La postura assunta dal nostro Presidente del Consiglio cerca di rivestirsi di una solennità e di una autorevolezza che, però, fatica a corrispondere con la realtà e le immagini che ci vengono trasmesse. La collocazione politica del Governo nell’agone mondiale è nettissima. Mostra un asse sempre più stretto con la Gran Bretagna e la attuale leadership statunitense nei contenuti del quale non appaiono chiare contropartite ed evidenti vantaggi per il nostro paese. L’Italia si sta trovando disarmata ed inconsapevole nel guado di relazioni europee dal sapore sempre più conflittuale e trascinata per inerzia ed affinità culturale del proprio capo di governo nelle logiche delle componenti più avventuriste ed oltranziste sulle quali poggiano le forzature statunitensi. All’interno del paese i proclami sbandierati di recupero della sovranità economica e del produttivismo industriale si stanno traformando inopinatamente in una manciata di assistenzialismo compassionevole che non lascia presagire nessun cambiamento serio delle dinamiche socio-economiche se non in peggio. La critica al dilettantismo dei Governi Conte sono il pretesto per una tabula rasa senza alternative. L’abbaglio delle luci della vita di corte sta facendo il resto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
Una domanda mal posta, almeno al momento, semplicemente perché la dirigenza cinese non cerca il predominio ma interlocutori in grado di contrastare l’egemonismo avventurista statunitense; addirittura cerca di esorcizzare la formazione di un mondo multipolare con un sistema di relazioni multilaterale nel medio periodo in realtà velleitario. E’ proprio l’oltranzismo statunitense a spingere verso coalizioni nettamente contrapposte propedeutiche alla formazione di un contesto multipolare. E’ l’onda che per inerzia o per scelta tutti saranno costretti a seguire in maniera accelerata. Giuseppe Germinario
Se si considera l’attuale politica estera di Pechino, il risultato più probabile della sua spinta a rimodellare la governance globale è il disordine, non un nuovo ordine mondiale cinese.
Di Nicholas Bequelin
28 settembre 2023
Non passa giorno senza che vengano pronunciate nuove dichiarazioni sull’intenzione della Cina di rimodellare l’ordine mondiale.“La Cina è l’unico paese che ha sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere per farlo”, ha avvertito il segretario di Stato americano Antony Blinken . L'”obiettivo chiaro di Pechino è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro”, gli ha fatto eco Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. “Insieme”, Cina e Brasile possono “ cambiare la governance mondiale ”, ha promesso il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva.Ogni mossa di Pechino viene letta come un tentativo di promuovere il “progetto cinese per un ordine mondiale alternativo”, come ha intitolato un recente articolo il Financial Times , e di costruire “Il mondo secondo Xi” – una recente copertina dell’Economist . Non passa settimana senza che eminenti studiosi di relazioni internazionali o un ex leader mondiale si pronuncino su cosa si dovrebbe fare per preservare il cosiddetto “ordine basato sulle regole” minacciato da una Cina revisionista.Le prove raccolte spaziano dalle dichiarazioni della Cina stessa sulla sua ambizione di inaugurare un “ nuovo tipo di relazioni internazionali ”, alla sua influenza economica sulla maggior parte del mondo in via di sviluppo, ai suoi risultati nell’allargamento di gruppi incentrati sulla Cina come i BRICS o l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ( SCO), il suo indiscutibile superamento di ex potenze pari come Russia e India, il successo di nuove iniziative diplomatiche come l’ accordo Iran-Arabia Saudita e il generale declino del potere e del prestigio dell’Occidente.
La virtù principale di questa narrazione risiede nella sua semplicità: la Cina è diventata una delle maggiori potenze mondiali, si dice, e quindi vuole che le sue preferenze e i suoi valori si riflettano nell’ordine internazionale, più o meno allo stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno imposto la sua impronta sulle istituzioni del dopoguerra. Questo è vero. Ma la vera domanda è quanto Pechino riuscirà davvero a costruire un nuovo ordine, invece di intaccare quello vecchio.
Né è discutibile il crescente peso della Cina all’interno delle Nazioni Unite. Pechino è il secondo maggiore contribuente al bilancio delle Nazioni Unite e gestisce un proprio “ Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo ” separato da 200 milioni di dollari direttamente sotto il segretario generale. I cittadini cinesi costituiscono il personale dei vertici più alti delle organizzazioni, con incarichi come sottosegretario generale per gli affari economici e sociali (ECOSOC) e direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO). Al Consiglio di Sicurezza, Pechino non è più timida nell’esercitare il suo potere di veto e nel modellare la direzione dei dibattiti minacciando di usarlo. Ed è sempre più in grado di mobilitare altri Stati membri a sostegno delle sue posizioni: l’anno scorso ha respinto una proposta di risoluzione al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per esaminare le accuse secondo cui crimini contro l’umanità . nello Xinjiang venivano commessi
Tuttavia, l’idea che la Cina stia perseguendo con determinazione una strategia coerente non potrebbe essere più lontana dalla verità. Perché? Perché vista da vicino, la diplomazia cinese è in pratica lacerata da contraddizioni, incoerenze e confusione.
A cominciare dal ruolo delle Nazioni Unite. Una settimana prima dell’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, all’inizio di questo mese, la Cina ha presentato una “Proposta sulla riforma e lo sviluppo della governance globale”, che delineava un programma ambizioso per attuare il “vero multilateralismo” sostenendo le Nazioni Unite “nel giocare un ruolo centrale”. ruolo negli affari internazionali” e “dare voce ai paesi in via di sviluppo”. Ma all’Assemblea Generale stessa, Pechino ha scelto di inviare solo un funzionario di terzo grado , mentre il suo capo diplomatico Wang Yi era impegnato in un viaggio di alto profilo in Russia durante il quale ha incontrato Vladimir Putin.
L’atteggiamento della Cina nei confronti dei BRICS , un gruppo inizialmente composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa che ora rappresenta oltre il 40% del PIL mondiale, appare altrettanto incoerente. Il mese scorso, su iniziativa di Pechino, il gruppo ha aggiunto sei membri (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), in quella che l’agenzia di stampa Reuters ha prevedibilmente definito “una mossa volta ad accelerare la spinta [della Cina] verso riorganizzare l’ordine mondiale”.
Xi ha partecipato di persona al vertice dei BRICS a Johannesburg, in Sud Africa, pronunciando un importante discorso durante il quale ha assicurato che la Cina è “pronta a lavorare con i BRICS e ad approfondire la cooperazione a tutti i livelli”.
“Non importa come cambia la situazione internazionale”, ha promesso, “il nostro impegno di cooperazione sin dall’inizio e la nostra aspirazione comune non cambieranno”.
Eppure, poche settimane dopo, Xi ha deliberatamente snobbato il vertice del G-20 ospitato dall’India, nonostante i membri BRICS rappresentassero oltre un terzo dei membri del G-20 e un programma del vertice che rifletteva molte delle loro preoccupazioni.
È altrettanto difficile dare un senso alla tanto decantata auto-rappresentazione della Cina come paladina del Sud del mondo. Da un lato Pechino ha indubbiamente investito notevoli capitali diplomatici ed economici con i paesi in via di sviluppo di tutto il mondo, e non perde occasione per riaffermare che la Cina stessa è un paese in via di sviluppo.
“La Cina è la più grande nazione in via di sviluppo del mondo e un membro naturale del Sud del mondo”, ha detto Li Xi, rappresentante personale di Xi Jinping, in una riunione del Gruppo dei 77, una coalizione di 135 paesi in via di sviluppo che si è incontrata a Cuba durante la Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “Non importa quale stadio di sviluppo raggiungerà”, ha aggiunto, “la Cina farà sempre parte del mondo in via di sviluppo”.
Ma cosa dovrebbero pensare allora i membri del Sud del mondo della visione di Xi Jinping di una partnership sempre più stretta con la Russia? “In questo momento ci sono cambiamenti che non vedevamo da 100 anni”, ha detto in modo memorabile alla sua controparte russa mentre si trovava sui gradini del Cremlino al termine della sua visita di Stato nel marzo 2023. “Quando siamo insieme, possiamo guidare questi cambiamenti”. Questa enfasi su un leader degli affari globali come coppia sino-russa appare nettamente in contrasto con le promesse di costruire un “vero multilateralismo” con il Sud del mondo e con le denunce di come “ unilateralismo ed egemonismo stiano diventando dilaganti”.
E mentre l’economia cinese ha beneficiato generosamente dell’aumento degli scambi con la Russia, ed essendo il principale importatore di grano dall’Ucraina nell’ambito del programma “Iniziativa del Mar Nero” sostenuto dalle Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo con i quali Pechino si impegna a solidarizzare sono stati colpiti dall’insicurezza alimentare e da una forte crisi deterioramento delle condizioni economiche a seguito dell’invasione di Mosca.
Uno sguardo attento alla condotta della Cina sulla scena diplomatica rivela numerose contraddizioni e incoerenze simili. La Cina ha bisogno di presentare un volto “ amabile ” al mondo, ha esortato Xi Jinping, ma la sua politica estera rimane dominata dalla “ guerriero lupo diplomazia del ”, una combinazione di spavalderia, disinformazione e invettive, inizialmente limitata ai social media ma ora comune in ambito diplomatico. anche le impostazioni.
Xi Jinping scelse Qin Gang come ministro degli Esteri, una posizione per la quale era stato preparato attraverso un incarico come ambasciatore negli Stati Uniti. Sette mesi dopo, Qin cadde in disgrazia e inspiegabilmente svanì , lasciando i diplomatici stranieri a grattarsi la testa. L’elenco potrebbe continuare.
Eppure tutte queste incoerenze impallidiscono rispetto alla contraddizione fondamentale che ora ha raggiunto il cuore della politica estera cinese: il suo attaccamento, precedentemente sacrosanto, ai principi di sovranità e integrità territoriale. Fin dalla sua fondazione nel 1949, la Repubblica popolare cinese (RPC) ha sempre fatto di questi principi la pietra angolare della sua diplomazia, in parte come riflesso dell’amara storia della Cina come vittima delle invasioni imperialiste occidentali e giapponesi nel XIX e XX secolo.
“La sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi dovrebbero essere rispettate e salvaguardate. Questa è una norma fondamentale delle relazioni internazionali che incarna gli scopi della Carta delle Nazioni Unite. È anche la posizione coerente e di principio della Cina”, ha sottolineato il ministro degli Esteri Wang Yi il 19 febbraio 2022, mentre le truppe russe si ammassavano lungo il confine dell’Ucraina. “E questo vale anche per l’Ucraina”.
Ciononostante, la settimana successiva Pechino ha rinunciato alla preminenza di questi principi e ha difeso le azioni di Mosca, in nome di “legittime preoccupazioni per la sicurezza” – un termine che non ha alcuna base nel diritto internazionale o nella Carta delle Nazioni Unite. L’intenzione iniziale di Pechino era chiara: condannare le alleanze di sicurezza occidentali che sia Mosca che Pechino vedono come una minaccia alla loro sicurezza e, nel caso della Cina, alle sue ambizioni su Taiwan. Ma ciò è avvenuto a scapito della posizione di lunga data della Cina riguardo all’ordine internazionale.
La Cina ha ora di fatto postulato l’esistenza di “legittime preoccupazioni per la sicurezza” (合理安全关切, in realtà meglio tradotto come “ragionevoli preoccupazioni per la sicurezza”) come valide eccezioni ai principi di sovranità e integrità territoriale in tutta la sua diplomazia, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a la sua Iniziativa per la Sicurezza Globale . E questo senza fornire alcuna indicazione su cosa si qualifichi esattamente come una “legittima preoccupazione per la sicurezza”. Chi deve decidere cosa è “legittimo”? Secondo quali criteri? Su quale base giuridica? A chiunque presti attenzione, il modo goffo con cui la Cina ha scelto di giustificare l’aggressione di Mosca ha aperto un vaso di Pandora pieno di importanti problemi di sicurezza collettiva.
In effetti, è difficile immaginare come un paese scambierebbe la relativa sicurezza del sistema della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale con un ordine mondiale cinese in cui la sua sovranità territoriale sarebbe limitata da non specificate “legittime preoccupazioni di sicurezza” che qualsiasi altro paese potrebbe avere. In altre parole, la Cina può provare a convincere i paesi a sostenere le sue posizioni sulla governance globale, come afferma con crescente forza, oppure può spingere per una visione di un nuovo regime internazionale di sovranità territoriale ridotta. Promuovere entrambi allo stesso tempo, come sta facendo attualmente la Cina, è chiaramente incoerente.
“Ciò che stiamo vivendo ora è più di una prova dell’ordine post-Guerra Fredda”, ha avvertito il Segretario di Stato americano Antony Blinken prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno. “È la fine.” Questa è un’esagerazione. Pechino è certamente determinata a indebolire alcuni dei suoi principi, in modo da rendere il sistema internazionale ancora più accomodante nei confronti dei regimi non democratici. Ma se si considera l’attuale politica estera della Cina, il risultato più probabile è il disordine, piuttosto che un nuovo ordine mondiale cinese. Non importa quanto possa sembrare difficile sistemare il sistema multilaterale esistente, si tratta pur sempre della migliore offerta sul tavolo.
È opinione diffusa in Occidente che la decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina non sia stata un atto razionale. Alla vigilia dell’invasione, l’allora primo ministro britannico Boris Johnson suggerì che forse gli Stati Uniti e i loro alleati non avevano fatto “abbastanza per scoraggiare un attore irrazionale e dobbiamo accettare al momento che Vladimir Putin forse sta pensando in modo illogico e non vede il disastro che lo attende”. Il senatore statunitense Mitt Romney ha fatto un ragionamento simile dopo l’inizio della guerra, osservando che “invadendo l’Ucraina, Putin ha già dimostrato di essere capace di decisioni illogiche e autolesioniste”. L’assunto alla base di entrambe le affermazioni è che i leader razionali iniziano le guerre solo se hanno la probabilità di vincere. Iniziando una guerra che era destinato a perdere, Putin ha dimostrato la sua non razionalità.
Altri critici sostengono che Putin non era razionale perché ha violato una norma internazionale fondamentale. Secondo questa visione, l’unica ragione moralmente accettabile per entrare in guerra è l’autodifesa, mentre l’invasione dell’Ucraina è stata una guerra di conquista. L’esperta di Russia Nina Khrushcheva ha affermato che “con il suo assalto non provocato, Putin si unisce a una lunga serie di tiranni irrazionali” e sembra “aver ceduto alla sua ossessione guidata dall’ego di ripristinare lo status della Russia come grande potenza con una propria sfera di influenza chiaramente definita”. Bess Levin di Vanity Fair ha descritto il presidente russo come “un megalomane assetato di potere”; l’ex ambasciatore britannico a Mosca Tony Brenton ha suggerito che la sua invasione è la prova che egli è un “autocrate squilibrato” piuttosto che l'”attore razionale” che era un tempo.
Queste affermazioni si basano tutte su una concezione comune della razionalità che è intuitivamente plausibile, ma in definitiva difettosa. Contrariamente a quanto molti pensano, non possiamo equiparare la razionalità al successo e la non razionalità al fallimento. La razionalità non riguarda i risultati. Gli attori razionali spesso non riescono a raggiungere i loro obiettivi, non a causa di un pensiero insensato, ma a causa di fattori che non possono né prevedere né controllare. C’è anche una forte tendenza a equiparare la razionalità alla moralità, poiché si pensa che entrambe le qualità siano caratteristiche del pensiero illuminato. Ma anche questo è un errore. Le politiche razionali possono violare standard di condotta ampiamente accettati e possono persino essere mortalmente ingiuste.
Che cos’è dunque la “razionalità” nella politica internazionale? Sorprendentemente, la letteratura scientifica non fornisce una buona definizione. Per noi, la razionalità consiste nel dare un senso al mondo – cioè capire come funziona e perché – per decidere come raggiungere determinati obiettivi. Ha una dimensione sia individuale che collettiva. I politici razionali sono guidati dalla teoria, sono homo theoreticus. Hanno teorie credibili – spiegazioni logiche basate su ipotesi realistiche e supportate da prove sostanziali – sul funzionamento del sistema internazionale, e le utilizzano per comprendere la loro situazione e determinare il modo migliore per affrontarla. Gli Stati razionali aggregano le opinioni dei principali responsabili politici attraverso un processo deliberativo, caratterizzato da un dibattito robusto e disinibito.
Tutto ciò significa che la decisione della Russia di invadere l’Ucraina è stata razionale. Si consideri che i leader russi si sono basati su una teoria credibile. La maggior parte dei commentatori contesta questa affermazione, sostenendo che Putin era intenzionato a conquistare l’Ucraina e altri Paesi dell’Europa orientale per creare un grande impero russo, qualcosa che avrebbe soddisfatto un desiderio nostalgico dei russi ma che non ha alcun senso strategico nel mondo moderno. Il presidente Joe Biden sostiene che Putin aspira “a essere il leader della Russia che ha unito tutti i russofoni”. Voglio dire… penso che sia irrazionale”. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale H. R. McMaster sostiene che: “Non credo che sia un attore razionale perché ha paura, giusto? Quello che vuole fare più di ogni altra cosa è riportare la Russia alla grandezza nazionale. È guidato da questo”.
Ma ci sono prove concrete che Putin e i suoi consiglieri pensassero in termini di teoria dell’equilibrio di potenza, considerando gli sforzi dell’Occidente per fare dell’Ucraina un baluardo al confine con la Russia come una minaccia esistenziale che non poteva essere lasciata in piedi. Il presidente russo ha esposto questa logica in un discorso che spiega la sua decisione di entrare in guerra: “Con l’espansione della Nato verso est, la situazione per la Russia diventa ogni anno più grave e pericolosa… Non possiamo rimanere inattivi e osservare passivamente questi sviluppi. Sarebbe una cosa assolutamente irresponsabile per noi”. Ha poi aggiunto che: “Non è solo una minaccia molto reale ai nostri interessi, ma all’esistenza stessa del nostro Stato e alla sua sovranità. È la linea rossa di cui abbiamo parlato in numerose occasioni. Loro l’hanno superata”.
In altre parole, per Putin si trattava di una guerra di autodifesa volta a prevenire uno spostamento negativo dell’equilibrio di potere. Non aveva intenzione di conquistare tutta l’Ucraina e di annetterla a una grande Russia. Infatti, anche se nel suo noto resoconto storico delle relazioni tra Russia e Ucraina ha affermato che “russi e ucraini erano un unico popolo – un unico insieme”, ha anche dichiarato: “Rispettiamo il desiderio degli ucraini di vedere il loro Paese libero, sicuro e prospero… E ciò che l’Ucraina sarà, spetta ai suoi cittadini deciderlo”. Tutto ciò non significa negare che i suoi obiettivi si siano chiaramente ampliati dall’inizio della guerra, ma questo non è insolito quando le guerre si sviluppano e le circostanze cambiano.
Vale la pena notare che Mosca ha cercato di affrontare la crescente minaccia ai suoi confini attraverso una diplomazia aggressiva, ma gli Stati Uniti e i loro alleati non erano disposti ad accogliere le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza. Il 17 dicembre 2021, la Russia ha avanzato una proposta per risolvere la crescente crisi che prevedeva un’Ucraina neutrale e il ritiro delle forze della Nato dall’Europa orientale alle loro posizioni del 1997. Ma gli Stati Uniti l’hanno respinta a priori.
In questo caso, Putin ha optato per la guerra, che secondo gli analisti avrebbe portato al dominio dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Descrivendo l’opinione dei funzionari statunitensi poco prima dell’invasione, David Ignatius del Washington Post ha scritto che la Russia avrebbe “vinto rapidamente la fase iniziale e tattica di questa guerra, se ci sarà. Il vasto esercito che la Russia ha schierato lungo i confini dell’Ucraina potrebbe probabilmente conquistare la capitale Kiev in diversi giorni e controllare il Paese in poco più di una settimana”. In effetti, la comunità dei servizi segreti “ha detto alla Casa Bianca che la Russia avrebbe vinto in pochi giorni travolgendo rapidamente l’esercito ucraino”. Naturalmente queste valutazioni si sono rivelate errate, ma anche i politici razionali a volte sbagliano i calcoli, perché operano in un mondo incerto.
La decisione russa di invadere è stata anche il prodotto di un processo deliberativo, non una reazione impulsiva di un lupo solitario. Anche in questo caso, molti osservatori contestano questo punto, sostenendo che Putin ha operato senza un serio input da parte di consiglieri civili e militari, che avrebbero sconsigliato la sua avventata corsa all’impero. Come ha detto il senatore Mark Warner, presidente della Commissione Intelligence del Senato: “Non ha avuto molte persone che hanno avuto contatti diretti con lui. Siamo quindi preoccupati che questo individuo isolato [sia] diventato un megalomane in termini di idea di essere l’unica figura storica in grado di ricostruire la vecchia Russia o di ricreare la nozione di sfera sovietica”. Altrove, l’ex ambasciatore a Mosca Michael McFaul ha suggerito che un elemento della non razionalità della Russia è che Putin è “profondamente isolato, circondato solo da yes men che lo hanno tagliato fuori da una conoscenza accurata”.
Ma ciò che sappiamo della cerchia di Putin e del suo pensiero sull’Ucraina rivela una storia diversa: I subordinati di Putin condividevano il suo punto di vista sulla natura della minaccia che la Russia stava affrontando e lui si è consultato con loro prima di decidere la guerra. Il consenso tra i leader russi sui pericoli insiti nelle relazioni dell’Ucraina con l’Occidente si riflette chiaramente in un memorandum del 2008 dell’allora ambasciatore in Russia William Burns, in cui si avverte che “l’ingresso dell’Ucraina nella Nato è la più brillante di tutte le linee rosse per l’élite russa (non solo per Putin)”. In più di due anni e mezzo di conversazioni con i principali attori russi, dai gorilla annidati nei recessi oscuri del Cremlino ai più acuti critici liberali di Putin, non ho ancora trovato nessuno che veda l’Ucraina nella Nato come qualcosa di diverso da una sfida diretta agli interessi russi… Non riesco a concepire nessuna confezione regalo che permetta ai russi di ingoiare questa pillola tranquillamente”.
