Neo-costituzionalismo, di Luis Maria Bandieri

Lunedì 23 aprile abbiamo pubblicato un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange dal titolo “Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo” http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/. Come deducibile dal titolo si tratta di una chiosa ad un testo del Professor Bandieri sul tema del neocostituzionalismo. Per offrire una migliore comprensione degli argomenti di de la Grange riproduciamo qui sotto il testo di riferimento debitamente tradotto dal francese. Buona lettura_Giuseppe Germinario

NEO-COSTITUZIONALISMO

Qualsiasi consenso sarà sempre la pallida realizzazione di un intimo desiderio totalitario,il desiderio di unanimità (Javier Marias Un coeur si blanc) In materia di costituzionalismo, il XXI secolo sta tradendo il sec. XX. Nel secolo passato, attraverso una serie d’avvenimenti drammatici e di risoluzioni tragiche che hanno lasciato il loro strascico di morte e di dolore,una creatura del XIX sec, lo Stato di diritto, si era imposto come una figura politica che si credeva e si rappresentava allora come definitiva. Questa creazione dava al diritto una forma politica, la forma-Stato che incarna il diritto fino a fondersi in esso, attraverso la quale il diritto stesso si trova a realizzarsi pienamente nell’elemento comune che veicola la legge, essendo questa da un lato posta come sinonimo di tutto il diritto e dall’altro presentandosi come il prodotto della creazione statale. Lo Stato di diritto del XIX secolo stato uno stendardo dispiegato contro lo Stato forte, il Machtstaat. Lo stato di diritto del XX secolo credette di risolvere una volta per tutte la tensione dialettica tra diritto e potenza, tra Recht e Macht, questa aporia sulla quale i giuristi si erano affaticati fino allora. D’altronde questa sintesi si realizzava forse più intenzionalmente che oggettivamente come lasciano intendere, per esempio, certi classici di quest’epoca, oggi dimenticati. Gerhard Ritter parlava così della “diabolicità del potere” come di una penombra ambigua e sinistra segnata dalla possessione, Friedrich Meinecke dedicò a questo tema un enorme volume nel quale esitava tra i due poli del dilemma anche se nell’ultimo paragrafo dell’opera, evitando di incrociare lo sguardo di sfinge del potere, egli consigliava ai potenti d’iscrivere sul loro petto lo Stato e Dio “se essi non vogliono che influisca su di essi questo demone di cui in assoluto, non è mai possibile disfarsi”. Hans Kelsen, infine, diluì questa dualità stabilendo l’identità tra diritto e stato e avvertendoci che colui che vorrebbe andare più lontano e non chiudere gli occhi si ritroverebbe di fronte “la Gorgona del potere” Ora in questo inizio di nuovo millennio si afferma e si sviluppa una nuova corrente di pensiero che pretende di superare questa vecchia aporia di cui i pezzi sparsi, sempre presenti nell’antico quadro costituzionale, erano nelle mani dei costituzionalisti vecchio stampo, per gettare le basi di una nuova concezione del diritto che per l’esaltazione dello “Stato Costituzionale”come conseguenza logica delle sue proposte annuncia finalmente la sepoltura del vecchio Stato di diritto. In questo studio speriamo di apportare una risposta sintetica a due questioni che abbiamo rilevato in margine ad una lettura attenta dei testi “neocostituzionalisti”:1) Lo Stato di diritto costituzionale è un nuovo paradigma che supera lo Stato di diritto? 