc. cit..

[53] “La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?». Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando?”, op. cit., p. 364.

[54] “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata”, op. cit., p. 365.

[55] Op. cit., p. 370.

[56] Corso di diritto amministrativo, Milano 1954, vol. I, p. 146. E prosegue “L’ordinamento gerarchico è proprio esclusivamente delle pubbliche amministrazioni: gi organi legislativi, dato il numero ristretto e la fondamentale loro parità, non consentono alcuna applicazione del principio; quelli giudiziari, che pure sono ordinati per gradi, non presentano fra i medesimi quei poteri di direzione e di dipendenza, che sono propri del rapporto gerarchico. Nell’ordinamento amministrativo il principio è di applicazione generale” subito dopo specifica “Il rapporto di supremazia gerarchica ha per contenuto una serie di poteri dell’autorità superiore sugli organi dipendenti. Il più importante e fondamentale fra tali poteri è quello di dirigere e regolare l’attività degli inferiori per mezzo di norme generali e di ordini particolari. Le prime, dette norme di servizio, circolari e istruzioni, nonostante la loro generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche nel senso stretto della parola” (infatti si basano, per l’appunto, sul rapporto gerarchico stricta sensu) “Il potere dei superiori di comandare, sia con tali atti sia con ordini particolari, implica il dovere degli organi dipendenti di obbedire a tali comandi” e oltre a questo vi sono “altri poteri compresi nel rapporto di supremazia gerarchica, che pel momento ci limitiamo ad enumerare:

  1. a) il potere di risolvere i conflitti di competenza, positivi o negativi, che eventualmente sorgano fra due o più autorità dipendenti;
  2. b) il potere di decidere i ricorsi amministrativi presentati contro gli atti delle autorità inferiori; e di annullare, in caso di accoglimento, i provvedimenti di queste;
  3. c) la facoltà di delega e di avocazione, nei casi eccezionali in cui tali facoltà sono espressamente consentite;
  4. d) il potere di sostituzione dell’azione dell’inferiore, quando questo, avendo l’obbligo di provvedere, non abbia provveduto” (i corsivi sono nostri).

[57] Tra i tanti che l’hanno affermato ricordiamo G.D. Romagnosi, Scienza delle costituzioni, Firenze 1850, p. 190; Max von Seydel in Principi di una dottrina generale dello Stato (trad. it.) Torino 1902, vol.. VIII della Biblioteca di Scienze politiche e amministrative, Torino 1902, pp. 1153-1161.

[58] “La gradazione delle norme, come anche quella delle funzioni e degli atti, non proviene dal grado di qualità inerente ad ogni specie di norma presa in se, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazioni di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” La teoria gradualistica del diritto (trad. it.) Milano 2003, p. 38. É chiaro che Carrè de Malberg scrive dell’organizzazione generale dello Stato e non (solo) di quella della pubblica amministrazione.

[59] “Essenziale nel concetto di gerarchia è quindi l’idea di potere, sacro o profano, ordinato per gradi, nel governo della cosa pubblica, religiosa o civile; e questa idea centrale si può dire permanga anche nella moderna letteratura giuridica; ma in questa il concetto subisce una specificazione, venendo riferito al governo delle persone giuridiche pubbliche, in contrapposto al concetto di autarchia; ed uno sdoppiamento, essendo passato ad indicare, molto spesso, per metonimia l’ordine per gradi dei pubblici funzionari ed impiegati” Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931, p. 277.

[60] v. “Ogni pensiero giuridico lavoro tanto con regole, che con decisioni, che con ordinamenti e strutture. Ma la concezione finale – per quanto riguarda la scienza giuridica – dalla quale sono derivate giuridicamente tutte le altre, è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto… In base alla diversa importanza riconosciuta, nel pensiero giuridico, a ciascuno dei tre concetti specificamente giuridici e in base alla successione per cui l’uno viene dedotto dall’altro oppure ricondotto ad esso, si distinguono i tre tipi di pensiero fondati sulla regola o sulla legge, sulla decisione o sull’ordinamento e la struttura concreta” I tre tipi di pensiero giuridico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 247.

[61] Précis de droit constitutionnel, cit., p. 74 ss.

[62] E prosegue poco dopo “Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve ritenersi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti  più complessi e più evoluti” L’ordinamento giuridico, cit., pp. 20-21.

[63] Dall’altro lato “il n’y a pas pour l’individu exposé à l’effet du poivoir disciplinaire obligation préétablie de le subir, du moins il ‘y a pas obligation juridique, il n’y a qu’un devoir moral ou un deovir professionnel ; le pouvoir disciplinaire se présente comme una force à laquelle on obéit ou à laquelle on résiste à ses risques et périlsPrincipes de droit public, p. 139.

[64] D’altra parte, con parole diverse, concezioni simili sono state variamente espresse dalla dottrina. Carrè de Malberg, a proposito degli actes de gouvernement scrive “ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e  deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi e che esiste una determina sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso che, proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” Carrè de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’État, tome I, Paris 1920, 526; o P. Barile, scrivendo degli atti politici i cui caratteri dipendono dalla natura delle cose v. Enc. dir. IV, Milano 1959, pp. 220 ss.

[65] L’essence du politique, Paris 1965, p. 270.

[66] v. “1° Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée. par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux ; 2° La contrôler et lui rendre des services par son administration ; 3° Réprimer les écarts de l’individualisme par une organisation répressive et aussi par una oeuvre éducatricePrécis de droit constitutionnel cit., p. 49.

[67] v. Max Weber, op. cit., vol. I, p. 211. Onde la contaminatio con altri tipi non rende inutile l’elaborazione del concetto.