Né sembra che Putin abbia preso la decisione di entrare in guerra da solo, come si dice che abbia complottato in un confino indotto da Covid. Alla domanda se il presidente russo si fosse consultato con i suoi principali consiglieri, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha risposto: “Ogni Paese ha un meccanismo decisionale. In questo caso, il meccanismo esistente nella Federazione Russa è stato pienamente utilizzato”. Sembra chiaro che Putin si sia affidato solo a una manciata di confidenti che la pensano come lui per prendere la decisione finale di invadere, ma questo non è insolito quando i politici si trovano di fronte a una crisi. Tutto questo per dire che la decisione russa di invadere è molto probabilmente emersa da un processo deliberativo, con alleati politici che condividevano le sue convinzioni e preoccupazioni principali sull’Ucraina.
Inoltre, la decisione della Russia di invadere l’Ucraina non solo è stata razionale, ma anche non anomala. Si dice che molte grandi potenze abbiano agito in modo non razionale quando in realtà hanno agito in modo razionale. L’elenco comprende la Germania negli anni precedenti la prima guerra mondiale e durante la crisi di luglio, nonché il Giappone negli anni Trenta e durante la preparazione di Pearl Harbor. In entrambi i casi, i principali responsabili politici si sono basati su teorie credibili di politica internazionale e hanno deliberato tra di loro per formulare strategie per affrontare i vari problemi.
LETTURA SUGGERITA
La guerra in Ucraina non è complicata
DI DOMINIC SANDBROOK
Questo non significa che gli Stati siano sempre razionali. La decisione britannica di non schierarsi contro la Germania nazista nel 1938 fu dettata dall’avversione emotiva del Primo Ministro Neville Chamberlain nei confronti di un’altra guerra terrestre europea e dal suo successo nel bloccare una deliberazione significativa. Nel frattempo, la decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003 si è basata su teorie non credibili ed è emersa da un processo decisionale non deliberativo. Ma questi casi rappresentano delle eccezioni. Contro l’opinione sempre più diffusa tra gli studiosi di politica internazionale, secondo cui gli Stati sono spesso non razionali, noi sosteniamo che la maggior parte degli Stati sono razionali per la maggior parte del tempo.
Questo argomento ha profonde implicazioni sia per lo studio che per la pratica della politica internazionale. Nessuna delle due può essere coerente in un mondo in cui prevale la non razionalità. All’interno dell’accademia, la nostra argomentazione afferma l’ipotesi dell’attore razionale, che è stata a lungo un elemento fondamentale per la comprensione della politica mondiale, anche se recentemente è stata messa sotto accusa. Se la non razionalità è la norma, il comportamento degli Stati non può essere né compreso né previsto e lo studio della politica internazionale è un’impresa inutile. Solo se gli altri Stati sono attori razionali, i professionisti possono prevedere come amici e nemici si comporteranno in una determinata situazione e quindi formulare politiche che promuovano gli interessi del proprio Stato.
Tutto questo per dire che i politici occidentali farebbero bene a non dare automaticamente per scontato che la Russia o qualsiasi altro avversario sia non razionale, come spesso fanno. Questo serve solo a minare la loro capacità di capire come pensano gli altri Stati e di elaborare politiche intelligenti per affrontarli. Data l’enorme posta in gioco nella guerra in Ucraina, questo aspetto non sarà mai sottolineato abbastanza.
Già nell’ottobre scorso il sito di Italia e il mondo aveva sottolineato le novità presenti nel piano strategico NSS presentato da Biden e nelle conferenze di Sullivan. Roberto Iannuzzi offre il suo contributo di approfondimento sul tema mettendo a nudo soprattutto l’ipocrisia, le rimozioni sottese e l’istigazione al caos consapevole, presenti nel discorso di Blinken, in questo cambio di paradigma. Una critica più cogente delle scelte dell’attuale leadership statunitense avrebbe bisogno di ulteriori puntualizzazioni:
non si tratta di un confronto tra “deregolamentazione” e regolamentazione dell’ordine globale, quanto di diversi modelli di ordinamento e minore arbitrarietà di applicazione di questi
il problema fondamentale degli Stati Uniti è quello di mantenere all’interno del proprio sistema di alleanze l’esclusiva dei rapporti di conflitto e cooperazione con le potenze rivali ed avversarie. Attraverso questa chiave andrebbero lette le recenti perorazioni della Yellen, la sua flessibilità nella costruzione dei rapporti con la Cina e l’estremo rigore che al contrario si pretende dai paesi europei.
contrariamente a quanto sosterrebbe Blinken nel suo intervento e sulla falsa riga delle tesi del NSS, lo stesso tema della democrazia non sarebbe più il discrimine fondamentale nel determinare la natura dei rapporti internazionali e gli schieramenti, quanto piuttosto l’adesione al proprio sistema di regolamentazione delle relazioni economiche e politiche. Un approccio che stride platealmente con la attribuzione agli avversari e competitori esterni di quella visione totalitaria che si sta cercando di introdurre surrettiziamente al proprio interno. Una caratteristica che indebolisce la vena polemica e la motivazione infusa nel discorso di Blinken
Sta di fatto che l’attuale leadership sta iniziando a porsi il problema di una ricostruzione delle proprie relazioni e dei propri sistemi di alleanze all’interno di una visione bipolare che vede nel binomio sino-russo il polo avversario designato; come pure appare consapevole della necessità di ricostruire in qualche maniera al proprio interno un modello di coesione sociale che garantisca energia necessaria ai propri propositi e all’esterno una ridefinizione della divisione del lavoro circoscritta al proprio polo. Nelle more su questo si segna il destino di paesi come la Germania e l’Italia, ma anche del Giappone; all’interno di questo disegno si deve inquadrare l’azione del Governo Meloni e lo stretto sodalizio che sta costruendo con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tornando ai centri decisori statunitensi, li attende un compito immane, difficilmente raggiungibile; ma non va sottovalutata la forza e la capacità di cui ancora dispongono. Lo stesso fatto che si pongano pur tardivamente questi termini porterà ad una ennesima scomposizione e ricomposizione degli schieramenti politici statunitensi, impossibili al momento da prevedere nelle dinamiche e nei contenuti concreti.
La vera ossessione che turba l’attuale leadership è quella di impedire il multipolarismo, il vero incubo di questa amministrazione, ma anche il tema per vari motivi sino ad ora eluso nello scacchiere geopolitico dalle forze emergenti, impegnate a perorare un sistema di regole concordate e non imposte tra i vari attori e un multilateralismo che rifugge da vere e proprie alleanze politiche stabilmente definite, se non contrapposte. Come una delle tante nemesi che avvolgono la storia, è proprio il perdurare dell’oltranzismo e dell’avventurismo statunitense a creare le condizioni del suo avvento o di una sua accelerazione contro tutto e contro tutti. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione.
“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.
A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.
La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.
Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.
Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.
Una crisi senza cause apparenti
Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.
Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.
Tuttavia, “decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.
Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.
Trent’anni di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso di Blinken.
La continua erosione dei salari, della produttività e della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi che il segretario di Stato tralascia completamente.
Trent’anni di avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di “leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.
Blinken non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.
La sua spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.
Altri elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo approfondire.
La “minaccia delle autocrazie”
Per il segretario di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni, dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’ terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società civile e l’opposizione politica”.
Inoltre le democrazie sono minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione, usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.
Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:
“La guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità, integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani universali e indivisibili per gli individui”.
“Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per far proprio questo”.
Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” (secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays, esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana durante il primo conflitto mondiale).
Blinken capovolge lo slogan di Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro ‘partnership senza limiti’”.
“Ci troviamo quindi in quello che il presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro per decenni a venire”.
La missione “eccezionale” degli USA
Nella visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida non vi è altra strada che quella della contrapposizione.
Non avendo compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono da una “posizione di forza”.
Aderendo pienamente ai principi dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”, e che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare le altre per una causa comune”.
Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:
“Un mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.
“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.
“Un mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle, sorvegliarle e reprimerle”.
“Un mondo in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di tale crescita”.
“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.
“Un mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani universali siano rispettati”.
Che le politiche americane in questi decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.
In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:
“Essi vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.
La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:
“I nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.
Riaffermare il primato di Washington
Una volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione fra grandi potenze.
Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.
La prima aveva parlato di una forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata “de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.
Il secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).
Partendo da queste basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).
A questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.
Strategia “a geometria variabile”
In questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine, India, Vietnam.
In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo”.
Per il segretario di Stato, più di 50 paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri attacchi.
“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia”.
“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai materiali cruciali per realizzarle”.
Cardine di questa diplomazia a geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi “minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi limitati.
Molti di questi accordi sono in realtà intesi come strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte anticinese esteso.
Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra USA, Corea del Sud e Giappone.
A questi mini-accordi si affiancano partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da Wahington al G20.
Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.
La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale
Cerniera essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra blocchi, è il conflitto ucraino.
Nelle già citate parole di Blinken, “la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.
Egli sottolinea il valore “globale” di tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli ovunque”.
E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e libertà condivise”.
Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al nostro sostegno”.
La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.
Avendo l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina, una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena lanciata.
gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO.
Irruzione della realtà
Tuttavia, in Ucraina sono proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha una chiara visione di come portare avanti il conflitto.
La controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive costruito da Mosca.
Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado di competere con quella russa.
Di fronte a questa realtà, i diversi esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.
Dietro l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e che è necessario un cambio di strategia.
La carenza di proiettili di artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come quella tentata quest’estate.
Le limitate disponibilità degli arsenali occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a Kiev.
Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare. Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del conflitto nelle loro previsioni.
Impasse strategica e rischi di escalation
Allo stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare le linee di rifornimento di Mosca.
Ciò sta già avvenendo in Crimea. Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel conflitto.
Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi di escalation.
Tale cambio di strategia, peraltro, molto difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.
Gli attacchi in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.
La guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev, ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.
AURELIEN30
27 SET 2023 Prima di tutto, le sordide questioni finanziarie. Ho attivato gli abbonamenti a pagamento per coloro che desiderano convertirsi o abbonarsi. Ho fissato i prezzi a 5 e 50 dollari, che spero siano ragionevoli. Se avete già abbonamenti a pagamento ad altri siti, basta premere un pulsante, altrimenti ci sono le istruzioni qui. Vedo che alcuni l’hanno già fatto: grazie. Ho anche creato una pagina “Buy Me A Coffee”, che potete trovare qui.
Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta ora pubblicando anche alcune traduzioni in italiano. Grazie a tutti i traduttori.
Discutendo dei deboli borbottii nelle capitali occidentali sui “negoziati” sull’Ucraina la scorsa settimana, ho sottolineato quanto sia insicuro e fragile l’ego strategico collettivo occidentale e quanto poco possa tollerare l’opposizione o la critica. Mi è sembrato che valesse la pena di approfondire un po’ questo concetto, poiché ci aiuta a capire perché l’Occidente si sia cacciato in situazioni così disastrose, come quella attuale dell’Ucraina. Cercherò anche di spiegare come sia i ferventi ammiratori della politica occidentale sia i suoi più acerrimi critici facciano in realtà parte dello stesso incoerente discorso strategico. Tutto inizia con l’etnocentrismo
L’etnocentrismo è un termine che indica la tendenza universale a vedere il mondo esterno attraverso il prisma della propria storia e cultura. L’influenza dell’etnocentrismo sulla strategia, soprattutto quella occidentale, non è un argomento nuovo e decenni fa sono stati scritti dei libri al riguardo, anche se apparentemente non hanno influenzato né il pensiero né il comportamento.
L’etnocentrismo ci conforta sul fatto che fondamentalmente comprendiamo il mondo e che possiamo ragionevolmente comprendere e persino prevedere come e perché gli altri si comportano. Nei casi più estremi, l’etnocentrismo incorpora un volgare razzismo e presupposti di superiorità culturale: le altre nazioni o culture sono ritenute deboli e inferiori. Questo è stato il caso più noto delle supposizioni tedesche sulla facilità con cui l’Unione Sovietica sarebbe crollata nel 1941, ma è stato anche vero per le supposizioni giapponesi sugli Stati Uniti nello stesso anno: una buona bastonata sarebbe stata tutto ciò che serviva. In entrambi i casi, si andava oltre il semplice pregiudizio, fino ad arrivare a teorie pseudo-scientifiche di superiorità radicale. Nell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, invece, l’etnocentrismo si estendeva a una teoria ideologica completa del mondo e del suo funzionamento, tale per cui qualsiasi evento, ovunque, poteva in linea di principio essere analizzato e affrontato secondo una visione coerente.
L’etnocentrismo è spesso più una debolezza e un fastidio che un pericolo, ma può essere davvero molto pericoloso quando – come sopra – è combinato con il potere di fare del male. Il tipo di etnocentrismo che caratterizza la mente strategica occidentale in questo momento non è nuovo o unico, ma è legato a un potere e a un dominio maggiori di quelli che qualsiasi blocco politico ed economico è mai riuscito a raggiungere prima. Inoltre, i seguaci di questa ideologia – perché così è diventata – occupano la maggior parte dello spazio concettuale nel mondo di oggi e vedono questa egemonia come del tutto meritata, grazie alla correttezza delle loro convinzioni e alla purezza dei loro cuori. Trovano che le minacce ad essa siano destabilizzanti e persino spaventose. Semmai, questa ideologia è diventata progressivamente più rigida e onnicomprensiva dalla fine della Guerra Fredda, con la globalizzazione che ha ridotto e concentrato le fonti di notizie e con l’emergere di una nuova élite politica globale transnazionale, che condivide idee, formazione ed esperienze lavorative e che è servita da una Casta Politica e Manageriale (PMC) che diventa sempre più omogenea, e persino formica, con il passare degli anni.
Abbiamo quindi un insieme di presupposti etnocentrici che sono sviluppati come nessun altro nella storia, e anche molto pericolosi a causa della rigidità con cui sono sostenuti, del potere delle nazioni coinvolte e – fino a poco tempo fa, comunque – della capacità di queste stesse nazioni di imporre i loro giudizi agli altri. Di quali ipotesi stiamo parlando? Ne suggerirei tre e, come di solito accade con le ideologie assemblate un po’ alla volta nel tempo da diversi attori, la somma totale non è forse così coerente come potrebbe essere. Tuttavia, possiamo dire che il complesso strategico occidentale (e tornerò su questo concetto) probabilmente articolerebbe i suoi presupposti in questo modo, se fosse sfidato a farlo.
Primo: la maggior parte delle persone nel mondo sono come noi, o ragionevolmente tali. Se non si comportano come noi, o se i loro Paesi non si comportano come noi, è perché sono fuorviati o vittime di governi dittatoriali e di strutture di potere maligne. Se queste strutture possono essere rovesciate, molto rapidamente le persone nei Paesi interessati si dimostreranno come noi.
In secondo luogo, quando le persone non sono come noi o gli Stati non assomigliano ai nostri, capiamo e possiamo spiegare perché è così e sappiamo cosa bisogna fare per correggerlo. Così, possiamo essere delusi da comportamenti individuali o collettivi, ma li troviamo sempre abbastanza facili da spiegare. C’è poco al mondo che non siamo in grado di capire.
Infine, tutte le crisi e i conflitti internazionali riguardano fondamentalmente noi. Se come individui sosteniamo le politiche e le azioni dei governi, dei movimenti e delle organizzazioni internazionali occidentali, allora pensiamo che le crisi in altre parti del mondo siano causate dalla resistenza agli sviluppi democratici e alla diffusione delle nostre idee, o dalle macchinazioni di imprenditori politici che fomentano folle populiste anti-occidentali. Se le Nostre idee sembrano in difficoltà è perché non sono state spinte abbastanza o sono state deliberatamente sabotate. Ma paradossalmente, se ci opponiamo ai governi e alle organizzazioni internazionali occidentali, allora vediamo tutte le crisi e i conflitti del mondo come il risultato delle loro aggressioni e dei loro sforzi di destabilizzazione. In entrambi i casi, quindi, ciò che accade nel mondo riguarda solo noi.
Ora, cercare di descrivere un’ideologia incoerente in termini coerenti tende a produrre un risultato che assomiglia alla parodia o alla satira, e non sono sicuro che i rappresentanti del Complesso di Sicurezza Occidentale (Western Security Complex, in breve WSC), si esprimano in modo così schietto. Ma chiunque ne abbia frequentato una parte riconoscerà immediatamente le componenti della loro ideologia. Il fattore aggiuntivo che distingue il WSC di oggi dai suoi predecessori, anche di una generazione fa, è la delicatezza infantile del suo ego e la sua incapacità di sostenere le critiche, per non parlare dell’ammissione del fallimento. Si tratta di una questione generazionale di cui ho già parlato in precedenza.
Quindi, una parola sul complesso di sicurezza occidentale. La prima cosa da dire è che chiunque può farne parte o, se preferite, chiunque può affermare di esserne membro. Per molti versi questo è strano, perché la maggior parte delle comunità di esperti richiede almeno una certa competenza dimostrata, o un processo di ammissione. È improbabile che una pubblicazione come The Lancet includa articoli di persone che non hanno una formazione medica: il Complesso medico, il Complesso giuridico, il Complesso accademico in generale, il Complesso degli esperti di vino o dei fan dei Grateful Dead… tutti questi gruppi, sebbene possano avere contorni sfumati e persone a cui viene negata l’adesione per motivi controversi, sono comunque gruppi coerenti e si basano in linea di principio su conoscenze ed esperienze dimostrate. Anche i gruppi al di fuori del mainstream, come i praticanti della Medicina Tradizionale Cinese o i Riflessologi, hanno i loro standard professionali e i loro requisiti di appartenenza. Ma di fatto chiunque può scrivere su questioni di sicurezza e farsi pubblicare, anche su media influenti.
È strano se ci si pensa. Se un giornalista e opinionista, noto in passato per aver scritto di questioni di finanza commerciale internazionale, pubblica un articolo su uno dei principali quotidiani occidentali che sostiene, ad esempio, la fornitura di armi nucleari tattiche per l’Ucraina, nessuno lo riterrà strano e, se riflette il discorso dominante, potrà godere di una notevole pubblicità, anche se l’autore potrebbe non avere idea di cosa stia parlando. E un opinionista di spicco che non ha mai visitato la Cina, non parla il mandarino, non ha una particolare conoscenza dell’Asia o degli affari esteri in generale, non si sentirà inibito a scrivere sulle pagine di un’importante testata giornalistica, chiedendo una guerra con la Cina domani, se non oggi.
Perché? Perché gli opinionisti si sentono qualificati ad offrire opinioni su questioni di guerra e di pace, mentre esiterebbero ad essere altrettanto dogmatici sui vini della Linguadoca-Rossiglione o sugli assoli di chitarra di Jerry Garcia? E perché le loro opinioni tendono a rientrare in due categorie internamente molto omogenee: la maggioranza che sostiene che tutto ciò che l’Occidente sta facendo è giusto e va continuato, e una minoranza molto più piccola che sostiene che tutto ciò che l’Occidente sta facendo è sbagliato e va fermato? E soprattutto perché questi opinionisti, siano essi favorevoli o contrari, danno per scontato che le azioni occidentali in qualsiasi crisi determinino ciò che accadrà?
Non è che argomenti come la politica estera, la gestione dei conflitti e delle crisi siano intellettualmente semplici da capire. Di recente ci si è resi ridicoli parlando della guerra in Ucraina, degli effetti delle sanzioni, della fornitura di attrezzature occidentali, della stabilità del sistema politico russo… tutte cose che richiedono anni di studio e di esperienza per poter dire qualcosa di sensato. Credo che le ragioni siano essenzialmente due, oltre all’ovvio fatto che essere un membro del PMC significa non dover mai chiedere scusa, anche perché si scrive per lo più per persone ignoranti come voi.
Il primo, a mio avviso, è la convinzione che esistano campi di competenza chiamati “strategia” o “geopolitica” che permettono a chi ne fa parte (o si considera tale) di esprimersi su qualsiasi questione. Ora, naturalmente la “strategia” esiste come materia reale e importante. Comporta lo studio degli scritti dei teorici di tutti i tempi (Clausewitz, Mahan e tutti gli altri). È perfettamente legittimo applicare le intuizioni di Clausewitz all’attuale conflitto in Ucraina (io stesso mi dichiaro colpevole), ma non ci si può atteggiare a esperti di quella crisi, o di qualsiasi altra, solo perché la strategia è un argomento che interessa, o perché se ne è letto un libro all’università. D’altra parte, è molto dubbio che esista davvero un titolo di lavoro come “geostratega” o una materia come “geopolitica”. Esistono ovviamente interazioni complesse tra geografia, strategia, economia e politica in diverse regioni del mondo, ma è piuttosto fuorviante supporre che si possa semplicemente trasporre un modo di pensare (spesso materialista e riduttivo) da un’area del mondo a un’altra. Se si vede qualcuno che si presenta come “scrittore di questioni strategiche” o altro, in genere significa che ha solo una conoscenza superficiale di molte cose diverse. Questo è diverso dall’essere, per esempio, un esperto dell’industria petrolifera mondiale o dei flussi commerciali globali dell’elettronica, dove si deve effettivamente sapere qualcosa.