2) Il neocostituzionalismo è una teoria giuridica che supera il costituzionalismo classico? Con l’espressione “Stato Costituzionale”o “Stato di diritto costituzionale” ci riferiamo a ciò che si propone per indicare le “società pluraliste attuali ,cioè le società dotate di un certo grado di relativismo” dove il solo “metavalore” (o “contenuto solido”) identificabile è precisamente quello della pluralità dei valori e dei principi, ovvero il precetto di imporre dolcemente la “necessaria coesistenza dei contenuti”10. Questa coesistenza è resa possibile per questo”artificio moderno che è lo Stato di diritto costituzionale” dove si produce una “doppia soggezione del diritto al diritto”11 nella forma come nella sostanza. Il diritto supremo che assoggetta tutto l’ordine giuridico, rinvia alla Costituzione, non a quella di ciascuna ordinamento nazionale ma a una costituzione cosmopolitica che culmina nella creazione di una “sfera pubblica mondiale”12 fornitrice di principi e di valori i quali rendono concreti i diritti dell’uomo in costante espansione. Il neo costituzionalismo è il supporto dottrinale dello Stato di diritto costituzionale che si sviluppa su tutto il pianeta. E non ne risulta, secondo le sue voci più autorevoli, una estensione dello Stato di diritto perché, “più che di una continuazione,si tratta di una profonda trasformazione che incide necessariamente sul concetto stesso di diritto”13. I suoi partigiani così assicurano che si tratta di un nuovo paradigma. Ricordiamo che “paradigma” – espressione divenuta talmente banale che richiede alcune precisazioni-indica secondo Thomas Kuhn l’insieme delle strutture concettuali e metodologiche che costituiscono l’orizzonte di una disciplina scientifica ad un certo momento. Quando un paradigma si è stabilito ed è divenuto l’oggetto di una accettazione generale e convenzionale in un campo di conoscenze, sopravviene un periodo di “scienza normale” dove i problemi e i modi per risolverli si collocano in anticipo attraverso il prisma di questo paradigma dominante. Ciò che allora è messo alla prova nella ricerca,non è la teoria che il paradigma esibisce ma l’abilità dello “scientifico” ad applicarla. Quando uno o più problemi definiti dal paradigma resistono agli operatori sopraggiunge un periodo critico chiamato “rivoluzione scientifica” che culmina con la nascita di un nuovo paradigma accettato a sua volta dai partecipanti all’attività scientifica .La storia di una disciplina si rivela come lo sviluppo di linee di spartizione successive correlativamente ai paradigmi discussi. Nell’intermezzo critico fra due paradigmi, gli adepti dell’uno o dell’altro parlano due linguaggi differenti. Si ha dunque bisogno di una traduzione del linguaggio dell’uno nel vocabolario dell’altro. Ora, giustamente, il paradigma dello Stato di diritto costituzionale -difeso dal neocostituzionalismo- non ha bisogno di traduzione e il suo linguaggio è condiviso dalla maggior parte dei costituzionalisti o dei filosofi del diritto, già sostenitori delle categorie del costituzionalismo classico. Costoro vi intravedono un ampliamento degli orizzonti dell’antica disciplina, ma non una rottura. Per ragioni differenti da quelle dei costituzionalisti classici, penso ugualmente che lo Stato di diritto costituzionale così come il neocostituzionalismo che ne è il supporto teorico non costituiscono una rottura epistemologica in rapporto alla teoria “classica” dello Stato di diritto e al vecchio costituzionalismo. Entrambi sono il prodotto della modernità con la differenza che lo Stato di diritto ne connota l’apogeo mentre lo Stato di diritto costituzionale ne sarebbe piuttosto il crepuscolo. In realtà non è nelle parole “Costituzione” o “diritto” ripetute a volontà dagli uni o dagli altri che appaiono i segni critici e la necessità di una “traduzione” ma nella formula interna di un termine giuridico dalla lunga storia: lo “Stato”; è in effetti lo Stato, in quanto forma politica che sembra essere entrato nel suo declino storico, ciò che ci porta a chiederci se il neocostituzionalismo non si riveli un modo di iniettare, nell’impostura generale, un vaccino di sopravvivenza alla statalità in rovina. Lo Stato di diritto, come l’ha spiegato Carl Schmitt14 è sicuramente centrato sulla legalità “il diritto è la legge e la legge è il diritto” ma comprende un elemento ontologicamente politico che, precisamente, è stato per lungo tempo, lo Stato. Questo elemento politico si manifestava nella “sovranità del popolo”, limitata e contenuta dai diritti dell’uomo e dalla separazione dei poteri, e nella possibilità che detiene, dal