[68] Con la differenza tra i tre concetti che non ne alterano il connotato comune, di essere “al di là” del diritto.

[69] “Rapporto giuridico è, infatti, l’interdipendenza delle azioni di due soggetti (o «persone» in senso giuridico), stabilita da una norma in guisa che uno di essi sia titolare di un diritto verso l’altro e l’altro sia investito di un obbligo verso il primo. Così concepito, il rapporto giuridico è veramente la cellula primitiva e il nucleo irriducibile di ogni realtà sociale” v. Widar Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963, p. 11.

[70] É la nota affermazione di I. Kart, il quale specifica che il Sovrano non ha doveri coattivi, v. Metaphisyk der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 149; il principio era stato già enunciato da S. Tommaso Summa Theologica I, II, q. 96, art. V  “Il principe si dice svincolato dalla legge quanto alla forza coattiva della legge stessa; poiché nessuno propriamente può essere costretto da se stesso, e la legge non ha forza coattiva se non per l’autorità del principe. Si dice dunque che il principe è svincolato dalla legge, poiché nessuno può condannarlo se opera contro la legge… Il principe è poi al di sopra della legge in quanto, se è opportuno, può mutarla o dispensare da essa in un certo luogo o in un certo tempo”” v. Antologia politica, Torino, s.d., p. 66.

[71] A tale proposito anche il mero depotenziamento del potere giudiziario rispetto a funzioni (funzionari, situazione, atti) pubblici può essere considerato esatto il profilo della salvaguardia del rapporto di comando-obbedienza, e della “catena di comando”. Già Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution, in particolare a proposito della giustizia (e della garanzia) amministrativa, ironizzava dicendo che non si avvertivano grandi differenze tra la prassi dell’ancien règime e la legislazione post- rivoluzionaria, ambedue rivolte a salvaguardare il potere politico e amministrativo delle ingerenze giudiziarie (v. op. cit., trad. it., Milano 1981, p.91 ss.). Ma tale chiave di lettura è anche applicabile ai rapporti tra la giustizia (in particolare il Giudice ordinario) e la pubblica amministrazione, dall’unificazione italiana in poi.

In effetti l’all. E alla L. 2248/1865, sia per il dettato, ed ancor più per l’interpretazione prevalente che ne fu data, consente  una cognizione “ridotta” nei confronti della P.A.; in particolare non consente che sia comandato un facere specifico né che l’atto amministrativo venga annullato, ma solo disapplicato, né che fossero presi provvedimenti possessori, ecc. ecc., tutte deroghe che contrastano con la pienezza della tutela giudiziaria accordata tra privati (in situazione di parità) e volte a salvaguardare, per lo più, le situazioni di fatto create dall’attività della P.A..

[72] É interessante notare che uno dei punti di contatto (e di frizione) tra politico e diritto nel Rechtstaat (ma non solo) sia la c.d. giustizia politica, allorquando – specie in materia penale – il Giudice deve decidere su rapporti e soggetti politici. La politicità della materia fa si che questa giustizia abbia carattere derogatorio, sempre più evidente man mano che la posizione del giudicando sale nella scala gerarchica, di guisa da creare una rete di protezione a favore della funzione politica e in particolare del rapporto di comando-obbedienza, necessario al mantenimento e alla conservazione dell’ordine politico della comunità. Affermare che il tutto è in contrasto con il principio d’eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) è esatto: ma è anche vero che nessun ordine sarebbe possibile, e ancor meno un ordine democratico, se anche i governanti “supremi” fossero  incarcerabili da magistrati ordinari, secondo le procedure ordinarie. La posizione “gerarchica” si riflette non solo nel potere di comando , ma anche nell’irresponsabilità assoluta (“la persona del Re è sacra e inviolabile” art. 4 dello Statuto Albertino) o relativa, sia sostanziale (come per tipi di reato punibili) o processuale (autorizzazioni a procedere, organi giudicanti speciali e così via).

[73] Scriveva a tale proposito Cesarini Sforza che “gli statuti e i regolamenti dei corpi sociali stabiliscono, di consueto, a quale organo sociale competa l’applicazione delle punizioni disciplinari… il potere disciplinare – cioè la potestà spettante ai capi di un corpo sociale di punire l’associato che sia incorso nella violazione di un obbligo sociale – è la manifestazione più evidente del carattere imperativo degli ordinamenti giuridici privati”, op. cit., p. 80 ss.

[74] É interessante notare che nel pensiero di Montesquieu la “giustizializzazione” del rapporto di comando non era neppure cennata (per l’ovvia considerazione che non esisteva né giustizia amministrativa né quella costituzionale moderna) “Quando Montesquieu nell’Ésprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato»”.

[75] Op. cit., p. 153 ss.

[76] Tale distinzione riecheggia in quella di Miglio “Politica e vocazione dell’animale uomo presentano un nesso molto stretto. Ecco perché un filosofo come Aristotele scrisse che l’uomo è uno zoon politikon. É qui il nesso fra politica e uomo: non si tratta affatto del nesso della ‘socialità’, che è qualcosa di completamente diverso e proprio la differenza fra queste due dimensioni potrà essere messa in luce dallo studio dell’oggetto dell’obbligazione ‘contratto-scambio’, in quanto distinto da quello dell’‘obbligazione politica’” op. cit. p. 160

[77] Scriveva V. E. Orlando “Il diritto suppone sempre, come sua essenza, una «norma» regolatrice dei rapporti sociali cui dan luogo così gl’interessi dei singoli (diritto privato) come quelli della collettività considerata in se stessa e nei suoi rapporti coi sudditi (diritto pubblico)” Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 69.

[78] Du Pape, Lib. II, cap. III.

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