Il secondo è quello che io chiamo il credenzialismo dello status. Si parla di credenzialismo quando la frequentazione di un’università o di una business school, o il passaggio attraverso un qualche tipo di formazione professionale per ottenere una qualifica, fornisce credenziali, ma non necessariamente conoscenze e competenze. Il prototipo è l’MBA che conosce il valore attuale netto di tutto e il valore di niente, e che in realtà ha meno valore per un’organizzazione rispetto a chi ha lasciato la scuola a sedici anni, ma sa effettivamente come funzionano le cose. Questo accade in qualche misura anche nel campo dei conflitti e della sicurezza: l'”ex diplomatico”, l'”ufficiale militare in pensione”, l'”ex analista di intelligence” non hanno il diritto automatico di sentirsi dire cosa pensare al di fuori delle materie in cui hanno avuto esperienza professionale diretta. Molte di queste persone si sono rese ridicole dall’inizio del conflitto in Ucraina. (Dubito, infatti, che esista qualcosa di così semplice e generico come un “esperto militare”, e molti ufficiali militari con cui ho parlato la pensano allo stesso modo).
Ma ci sono anche altri tipi di credenziali, che non hanno nulla a che fare con la competenza in materia di conflitti. Dopotutto, se siete avvocati per i diritti umani, il vostro modello di business dipende dall’esistenza di violazioni dei diritti umani, e quindi reagirete immediatamente su Twitter a qualsiasi notizia, voce o persino menzogna deliberata su tali violazioni, e rivendicherete il diritto di dire ai governi cosa fare perché le vostre credenziali dicono che parlate a nome degli oppressi. E così un gruppo di voi scriverà un op-ed per un’illustre fonte di notizie dal titolo “Perché Vladimir Putin non merita un giusto processo e dovrebbe essere lapidato” e nessuno penserà che sia strano. All’altro estremo della scala, un economista, incatenato a una spiegazione materialista e razionalista del comportamento umano, si annoderà intellettualmente cercando di ridurre la crisi ucraina, o le tensioni con la Cina, o i recenti colpi di stato in Africa, a cause economiche che comprende, al fine di far progredire il proprio modello di business. E a sua volta questo incoraggerà altri gruppi d’interesse ad affrettarsi a pubblicare affermazioni secondo cui “si tratta di” fattori X, Y e Z che “vengono ignorati”. In parte, si tratta di ciò che gli psicologi chiamano Bias Cognitivo, ovvero quando le persone vedono le questioni in termini di ciò che conoscono, anche se in realtà non si tratta di ciò che riguarda principalmente la questione. Ma in parte è anche una caratteristica del nostro ambiente mediatico, intellettuale e delle ONG, aspramente competitivo, i cui attori fanno leva su un presunto status morale per pronunciarsi su argomenti sui quali sono profondamente ignoranti.
Poi, ci sono quelli che credono che il loro status individuale li autorizzi a farsi ascoltare, anche se non sanno nulla dell’argomento. La fama, o almeno la notorietà, dà il diritto di essere ascoltati. (Forse ricorderete la grottesca commedia dell’attore George Clooney che si è rivolto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per parlare del Darfur). Può anche essere possibile costringere gli altri a prendervi in considerazione perché rivendicate una sorta di autorità morale personale anche se, ancora una volta, non avete idea di cosa state parlando. E per alcune persone, sentirsi fortemente coinvolti in una questione diventa di per sé una qualifica, e nella nostra economia della disattenzione, purtroppo, coloro che gridano più forte spesso ottengono il pubblico più numeroso.
A dire il vero, i conflitti e le crisi non sono le uniche aree che attraggono esperti auto-selezionati: il cambiamento climatico e Covid sono altri esempi recenti. Ma il motivo per cui il WSC è così grande e poroso da permettere a quasi tutti di entrarvi, è che le crisi, e soprattutto i conflitti, sono di natura complessa, sono drammatici ed eccitanti e sollevano questioni morali e politiche in modo molto crudo. Spesso sono coinvolti molti soldi e ci sono così tanti possibili punti di ingresso – legali, etici, strategici, culturali, economici – che alla fine c’è spazio per tutti.
Avrete notato, naturalmente, che tutti gli attori che ho elencato sono occidentali e che gran parte del discorso della WSC consiste, come ci si aspetterebbe, in una competizione spesso brutale tra gruppi d’interesse per imporre la propria interpretazione di una situazione, nel perseguimento del proprio modello di business. Dopotutto, di cosa si è occupata la guerra civile nello Yemen? A seconda della persona con cui si parla, è una crisi politica, una guerra civile, una crisi umanitaria, una crisi dei diritti umani, una crisi ambientale, una crisi interna nord-sud, un risultato della rivalità saudita-iraniana, in qualche modo colpa dell’Occidente e molte altre cose. Probabilmente sono tutte queste cose in qualche misura, ma dobbiamo ricordare, ancora una volta, che si tratta di interpretazioni imposte dall’esterno, le armi di una lotta fratricida all’interno del CMS per controllare il discorso, influenzare la politica e, alla fine, accedere ai finanziamenti.
Ovviamente non è possibile o auspicabile impedire alle persone di esprimere le proprie opinioni al mondo su questioni importanti, anche se queste opinioni sono prive di valore. Ma, come in altri settori, il male scaccia il bene, e questo è un problema più grave quando sono in gioco delle vite che non quando, ad esempio, si tratta di musica. Non si può limitare il commento a esperti di spessore (non che siano tutti d’accordo, comunque), ma probabilmente è giusto dire che con le barriere all’ingresso per commentare pubblicamente i principali eventi mondiali più basse che mai, e con lo stock di competenze autentiche non più grande che mai, beh, la qualità è destinata a scendere.
Tuttavia, mi sembra che se stiamo decidendo se spendere o meno una parte dei nostri neuroni rimanenti per leggere un altro articolo su, ad esempio, la Cina, il G20, i BRICS o Taiwan, allora è ragionevole chiedere che chi scrive abbia almeno una conoscenza limitata di ciò di cui sta parlando. Leggendo fino alla fine una diatriba anti-occidentale di tremila parole che tratta tutti questi punti con grande veemenza e un linguaggio intemperante, sarebbe deludente scoprire che, ad esempio, l’autore è “un musicista e attivista politico con sede in Australia e vice-convocatore del Wollongong Green Party” o qualcosa di simile. So che viviamo in un mondo post-verità, post-autorità, non gerarchico, dove la verità è qualsiasi cosa si voglia, ma ci sono dei limiti: una concezione sbagliata della “verità” può avere conseguenze terribili nel mondo reale.
Parte del problema del WSC è una sorta di variante dell’effetto Dunning-Kruger. Le persone che sanno molto su una cosa, e che hanno un pubblico fedele, possono iniziare a credere di poter scrivere di questioni correlate, poi di questioni meno correlate, infine di questioni che non sono affatto correlate. Ma poiché il loro pubblico li legge in gran parte per avere le proprie opinioni confermate da qualcuno con un’apparente autorità, questo sembra non avere importanza. Così, qualcuno che è abbastanza bravo (per esempio) sui meccanismi dell’organizzazione militare o sul funzionamento dei mercati valutari, improvvisamente appare come opinionista sulla recente ondata di colpi di stato nell’Africa occidentale francofona, avendo appena scoperto, forse, che la maggior parte della regione è francofona.
Questo è un buon esempio, in realtà, perché è possibile stabilire alcune semplici qualifiche pragmatiche per fare opinionismo in modo responsabile sull’argomento. Con questo non intendo lasciare un contributo su un sito di notizie o di commenti, ma afferrare davvero le persone per il bavero e affermare che capite la questione e che dovrebbero ascoltarvi. Ne elenchiamo alcuni.
In primo luogo, è ovvio che bisogna conoscere la storia degli Stati africani francofoni dopo l’indipendenza, e come e perché ciò è avvenuto nel modo in cui è avvenuto. Bisogna comprendere le origini del franco CFA e la sua svalutazione nel 1994, ad esempio, e i cambiamenti politici sismici avvenuti dopo la fine della guerra fredda e il discorso di Mitterrand a La Baule nel 1990, che incoraggiava i sistemi multipartitici e la conseguente instabilità e conflittualità. Dovete avere familiarità con la rapida disintegrazione della posizione francese in Africa, al punto che già nel 2005 il libro di Glaser e Smith Comment la France a perdu l’Afrique ne parlava come di un fatto assodato, e il successivo libro di Glaser, uscito nel 2014, AfricaFrance, sosteneva in modo persuasivo che la situazione era ormai cambiata e che erano i leader africani ad avere il sopravvento sugli inquilini dell’Eliseo.
Naturalmente, bisogna avere familiarità con la letteratura generale sullo Stato patrimoniale in Africa, che è ormai ben consolidata, con scrittori come William Reno o Jeffrey Herbst, che hanno originariamente mostrato come, con territori troppo grandi per essere controllati da Stati deboli, i leader africani istituiscano sistemi patrimoniali per accedere e distribuire le ricchezze provenienti dalle risorse naturali e dai governi stranieri per mantenersi al potere, impedendo al contempo lo sviluppo e la crescita economica e l’ascesa di una classe media urbana che potrebbe minacciare il loro monopolio sull’accesso ai meccanismi di arricchimento e quindi al potere. Quindi la politica, sia essa democratica o attraverso colpi di stato militari, è una lotta per il controllo dello Stato e delle sue capacità di ricerca di rendite, proprio come accadeva in alcune parti d’Europa nell’era pre-moderna. (Nel frattempo, scrittori come Christopher Clapham hanno spiegato per decenni come gli Stati e i governanti apparentemente deboli in Africa sopravvivano e prosperino in un sistema internazionale ostile. E naturalmente non guasterebbero nemmeno un francese fluente, un’esperienza recente sul campo e conversazioni con politici, studiosi e giornalisti locali.
Ricorda di aver letto, nell’ultimo mese o giù di lì, qualcosa sulla recente ondata di colpi di Stato che tradisca lontanamente questo livello di competenza? Non ricordo. In generale, gli “esperti strategici” che la settimana prima si erano occupati dell’Ucraina e quella prima ancora della Cina e di Taiwan, e che fino a quel momento non si erano resi conto che la Nigeria e il Niger erano due Paesi diversi, si sono precipitati sulla stampa, afferrando di sfuggita uno dei vari quadri concettuali onnicomprensivi venduti al supermercato del WSC. Per una parte si trattava di un complotto russo-cinese, probabilmente guidato dal gruppo Wagner, per l’altra di una rivoluzione anticoloniale e anti-occidentale. Nessuno pensava che valesse la pena di andare a scoprire cosa stesse accadendo. E praticamente tutti questi opinionisti erano occidentali e convinti che non ci fosse nulla di molto complicato o difficile da capire. Le diverse fazioni del WSC, spesso aspramente divise dal punto di vista ideologico, condividevano la convinzione di aver capito tutto del problema. È sorprendente che le poche voci africane che sono riuscite a farsi sentire, come Ken Opalo e Chima Okezue, abbiano offerto un’analisi nettamente diversa.
La natura amorfa e divisa del WSC rende ancora più difficile comprendere la portata della sua influenza. Non è tutta una cospirazione: l’Agenzia svedese per lo sviluppo, che sta lavorando su procedure di controllo dei veicoli sensibili alle differenze di genere, sarebbe estremamente offesa se le dicessero che fa parte di una gigantesca cospirazione con la CIA. In effetti, anche varie parti del governo degli Stati Uniti lavoreranno, come al solito, in modo incrociato tra loro. Ma l’influenza del WSC è così pervasiva (così come, naturalmente, l’influenza delle istituzioni economiche e sociali dominate dall’Occidente) che non credo sia esagerato dire che l’Africa di oggi, ad esempio, è sottoposta a una maggiore influenza occidentale in tutti i settori rispetto all’epoca coloniale. Dopotutto, a quei tempi il numero di amministratori coloniali era esiguo, nella maggior parte delle colonie il potere veniva esercitato indirettamente attraverso i capi locali, e lo zambiano o il burkinabé medio (all’epoca, ovviamente, non esistevano questi Paesi) potevano non aver mai visto un europeo in tutta la loro vita. Oggi sono ovunque, spesso giovani, spesso motivati, spesso intenzionati a fare del bene (questo vale anche per l’assistenza alla sicurezza), mentre la crescente urbanizzazione di molti Paesi africani fa sì che un numero molto maggiore di africani abbia contatti diretti con gli occidentali.
Questo sarebbe meno importante se in Africa, o anche in Medio Oriente, ci fossero più fonti indipendenti di comprensione e commento al di fuori del CMS e della sua influenza. Ma in entrambe le aree, un pensiero veramente indipendente e informato sulle questioni di sicurezza è molto raro, in parte perché gli argomenti sono considerati molto delicati e in parte per mancanza di risorse. Le istituzioni che esistono dipendono in ultima analisi da una fazione o dall’altra del CMS per i loro finanziamenti. Ad esempio, una prestigiosa istituzione africana che conoscevo bene ai tempi, pubblicizza i suoi principali finanziatori come “la Fondazione Hanns Seidel, l’Unione Europea, la Fondazione Open Society e i governi di Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia”. Questa fondazione, nel caso ve lo steste chiedendo, è una Stiftung, finanziata dal governo tedesco come modo per perseguire una politica estera a distanza.
Quindi, in una forma o nell’altra, le varie lobby in competizione all’interno del WSC siedono in cima alla concezione stessa di cosa sia la sicurezza. (Come dicevo agli studenti in Africa: Finché possiamo controllare i vostri cervelli, non abbiamo bisogno di controllare i vostri Paesi). E questo è ancora il caso, probabilmente più di allora. I modelli di pensiero e di discorso sulla sicurezza – quelli che Foucault chiamava notoriamente discorsi – sono stati dominati fin dagli anni Cinquanta dalle forze politiche e intellettuali in competizione tra loro che oggi costituiscono il complesso di sicurezza occidentale, anche tra coloro che si considerano aspramente anti-occidentali.
La forma più caratteristica di questo dominio è l’appropriazione di un intero soggetto della storia come se esistesse solo perché l’Occidente l’ha creato. L’ego strategico occidentale non può tollerare l’idea che ci siano stati sviluppi nella storia che non sono stati opera sua. Prendiamo ad esempio gli imperi. Gli imperi sono essenzialmente l’epitome dell’idea che la terra e le persone appartengono a un governante, o a una famiglia, piuttosto che costituire una nazione. Questo sistema era la norma in tutte le parti del mondo fino a tempi molto recenti, e gli imperi si espandevano e si contraevano in seguito a guerre, matrimoni e problemi dinastici. I trasporti marittimi hanno permesso a spagnoli, portoghesi e arabi di dominare territori molto lontani e, verso la fine del XIX secolo, le tecnologie della rivoluzione industriale hanno permesso a inglesi e francesi di espandere notevolmente i propri imperi e ai tedeschi di iniziare a copiarli. In effetti, gli imperi, almeno da Alessandro agli Ottomani, sono stati la principale forza strutturante della storia mondiale. Tuttavia, per la WSC, “impero” significa soprattutto l’impero britannico e francese dal 1880 al 1960 circa, in gran parte in Africa: il che è strano se si considera che probabilmente nessun singolo fattore spiega la recente serie di crisi nei Balcani, in Medio Oriente, nel Maghreb e nell’Africa occidentale più delle conseguenze della diffusione dell’Islam e dell’Impero Ottomano. Ma questa storia non riguarda noi, quindi non viene menzionata.
Lo stesso vale per la schiavitù, per la quale il WSC si fissa in modo monomaniacale sul coinvolgimento europeo nella tratta atlantica degli schiavi, come se la schiavitù non fosse stata endemica in Africa (e altrove) per eoni, e fosse continuata in Africa fino a quando l’ultima parte di essa non è stata portata sotto il dominio coloniale. Per non parlare del massiccio commercio di schiavi musulmani verso l’Oriente, o anche del commercio molto più piccolo, ma comunque rispettabile, di europei catturati e venduti come schiavi nell’Impero Ottomano. Per quanto disdicevole sia l’argomento e disgustose le conseguenze, sembra che l’ego strategico occidentale non possa accettare che una parte della storia non riguardi noi. Dopo il crollo della Libia nel 2011, molti occidentali si sono stupiti che la schiavitù sia ricominciata, seguendo le stesse rotte e verso alcune delle stesse destinazioni, come ai tempi dell’Impero Ottomano. Non ne sapevano nulla.
Tuttavia, sono le dottrine conflittuali della CMS che da decenni strutturano le istituzioni internazionali e, soprattutto, il modo di pensare alle questioni internazionali. Il fatto che esista ancora un Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla decolonizzazione, ad esempio, è un risultato diretto del dominio del pensiero occidentale sullo sviluppo del mondo postbellico. Si consideri che, almeno fino agli anni Venti, la maggior parte delle persone viveva in territori, piuttosto che in Paesi, sotto schemi mutevoli di controllo politico che spesso operavano in modo diverso a diversi livelli. Al livello più alto, il padrone fittizio poteva cambiare – dagli egiziani agli inglesi in Sudan, per esempio – con poca o nessuna differenza nella vita quotidiana. (Franz Kafka nacque come ebreo di lingua tedesca, suddito dell’Impero austriaco, in una regione di lingua ceca di quello che un tempo era stato il Regno di Boemia). L’idea che i gruppi etnici e linguistici debbano avere il controllo su strutture politiche sovrane, per quanto oggi sembri normale, è stata ampiamente praticata solo circa un secolo fa. I leader “indipendentisti” di quelle che allora erano colonie assorbirono questo pensiero politico europeo all’avanguardia, di solito attraverso l’educazione in Europa o nelle scuole missionarie. Erano le élite coloniali autoctone del loro tempo (come ce ne sono sempre state fin dai tempi dei Romani) che parlavano la lingua coloniale e ammiravano e volevano copiare il potere coloniale. (Come ha giustamente osservato Franz Fanon, ogni suddito coloniale desiderava segretamente essere bianco).
È in Africa che quella che Basil Davidson ha definito la “maledizione dello Stato-nazione” ha portato il maggior scompiglio. Sebbene il continente, con le sue scarse comunicazioni e la bassa densità di popolazione, così come la mancanza di frontiere naturali, le migliaia di lingue e le massicce variazioni culturali, fosse un’arena poco promettente per la rapida costruzione di Stati-nazione dall’alto verso il basso, e sebbene fossero state proposte molte alternative, dalle federazioni con le potenze coloniali alle entità politiche basate su strutture politiche tradizionali, i sostenitori del modello westfaliano di Stato-nazione hanno avuto la meglio, con conseguenze che si stanno ancora verificando. Da parte loro, le nazioni coloniali, stanche dell’onere finanziario e sempre più dubbiose sul valore delle colonie, non potevano immaginare altra struttura che lo Stato-nazione e incoraggiavano calorosamente questi progetti.
Ma questo era un discorso d’élite. Quando ero all’università, ricevevamo i manifesti della Federazione Internazionale degli Studenti (sic) con sede a Praga (sic) che ci invitavano a “sostenere il popolo angolano nella sua lotta per l’indipendenza”. Ma naturalmente per la maggior parte degli angolani “popolo” e “indipendenza” non erano altro che parole: L’Angola non era un Paese occupato, anzi non era nemmeno un Paese. Gran parte del movimento “indipendentista”, infatti, è meglio comprensibile come una ribellione dell’élite locale per sottrarre il controllo al potere esterno. L’FLN, ad esempio, aveva deciso di creare un Paese indipendente da chiamare Algeria, secondo gli ultimi modelli occidentali, ma con un’ideologia vagamente marxista-nazionalista, sotto il proprio controllo. (Naturalmente l’Algeria non è mai stata un Paese indipendente, ma una colonia da sempre: anche il nome deriva da Al-Jazira, “le isole”. Quella parte significativa della popolazione che cercò di rimanere neutrale o addirittura di appoggiare i francesi non lo fece per amore della potenza coloniale, ma per paura e antipatia verso le pratiche spietate e le ambizioni dell’FLN.
Ci troviamo quindi nella curiosa posizione in cui i problemi di tutto il mondo, creati dall’adozione di norme politiche occidentali, vengono ora analizzati… in base a queste stesse norme. Ci può essere un dibattito aspro e acrimonioso sull’Ucraina, per esempio, ma è in gran parte confinato all’interno del contenitore di idee che il WSC può comprendere, esse stesse ampiamente basate, ovviamente, sul moderno liberalismo occidentale. Uno dei motivi per cui questo non è così evidente come dovrebbe essere è che la CMS è profondamente e rumorosamente divisa al suo interno, come la Corte ottomana o il Papato rinascimentale, anche se, a differenza di loro, conduce le sue battaglie apertamente. Così, oggi leggiamo che gli Stati Uniti vogliono condizionare i futuri aiuti militari all’Ucraina, tra decine di altri obiettivi scollegati tra loro, ad eterni favoriti come i progressi nel “controllo civile democratico delle forze armate” e l'”agenda delle donne nella pace e nella sicurezza”, che gli stessi gruppi di interesse spingono da decenni in tutto il mondo. Come le fazioni di quei giorni, tuttavia, anche quelle del CMS perseguono fondamentalmente gli stessi obiettivi – potere, status e denaro – e condividono lo stesso quadro intellettuale generale. È vero, il gruppo di addestramento militare, il ricercatore dell’Università militare, il capo di una ONG per i diritti umani finanziata dall’estero, il gruppo di formazione sulla sensibilità di genere in visita, tutti finanziati dallo stesso governo, possono in prima istanza lavorare in contrasto l’uno con l’altro, riflettendo la competizione tra le diverse fazioni del governo nazionale per definire e controllare i problemi del Paese in questione. Ma condividono una serie di presupposti comuni sul mondo: Il nostro. Anche il giornalista investigativo che parla con il difensore dei diritti umani, che ha criticato pubblicamente le forze di sicurezza addestrate dai formatori e studiate dal ricercatore, e che è stato criticato per la mancanza di sensibilità di genere dalla ONG straniera, torna a casa per scrivere una storia che descrive il problema nel modo in cui lo intenderebbe il CMS: non necessariamente come lo descriverebbero i locali.