potere costituente, la decisione politica di dotarsi di una costituzione “positiva” nel senso che Schmitt stesso da a questa ultima espressione come specifica a un popolo in particolare15. Lo Stato di diritto costituzionale,in compenso,si presenta come un mezzo di neutralizzazione quasi totale dell’elemento puramente politico sotteso alla forma statale che è stata appena descritta ovvero che sopprime il potere decisionale del Principe. L’elemento politico(democratizzato) lo si trova ridotto al fugace istante del suffragio,alla scelta tra proposte definite prima dal marketing elettorale al punto che un celebre politologo argentino ha potuto caratterizzare lo Stato costituzionale come la “società più civilizzata e repubblicana che vi sia, ma che, di democratico nel senso stretto del termine…lo è sempre di meno”16. La Costituzione vi si trasforma ora in Costituzione globale,cosmopolitica,in diritto dell’individuo cosmopolita – das Weltbùrger-recht – ripreso in convenzioni e dichiarazioni locali o universali poi esteso (attraverso la via tortuosa dell’interpretazione) attraverso tribunali supremi non eletti. Lo Stato di diritto costituzionale priva di ogni contenuto politico la forma politica statale ma vuole continuare a chiamarsi “Stato”conservandone passivamente questo titolo allorché gli converrebbe senza dubbio meglio quello di “Costituzione senza sovrano”17 Zagrebelsky18 riassume il cuore delle argomentazioni di differenti giuristi tra l’una e l’altra delle formule seguenti. Nello Stato di diritto:diritto=legge=misura dei diritti; nello Stato di diritto costituzionale: Diritto=diritti fondamentali=misura della legge. Queste differenze possono in modo semplice riassumersi così:

 

Quando noi utilizziamo delle espressioni come “post modernità”o “post-positivismo” sappiamo che il prefisso post indica” ciò che viene dopo “ma ciò non vuole per forza dire che noi conosciamo questo “dopo” ed ugualmente che questo sia necessariamente distinto da ciò che precede .Tale è il segno delle epoche dove, per usare le parole di Heidegger, le divinità antiche si sono ritirate mentre le divinità nuove non si sono ancora manifestate. E il tempo dell’interregno la cui caratteristica secondo Ernst Junger è di “mancare di una verità ultima”19. La divinità che si spegne sotto i nostri occhi è la modernità, quella di cui siamo gli eredi che ci piaccia o no, e le cui categorie ci condizionano. Noi ignoriamo quale sarà la nuova era e le nuove divinità che le succederanno. Di contro ciò che noi possiamo osservare sono gli ultimi segnali di questa modernità che noi chiamiamo, in mancanza d’altro, la postmodernità e, come giuristi,gli ultimi soprassalti del positivismo – che denominiamo in mancanza di meglio – il postpositivismo. Il neocostituzionalismo è il nocciolo dottrinale del post-positivismo. Così osserviamo il fallimento progressivo della forma politica statale che fu l’ultima costruzione tecnico-giuridica della razionalità occidentale e di cui il neo costituzionalismo tenta di illuminare gli ultimi sprazzi. Questa modernità nella quale siamo vincolati proviene da due correnti di pensiero che hanno posto i loro fondamenti concettuali e le loro contraddizioni: l’illuminismo e il romanticismo. I dogmi sui quali posa la modernità sono i seguenti: l’autorealizzazione continua dell’individuo attraverso la ragione – il sapere aude -,il pensiero in se kantiano – per raggiungere la maturità e arrivare all’emancipazione; il ritorno mitico all’infanzia perduta e all’innocenza della natura essa stessa mitizzata; il progresso lineare, inesorabile e indefinito; la realizzazione dell’utopia, la possibilità di realizzazione di un altro mondo, distinto dal presente, dove si erigerebbe la città perfetta e dove si raggiungerebbe la pacificazione universale. La postmodernità giuridica dipende anche da questi dogmi,che hanno subito un certo lifting ma si conservano tali e quali. Nell’autorealizzazione dell’individuo espressa dai diritti di ultima generazione (l’immagine stessa