Il risultato è stato il progressivo trionfo del discorso del WSC, in tutta la sua complessità internamente incoerente. Il che va bene fino a quando il WSC non si imbatte in qualcosa che non può capire, ma che non può nemmeno ignorare. Dietro la confusione e la stupidità di molti commenti della CMS sull’Ucraina, anche da parte di “esperti militari” e “commentatori strategici”, c’è un ostinato rifiuto di accettare che nel mondo accadano cose che non rientrano nel suo quadro di riferimento. Fin dall’inizio, la guerra è stata interpretata in termini di ciò che la CMS capisce e di cui può parlare: un amalgama di Afghanistan, Iraq e Apocalypse Now. Alla fine il WSC non è in grado di immaginare un mondo che non riguardi loro. È impensabile che nel mondo ci siano guerre, rivoluzioni e cambi di governo in cui l’Occidente non sia l’attore principale, e in cui le cause locali e spesso radicate, che il CMS non può comprendere, siano i principali motori. L’ego collettivo del WSC non potrebbe sopportare a lungo una simile conoscenza: in ultima analisi, è meglio che la recente crisi politica in Pakistan o i colpi di stato in Africa occidentale siano il risultato di malvagie macchinazioni da parte dell’Occidente, piuttosto che siano in primo luogo eventi condotti dai locali per le loro ragioni, sfruttando l’Occidente lungo il percorso. Come un bambino che si comporta male per attirare l’attenzione, il WSC preferisce essere visto come il colpevole piuttosto che essere semplicemente ignorato, come sempre più spesso accade. Poverini: fanno quasi pena. Quasi.
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Negli ultimi dieci giorni Kiev ha fatto causa alla Polonia presso l’OMC, Zelensky ha suggerito che il vicino occidentale del suo Paese sta facendo gli interessi della Russia, Varsavia ha cercato di estradare un “eroe” ucraino dal Canada per sospetti crimini di guerra e la Polonia ha concluso che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. È sufficiente dire che lo sforzo cumulativo di tutto questo è che la percezione media dei polacchi nei confronti dell’Ucraina probabilmente peggiorerà proprio prima delle elezioni nazionali del 15 ottobre.
All’inizio della settimana, Rzeczpospolita ha riferito che gli investigatori polacchi hanno concluso che un missile di difesa aerea S-300 ucraino è responsabile dell’incidente di Przewodow dello scorso novembre, che ha causato la morte di due polacchi e che all’epoca Kiev ha falsamente attribuito alla Russia. Per un brevissimo momento c’è stata la possibilità che scoppiasse la Terza Guerra Mondiale, ma fortunatamente i funzionari polacchi e statunitensi hanno rapidamente smentito le affermazioni del regime. Zelensky ha ancora insistito sul fatto che il Cremlino ha attaccato il territorio della NATO, ma ora la Polonia sa che è stata Kiev.
La tempistica di questa rivelazione non è stata casuale, poiché segue il deterioramento delle relazioni polacco-ucraine da metà settembre. Varsavia ha mantenuto unilateralmente il divieto sulle importazioni agricole ucraine allo scadere dell’accordo temporaneo della Commissione europea della primavera scorsa, il che ha indotto Zelensky a suggerire, durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che la Polonia stesse facendo il gioco della Russia. La Polonia ha poi annunciato che non invierà armi moderne all’Ucraina e i suoi funzionari hanno condannato anche questo regime.
Sebbene abbiano anche riaffermato il loro sostegno al ruolo di Kiev nel condurre la guerra per procura della NATO contro la Russia, l’illusoria fiducia che fino ad allora aveva caratterizzato le loro relazioni bilaterali negli ultimi 19 mesi è andata indiscutibilmente in frantumi. Anche prima di questa rapida sequenza di eventi, il consigliere senior di Zelensky, Mikhail Podolyak, aveva previsto all’inizio di agosto che i legami tra i due sarebbero tornati alla loro natura storicamente competitiva alla fine del conflitto. Non sapeva che sarebbero tornati a quel punto solo sei settimane dopo.
Quest’ultimo sviluppo arriva sulla scia di un altro scandalo collegato alle loro relazioni, dopo che Zelensky ha applaudito con entusiasmo un nazista ucraino che è stato onorato come “eroe” venerdì scorso al Parlamento canadese. Ben presto si è scoperto che si era arruolato volontario in una divisione che ha genocidiato i polacchi, il che ha spinto il Ministro dell’Istruzione polacco a chiedere l’estradizione di questo probabile criminale di guerra. Considerando lo stato attuale delle relazioni polacco-ucraine, questa mossa rappresenta un ulteriore deterioramento dei loro legami.
Negli ultimi dieci giorni, Kiev ha fatto causa alla Polonia presso l’OMC, Zelensky ha suggerito che il vicino occidentale del suo Paese sta facendo gli interessi della Russia, Varsavia ha cercato di estradare un “eroe” ucraino dal Canada per sospetti crimini di guerra e la Polonia ha concluso che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. È sufficiente dire che lo sforzo cumulativo di tutto questo è che la percezione media dei polacchi nei confronti dell’Ucraina probabilmente peggiorerà proprio prima delle elezioni nazionali del 15 ottobre.
A proposito di queste ultime, il partito di governo “Diritto e Giustizia” (PiS) sta lottando per respingere le forti sfide dell’opposizione “Piattaforma Civica” (PO) e del partito anti-establishment Confederazione. Il partito ha quindi deciso di porre la sicurezza nazionale al centro della sua piattaforma elettorale, il che spiega perché la Polonia si stia finalmente schierando contro l’Ucraina. Le recenti osservazioni del ministro della Difesa Mariusz Blaszczak sulla disputa sul grano possono essere interpretate come l’attribuzione di una dimensione di sicurezza rilevante a questa questione agricola.
Questo approccio è funzionale agli interessi elettorali del PiS nei confronti dei due partiti precedentemente citati, in quanto mira a riaffermare le credenziali di sicurezza nazionale del partito in carica in risposta alle accuse di ipocrisia mosse da PO e a cercare di portare dalla sua parte alcuni dei sostenitori anti-ucraini della Confederazione. L’obiettivo finale è quello di rimanere davanti a PO e contenere l’ascesa della Confederazione, in modo che quest’ultima abbia meno influenza sul PiS nell’ipotesi in cui i due decidano di formare un governo di coalizione dopo le prossime elezioni.
Queste motivazioni elettorali e gli sviluppi associati costituiscono il contesto per comprendere correttamente la tempistica con cui la Polonia ha rivelato che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. Quest’ultima mossa ha lo scopo di infiammare al massimo il risentimento popolare contro il regime ucraino, ma soprattutto non contro il popolo ucraino, per aiutare il PiS a vincere la rielezione con il più ampio margine possibile.
Il partito al potere sa che probabilmente sarà impossibile contenere completamente questo sentimento nazionalista, ed è per questo che ci sono ragioni per sospettare che ci possano essere ulteriori motivi dietro la sua ultima coltivazione. È possibile che vogliano ottenere il sostegno popolare dopo le elezioni, a patto che vincano e indipendentemente dal fatto che debbano formare un governo di coalizione con la Confederazione, per perseguire i migliori termini commerciali e di investimento possibili con l’Ucraina.
A tal fine, potrebbero fare pressioni per ottenere questo risultato al posto della restituzione da parte dell’Ucraina in bancarotta per l’uccisione accidentale dei due polacchi lo scorso novembre, in assenza della quale il PiS potrebbe minacciare un’escalation della guerra commerciale in corso. L’asso nella manica della Polonia è il controllo di quasi tutti gli accessi di terzi al Paese attraverso le sue vie di comunicazione stradali e ferroviarie, che nessun altro Stato dell’UE è in grado di eguagliare in termini di qualità o quantità, il che porta a ipotizzare che possa ostacolare anche i legami commerciali e di investimento con l’Ucraina fino alla risoluzione della controversia.
Questo sarebbe rilevante soprattutto per quanto riguarda la Germania, che sta facendo un grande gioco di potere in Ucraina a spese della Polonia, come è stato spiegato in precedenza in questa analisi qui. Tenendo conto di questa nuova sfida geostrategica, la Polonia potrebbe prendere seriamente in considerazione questo scenario per tenere sotto controllo la Germania e allo stesso tempo garantire la sua prevista “sfera di influenza” nell’Ucraina occidentale. Il ruolo ufficialmente dimostrato di Kiev nell’incidente di Przewodow fornisce il pretesto perfetto per raggiungere questi due obiettivi.
Anche se il PiS evitasse di sfruttare questa opportunità per qualsiasi motivo, magari a causa delle pressioni americane nel caso in cui Washington si preoccupasse che la disputa polacco-ucraina andasse fuori controllo, il partito probabilmente otterrebbe comunque qualche punto politico grazie alla sua ultima rivelazione. Il fatto è che i polacchi medi ora sanno che il regime di Zelensky ha le mani sporche del sangue dei loro due compatrioti, nonostante le sue smentite, e difficilmente gli perdoneranno di aver cercato di insabbiare la cosa.
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Traduciamo e pubblichiamo questa approfondita analisi storica e strategica degli errori commessi dall’Occidente che hanno condotto alla guerra in Ucraina. Buona lettura. Roberto Buffagni
La guerra in Ucraina è in buona parte il risultato di gravi errori di calcolo strategico-storici e storico-strategici commessi dell’Occidente alla fine della Guerra Fredda. I primi errori, strategico-storici, sono implicati da una filosofia della storia escatologicamente progressista – progressista, cioè definita in termini puramente occidentali, non a caso conformi agli interessi dell’Occidente. Il secondo tipo di errori, quelli storico-strategici, derivano da una serie di ipotesi, generate dal primo tipo di errori, sul tipo di strategia di cui l’Occidente avrebbe avuto bisogno per assicurarsi di essere “dalla parte giusta della storia”. Nel contesto di questi errori di calcolo, l’Occidente ha anche commesso una serie di valutazioni errate sulla Russia, contribuendo a produrre il dilemma di sicurezza russo-occidentale che si sta riproducendo oggi nei campi, nei villaggi e nelle città dell’Ucraina.
GLI ERRORI DI CALCOLO STRATEGICO- STORICI DELL’OCCIDENTE
(1) L’errata filosofia della storia occidentale. Il primo errore storico-strategico successivo alla Guerra Fredda si radica nella filosofia della storia escatologica e occidentalocentrica dell’Occidente. Invece di vedere lo sviluppo della storia umana come circolare, l’Occidente lo vede lineare e progressivo. Il senso – radicato nell’escatologia cristiana dell’Anticristo, dell’apocalisse, della seconda venuta di Cristo, della salvezza dell’umanità e dell’avvento del Regno Celeste alla fine dei tempi – è che la Storia si dirige verso una particolare conclusione o esito. La storia, in questa visione, non è una serie di cicli ripetuti di ascesa e caduta, costruzione e distruzione, guerra e pace. Il punto finale della storia si sta decidendo in una lotta crepuscolare tra il bene e il male, in cui il primo vincerà. Non volendo essere perdenti in questa lotta, e non essendo meno incentrati su se stessi e orientati sui propri interessi degli altri, gli occidentali immaginano naturalmente una fine della Storia in cui il modello occidentale, essendo dalla parte giusta della Storia, alla fine trionferà. Le forze che si oppongono a questa conclusione della storia sono naturalmente “dalla parte sbagliata della Storia” e “malvagie”. Non ci può essere alcuna giustificazione per le loro azioni se violano le regole della “democrazia” nelle loro nazioni, e la legge dell’espansione della democrazia in tutto il mondo – la diffusione della “buona novella” e del Verbo dei valori democratici universali a livello globale, con l’arrivo dell’inevitabile, unica pace possibile: la pace democratica.
(2) La teleologia occidentale della fine della Storia nella pace democratica. Il secondo errore storico-strategico è stato quello di riempire il quadro storico-filosofico con contenuti che stabiliscono che non è tanto l’Occidente in sé a guidare la storia, ma i suoi elementi di civiltà: le libertà individuali, il governo repubblicano o, dove possibile, persino democratico, e le economie di libero mercato o il capitalismo. Francis Fukuyama in “La fine della storia e l’ultimo uomo” ha esposto questo argomento. Dopo la guerra fredda e il crollo dell’impero comunista sovietico, il repubblicanesimo capitalista era l’ultima ideologia o modello che restasse in piedi. Negli anni Quaranta, le “democrazie” occidentali (le democrazie sono poche, tutti gli Stati occidentali sono repubbliche) avevano apparentemente condotto la lotta per sconfiggere il fascismo in Germania, Italia, Giappone e, come spesso si dimentica, nell’Europa orientale. Hanno poi contenuto e superato l’altra ideologia che le sfidava, il comunismo, portandolo alla disillusione nei confronti di se stesso e provocando, in larga misura, alla sua dissoluzione. Ciò ha confermato l’escatologia dell’Occidente riguardo alla direzione e alla fine della Storia.
L’umanità era entrata nella fase finale della storia, che avrebbe portato a un mondo di Stati repubblicani, capitalisti e di libero mercato. Poiché, secondo la “teoria della pace democratica”, le repubbliche non si fanno guerra tra loro, il nuovo mondo di Stati repubblicani si sarebbe presto trasformato in un regno celeste di pace eterna e prosperità per tutti. L’eccitazione, in alcune comunità o sottoculture occidentali – ad esempio, nei circoli neocon – era palpabile. C’era una nuova energia ansiosa e un’impazienza intollerante verso qualsiasi resistenza oggettiva o soggettiva. Questa analisi teleologica lasciava da parte il bagaglio di centinaia di storie nazionali, di centinaia di memorie nazionali, di centinaia di culture nazionali, delle numerose religioni e civiltà che hanno generato e, di conseguenza, delle centinaia di questioni internazionali, interculturali e interconfessionali da risolvere. Inoltre, l’analisi aveva enormi implicazioni strategiche per il completamento della marcia del repubblicanesimo nel mondo.
GLI ERRORI STORICO- STRATEGICI DELL’OCCIDENTE
(1) Salvare la storia con la promozione della democrazia e l’espansione della NATO. L’origine religiosa della fede degli occidentali in una fine capitalista e repubblicana della storia non preclude necessariamente l’attività umana per accelerare lo sviluppo storico. Come alcune tradizioni cristiane ritengono che la purificazione dell’umanità e la grazia sulla terra possano contribuire ad avvicinare la salvezza finale, o come alcuni comunisti hanno revisionato il marxismo per giustificare la possibilità di un avvento del comunismo in Stati prevalentemente agricoli, soprattutto per mezzo di forze rivoluzionarie organizzate e guidate da un partito affiatato di rivoluzionari professionisti in grado di “telescopare” o contrarre il corso dello sviluppo storico tra la “fase democratica capitalista e borghese” e la rivoluzione socialista, così anche gli umanisti che credono nell’inevitabile avanzamento delle libere repubbliche in tutto il mondo si sforzano di accelerare l’avvento di una comunità globale repubblicana e della pace democratica. Ciò si è riflesso nella vasta espansione degli sforzi di promozione della democrazia dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, volti a spingere le società meno mature verso la transizione democratica. A volte, le famigerate rivoluzioni colorate sono state soltanto alimentate, piuttosto che direttamente organizzate, ma il risultato è stato lo stesso: l’incorporazione degli aspiranti, e di alcuni dei non aspiranti di ogni specifico Stato, nel sistema occidentale, al fine di liberarli e salvarli dalla guerra, dalla povertà e dall’autoritarismo. Alcuni, come i russi e i cinesi, erano costernati per la curiosa correlazione tra vicinanza politica e geografica degli “Stati obiettivo” dell’Occidente, da un lato, e i propri alleati e vicini, dall’altro. Due corollari di questo proselitismo sono stati l’espansione della Comunità Europea per espandere le economie dominate dal mercato nei mondi post-sovietici e post-comunisti e – cosa più sconcertante per Mosca e Pechino – l’espansione del blocco militare più potente della storia mondiale, la NATO. Quest’ultimo corollario espansionistico è stato venduto come l’allargamento di un’alleanza puramente difensiva, in perfetta sintonia con l’imminente pace democratica. I membri della NATO vivrebbero in una zona di sicurezza e in una comunità di democrazie, e gli altri desidererebbero, naturalmente, unirsi alla pace.
(2) Trasformare l’Ucraina da Stato cuscinetto a dilemma di sicurezza. La sconvolgente portata della tracotanza politica e dell’errore storico di questa strategia della NATO, in particolare nel momento in cui è diventata sempre più stridente ed egoistica, è stata visibile a tutti i più esperti pensatori strategici dell’Occidente: George Kennan, John Mearsheimer, Michael Mandelbaum, tra gli altri (e compreso il sottoscritto). Altri, come Zbigniew Brzezinski, hanno visto la luce sul letto di morte.
Questi uomini navigati e ragionevoli hanno notato e avvertito fin dall’inizio che una simile politica avrebbe spinto Mosca nelle braccia di Pechino, creando un baluardo di potenza strategico anti-occidentale. È in questo errore di calcolo, di gravità storica, che l’odierno conflitto ucraino trova la sua genesi, poiché la “politica della porta aperta” della NATO ha sollevato la questione della copertura totale del confine russo da parte dei membri dell’alleanza. Tentando di far entrare l’Ucraina nella NATO – ufficialmente dal vertice di Budapest del 2008, ufficiosamente quasi di certo dal 1991 – l’alleanza si è privata di uno Stato cuscinetto tra Russia e Occidente che avrebbe in gran parte prevenuto e precluso il conflitto con la Russia, soprattutto se una strategia di buffer-building invece che di alliance-building fosse stata applicata anche al Baltico, alla Bielorussia e alla Moldavia. Fin dall’inizio, l’espansione della NATO ha screditato la democrazia e gli occidentalisti russi, e ha resuscitato la tradizionale norma di vigilanza sulla sicurezza della Russia nei confronti dell’Occidente. I nuovi membri della NATO nutrivano forti rancori storici e animosità culturali e religiose nei confronti della Russia, e la Russia aveva una sensibilità storicamente radicata nei confronti dei suoi vicini occidentali, a causa di un modello secolare di interferenze politiche, sovversioni e interventi, animosità culturali e religiose, interventi militari e invasioni provenienti dall’Occidente, dall’Occidente e per l’Occidente.
L’Ucraina è stata una questione particolarmente problematica, visti gli elementi storici, culturali, religiosi ed etno-nazionali comuni tra Russia e Ucraina. Le identità nazionali ucraine e russe sono inestricabilmente intrecciate da esperienze storiche comuni e da legami politici, in parte comuni, in parte meno. Insistendo sul suo diritto di espandersi in Ucraina, la NATO ha trasformato il segno neutro sotto il quale esisteva l’Ucraina post-sovietica in un segno negativo per Mosca. Da potenziale Stato cuscinetto per l’Occidente (e per la Russia), l’Ucraina è diventata un oggetto del desiderio e di contesa tra l’Occidente e una Mosca già in uno stato di maggiore vigilanza a seguito di diverse ondate di espansione della NATO, anche ai confini con gli Stati baltici. In breve, l’Occidente ha sostituito un cuscinetto di sicurezza con un dilemma di sicurezza e un’alta probabilità di conflitto con la Russia.
Forse ancora più importante è il fatto che, a causa della storia spesso comune dei due Paesi, l’Ucraina era uno Stato diviso, diviso lungo linee etniche, linguistiche, identitarie, geografiche, storico-politiche e socioeconomiche. Gli sforzi della NATO per espandersi in Ucraina hanno aggravato le tensioni tra l’Ucraina occidentale e quella sud-orientale, dove queste divisioni erano pronte a esplodere, come un soldato che calpesta una mina. La rivolta di Maidan, sostenuta dall’Occidente, è stata la violenta scintilla che ha fatto esplodere questa polveriera.
(3) Ridimensionare la guerra convenzionale, mentre si spinge la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Allo stesso tempo, mentre l’ultima fase della presunzione storica di una pace democratica e altri fattori hanno contribuito a produrre un nuovo approccio “non convenzionale” alle dottrine militari e di sicurezza nazionale occidentali, il rivoluzionarismo cromatico dell’Occidente e l’espansionismo di NATO e UE hanno spinto la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Ma l’imminenza della pace democratica sembrava significare, almeno in Occidente, che il rischio di guerra era diminuito, e che le guerre convenzionali del tipo visto in Europa erano finite, così provando e anticipando l’avvento della pace democratica. Le vere grandi potenze erano ormai unanimi sulla superiorità dei sistemi politico-economici capitalistici e repubblicani; insieme avevano adottato i valori universali. Con una Russia indecisa, la debolezza post-Guerra Fredda, gli accordi di controllo degli armamenti dell’era della perestrojka, e la “politica assicurativa” dell’espansione della NATO erano garanzie affidabili che i timori di una minaccia russa all’Europa fossero limitati se non inesistenti. La guerra e le forze armate convenzionali potevano ancora emergere nel Terzo Mondo, ma per decenni non avrebbero rappresentato una minaccia, per le potenti macchine militari occidentali. Fuori dell’Occidente, la democrazia garantiva la pace con il Giappone e l’India, e la Cina era creduta in procinto di compiere una “transizione alla democrazia” di tipo sovietico, di cui Piazza Tienanmen era stata un presagio. Senza la minaccia di una guerra convenzionale di grandi dimensioni, le spese per la difesa e l’intelligence potevano essere ridotte, o almeno gli aumenti di bilancio potevano essere rallentati.
Nello stesso momento in cui i timori di una guerra convenzionale sono diminuiti, è emersa una nuova minaccia non convenzionale per la sicurezza, rappresentata dal terrorismo jihadista e dalle controinsurrezioni. La principale minaccia non convenzionale proveniva dal “Terzo Mondo”. Per questo motivo, una parte significativa delle spese per la difesa e l’intelligence è stata dirottata verso il “controterrorismo”, il nation-building e le esigenze di ingegneria sociale interna. Questo spostamento è stato particolarmente forte dopo il 2000, quando l’11 settembre ha scatenato la guerra contro il terrorismo jihadista, la guerriglia e l’insurrezione. Ma nel frattempo, le successive ondate di espansione della NATO e il conseguente ritorno all’autoritarismo più tradizionale della Russia e alla sua cultura di vigilanza sulla sicurezza stavano intensificando le tensioni con l’Occidente, facendo crescere le spese militari russe e aumentando la preoccupazione generale dello Stato riguardo alla percezione della crescita convenzionale dell’Occidente, dai Balcani al Caucaso, dalla Siria all’Ucraina, e alla necessità di una maggiore attenzione dello Stato e della società alla sicurezza nazionale. Dopo le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina a metà degli anni Duemila e la guerra ossetiana Georgia-Russia dell’agosto 2008, la Russia ha intrapreso un grande sforzo di riforma e modernizzazione militare.
GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELL’OCCIDENTE NEI CONFRONTI DELLA RUSSIA E IL NUOVO CALCOLO RUSSO
L’errore di lettura strategica dell’Occidente è stato forse ancora più evidente quando si è trattato di sviluppare le relazioni con la Russia post-sovietica. Errori storici e strategici hanno portato a un atteggiamento accondiscendente nei confronti della Russia, a una sottovalutazione dello status di grande potenza storicamente persistente della Russia, a una sopravvalutazione del permanere della debolezza russa post-sovietica, a una tendenza a ignorare gli interessi nazionali e il senso dell’onore della Russia, e a un completo fraintendimento della determinazione – della Russia, e non solo di Putin – a contrastare l’emergere di una minaccia militare ai suoi confini. Le grandi potenze non permettono questo tipo di dinamica, e la Russia è determinata a preservare il suo status di grande potenza per ragioni di storia, sicurezza, tradizione e onore. Numerosi studiosi occidentali hanno osservato che se l’Ucraina si unisse al campo occidentale e le facesse perdere il punto d’appoggio nel Mar Nero che le conferisce la flotta basata in Crimea, la Russia farebbe molta fatica a mantenere lo status di grande potenza.
Il già citato ritorno della cultura russa di vigilanza sulla sicurezza e il suo rifiuto della democratizzazione provocata dal rivoluzionarismo di promozione della democrazia e dalla militarizzazione della democrazia con l’espansione della NATO sono direttamente collegati anche all’ interpretazione occidentale completamente errata del crollo sovietico e della Russia post-sovietica in generale. L’Occidente ha interpretato erroneamente la caduta del regime comunista sovietico come una rivoluzione dal basso o come una “transizione democratica”. Non si trattava di nessuna delle due cose. Nel primo caso, le élite politiche sono state inclini a credere nel mito di una “rivoluzione popolare” dal basso, su ampia base sociale, perché questa era la teleologia politica dettata dal modello “fine della storia”. Nel frattempo, gli accademici inserirono il caso russo nella teoria popolare all’epoca: la teoria della transizione. In realtà, la trasformazione del regime sovietico/russo fu principalmente una rivoluzione dall’alto, con elementi secondari di una nascente rivoluzione dal basso e di “patti di transizione” o negoziati tra regime e opposizione verso una trasformazione democratica, ma questi ultimi elementi furono abortiti quasi immediatamente dopo il fallito colpo di Stato dell’agosto 1991 (cfr. Gordon M. Hahn, Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition, and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction Publishers, 2002, Routledge, 2017).
Ciò significa che, piuttosto che un’ampia massa di rivoluzionari repubblicani che insorgono per cambiare il regime e prendere il potere, come in una rivoluzione dal basso, o a condividere il potere e rimanere politicamente vigili dopo una transizione negoziata dall’ancien regime, la rivoluzione è stata guidata dall’alto, all’interno dello Stato, da attori del Partito-Stato che avevano un’adesione limitata, se non addirittura una limitata comprensione, di che cosa siano governo repubblicano ed economia di mercato. Questi attori hanno dominato la leadership e l’apparato statale nella “nuova” Russia dopo il 1991. Il fatto che una parte della leadership e della burocrazia russa e una parte della società avessero un’adesione al modello repubblicano-capitalista rendeva possibile una trasformazione completa verso il regime repubblicano di mercato, che però restava un compito estremamente difficile. Ma poiché l’Occidente presupponeva che la rivoluzione avesse una base sociale più ampia di quanto fosse in realtà, non sentiva l’urgenza di fornire alla Russia un’assistenza economica che allora era, invece, assolutamente critica. L’assistenza arrivò, ma troppo poco e troppo tardi. Peggio ancora, l’Occidente iniziò a discutere e poi ad attuare l’espansione della NATO, delegittimando le forze filo-occidentali, filo-repubblicane e filo-libero mercato. La rivoluzione filo-repubblicana russa dall’alto è stata quindi messa a dura prova, con le rivoluzioni colorate e le successive ondate di espansione della NATO e dell’UE in arrivo (Hahn, Russia’s Revolution from Above, capitolo 11). All’inizio degli anni Duemila, quindi, la rivoluzione filorepubblicana russa dall’alto era morta.
Gli occidentali erano consapevoli, anche se forse sottovalutavano, il fatto che la rivoluzione era zavorrata dal complesso e sfaccettato fardello dell’eredità comunista sovietica: una politica totalitaria, un’economia ipercentralizzata e un’ideologia, una cultura e una politica anti-occidentali, anti-capitaliste e anti-libertarie. Ma non hanno visto arrivare la rinascita del passato tradizionalista pre-sovietico della Russia, tuttora utilizzabile. Questo sviluppo è stato il risultato diretto delle tensioni a cui l’espansione della NATO sottopose la debole base sociale e democratica della rivoluzione russa dall’alto. Con l’affievolirsi dell’influenza dei repubblicani russi, l’élite politica e intellettuale russa ha iniziato a cercare un nuovo percorso nel passato del Paese. La cultura, il pensiero, la storia e la politica russa pre-sovietica erano l’ovvia alternativa a una revanche comunista in risposta all’invasione occidentale annunciata dall’espansione della NATO e dell’UE. Nel Rinascimento religioso russo e nell’Età d’Argento durante il crepuscolo imperiale alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, la cultura e i discorsi russi riflettevano non solo le idee che alimentarono l’ondata rivoluzionaria e la presa del potere comunista: comunismo proletario, socialismo agrario, utopismo rivoluzionario e internazionalismo comunista. Altrettanto influenti furono le idee dell’universalismo e del comunitarismo ortodosso, del messianismo russo, dell’anarchia slavofila e del “comunitarismo” agrario, del panslavismo, del liberalismo cristiano, del liberalismo occidentale, del sentimento antiborghese: in sintesi, varie forme di conservatorismo non occidentale e/o utopico. La politica, sotto l’autocrazia della Russia imperiale, era autoritaria, ma liberale per gli standard sovietici, e concedeva, occasionalmente, ulteriori liberalizzazioni. Per gli standard odierni costituisce un autoritarismo temperato, a volte morbido a volte meno, ma non era totalitaria, e quindi risponde al desiderio dei russi di libertà significative rispetto dell’esperienza sovietica. Allo stesso tempo, coincide con la sfiducia dei russi nei confronti dell’Occidente e con lo status di grande potenza del loro Paese.
Con il discredito del comunismo e del socialismo alla fine dell’era sovietica e quello del capitalismo e del repubblicanesimo nella depressione dei selvaggi anni ’90, sono stati questi conservatorismi russi pre-sovietici a emergere dal sedimento della memoria nazionale, scoperto dopo la liberalizzazione della perestrojka di Mikhail Gorbaciov e la debole democrazia di Boris Eltsin, che però ha permesso un discorso pubblico molto libero sul passato, il presente e il futuro della Russia. L’autoritarismo morbido con un notevole sostegno popolare e il ritorno dell’anticapitalismo o almeno dei sentimenti antiborghesi, l’universalismo e il comunitarismo russo ortodosso, il neo-eurasismo semi-universalista, il nazionalismo russo di Stato (non etnico) e la preferenza per la solidarietà nazionale rispetto al pluralismo politico sono tornati alla ribalta nella cultura russa – politica, economica e strategica. L’alternativa russa tradizionalista non è stata capita, perché l’Occidente l’ha ignorata o non l’ha mai presa sul serio. Dopotutto, la fine della storia prevista dai pensatori occidentali anticipava un futuro che si allontanava da queste tradizioni.
Inoltre, la recente rinascita russa ha visto il ritorno di una visione semi-messianica, neo-eurasiana, in cui la Russia è vista come una forza principale, se non la principale, in una grande alternativa eurasiatico-centrica all’Occidente, in cui Russia e Cina dovrebbero radunare il “Resto” contro l’Occidente, allo scopo di: difendere la religione contro il secolarismo; i valori tradizionali della famiglia contro il femminismo radicale, il genderismo, il transgenderismo e il transumanesimo; il comunitarismo contro l’individualismo, e il nazionalismo e la civiltà contro il globalismo. Ogni civiltà, in questa visione, è libera di determinare il tipo di sistema politico ed economico in cui vivere. Così, l’India e varie democrazie africane e latinoamericane si stanno integrando con diverse organizzazioni internazionali dell’alternativa sino-russa, dai BRICS all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, all’Unione Economica Eurasiatica e alla One Belt One Road. Il nuovo messianismo russo emergente – che ha anche radici nell’escatologia e nella teleologia di ispirazione cristiana – ritiene che la Santa Russia abbia una missione speciale, negli affari mondiali. Tale missione, al momento, si limita a quella incarnata dalla strategia neo-eurasianista, attualmente parte del partenariato sino-russo previsto da Mosca.
In termini di affari militari e di sicurezza, la Russia sta ancora una volta andando per la sua strada. Nonostante le guerre cecene e l’ascesa dell’Emirato del Caucaso, entrambi legati ad Al Qa`ida e poi all’ISIS, i russi non hanno mai ricevuto il promemoria sull’abbandono della guerra convenzionale, e di certo non l’hanno ricevuto i militari russi. Certo, nei depressi anni ’90 i leader civili russi sono stati costretti a tagliare i bilanci della difesa, e il jihadismo nel Caucaso ha richiesto di dirottare gli scarsi finanziamenti verso l’antiterrorismo e la contro-insurrezione. Ma questo è avvenuto solo ai margini e per necessità, a differenza che in Occidente, dove le nuove dottrine sono state accolte con entusiasmo e si sono radicate nella sua peculiare filosofia della fine della storia.
CONCLUSIONE
Tornando al 2022, vediamo che l’Occidente ha condotto, anzi trascinato l’Ucraina in una catastrofe. Con l’adesione alla NATO e all’Occidente in senso lato che le è stata prospettata per due decenni, Washington e Bruxelles hanno impegnato l’Ucraina nel tipo di ingegneria sociale che oggi spesso infligge alle proprie popolazioni, ma su una scala molto più grande. I governi sono stati rovesciati, la politica e l’economia sono state ridisegnate, l’ultranazionalismo, il neofascismo e, cosa più pericolosa, l’antirussismo sono stati non solo tollerati, ma per molti versi incoraggiati dall’Occidente in Ucraina. L’Occidente ha creato in provetta una “anti-Russia”, secondo la terminologia di Putin, ai confini della Russia, mentre ha alimentato i timori per la sicurezza in Russia soprattutto attraverso un’espansione della NATO che per l’Ucraina è rimasta temporaneamente in sospeso, ma che è risultata fin troppo reale per la Russia, con la sua memoria storica di otto secoli di interferenze, interventi e invasioni occidentali. La Russia non ha mai effettuato una transizione su larga scala da un’economia manifatturiera a una virtuale come quella occidentale. Questo, e il fatto che la Russia abbia conservato il know-how e la capacità bellica convenzionale si manifesta nella guerra provocata dal messianismo repubblicano e dalla teleologia storica dell’Occidente.
I numerosi errori di calcolo dell’Occidente hanno spinto l’orso russo nell’abbraccio del panda cinese. Gran parte del Resto del mondo è pronta ad abbracciare l’orso in risposta all’egemonia occidentale, alle rivoluzioni colorate, all’espansione della NATO ora anche in Asia, alle richieste dell’Occidente di sanzioni per la guerra in Ucraina, alle pesanti pressioni di FMI e Banca Mondiale. In Ucraina, il nuovo messianismo conservatore neo-eurasiatico della Russia sta cercando di proteggere le sue retrovie in Occidente, mentre si rivolge verso est. Nella sua arroganza, l’Occidente non solo ha “perso la Russia”, ma sta per perdere anche l’Ucraina e forse molto altro. I suoi calcoli sbagliati hanno creato un nuovo mondo, ma non l’utopia repubblicana del mercato che aveva immaginato profilarsi all’orizzonte tre decenni fa. Trascurando la permanenza del conflitto nella Storia, l’Occidente ha fatto rivivere sia il conflitto che la Storia, e lo ha fatto in modi che potrebbe rimpiangere.
[1] Gordon M. Hahn, Ph.D., è un analista esperto di Corr Analytics, www.canalyt.com .
Il dottor Hahn è l’autore del nuovo libro: Russian Tselostnost’: Wholeness in Russian Thought, Culture, History, and Politics (Europe Books, 2022). È autore di cinque libri precedenti: The Russian Dilemma: Security, Vigilance, and Relations with the West from Ivan III to Putin (McFarland, 2021); Ukraine Over the Edge: Russia, the West, and the New Cold War (McFarland, 2018); The Caucasus Emirate Mujahedin: Global Jihadism in Russia’s North Caucasus and Beyond (McFarland, 2014), Russia’s Islamic Threat (Yale University Press, 2007) e Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction, 2002).
Inoltre, il dottor Hahn ha pubblicato numerosi rapporti di think tank, articoli accademici, analisi e commenti su media in lingua inglese e russa. Ha insegnato presso le università: Boston, American, Stanford, San Jose State e San Francisco State e come borsista Fulbright presso l’Università statale di San Pietroburgo, in Russia. È stato inoltre senior associate e visiting fellow presso il Center for Strategic and International Studies, il Kennan Institute di Washington DC e la Hoover Institution.
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Se le dichiarazioni del Presidente Macron sulla “sovranità” (sovranità europea, cioè) sono un dato di fatto, il concetto di autonomia strategica, sostenuto da Parigi per decenni, sta conquistando cuori e menti. Meglio ancora: “la battaglia ideologica è stata vinta”, si vanta. Ma qual è la realtà?
Un contesto contraddittorio
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Il capo di Stato ha approfittato della sua visita in Cina lo scorso aprile per gettare una nuova chiave di volta nella mischia internazionale (cfr. “Macron esorta gli europei a non considerarsi “seguaci” degli Stati Uniti”, Politico.eu, 9 aprile 2023). I suoi commenti, secondo i quali l’Europa nel suo complesso dovrebbe prendere le distanze dall’alleato americano, non erano rivolti esclusivamente alla situazione con la Cina e Taiwan. L’obiettivo era quello di dare un tono a una serie di colloqui cruciali in Europa. A seguito degli sviluppi globali degli ultimi anni, le idee francesi sull’autonomia europea stanno guadagnando terreno… nella retorica. In questo caso, Emmanuel Macron sta usando la situazione nell’Indo-Pacifico per ribadire il concetto: “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci”. Le sue dichiarazioni arrivano in un momento di intensi negoziati europei su questioni decisive dal punto di vista dell’autonomia. Essi contrappongono la Francia, spesso sola, a una maggioranza guidata dal gruppo polacco-baltico-nordico.
Per Parigi, questa o quella crisi esterna non deve rimettere in discussione il lavoro a lungo termine della diplomazia francese, che si spera stia per trionfare. Emmanuel Macron teme che “nel momento in cui sta chiarendo la sua posizione strategica”, l’Europa sia “presa da uno sconvolgimento del mondo e da crisi”. Potrebbe trattarsi dell’Ucraina o della Cina. Per quanto riguarda il chiarimento delle posizioni sull’autonomia strategica, i due campi hanno valutazioni diametralmente opposte della situazione. Da un lato, gli shock degli ultimi anni – la presidenza Trump, il perseguimento dell’approccio “America first” da parte dell’amministrazione Biden, la pandemia e la guerra in Ucraina – hanno evidenziato la necessità di evitare dipendenze e vulnerabilità. D’altra parte, in risposta alla guerra in Ucraina, l’Europa sta “facendo la NATO”. Per usare il termine coniato da Nicole Gnesotto, ex direttore dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza dell’UE, stiamo vivendo un “momento atlantico”.
Il progresso e i suoi limiti
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In linea con la prima caratteristica della situazione attuale, ossia la crescente consapevolezza della posta in gioco geopolitica, questioni finora vietate o bloccate nell’UE vengono messe all’ordine del giorno e affrontate – rispetto al normale ritmo delle istituzioni europee – con una rapidità senza precedenti. Semiconduttori, supercomputer, materie prime, fisica quantistica, acquisti congiunti di armi: tutto è sul tavolo e per una volta non ci sono tabù. Secondo Emmanuel Macron: “Da un punto di vista dottrinale, giuridico e politico, credo che non ci sia mai stata una tale accelerazione del potere europeo”. Forse è un’affermazione un po’ affrettata.
Da un lato, perché stiamo assistendo agli stessi vecchi blocchi in una veste diversa. Gli Stati membri che finora hanno rifiutato l’idea dell’autonomia cercano ora di snaturarla, inserendovi delle qualifiche. Si parla di autonomia “aperta”, che consentirebbe l’accesso a progetti e fondi europei a Paesi terzi, in particolare agli alleati della NATO non appartenenti all’UE. D’altra parte, c’è il rischio che questo grande slancio si trasformi in una corsa a perdifiato. Anche a causa delle richieste di generalizzazione del voto a maggioranza qualificata, con il pretesto dell’efficienza. Questo nonostante il mantenimento della regola dell’unanimità nei settori strategici sia l’unica salvaguardia rimasta per coloro che, spesso solo in Francia, si oppongono alla rinuncia all’autonomia. Senza questa regola, la maggioranza bloccherebbe l’intera Europa in una posizione di dipendenza, prima dall’America e poi da qualsiasi altra potenza in futuro.
Punti di forza e contro-forza
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Per quanto riguarda la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, che non è diminuita di una virgola dalla fine della Guerra Fredda, Charles Kupchan (direttore degli Affari europei presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto i presidenti Clinton e Obama) osserva: “Il controllo della sicurezza è il fattore decisivo per determinare chi è al posto di guida”. L’autore principale della Strategia di Difesa Nazionale degli Stati Uniti del 2018 è ancora più schietto. Per Elbridge Colby: “La sicurezza fisica è la chiave di volta di tutti i valori e gli interessi; senza di essa, la libertà e la prosperità non possono essere godute e possono persino essere perse del tutto”. Naturalmente, continua, “il potere duro non è l’unica forma di potere, ma è quella dominante”. Non è un caso che, mentre gli sforzi dell’UE mirano a “un certo grado” di autonomia nei blocchi tecnologici civili, Washington rimanga concentrata a tenere sotto controllo la dimensione militare di tale autonomia.
L’America sta consolidando il suo predominio in materia di sicurezza: la guerra in Ucraina ha confermato il suo ruolo di protettore finale, attraverso l’articolo 5, e ha rafforzato la sua posizione di “prima potenza europea”. Almeno per il momento, e con molte incertezze a medio e lungo termine. Le questioni relative agli armamenti stanno diventando più cruciali che mai: questo è sempre stato il settore in cui si gioca concretamente il rapporto di dipendenza asimmetrica tra gli Stati Uniti e gli alleati europei. Con il moltiplicarsi delle iniziative e dei finanziamenti dell’UE, la spinosa questione dell’accesso di terzi (nota come “criteri di ammissibilità”) si fa sempre più acuta. I fondi erogati rimarranno all’interno dell’Unione, per rafforzare il suo DTIB autonomo, o, al contrario, saranno utilizzati per acquistare dall’estero, anche se questo significa aumentare la dipendenza e la vulnerabilità? Purtroppo, per rimanere nelle grazie di Washington, la stragrande maggioranza dei Paesi europei preferisce tradizionalmente la seconda opzione.
(*) Hajnalka Vincze, Senior Fellow au Foreign Policy Reserach Institute (FPRI) de Philadelphie, est une analyste indépendante spécialisée dans la politique européenne et les relations transatlantiques. Ses écrits sont publiés en Europe et aux Etats-Unis. En France elle contribue régulièrement au magazine DefTech, ainsi qu’aux revues Défense & Stratégie et Engagement.