di “generazione” evoca questa espansione indefinita): diritto alla disposizione assoluta e senza limiti sociali del proprio corpo, alla mutazione antropologica del “genere”, alla follia, alla vita, alla morte ecc-noi siamo arrivati alla decostruzione totale della relazione del soggetto e dell’oggetto. Al punto anche di poterla del tutto trascurare, malgrado il diritto moderno, fino allo stato di diritto, derivasse dalla distinzione cartesiana del soggetto e dell’oggetto – anche se, qui, il soggetto era piazzato sopra l’oggetto o per dirla diversamente, il soggetto era al centro e l’oggetto alla periferia (essendosi Cartesio così distanziato dalla filosofia classica dove c’era corrispondenza e non dipendenza dell’oggetto rispetto al soggetto). In effetti, per lo ius, il conflitto giuridico è una disputa sulla ripartizione dei beni della vita, materiali o simbolici. Dalla cosa disputata si estrae lo ius, il criterio di attribuzione proprio a ciascuno cioè la res justa. Concentrandosi sul soggetto, il cartesianismo alterava già questa relazione, ma la post-modernità l’ha trasformata in modo fondamentale. Con essa non resta più oramai che il soggetto solitario, titolare di diritti prima ancora di entrare in contatto con l’altro e di cui l’identità non deriva ormai che dalla sua volontà egoista. Questa costruzione e ricostruzione permanente del soggetto, personaggio esclusivo della scena giuridica la cui autorealizzazione reclama la disseminazione indefinita dei diritti soggettivi fondamentali si concretizza a mezzo dell’attivismo giudiziario e dell’agitarsi degli attori sociali impegnati (come le ong). Come sostenuto dai suoi partigiani, lo Stato costituzionale di diritto opera su principi teorici che esprimono insieme i valori incarnati dai diritti dell’uomo, in un processo circolare e in costante espansione. I principi “positivizzano quanto considerato prerogativa del diritto naturale: la determinazione della giustizia e dei diritti dell’uomo”20. I valori, in una società post-moderna sono così plurali e così relativi che devono coesistere e preservare le loro contraddizioni. Tale coesistenza di valori s’esprime “nel duplice imperativo del pluralismo dei valori (in ciò che riguarda l’aspetto sostanziale) e della lealtà del loro confronto antagonistico (per ciò che concerne l’aspetto procedurale”; riveste anche il ruolo di punto focale e indistruttibile di qualsiasi vita sociale, politica, giuridica “le supreme esigenze costituzionali… si congiungono all’intransigenza e… alle antiche ragioni della sovranità”21. E il fardello della comune preservazione dei valori contraddittori affermato dalla supremazia del pluralismo, ricade sui giudici che si servono a questo fine di un “diritto flessibile” e, utilizzando un’altra immagine, d’una dogmatica giuridica “liquida” o “fluida”22. Perché i giudici, nello Stato costituzionale di diritto, sono i “nuovi signori” di questo diritto flessibile e si sostituiscono al legislatore quale figura centrale dello Stato di diritto. Può allora parlarsi di governo dei giudici? Forse, ma non nel senso evocato dall’antico – ma non anacronico – caveat di Lambert23. Oggi l’espressione significa soltanto che la conflittualità politica si è spostata: dalle alleanze di governo con la loro legislazione alle maggioranze docili alla nomina dei giudici dei Tribunali supremi (Corti costituzionali o supreme); e, poi, nei gradini inferiori, alla manipolazione delle procedure per la nomina dei consigli dei magistrati e di altri organi simili, o ancora dell’addomesticamento dei giudici in servizio. Giudici già designati con procedure improprie (o anche fraudolente) nelle commissioni disciplinari o nelle commissioni di concorso – tutto ciò formalmente attestato nella recente storia giudiziaria dell’Argentina – per non citare che un esempio. Non si tratta quindi di un Governo di giudici, ma di governare i giudici. Più ancora il neo-costituzionalismo sembrerebbe tendere alla formazione di uno Stato giudiziario, dove l’ultima parola, la decisione