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La grande “rovina” cosacca, che come le stesse eredità cosacche è stata fatta propria dagli ucraini moderni per il fatto di essere avvenuta nelle terre cosacche, fu un periodo di guerra civile, anarchia, caos e devastazione alimentato dagli interventi delle potenze straniere. Per molti versi, assomiglia alla “Smuta” o Tempo dei Problemi della Russia di sette-otto decenni prima, che combinava caos, conflitti interni e interventi stranieri, soprattutto polacchi. La grande “rovina ucraina” o cosacca del XVII secolo, che durò dalla morte dell’hetman cosacco Bodgan Khmelnitskiy nel 1657 fino all’ascesa del successivo grande hetman, Ivan Mazepa, nel 1687. Khmelnitskiy portò i cosacchi dominanti di Zaporozhian a firmare il Trattato di Pereslavl del 1654, che portò molte terre cosacche sotto la sovranità russa. Ma il caos e la distruzione vennero cuciti attraverso macchinazioni politiche, violenti raid e attacchi su larga scala da parte della Polonia-Lituania, dell’Impero Ottomano e del Khanato dei Tartari di Crimea, occasionalmente sostenuti dalla Svezia per contestare la sovranità russa e cosacca. In particolare, la guerra polacco-russa (1654-1667), scatenata dal trattato di Pereslavl, generò gran parte dei conflitti e delle dislocazioni della Rovina. Altre guerre infuriarono in quella che oggi è l’Ucraina: la guerra ucraino-polacca (1666-1671), la guerra ucraino-moscovita (1665-1676) e la guerra polacco-turca (1672-1676), con vari gruppi cosacchi che si univano e cambiavano spesso schieramento.
Allo stesso tempo, la protezione e la presenza della Russia, combinata con la pressione di altri “Altri“, in particolare gli odiati polacchi, formarono un contraltare con il quale un’identità cosacca iniziò a consolidarsi in una più ampia fascia della popolazione su entrambe le sponde del Dniepr. Il tentativo russo di sottomettere e organizzare i cosacchi, che avevano dichiarato la loro fedeltà allo zar, violò le tradizioni cosacche di decentramento, libertà anarchica, mancanza di uno Stato di diritto, con conseguenti conflitti interni e violenza. Il malcontento e i disaccordi interni sul dominio russo alimentarono ulteriori conflitti tra coloro che lo sostenevano e coloro che vi si opponevano. Ulteriori tensioni interne furono alimentate dal conflitto tra i nobili non cattolici e la classe ufficiale cosacca o “starshina” per le nuove terre senza proprietari confiscate alla Polonia, che costituivano circa il 50% del territorio cosacco. La lotta per queste terre divideva i contadini poveri dai cosacchi ricchi e possidenti.
Ma la cosa più inquietante fu la lotta tra Russia e Polonia per il controllo dei territori cosacchi, con la Polonia che lottava per controllare la riva “destra” o occidentale dell’Ucraina e la Russia che di solito controllava la riva “sinistra” o orientale. Ciò costrinse hetmen, starshina e “società” cosacche a dividersi tra queste e altre forze esterne, portando a lotte di potere interne, a continui spostamenti di fedeltà che misero cosacchi contro cosacchi e cosacchi contro elementi esterni. Le conseguenze della “rovina” comportarono: la divisione delle terre cosacche (ucraine) tra Russia, Polonia-Lituania e Turchia ottomana, la riva destra controllata dai polacchi, la perdita da parte dell’Ucraina di più della metà dei suoi abitanti, molti dei quali si trasferirono sulla riva sinistra controllata dalla Russia, e la devastazione di massa degli insediamenti cosacchi. Solo alla fine del regno di Caterina la Grande, quando i cosacchi della riva sinistra persero la limitata autonomia di cui avevano goduto con il Trattato di Pereslavl, l’intera riva sinistra del territorio cosacco e gran parte delle terre della riva destra furono stabilizzate e integrate nel sistema imperiale russo.
In definitiva, la grande “rovina” del XVII secolo potrebbe benissimo impallidire, in termini di significato, di fronte all’attuale periodo di difficoltà che l’Ucraina ha iniziato a vivere sotto l’Operazione Militare Speciale russa. L’Ucraina, naturalmente, non è il primo Paese in questa parte del mondo a cadere vittima dell’apparentemente eterna contesa tra Russia e Occidente. Quando l’abilità nel governare fallisce da una o da entrambe le parti della cortina di ferro che divide Est e Ovest, i piccoli Paesi situati a cavallo tra Est e Ovest subiscono le conseguenze più perniciose. È il caso dell’odierna espansione della NATO in tutta l’Europa orientale fino ai confini della Russia e della risposta militare russa che ne è conseguita. Nessun Paese nell’era post-Guerra Fredda ha vissuto una catastrofe simile a quella che si sta verificando in Ucraina con la sua seconda “rovina”.
Per quanto riguarda il bilancio umano dell’escalation della guerra, possiamo ipotizzare almeno 120.000 morti e 220.000 feriti da parte ucraina. Questa stima è forse bassa. La maggior parte delle stime occidentali indicano un numero troppo basso di perdite ucraine e un numero troppo alto di vittime russe. Le stime occidentali e ucraine sulle perdite ucraine sono così assurdamente basse che non vale nemmeno la pena di citarle. D’altra parte, una fonte in grado di valutare le immagini satellitari dei cimiteri in almeno sette regioni dell’Ucraina e l’aumento delle loro dimensioni giunge a stimare 350.000-400.000 vittime di soldati ucraini. Inoltre, poiché in via generale il rapporto tra morti e feriti in ogni guerra è solitamente di 1 a 5 o di 1 a 7, una stima ragionevole del totale delle vittime (cioè tra morti e feriti) da parte ucraina è di circa 2 milioni. Tuttavia, a queste conclusioni si perviene utilizzando dei mezzi di calcolo piuttosto approssimativi. Ad esempio, la popolazione delle regioni occidentali dell’Ucraina è stata coinvolta in misura molto minore nella composizione degli equipaggi dell’esercito e dunque giustapporre lo stesso numero di nuove tombe realizzate nelle zone orientali del Paese ed utilizzarlo anche per i cimiteri della parte occidentale è fuorviante. E allora, volendo ridurre questa stima a 200.000 morti (piuttosto che a 350.000-400.000) e ipotizzando un rapporto tra morti e feriti di 1 a 3, talvolta ritenuto appropriato, potremmo stimare le perdite delle forze ucraine a 800.000 (https://telegra.ph/INTEL-EXCLUSIVE-08-02). Questo è il tetto-limite più elevato di quello che ritengo essere una possibile stima del numero di ucraini uccisi e feriti (se escludiamo dal computo le vittime ucraine tra i civili di entrambe le parti e tra coloro che combattono dalla parte dei separatisti). Tuttavia, se si leggono le stime del Ministero della Difesa russo sulle perdite ucraine giornaliere, si noterà che esse ammontavano a una media approssimativa di circa 600 al giorno fino alla controffensiva di quest’estate ovvero ai primi 15 mesi di guerra. Ciò significa un numero di 18.000 vittime al mese per i 15 mesi precedenti la controffensiva di quest’estate, per un totale, da febbraio 2022 a maggio 2023, di 270.000 soldati ucraini uccisi e feriti. Le cifre per la controffensiva di quest’estate sono state circa il 20% più alte, con il Ministero della Difesa russo che ha stimato circa 66.000 vittime da giugno ad agosto. Ciò significa un totale di circa 336.000 militari ucraini uccisi e feriti, secondo le fonti ufficiali russe. Tuttavia, sarebbe ragionevole sospettare che le cifre russe siano “ottimistiche”, sovrastimate e quindi elevate. Pertanto, proporrei una stima approssimativa di circa 300.000 vittime tra le forze ucraine tra il 24 febbraio 2022 e il 31 agosto 2023. D’altra parte, anche le fonti ucraine riferiscono di perdite impressionanti, suggerendo un quadro più cupo di quello che ho appena dipinto. Ad esempio, la stampa ucraina riferisce che forse l’80-90% delle forze di terra reclutate nell’autunno del 2022 sono già state perse (https://strana.news/news/445536-itohi-571-dnja-vojny-v-ukraine.html). In breve, potremmo verosimilmente avere avuto a tutt’oggi già mezzo milione di vittime militari ucraine.
Inoltre, in Ucraina ci sono state, molto approssimativamente, circa 50.000 vittime civili. L’organismo OHCHR delle Nazioni Unite ha registrato, dal 24 febbraio 2022 al 27 agosto 2023, 26.717 vittime civili nel Paese, di cui 9.511 morti e 17.206 feriti. Quasi un quarto di queste vittime si è registrato nel territorio controllato dalla Russia. L’OHCHR delle Nazioni Unite rileva, tuttavia, che il numero effettivo di vittime è probabilmente molto più alto (www.ohchr.org/en/news/2023/08/ukraine-civilian-casualty-update-28-august-2023). Questo porta la stima complessiva delle vittime ucraine a circa 350.000 al 1° settembre 2023. Non escludo che possano essere sostanzialmente più alte, ma se i russi riportano le cifre che ho fornito qui, sembra improbabile che siano più alte del 50% o del 100%, ma nessuno potrebbe essere in grado di confermarlo con certezza.
Non ritengo plausibile che le cifre delle vittime ucraine per il periodo qui preso in considerazione possano essere significativamente inferiori a queste. Con l’accelerazione del numero delle perdite ucraine nel mese di settembre, possiamo prevedere che, se tutto il resto rimane approssimativamente come sta andando, l’Ucraina raggiungerà 1 milione di vittime entro il tardo autunno del 2024. Le mie stime, che sembreranno elevate a coloro che si basano su fonti ucraine e occidentali, sono ulteriormente rafforzate dalle notizie di agosto – in quella che probabilmente è la coda della controffensiva – secondo cui Kiev sta costruendo un nuovo cimitero militare che ospiterà altri 400.000 caduti di guerra (https://www.youtube.com/watch?v=bs8-2xAZto0&t=26s&ab_channel=MilitarySummary). Le dimensioni dei cimiteri già esistenti sono enormi e in crescita (https://www.youtube.com/watch?v=6owz8zD6fHs&ab_channel=%D0%90%D0%BB%D0%B5%D0%BA%D1%81%D0%9C%D0%BE%D1%82%D0%BE%D1%80%D0%BD%D1%8B%D0%B9%D0%A5%D0%B0%D1%80%D1%8C%D0%BA%D0%BE%D0%B2).
Le perdite russe saranno probabilmente circa un terzo di quelle ucraine.
Le vittime della guerra sono determinate da un ciclo di escalation alimentato sia dalla NATO che da Mosca. Ogni escalation da una parte incontra regolarmente un’escalation dall’altra, danneggiando non solo le risorse umane e materiali di entrambe le parti, ma portando ad un’ulteriore escalation che determina una ulteriore carneficina degli ucraini, delle loro terre e di ogni tipo di infrastruttura. Ad esempio, quando gli Stati Uniti hanno deciso di inviare munizioni a grappolo all’Ucraina, che ha iniziato a farle cantare, ponendo la Russia in una situazione “peggiore“, la Russia ha annunciato che avrebbe usato e infatti ha iniziato a usare a sua volta le munizioni a grappolo, ponendo anche le forze ucraine in una condizione peggiore. Un così alto numero di vittime di questa portata lascerà una grande ferita nella vita ucraina, e basti paragonare la cicatrice lasciata negli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, che ha visto relativamente meno vittime – circa 210.000 – distribuite nell’arco di quindici anni e non di un anno e mezzo.
La popolazione ucraina sta subendo un altro logoramento: quello dell’esodo di coloro che fuggono dalla guerra, dalla mobilitazione militare, dal collasso economico e da uno Stato corrotto e predatore. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che al 28 agosto 2023, dall’inizio dell'”operazione militare speciale” (SVO) della Russia nel febbraio 2022, 6.203.030 ucraini sono fuggiti dall’Ucraina (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134).
Questa cifra significa che la popolazione ucraina è scesa da 42 a 36 milioni dall’inizio dell’SVO. Ma questo vale solo per la popolazione ucraina nel territorio controllato da Kiev nel periodo 1991-2014. La perdita della Crimea e della maggior parte degli Oblast di Donetsk e Luhansk nel 2014 e di gran parte degli Oblast di Zaporozhe e Kherson a causa dell’annessione o dell’occupazione russa dall’inizio dell’SVO riduce la popolazione ucraina di altri 4 milioni, il che significa che ora è di circa 32 milioni. Altri stimano che la popolazione all’interno dei confini ucraini del 1991 al 1° gennaio 2023 era di soli 37,6 milioni di persone, 32,6 milioni all’interno dei confini del 2022 (meno la Crimea) e 31,1 milioni nei territori attualmente controllati dal governo ucraino (meno la Crimea e la maggior parte degli Oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporozhe e Kherson) (www.wilsoncenter.org/blog-post/ukraines-demography-second-year-full-fledged-war, vedi anche https://t.me/stranaua/120211). Se si aggiungono i morti di guerra e la popolazione sotto il controllo di Kiev, la popolazione del Paese scende a meno di 31 milioni.
Questo quadro si aggrava se si tiene anche conto degli squilibri socioeconomici causati da una massa di rifugiati interni (persone sfollate dalle loro case) di 5.088.000 persone a causa della guerra conteggiati a tutto il 23 maggio 2023 (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134). Inoltre, secondo l’UNHCR, circa 17,6 milioni di persone in Ucraina necessitano di un urgente sostegno umanitario, compresi i 5 milioni di sfollati interni (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23).
Quindi, se fissiamo la popolazione attualmente sotto il controllo del governo di Kiev a 31 milioni, l’Ucraina ha perso più del 20% della sua popolazione dall’inizio della guerra e attualmente più del 15% della popolazione rimanente è costituita da rifugiati interni e più della metà della popolazione ha bisogno di un urgente sostegno umanitario.
Il quadro demografico è ulteriormente oscurato dal calo dei tassi di natalità causato dagli sconvolgimenti della guerra. Sebbene i tassi di natalità ucraini fossero già in calo a partire dalla rivolta di Piazza Maidan, del 7% all’anno dal 2013, nei primi sei mesi del 2023 sono nati in Ucraina solo 96.755 bambini, il che rappresenta un calo del 28% rispetto al periodo corrispondente del 2021 (135.079 bambini) e ancora meno rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno (https://t.me/rezident_ua/19018). Se la guerra continuerà fino al 2024, è possibile che tutte queste perdite – che già costituiscono una catastrofe – vengano raddoppiate, soprattutto se le forze russe inizieranno ad avanzare più rapidamente verso est, minacciando più direttamente altre regioni come Charkiv, Sumy, Chernigov e Mikolaev.
In termini fisici non umani, le perdite dell’Ucraina sono altrettanto sconcertanti. Per quanto riguarda il territorio, l’Ucraina ha perso l’11% del suo territorio dall’inizio della guerra, un’area equivalente al Massachusetts, al New Hampshire e al Connecticut, secondo il Belfer Center della Harvard Kennedy School. Includendo in tale computo la Crimea, l’Ucraina ha perso circa il 17,5% del suo territorio, un’area di circa 41.000 miglia quadrate (106.000 km quadrati) dalla rivolta di Maidan (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Inoltre, queste regioni – che comprendono l’industria carbonifera ucraina, gran parte della costa, i porti e le località turistiche – fornivano una quota preponderante del PIL dell’Ucraina. Inoltre, villaggi e città in alcune parti del territorio controllato dall’Ucraina sono stati pesantemente bombardati fino a trasformarsi in dei paesaggi lunari. La distruzione totale delle infrastrutture è stata stimata dalle Nazioni Unite in 100 miliardi (https://news.un.org/en/story/2022/03/1114022). Sebbene si tratti probabilmente di una sovrastima, anche se la cifra fosse la metà, alla fine dell’estate 2023 l’Ucraina avrà subito danni e distruzioni alle infrastrutture per 800 miliardi di dollari. Un altro modo per valutare l’entità dei danni infrastrutturali generali del Paese è la misura dell’assistenza alla ricostruzione. La Banca Mondiale ha stimato l’entità dei danni a marzo 2023 o per il primo anno di guerra e ha concluso che Kiev avrebbe avuto bisogno di 411 miliardi di dollari di assistenza per la ricostruzione se la guerra fosse finita allora (www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/03/23/updated-ukraine-recovery-a).
Da allora la guerra si è prolungata di altri sei mesi, quindi possiamo fare una stima approssimativa di 615 miliardi di dollari di aiuti che sarebbero necessari se la guerra finisse entro ottobre. Entro marzo 2024 la somma sarà di circa 1.000 miliardi di dollari. Ciò solleva la questione di quanti di questi arriveranno e in quanto tempo, sollevando l’ulteriore questione di un grave disastro umanitario e di un’ulteriore emigrazione dal Paese.
Il PIL del Paese in dollari correnti è diminuito tra il 2021 e il 2022 di circa il 15% – da 198 a 161 miliardi di dollari (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=UA). Pertanto, il PIL dell’Ucraina in dollari del 2015 si è contratto del 30% nel 2022 (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=UA). Tuttavia, il FMI sostiene che quest’anno la crescita sarà dell’1%-3% (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Ciononostante, una fonte conclude che l’Ucraina avrà bisogno di 50 miliardi di dollari di sostegno finanziario nel 2024 (https://t.me/rezident_ua/19017). Anche se il PIL crescesse del 3% fino a raggiungere i 166 miliardi di dollari, con un deficit di bilancio previsto per il 2024 di 40 miliardi di dollari – che è anche l’importo speso per le forze armate quest’anno e che dovrà essere coperto in buona parte dai dollari delle tasse occidentali e dagli euro – il suo rapporto bilancio/PIL si aggira su un catastrofico 25%. Tutto questo mentre l’Ucraina sta beneficiando di una moratoria sui pagamenti fino a metà giugno su 20 miliardi di dollari di debito concordata con gli obbligazionisti internazionali come MFS Investment Management, BlackRock e Fidelity Investments (www.wsj.com/world/europe/ukraine-hunts-for-cash-as-fighting-drains-coffers-a6443e9c).
In termini emotivi, psicologici e sociologici, la catastrofe potrebbe essere ancora più sconvolgente. La sindrome da stress post-bellico e i traumi saranno una pesante tassa a carico dell’intera società. Michael Vlahos cita una cifra di 50.000 ucraini che hanno perso uno o più arti, vicina alla cifra di 67.000 amputati patita dalla Germania per tutta la Prima Guerra Mondiale (https://compactmag.com/article/the-ukrainian-army-is-breaking). Olha Rudneva, responsabile del Centro Superhumans per la riabilitazione dei mutilati militari ucraini, stima che 20.000 ucraini abbiano subito almeno un’amputazione dall’inizio della guerra. Ma prima della guerra, in Ucraina c’erano solo cinque persone con una formazione professionale nel campo della riabilitazione di persone con amputazioni alle braccia o alle mani (www.aol.com/upward-20-000-ukrainian-amputees-060957047.html).
Infine, la “democrazia” che sopravviveva in Ucraina prima della guerra è ora completamente scomparsa. Solo i partiti politici approvati da Zelenskiy possono operare, le elezioni sono state cancellate “fino alla fine della guerra“, tutti i media sono pesantemente censurati e l’affiliata locale della Chiesa ortodossa russa sta subendo una dura repressione, le sue chiese e i suoi monasteri sono stati acquisiti dallo Stato e alcuni dei suoi sacerdoti orfani sono stati arrestati e processati, compreso il metropolita della Chiesa. Zelenskiy sta abbandonando il suo partito politico, pieno di corruzione e di scandali pubblici, e ha annunciato che costruirà un nuovo partito e una nuova classe dirigente basata su coloro che hanno servito in guerra. Questo, insieme alla radicalizzazione che la guerra tende naturalmente a portare con sè, rafforzerà la già troppo forte componente ultranazionalista e neofascista della politica ucraina. Le divisioni sociali saranno aggravate dai vergognosi privilegi e profitti dell’élite ucraina maturati durante la guerra. I “ricchi e famosi” sono visti sui social media mentre festeggiano sulle spiagge esotiche in ogni angolo del mondo, laddove invece i giovani privi di protezioni all’interno del Governo vengono brutalmente sequestrati nelle strade da reclutatori-mobilitatori per essere inviati al fronte. La guerra ha ampliato la corruzione in modo esponenziale, poiché il regime di Zelenskiy permette a criminali e funzionari corrotti di accumulare enormi profitti illegali, funzionali a lubrificare gli ingranaggi della macchina bellica e delle funzioni sociali della macchina statale. L’ulteriore corruzione, criminalizzazione e fascistizzazione del paese più corrotto e neofascista d’Europa renderà in futuro quasi impossibile la rinascita anche di una debole democrazia.
Conclusione.
Sei settimane prima dell’inizio dell’attuale guerra NATO-Russia in Ucraina, avevo proposto le misure che Putin avrebbe potuto adottare come parte di una campagna di diplomazia coercitiva intensificata (https://gordonhahn.com/2022/01/10/putins-military-technical-and-other-options-if-strategic-stability-and-ukraine-talks-fail/). Se fossero state adottate e se l’Occidente avesse accettato negoziati seri sull’architettura di sicurezza dell’Europa e su un’Ucraina neutrale al suo interno, come zona cuscinetto neutrale tra la Russia e la NATO, le cose sarebbero potute andare diversamente. La guerra avrebbe potuto essere evitata e tutte le misure russe adottate prima della guerra avrebbero potuto essere ritirate dopo la conclusione e l’attuazione degli accordi. Quelle effettivamente adottate dall’inizio della guerra e quelle attuate nell’ambito della guerra da entrambe le parti in conflitto difficilmente saranno revocate a breve, sicuramente non in questo decennio. La sicurezza degli Stati Uniti e della NATO è stata rafforzata rifiutando di negoziare con Mosca prima dell’invasione di Putin o impedendo a Kiev di portare avanti il processo di Istanbul iniziato un mese dopo l’invasione? La risposta, come ho cercato di dimostrare sopra, è chiaramente “no“.
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C’è stata una forte accelerazione degli attacchi alla Crimea, mentre l’Ucraina si concentra ancora una volta sul fornire una vittoria mediatica tangibile per coronare il grande tour nordamericano di Zelensky. Questo per evitare che faccia brutta figura quando sarà messo alle strette durante il suo importantissimo e forse ultimo circuito di elemosine.
Il teatro del Mar Nero in generale ha subito un’escalation, quindi sarebbe istruttivo scavare un po’ più a fondo e aggiornarci su ciò che sta accadendo in quel corridoio negli ultimi tempi.
Ci sono diverse categorie distinte, in particolare gli attacchi contro i mezzi navali e quelli contro i mezzi terrestri statici come i quartieri generali e le batterie di difesa aerea russa. Gli attacchi sono stati più forti e forse anche più riusciti di quanto molti filorussi vogliano ammettere, poiché ce ne sono stati un paio che sono passati sottotraccia e che il Ministero della Difesa russo ha fatto un lavoro accurato per nascondere sotto il tavolo.
Uno è stato l’attacco del 20 settembre alla parte nord di Sebastopoli:
Immagini satellitari prima e dopo l’attacco missilistico AFU Storm Shadow di ieri contro il posto di comando della Marina russa a nord di Verkhnosadove, in Crimea (44.714735, 33.704408).
Come si può vedere qui sopra, le fonti ucraine affermano che si tratta di un “posto di comando della Marina russa”, ma non c’è stata alcuna conferma di ciò che ho visto e sembra dubbio, soprattutto data la sua strana posizione. In ogni caso, qualunque cosa fosse, sembrava essere stata colpita con successo da un missile Storm Shadow.
Ci sono stati anche alcuni falsi attacchi che sono stati completamente smentiti. Per massimizzare e amplificare l’effetto propagandistico del paio di attacchi riusciti, gli account bot filo-ucraini hanno diffuso diversi altri presunti attacchi a campi d’aviazione russi in Crimea. Uno di questi è stato addirittura smentito da una nota della comunità di Twitter:
Questo è solo un promemoria per ricordare che ogni “attacco” deve essere attentamente esaminato e verificato, in quanto una gran parte, e oserei dire addirittura la maggioranza, di essi sono solitamente falsi. Ecco perché anche l’attacco al porto di Sebastopoli, che ha colpito la nave e il sottomarino Rostov e Minsk, era sospettato di essere stato falsificato, in particolare per le foto apparentemente photoshoppate del sottomarino.
Passiamo ora a questo attacco e arriviamo al recente colpo al quartier generale della Flotta del Mar Nero. Sono state colpite la nave da sbarco Minsk della classe Ropucha e il sottomarino Rostov-on-Don della classe Kilo.
Ne ho già parlato un po’. Una cosa interessante da notare è che la nave da sbarco russa Olengorsky Gornyak, precedentemente colpita da un drone navale ucraino, è già tornata in superficie dopo una riparazione più rapida del previsto:
Questo è l’enorme buco che la nave ha subito nello scafo:
E questo è stato risolto in un mese o poco più. E questo dopo che gli ucraini avevano riso e scherzato dicendo che era “fatta” e che sarebbe stato un fallimento. Anche il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che riparerà i danni sulle navi presenti.
Per quanto riguarda la Rostov e la Minsk, la TASS ha rilasciato una dichiarazione ufficiale secondo la quale il sottomarino non ha subito alcun danno catastrofico e i suoi tempi di riparazione precedenti non sarebbero stati intaccati:
🇷🇺🚤 I danni subiti dal sottomarino “Rostov-on-Don” della Flotta del Mar Nero il 13 settembre non sono critici e non prolungheranno in modo significativo i tempi di manutenzione previsti. Questa informazione è stata fornita alla TASS da una fonte del complesso industriale della difesa: “Il sottomarino presenta danni minori che non hanno intaccato la robustezza dello scafo. L’intervistato ha precisato che è in corso una valutazione dell’entità dei prossimi lavori di riparazione per l’altra nave colpita dall’attacco ucraino, la grande nave da sbarco “Minsk” della Flotta del Baltico. Alcuni sono scettici, ma dobbiamo aspettare e vedere. In ogni caso, il sottomarino è rimasto in quel bacino di manutenzione per circa un anno, non è che lo sciopero abbia messo fuori uso una componente attiva della flotta.
Ora l’Ucraina ha colpito il quartier generale della flotta del Mar Nero. Prima un po’ di contesto e poi entreremo nel vivo della questione: come fa l’Ucraina a fare questo?
Il Ministero della Difesa russo sostiene che sono stati abbattuti 7/10 missili. È probabile che ciò sia vero, poiché altri video di testimoni oculari, come quello sopra riportato, hanno mostrato molte esplosioni nel cielo, suoni di missili intercettati dalla difesa aerea, mentre le foto satellitari post-operatorie del BDA hanno mostrato che solo 2 o al massimo 3 colpi sono stati inflitti all’edificio stesso:
La chiave per capire come l’Ucraina sia in grado di colpire questo QN è la vicinanza alla costa:
Si può notare che l’edificio si trova quasi direttamente sull’acqua. Ecco una mappa ingrandita per capire la sua posizione spaziale:
Ciò significa che l’area è priva di una linea di difesa aerea avanzata, perché si trova proprio ai margini di quella che sarebbe considerata la linea di contatto.
Normalmente, i mezzi critici per la missione, come il quartier generale, sono posizionati nelle retrovie della linea del fronte. In questo modo, una rete di sicurezza composta da più strati di difese aeree integrate può tamponare il quartier generale, in modo che, anche se si tratta di un missile a bassa quota, veloce o furtivo, possa essere mancato dal primo strato, ma alla fine verrà rilevato mentre vola su diversi strati di copertura della rete radar sovrapposta. Per esempio, la prima linea di difesa dell’area può rilevare qualcosa, ma non essere in grado di rispondere abbastanza velocemente da abbatterlo. Ma almeno trasmetteranno le informazioni alle difese successive, che riceveranno i dati radar fusi con i loro sensori o un semplice avviso verbale dell’arrivo di un oggetto, consentendo loro di posizionarsi e prepararsi molto meglio per intercettarlo.
Ma a causa dell’ovvia impossibilità di farlo quando il vostro quartier generale si trova proprio sull’acqua, ciò significa che Sebastopoli è situata in una posizione particolarmente esposta e pericolosa, per la quale non ci può essere alcun AD o “preavviso”. Ciò significa che quando arrivano i missili, ci sono solo pochi secondi di vantaggio, e dato che si è detto che gli attacchi erano a saturazione e includevano droni da altre direzioni e i missili esca ADM-160 Mald, diventa estremamente difficile difendere tutto questo senza alcuna copertura in avanti.
Rybar ha illustrato come sono stati effettuati gli attacchi.
Sappiamo da rapporti passati che un sistema russo S-300/400 esiste da qualche parte sulla penisola di Tarkankhut in Crimea, dove si trova l’icona del drone sulla mappa qui sopra. Si tratta di un’area che “sporge” e che dovrebbe garantire una copertura in avanti del Mar Nero. Il problema è che, come ho spiegato la volta scorsa, i missili a bassa quota permettono ai radar di individuarli al massimo a circa 30-40 km. Questo a prescindere dalla potenza del sistema radar, per la semplice fisica del funzionamento degli orizzonti radar.
Questo esempio mostra che un sistema radar con un’altezza della parabola di 10 piedi vedrà un bersaglio che vola a 150 piedi di altitudine solo a 35 km circa. Il problema è che, come si può vedere dalla mappa di Rybar, la traiettoria aggira la copertura radar in modo tale che la distanza dal “punto di attacco” degli S-300/400 al punto in cui passerebbero i missili è di oltre 80 km:
Inoltre, lo Storm Shadow sembra volare spesso a una distanza inferiore a 150 km, il che renderebbe la distanza di rilevamento ancora maggiore.
Rapporto completo:
11 bombardieri Su-24M sono decollati dall’aeroporto di Starokostyantyniv, cinque dei quali erano portatori di missili da crociera Storm Shadow/SCALP. Dopo aver volato fino al confine tra le regioni di Odessa e Mykolaiv, i velivoli si sono divisi: nove sono rimasti nella zona, mentre un paio sono andati a sud verso Ochakiv. 8 Storm Shadows sono stati lanciati verso le 12:00 in Crimea. Allo stesso tempo, i gruppi di ricognizione di Medvedi PMC hanno notato che due Su-24M, volando a bassa quota a circa 40 m sopra l’acqua, hanno effettuato lanci sul Mar Nero. Prima di ciò, gli aerei ucraini hanno sparato tre missili AGM-160 MALD per ingannare la difesa aerea. Gli equipaggi della difesa aerea Pantsir-S1 della 31esima Forza Aerea e della Divisione di Difesa Aerea hanno abbattuto cinque missili da crociera sopra Capo Tarkhankut e l’aeroporto di Belbek. 3 Storm Shadows sono caduti nell’area di Verkhnesadovoye – l’obiettivo era probabilmente un ex impianto militare vicino al villaggio. Poche ore prima dell’attacco, da Kherson è decollato un drone da ricognizione di tipo sconosciuto che, doppiando Capo Tarkhankut, ha allestito un’area di pattugliamento a ovest di Kacha e ha diretto gli aerei. È molto probabile che sia stato abbattuto dai sistemi di difesa aerea. Questo attacco dimostra un leggero cambiamento nelle tattiche dei missili da crociera. In precedenza, questi raid di massa venivano effettuati di notte o al mattino presto, ma non di giorno. E il volo dei bombardieri a bassissima quota è qualcosa che gli equipaggi ucraini hanno praticato per molti mesi, cercando di sfruttare le lacune dei sistemi di rilevamento della difesa aerea.
Quanto sia accurato quanto sopra, è impossibile dirlo con certezza, ma il succo generale dell’attacco è probabilmente quello che è successo. Il punto più importante riguarda le basse quote di volo, particolarmente facili da raggiungere sulla superficie piatta e calma del mare, dove gli aerei e i missili non devono preoccuparsi di schivare le ostruzioni topografiche e geografiche, ecc.
Come ho detto, a causa di questa pratica, è fisicamente e scientificamente impossibile per un sistema radar rilevarli a buona distanza, perché gli oggetti che volano bassi sono semplicemente oltre l’orizzonte a causa della curvatura della terra, e i raggi radar non possono individuarli.
Se a questo si aggiunge il problema, descritto in precedenza, di non avere una zona di copertura frontale a causa della particolarità di trovarsi in riva al mare, diventa molto difficile difendersi dagli attacchi di saturazione.
Esiste tuttavia una soluzione che può fornire una copertura frontale. E questo è un settore in cui la Russia sta probabilmente fallendo: Gli AWAC. Una copertura 24/7 degli AWAC permetterà all’aereo di sorvolare la Crimea e, grazie all’altezza del suo radar, di vedere tutto ciò che vola sul Mar Nero fino a Odessa e oltre, senza problemi. Questi radar hanno la modalità “look down”, che significa che possono scansionare verso il basso qualsiasi cosa si muova sulla superficie dell’oceano, sia essa una nave o un missile.
Ma ho già detto che la Russia ha un problema di AWACS. Secondo quanto riferito, ne ha solo ~15 o meno. Tuttavia bisogna aggiungere le seguenti considerazioni:
Tutti gli aerei hanno una certa percentuale di prontezza del 30-70% al massimo, che rappresenta quanti dei velivoli sono volabili in un dato momento, rispetto a quelli che sono in riparazione, ecc.
La Russia ha bisogno di alcuni di questi aerei per tutto il suo lungo confine, anche nell’estremo est contro la NATO, così come nel nord dove si svolge un’intensa attività della NATO intorno ai Baltici, per non parlare dei distretti occidentali per proteggere il fianco occidentale di Mosca.
La Russia ne ha bisogno anche lungo l’intero confine dell’OMU, compreso il nord dell’Ucraina. Per esempio, abbiamo visto dal tentativo di sabotaggio che la Russia ne tiene alcuni in Bielorussia per sorvegliare il fianco settentrionale.
Un singolo aereo non può volare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per ovvie ragioni. Ciò significa che anche per pattugliare una sola area senza vuoti di copertura, sono necessari diversi aerei (forse almeno 3) che possono ruotare uno dopo l’altro in turni di 8 ore, ecc.
Considerati tutti questi fattori, se assegniamo la quantità appropriata di aerei a ciascuna zona necessaria, così come i tassi di prontezza che relegherebbero una parte della flotta in uno stato di inattività – in fase di revisione, aggiornamento, riparazione, ecc – possiamo presumere che solo 1 o 2 aerei massimi saranno probabilmente disponibili per il teatro della Crimea e probabilmente risulteranno in ampi vuoti di copertura.
La Russia sta sviluppando e costruendo da molto tempo gli aggiornamenti successivi all’A-50, l’A-50U e l’A-100. Perciò è stata una grande notizia che, secondo quanto riferito, sulla scia degli attacchi di Sebastopoli, la Russia abbia annunciato il lancio di un A-50U nuovo di zecca.
Si suppone che si tratti di una variante molto più avanzata e modernizzata, con un radar migliore, in particolare per quanto riguarda le capacità di look-down. Per ora si tratta solo di un passaggio di consegne, ma se la Russia riuscirà a continuare a produrli, contribuirà notevolmente a mettere in sicurezza la regione dagli attacchi missilistici.
Si noti che, ancora una volta, l’Ucraina non è stata in grado di riprendere gli attacchi. Perché? La Rostov e la Minsk sono ancora ferme nello stesso ormeggio a Sebastopoli, facile preda di altri missili, soprattutto se si considera che la Russia intende ripararle. Sicuramente l’Ucraina sarebbe molto motivata a finire quelle navi.
È un gioco del gatto e del topo. L’Ucraina può condurre un attacco di successo solo una volta ogni tanto, quando i partner di 5-Eyes adottano tutte le misure di sorveglianza appropriate e tutto è pianificato in anticipo con un “vuoto” di copertura disponibile da qualche parte.
Per quanto riguarda il quartier generale della Flotta del Mar Nero, la Russia afferma che l’edificio era vuoto, mentre l’Ucraina sostiene il solito: centinaia di persone sono state uccise, compresi importanti generali. Non ci sono prove di questo. In realtà, sembra che la Russia sia stata avvertita direttamente dell’attacco, quindi un’evacuazione – se l’edificio fosse stato utilizzato – avrebbe avuto senso. Il motivo per cui lo sappiamo è che prima dell’attacco sono state rilevate strane cortine fumogene nell’area, di cui io stesso non conosco ancora al 100% lo scopo:
Ma se la Russia sapeva che un attacco era in arrivo e ha preso le misure di evacuazione appropriate, allora come può essere accurata la nostra precedente tesi sull’assenza di preavviso da parte delle difese aeree?
È difficile dirlo con certezza, ma le cose stanno così. La Russia dispone di altre capacità, sia di SIGINT spaziale che di HUMINT a terra (proprio come l’Ucraina), che possono notificarle i decolli di massa di mezzi d’attacco ucraini dalle loro basi. Tuttavia, una volta decollati, non è possibile tracciare in modo granulare gli effettivi lanci di missili e i loro vettori/obiettivi senza disporre di uno scudo AD più specifico.
Probabilmente la Russia dispone anche di capacità radar OTH che possono tracciare i jet ucraini da migliaia di chilometri di distanza, infrangendo apparentemente la fisica della visione “oltre l’orizzonte” che ho professato in precedenza. Tuttavia, tali radar utilizzano onde corte speciali ad alta frequenza che non sono adatte a vedere con precisione oggetti molto piccoli, come ad esempio i missili stealth. Quindi possono essere in grado di vedere gli aerei che decollano, ma non i missili o i loro vettori.
Questi radar fanno rimbalzare le loro onde speciali dalla ionosfera e le reindirizzano “oltre l’orizzonte” per vedere gli oggetti che un’onda normale non può rilevare.
Ma se la Russia è potenzialmente in grado di rilevare i jet ucraini nei propri campi d’aviazione da migliaia di chilometri di distanza, perché non li ha distrutti nei campi d’aviazione?
Perché l’Ucraina ha anche un preavviso avanzato da parte degli Stati Uniti/5-Eyes di qualsiasi lancio di aerei/missili russi, che impiegano ore per attraversare l’Ucraina verso i campi d’aviazione occidentali, dando loro tutto il tempo di far decollare i jet ed evitare il colpo.
Tuttavia, i campi d’aviazione più vicini alla linea del fronte possono non avere questo preavviso, ed è per questo che ieri abbiamo visto un colpo russo distruggere un Mig-29 nella base aerea ucraina di Dolgintsevo, vicino a Krivoy Rog, che non è lontana dalle posizioni russe di Energodar, ecc.
Questo è lo stesso campo in cui il drone Lancet della Russia è stato visto in precedenza colpire il Mig-29:
Inoltre, la cronologia non è nota. L’ultima volta ho scritto che il Ministero della Difesa russo aveva riferito di aver colpito questo campo all’inizio del mese, distruggendo diversi jet. Il nuovo video potrebbe essere semplicemente la pubblicazione di quegli attacchi.
Se vi state chiedendo perché questi jet non siano stati fatti decollare per evitare l’attacco missilistico della Russia, come ho detto si tratta di un campo vicino alla linea del fronte. Tuttavia, un’altra versione è che non è stato nemmeno colpito da un missile russo, il cui lancio può essere individuato con molto più anticipo e quindi contrastato facendo decollare i jet, dato che i missili di solito vengono lanciati dalle navi vicino al Mar Caspio o al Mar Nero, ecc. Secondo una versione, invece, l’attacco sarebbe stato effettuato con missili guidati BM-30 GMLRS Smerch, che sarebbero stati posizionati appena sopra il Dnieper, in territorio russo, e non avrebbero dato alcun preavviso.
L’Ucraina è costretta ad alloggiare i Mig-29 più vicino alla linea del fronte perché i jet hanno un raggio d’azione molto più corto e non possono combattere dall’Ucraina occidentale. Inoltre, non c’è alcuna indicazione che si tratti di jet in grado di volare e alcune fonti affermano che alcuni/molti/molti di essi sono destinati a parti di ricambio, ma è impossibile saperlo con certezza. Tutto ciò che sappiamo è che la Russia sta chiaramente contrastando tutto ciò di cui stiamo parlando. Gli aerei vengono colpiti, gli A-50U vengono lanciati per colmare le lacune di copertura. Vengono prese costantemente contromisure per combattere tutto ciò che l’Ucraina fa. Se queste contromisure vengano prese in modo tempestivo e con sufficiente urgenza è un altro discorso.
In definitiva, nonostante i fallimenti della Russia, dobbiamo dimenticare che le capacità di difesa aerea degli Stati Uniti sono di gran lunga peggiori. Solo poche settimane fa un nuovo rapporto di Taiwan ha denunciato il recente malfunzionamento del sistema Patriot durante i test:
Un ufficiale dell’aeronautica taiwanese ha affermato che un missile Patriot PAC-3 ha avuto un malfunzionamento durante una recente esercitazione a fuoco vivo, ma il produttore statunitense Lockheed Martin ha dichiarato che il missile coinvolto non era un PAC-3. Il capo di stato maggiore dell’aeronautica, generale Tsao Chin-Ping, ha confermato le notizie locali secondo cui l’arma terra-aria è esplosa prima di colpire il bersaglio.
Ora, dopo i colpi di Sebastopoli, la Russia ha sferrato un colpo devastante a Odessa, apparentemente per rappresaglia. L’hotel di Odessa avrebbe ospitato molti mercenari e fungeva da quartier generale del comando ucraino dopo che il precedente era stato distrutto:
L’area periferica aveva molti magazzini che sono stati distrutti.:
Questi magazzini portuali sono stati visti in precedenza ospitare molte attrezzature della NATO.:
Il commentatore filorusso Masno ha scritto che l’hotel era probabilmente utilizzato dai servizi ucraini, era sotto stretta sorveglianza e negli ultimi giorni le foto mostravano molte finestre aperte per la ventilazione, indicando che era occupato (anche se non da civili, dato che era chiuso all’uso civile da anni):
In effetti, negli ultimi giorni o due, la Russia ha colpito una serie di oggetti strategici e campi d’aviazione ucraini. Dolgintsevo non è stato l’unico. Il campo d’aviazione Bolshaya Kakhnovka a Kremenchug sarebbe stato cancellato. Lo Starokonstantinov di Khmelnitsky, dove l’Ucraina ospita la maggior parte dei suoi Su-24, è stato nuovamente colpito.:
Così come il campo di Kulbakino a Nikolayev, di cui sono emersi filmati che mostrano il campo in fiamme dopo gli attacchi:
🇷🇺🇺🇦 Vicino a Nikolaev ci sono due potenti arrivi nell’area dell’aeroporto di Kulbakino.A Nikolaev non si sentivano esplosioni da molto tempo e hanno avuto il tempo di rilassarsi un bel po’: I vettori Su-24M di missili da crociera hanno iniziato a fare base all’aeroporto e l’Anas ha iniziato ad atterrarvi regolarmente, trasferendovi personale e munizioni. Sebbene la linea del fronte sia a soli 40 km, i risultati dell’arrivo non sono ancora stati chiariti, ma una cavalcata di ambulanze si è precipitata lì dal centro regionale. Perché a Kiselevka, situata non molto lontano, hanno colpito un deposito di munizioni con un FAB da una tonnellata e mezza con un UMPC. In effetti, in questo momento sono emersi nuovi filmati che mostrano gli attacchi russi che distruggono altri Mig-29 nel campo di Nikolayev, alla geolocalizzazione: 46°56’9.09 “N 32° 4’50.96 “E
Per chi si chiedesse perché, la Russia ha già colpito questa base e tutte le altre più volte in passato. Ecco le immagini che mostrano proprio questa base di Nikolayev in un precedente attacco:
Un aspetto affascinante è che a un certo punto entrambe le parti hanno lanciato missili da crociera l’una contro l’altra praticamente nello stesso momento. Mentre gli Storm Shadow sorvolavano la Crimea per raggiungere Sebastopoli (si noti come il civile russo conosca già per nome lo Storm Shadow):
I Kh-101 russi volavano verso Kremenchug quasi alla stessa ora:
Questo fatto sorprendente rappresenta forse la prima volta nella storia che si assiste a un conflitto che include due parti opposte in grado di colpirsi a vicenda con missili da crociera avanzati. Quale altro conflitto si è mai visto in cui entrambe le parti lanciano attivamente e con successo missili da crociera a lunga gittata? Di certo non si è mai visto nulla di simile alla NATO.