sovrana, spetterebbe al giudice, non in applicazione di norme preventivamente statuite ma di principi. Come scriveva Carl Schmitt riguardo al potere giudiziario statale “a stento si può ancora parlare di Stato, perché l’ambito della comunità politica sarebbe occupato da una comunità giuridica, o almeno, a seconda dei casi, apolitica”24. Ma, come notavamo in precedenza, la pretesa di neutralizzare la politica e rimpiazzarla con un tecnicismo giudiziario frana per la natura delle cose. Perché allora il campo (o uno dei campi decisivi) verso il quale si concentra la conflittualità politica diviene il Tribunale, col risultato di politicizzare la giustizia e contemporaneamente di giudiziarizzare il politico. Ciò che esce dalla porta, rientra – rumorosamente – dalla finestra. Il ricorso alla distinzione tra atti amministrativi e atti politici, che permetteva d’invocare la non giudiziarizzazione di questi ultimi e stabilire – sotto forma di un accordo politico – un’area di self-restraint del potere giudiziario (estensiva o restrittiva secondo le circostanze da governare) già discutibile nella teoria dello Stato di diritto classico, ancor più è indifendibile con l’ortodossia dello Stato di diritto costituzionale. Col sottomettere tutto l’apparato normativo statale al controllo di legalità internazionale (conventionalité) e costituzionalità (per sottrarlo a decisioni aleatorie) lo Stato in quanto sostanza politica perde la sua coesione unitaria (entièreté) e, di conseguenza, ogni credibilità ontologica. L’idea di un consenso politico Il neo-costituzionalismo sottolinea, di rimando, che la dimensione politica del giudice post-moderno consiste nell’esprimere, colle sue sentenze, un “consenso razionale” tra valori contrapposti. La fonte dei principi messi in gioco per stabilire un siffatto consenso deriva dalla “tavola” (grille) dei valori dei diritti dell’uomo, che delimita una zona non negoziabile, “illimitata (hors-limites) e inviolabile”, che come spiega Garzon Valdes25 “esige eticamente l’intolleranza o se si preferisce la dittatura contro quelli che pretendono di invaderla”26. La politica odierna non sarebbe più capace di mediare i conflitti concernenti “valori essenziali” né d’esprimere un qualsiasi “consenso razionale”, mentre la politica giudiziaria, col suo strumentario (appareillage) tecnico ricolmo d’imparzialità, è presentata come la sola capace di padroneggiarla (maîtrise). Il “consenso” diviene così una delle parole feticcio di politici e giornalisti: “Governo e opposizione cercano consenso sulle misure da prendere per contenere il rialzo dei prezzi”, “I ministri degli Esteri dell’UNASUR hanno raggiunto il consenso per eleggere il segretario generale: “Per decidere si ricercherà il consenso con il resto degli eletti in Comune” ecc. ecc.. In ogni caso tale consenso somiglia all’unanimità. Questa ricerca (vogue) del consenso, e del vocabolario a questo connesso, può considerarsi l’eco lontana di una concezione filosofica – quella dell’ “azione comunicazionale” e della teoria consensuale della verità – nello stesso modo in cui si trova l’eco della grande letteratura in certe telenovelas. Tale formulazione, di cui Jürgens Habermas è uno degli ispiratori, pretende che – in un contesto ideale di linguaggio – si può ottenere un consenso morale e razionale attraverso la discussione libera e leale che consacrerà, ancor più, la verità di una proposizione (proposition). Nelle società pluraliste, dove si trova un nocciolo duro costituito dai diritti fondamentali tratti dalla Costituzione cosmopolitica, la quale difende l’antagonismo dei valori di cui garantisce la pacifica co-abitazione, il consenso morale-razionale dev’essere capace di pervenire per la sua verità e rigore all’assenso generale. In altri termini, la forza generatrice del consenso troverà un terreno più fertile nel giudice, signore del diritto che decide con calma a seguito di una discussione razionale ed equa, ascoltando gli interessati che nel legislatore (negoziatore della legge) costretto