Ciò racchiude il fatto che questa guerra è il conflitto tra pari più tecnologico della storia.
Inoltre, l’Ucraina si è lamentata del fatto che i recenti attacchi della Russia stanno diventando sempre più complessi (e lo stesso vale per quelli ucraini). Ecco due mappe provenienti da fonti ucraine che mostrano i percorsi bizzarri e tortuosi che i missili russi sono programmati a seguire:
La prima è relativa agli attacchi di massa del 21 settembre.
:
Il secondo è di ieri sera. Sostengono che i missili Kalibr e Onyx lanciati dalla regione della Crimea hanno fatto un giro completo intorno all’oblast di Nikolayev e poi sono arrivati a colpire Odessa dalla parte posteriore, dove l’AD non si aspetterebbe di essere puntato:
In quasi tutti i casi, in particolare in quello dell’aeroporto di Dolgintsevo dove sono stati distrutti i Mig-29, la Russia ha inviato prima un contingente di droni Geran-2 per esaurire la difesa aerea ucraina. Quando questa è stata adeguatamente esaurita, sono arrivati i missili per finire il lavoro.
Il risultato è che, come sempre in questo conflitto, l’Ucraina è in grado di mettere a segno alcuni colpi, ma la Russia la supera di 5:1 o 10:1, e a volte anche di 20:1. Per ogni “colpo al quartier generale” che l’Ucraina riesce a mettere a segno, la Russia colpisce una dozzina o più di quartier generali, campi d’aviazione e altre strutture importanti dell’Ucraina. Per non parlare del fatto che la Russia interrompe gli attacchi successivi, cosa che l’Ucraina non menziona mai. Ad esempio, dopo l’attacco a Sebastopoli, ci sono stati altri due attacchi importanti, tra cui quello di oggi che ha coinvolto gli Storm Shadows. Secondo quanto riferito, sono stati tutti abbattuti e le forze russe hanno respinto completamente l’attacco. Ma di questo non si parlerà molto.
Infine, per questa sezione, vorrei parlare brevemente del motivo per cui l’Ucraina ha aumentato così tanto i suoi attacchi alla Crimea negli ultimi tempi. In parte, come ho detto, per le apparenze con la grande visita di Zelensky a Washington, ma un’altra ragione ancora più importante ha a che fare con il grande corridoio del grano, che è una delle ultime e più significative operazioni strategico-economiche dell’Ucraina.
Da quando, due mesi fa, è scaduto l’accordo sul grano, la Russia ha iniziato a distruggere le infrastrutture portuali dell’intera costa e della regione di Odessan. L’Ucraina ha cercato disperatamente di ristabilire una parvenza di trasporto marittimo, in particolare con i divieti della Polonia (per non parlare di altri Paesi) sul grano ucraino. È l’ultima linea di vita economica per loro. Pertanto, stanno cercando di forzare un corridoio eliminando le risorse navali russe e, idealmente, bloccando la flotta russa del Mar Nero in uno stato di torpore, al fine di creare un corridoio che possa abbracciare la costa ucraina/romena.
Rybar fornisce un resoconto dettagliato dell’idea:
Rapporto RYBAR:Qual è il motivo dell’attacco di ieri alle navi della Marina russa? Oggi la nave “Puma”, battente bandiera delle Isole Cayman, ha lasciato il porto di Odessa e si è diretta lungo la rotta già collaudata lungo la costa dell’Ucraina verso sud. La nave è ancora in viaggio e si sta dirigendo lungo la Romania, probabilmente verso il Bosforo. Prima di entrare nelle acque romane, la nave è stata accompagnata da due imbarcazioni della Marina ucraina, i caccia MiG-29 hanno pattugliato lo spazio aereo sopra la regione di Odessa e i P-8A americani hanno lavorato a turno sopra la Romania (uno di loro è stato scambiato per un B-52). Nel contesto dell’uscita della nave, un quadro più completo emerge con il massiccio attacco di ieri a un distaccamento di navi da guerra (OBK) della Flotta del Mar Nero composto da “Vasily Bykov” e “Sergei Kotov” – un totale di 14 imbarcazioni senza equipaggio sono state distrutte (senza contare gli attacchi a “Samum” e “Askold”). Una di queste, come abbiamo già scritto, ha colpito la Bykov, danneggiandola, ma continuando a muoversi con le proprie forze verso Sebastopoli, mentre la Sergey Kotov opera nelle vicinanze. In altre parole, non appena la pattuglia russa si è allontanata dall’area di pattugliamento, il cargo ha lasciato Odessa. In questo modo, l’AFU non solo ha aperto una rotta per il movimento della nave portarinfuse, ma ha anche dimostrato che, se necessario, può distrarre le navi russe lanciando attacchi navali con i droni. Naturalmente l’attacco è stato respinto, ma in questo modo a Kiev stanno cercando di dimostrare la funzionalità di questo corridoio senza la partecipazione della Russia.
Tutto questo è un piano dell’Ucraina per convincere i partner marittimi a scaricare il grano da Odessa, per il quale l’Ucraina ha fatto sempre più promesse e sta disperatamente lavorando per fornire assicurazioni ai potenziali vettori:
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In Ucraina è stato creato un fondo speciale dell’importo di 20 miliardi di grivne (circa 547 milioni di dollari) per assicurare le navi che trasporteranno il grano attraverso il Mar NeroPrima il Ministero dell’Economia ucraino ha riferito che lo schema di assicurazione navale potrebbe essere introdotto a settembre e che potrebbero esservi coinvolte fino a 30 navi.
Si può quindi notare che questa recente esplosione del teatro del Mar Nero ha tutto a che fare con i disperati tentativi dell’Ucraina di riattivare il suo corridoio del grano, dopo aver affrontato la completa chiusura da parte della Russia e dei suoi stessi “partner” europei.
Naturalmente si può dire che lo sforzo dell’Ucraina non è certo inconsistente. Hanno ottenuto grandi successi, ma temo che, a loro discapito, abbiano solo “smosso il vespaio” e indotto il Ministero della Difesa russo a concentrarsi su una parte del teatro che negli ultimi tempi aveva trascurato. Ora una serie enorme di colpi devastanti viene inferta a tutti i beni ucraini che hanno anche solo un briciolo a che fare con questa recente campagna. Oltre all’hotel e ai magazzini adiacenti, anche i porti di Odessa hanno subito gravi danni a varie infrastrutture (probabilmente legate al grano):
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Nello spirito di questo post dedicato alle armi e alla tecnica, passiamo a un’altra notizia, ovvero il continuo tira e molla sulle consegne di ATACMS all’Ucraina. Durante la visita di Zelensky è stata negata, poi tranquillamente approvata per poi essere nuovamente negata, e ora c’è un’altra apparente approvazione.
Tuttavia, il diavolo si nasconde nei dettagli. In realtà non è stato approvato come molti pensano. L’Ucraina voleva la versione normale ad alto esplosivo, molto più devastante. Biden e i suoi collaboratori si sono opposti, ma hanno finito per approvare potenzialmente la versione DPICMS. Questo dettaglio si perderà tra i festeggiamenti che si svolgeranno.
Il DPICM è la versione con munizioni secondarie o cluster bomb dell’ATACMS. Si tratta di un compromesso: vi diamo il missile, ma nella versione più inutile, che non può colpire i compound temprati, i quartieri generali, i ponti o qualsiasi altra cosa importante. Sono fatti per colpire solo il personale, il che avrà un effetto trascurabile, dato che l’uso delle munizioni a grappolo dell’artiglieria ucraina si è già dimostrato inutile, come avevo previsto tempo fa.
Guardate la spiegazione della versione ATACMS DPICMS qui sotto
:
Le submunizioni a grappolo non possono essere utilizzate per distruggere edifici o altro. Il motivo per cui l’Ucraina desiderava fortemente questo missile era quello di poter colpire le strutture C3 russe nelle retrovie, oltre a minacciare il ponte di Kerch. Ora è irrilevante: le submunizioni sono inutili per questo. Al massimo possono abbattere un’auto civile leggera.
In secondo luogo, potete leggere questo e ridere. Secondo quanto riferito, il piccolo lotto di prova annunciato di ATACMS da inviare in Ucraina sarà di sole circa 60 unità:
Ma ascoltate ciò che Budanov stesso afferma chiaramente nella sua intervista a Washington di alcuni giorni fa. KB = Kyrylo Budanov:
Quindi Budanov stesso dice che qualsiasi cosa al di sotto dei 100 missili è praticamente inutile e non farà nulla. Biden non solo ne annuncia 60, ma nemmeno quelli distruttivi.
Tuttavia, vorrei fare una precisazione. È vero che le versioni a grappolo sono per lo più inutili, ma c’è un’area in cui potrebbero potenzialmente fare molti danni: colpire i campi di aviazione russi ricchi di obiettivi. Le submunizioni non distruggono del tutto gli aerei, ma un intero missile pieno di esse che colpisca un campo d’aviazione potrebbe mettere fuori uso decine di velivoli in una volta sola.
Quindi, per questo motivo, è sicuramente pericoloso. Ma semplicemente non ha la pericolosità strategica di un missile normale, con la capacità non solo di spazzare via interi bunker di comando in profondità dietro le linee russe, ma potenzialmente di colpire e spazzare via il ponte di Kerch.
Detto questo, è interessante notare che potrebbero essere molto più facili del previsto da abbattere per gli AD russi, in particolare i sistemi S-300/400 di prima scelta, progettati specificamente per abbattere tali missili di tipo balistico. Il motivo è che un attacco di saturazione funziona tipicamente quando ci sono molti oggetti che vengono verso di noi a un’altitudine simile. Ma quando si satura un sistema AD con un gruppo di droni (che non sono fisicamente in grado di volare in alto) e di missili da crociera a bassa quota, sarebbe molto facile per un sistema AD distinguere questi oggetti “schermati” da un missile di tipo balistico che vola molto più in alto. Ciò significa che l’AD dovrebbe essere in grado di indicare sul monitor quale sia il pericoloso missile quasi-balistico solo in base alla sua altitudine, il che consentirebbe di stabilire una priorità nel colpirlo.
Per quanto riguarda l’equipaggiamento, un altro aggiornamento che volevo proporre è il monitoraggio delle perdite di carri armati russi effettuato da un’organizzazione. Ho trovato questo dato molto illuminante
.
La parte più importante non sono i totali in sé, che possono essere esagerati o meno, ma la tendenza generale. Ad esempio, nella colonna dei totali più alti si può vedere dove sono stati i picchi e i punti più bassi. Dall’inizio di quest’anno, la Russia ha continuato a registrare una tendenza al ribasso, con l’inizio della controffensiva ucraina che ha rappresentato una piccola impennata.
50-70 carri armati persi al mese non sono affatto male. La media è di circa 2 al giorno, pari a circa 600-700 all’anno. La ragione per cui questa è una buona notizia è che è inferiore alla produzione annuale della Russia, il che significa che le perdite di carri armati sono sostenibili – questa è la parte più importante.
Come facciamo a sapere cosa producono attualmente?
In questa nuova intervista video, il capo di Uralvagonzavod, il più grande produttore di carri armati del mondo, Alexander Potapov afferma alcune cose interessanti:
Sembra che si riferisca ai motori, dato che i T-80, come dice in seguito, al momento non sono prodotti da zero ma solo ristrutturati. Ma la Russia sta già raggiungendo anni record.
A titolo di riferimento, ecco una tabella della produzione di carri armati degli anni ’70 e ’80.
Ora, diverse fonti come The Economist affermano che la Russia produce 20 carri armati nuovi al mese e fino a 90 ristrutturati:
Wallstreet Journal fornisce una cifra di 250 carri armati all’anno prima della guerra.:
In realtà, per la maggior parte degli anni intorno al 2010 e successivamente, la Russia ha prodotto circa 175-250 nuovi carri armati all’anno. Ora si dice che la produzione sia aumentata di diverse volte.
Se prendiamo i numeri dell’Economist, 110 totali (prodotti + ristrutturati) al mese = più di 1.300 all’anno, il che è almeno in linea con quanto dichiarato da diversi esponenti russi.
Tornando al grafico delle perdite, possiamo vedere che quest’anno la Russia è in procinto di perdere qualcosa come 600-800 carri armati. Questo dovrebbe essere facilmente compensato dalla produzione. E si tenga presente che molte di queste perdite sono probabilmente calcolate in eccesso. Per esempio, all’inizio della controffensiva Putin aveva fatto notare in un discorso che la Russia aveva perso un certo numero di carri armati, circa 40-60, ma aveva detto che molti di questi erano stati successivamente rimorchiati e sarebbero stati riparati. La maggior parte delle organizzazioni che contano le perdite si limita a conteggiare ogni foto sul campo come una perdita, ma ignora il fatto che molti carri armati russi che appaiono “colpiti” vengono recuperati e riparati, o subiscono solo danni minori ai cingoli. Pertanto, le 600-800 perdite annue percepite potrebbero essere in realtà qualcosa come 400-600.
Inoltre, un nuovo video ha mostrato l’uso massiccio di carri armati gonfiabili russi sul fronte di Zaporozhye. Non stupitevi quindi se Oryx e co. inizieranno ad aggiungere i gonfiabili “distrutti” al loro database di “perdite” russe reali.
Lo scorso mese Forbes ha lamentato che l’unico collo di bottiglia rimasto in Russia per la produzione di carri armati di massa è terminato:
Infine, è stato messo insieme un grafico che tenta di ricavare un senso dalle perdite di carri armati della Russia, per esempio se stavano esaurendo alcuni scafi come i primi T-72/T-80 e li stavano sostituendo con vecchi T-62 e T-55 come sostengono molti propagandisti ucraini:
Il grafico ha trovato la correlazione opposta. I T-90 russi sono passati dal 3-4% al 24%, a dimostrazione del fatto che i T-90M vengono messi in campo – e quindi prodotti – in quantità maggiore. I T-55/T-62 non solo non hanno avuto incrementi apprezzabili, ma sembrano essere diminuiti. Ecco che la narrazione è finita.
L’unico altro cambiamento degno di nota è stato che i T-80 russi sono sembrati diminuire drasticamente come quota di perdite, ma si può dire che sia ciclico, dato che in precedenza erano diminuiti in aprile/maggio per poi risalire.
La parte importante è che non c’è alcuna base scientifica che giustifichi il fatto che la Russia stia schierando i vecchi T-62/T-55 e in effetti la Russia sta schierando tre volte più T-90M di prima.
Per l’Ucraina è l’opposto. L’unica cosa che si vede ancora sono i T-64 e le cose più vecchie. Si vedono pochi T-72 e ogni volta che arriva una nuova piccola iniezione di carri armati della NATO, questi vengono prontamente annientati:
Queste sono le varianti svedesi modificate dei Leopard 2A5 tedeschi. Alcuni di essi sono già stati distrutti in un solo giorno l’altro ieri, rappresentando una grossa fetta di tutti quelli ricevuti. Ora si dice che siano arrivati i primi 10 esemplari di Abrams:
La Russia ha colpito anche treni carichi di armature ed equipaggiamento:
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Alcuni ultimi articoli vari.
Avevo dimenticato di postare questo articolo qualche tempo fa. Il giornalista ucraino Roman Revedzhuk, che in precedenza si era candidato ed era stato a lungo coinvolto nella politica ucraina, ha rivelato di aver ricevuto un rapporto dall’SBU secondo cui l’Ucraina aveva più di 310.000 KIA a luglio:
Mi risulta che sia un giornalista filo-ucraino e non filo-russo, tuttavia è critico nei confronti dell’attuale regime al potere.
Noterete che questo numero è in linea con altri rapporti recenti, come quello di wartears.org che tiene traccia dei necrologi e ha un totale attuale di 280.000 morti per l’Ucraina.
Ora, le conseguenze di tutto ciò si fanno sentire sempre di più. In un nuovo video, l’ex comandante dell’Aidar Yevgeniy Dikag ha dichiarato che l’Ucraina può vincere solo mobilitando in massa fino a 1 milione di persone in più:
Secondo l’analista militare ucraino Yevgeniy Dikag, che è stato il comandante della famigerata formazione Aydar, il presidente ucraino deve dichiarare al più presto una mobilitazione generale e radunare 500 mila soldati per rovesciare lo status quo che vigeva prima dell’inizio della controffensiva estiva.
A questo fa eco un nuovo video di Arestovich, secondo il quale presto ogni uomo in Ucraina, nessuno escluso, dovrà essere mobilitato:Ukrainian military analyst Yevgeniy Dikag, who was the commander of the infamous Aydar formation, the Ukrainian president must as soon as possible declare a general mobilization and raise 500 thousand soldiers in order to overthrow the status quo that was in force before the start of the summer counteroffensive.
And this was echoed by a new video from Arestovich who says that soon every man in Ukraine bar none will have to be mobilized:
Ricorderete che l’ultima volta ho pubblicato un analista ucraino che ha confessato che alla fine dovranno essere mobilitati non solo gli adolescenti – cosa scontata, secondo lui – ma anche i bambini..
In questa nota,Il presidente della Duma di Stato russa, Vyacheslav Volodin, ha rafforzato alcune mie recenti affermazioni, secondo cui il destino dell’Ucraina è la capitolazione totale e la resa alla Russia o… la distruzione totale:
Possiamo vedere che una parte ha accettato pienamente che una mobilitazione sociale totale di donne, bambini, adolescenti e tutti gli altri va benissimo per loro, mentre l’altra parte accetterà solo una resa totale e incondizionata. Purtroppo, questo non può che portare alla distruzione totale dell’Ucraina. Nessuna quantità di stupide armi della NATO spedite in tranche trascurabili può cambiare le cose.
Per riassumere l’ultimo giorno o due, non c’è altro che un massacro per l’AFU. Avvertenza grafica:
Una franca discussione tra commentatori militari russi sulla questione della controbatteria, di cui mi sono occupato di tanto in tanto.
Noterete che confermano praticamente tutto quello che ho detto. Sì, l’AFU dispone di alcuni proiettili, come il Vulcan, appena lanciato, con una gittata di 70 km, che supera tutto ciò che la Russia utilizza attualmente (almeno per quanto riguarda l’artiglieria pura, senza contare gli MLRS e altre cose). Ma ne hanno una piccola manciata, così come altri proiettili “speciali” come Excalibur, ecc.
Non si può usare un outlier per discutere su chi sta vincendo la guerra dell’artiglieria. Quando i sistemi russi sono più numerosi e più performanti della maggior parte del tempo, il raro utilizzo di un proiettile di questo tipo non fa pendere la bilancia a loro favore, soprattutto quando la Russia ha molti altri sistemi asimmetrici che possono neutralizzarli.
Conferma che i proiettili standard della Russia sparano a ~24 km, anche se commette un errore con i 35-40 km come standard per l’AFU, che ancora una volta conta solo altri sistemi semi-specialistici come il Caesar francese, di cui non ha molti. I comuni M777 ecc. con proiettili standard sparano meno della portata della Russia.
Ma come ho già detto, chi ha seguito i miei resoconti su questo tema noterà la conferma che i 2S5 Giatsint e i 2S7(M) Peony/Malka russi sono più che all’altezza dei sistemi dell’AFU, senza contare i proiettili speciali. Ma hanno sollevato una buona questione: la Russia ha ancora bisogno di un sistema che possa più regolarmente eguagliare tali gittate. E come hanno detto, ce l’ha con la nuova artiglieria 2S35 Koalitsiya-SV, che dovrebbe essere un 2S19 Msta-s completamente riprogettato, con una gittata di 40 km per i proiettili standard e di 80 km per i proiettili speciali assistiti da razzi, che fa vergognare tutti i migliori sistemi della NATO.
Purtroppo Koalitsiya continua a sguazzare nel buco nero del MIC russo, così come Armata, ecc. Si dice che un paio di esemplari siano stati “testati” in precedenza nell’SMO, ma nessuno sa quando inizierà esattamente la produzione di massa, anche se si dice sempre che sarà “presto”.
Alla luce di tutte le discussioni sui carri armati, ecco un nuovo rapporto dalla principale fabbrica russa di Nizhny Tagil, la Uralvagonzavod:
A seguire, un interessante sondaggio del centro di ricerca russo Levada. Mostra la crescita costante dell’orgoglio nazionale russo, il riemergere dell’identità russa dal cupo periodo del 2002 a oggi.:
Nel 2002, tanti russi consideravano più grandi gli Stati Uniti che il loro Paese, e non pensavano quasi per niente alla Cina. Ora la maggioranza considera grande la Cina e gli Stati Uniti sono stati relegati da “grandi” a “di seconda categoria”.
Infine, un’altra pubblicità militare russa in una recente serie di annunci che sembrano lasciare intendere grandi cose. Prima, giorni fa, c’è stato un annuncio che alludeva alla futura conquista di Kiev. Ora un’altra allude al ricongiungimento di Odessa con la madrepatria russa.
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