a “riunire” maggioranze con la distribuzione di prebende tra interessi organizzati. L’idea di un consenso politico che potrebbe superare l’insufficienza del principio maggioritario e così portare ad un’unanimità teorica, proviene come si sa da Rousseau. Se, a fianco della nostra volontà indirizzata dall’interesse particolare (la “volontà di tutti”), noi partecipiamo in quanto cittadini a un’altra volontà (la “volontà generale”, rivolta al bene comune) allora la legge votata dalla maggioranza – anche se si rivela contraria alla mia opinione – esprimerà quanto meno la mia partecipazione personale alla volontà generale. Mi sono così mutato in co-legislatore della legge cui obbedisco, e assoggettandomi, non obbedisco che a me stesso. Questo consenso umanimistico della volontà generale implica che al di fuori di tale consenso, la sola via sia l’esilio e che viene meno la distinzione politica di comando ed obbedienza, perché queste due funzioni si confondono nello stesso soggetto. Kant stesso è ritornato su tale consenso forzato, considerato da Bertrand De Jouvenel come “frode intellettuale inconsapevole”27. E’ perché la volontà generale non è più trasponibile nella nostra epoca che si spiega il cambiamento neo-costituzionalista, un consenso che passa dalla politica al diritto, dal legislatore al giudice, ma al prezzo di una marginalizzazione della politica e di uno sconvolgimento del diritto che finisce per fabbricare, partendo dai tribunali, delle “unanimità” altrettanto forzate della teoria maggioritaria della sovranità popolare. Tentiamo un altro approccio al consensus, che non abolisca la politica e renda ipertrofico il diritto, Torniamo a un classico come Cicerone, che elaborò tale concetto. Al posto di un consenso a costruire poi la società, si tratta di precederla costituendo il suo basamento fondamentale: il consenso non gli sarebbe posteriore, ma ne costituirebbe l’antecedente: non ne sarebbe il risultato, ma la precederebbe rendendola possibile. E’ il consenso di tutti (consensus omnium). Questo connota l’insieme delle credenze fondamentali tramandato di generazione in generazione; tale consenso unificatore “consente di fare liberamente ciò che le leggi obbligano a fare”28. Il legame di cittadinanza (civique) è unito al legame giuridico, al consensus juris, al consenso sul diritto, cioè su un comune sentire su ciò che è justum. Secondo l’Arpinate, il consenso su ciò che è giusto trasforma una moltitudine in popolo e da forma alla res publica, alla cosa pubblica, la cosa comune, la cosa di tutti. Il principale dovere civico consiste quindi nel sorvegliare il consensus juris fondatore delle res publica, depositario della sua realtà concreta come unità politica, in altre parole della sua costituzione originaria. E soltanto su tale base consensuale, e unicamente su essa, ch’è possibile stipulare accordi e compromessi per superare la conflittualità politica e realizzare la convivenza nella concordia. Come sosteneva Simmel ai suoi tempi, accordo e compromesso sono “una delle migliori invenzioni dell’umanità”29. Ma ogni accordo suppone il terreno comune d’un consenso unificatore preventivo, base della comunità politica accanto a questo bene comune che è il diritto. Il consenso è qui l’insieme delle credenze comunitarie fondamentali su cui può successivamente costruirsi l’edificio giuridico-politico. All’inverso il consenso neo-costituzionalista appare come una costruzione sociale e culturale, continuamente mutevole, di raggruppamenti eterocliti che hanno per scopo di preservare simultaneamente dei valori opposti ed eterogenei – senza mai preoccuparsi di uno spazio comune. In questo operare continuo, si corre il rischio di cadere nell’avvertenza ricordataci dal brillante romanziere spagnolo che ci ha servito d’epigrafe. Al di là delle intenzioni sicuramente lodevolissime dei loro attori, la produzione a ritmo accelerato di consenso per via giudiziaria può, malgrado il lavaggio mediatico dei cervelli, avverarsi solo con la fabbricazione a catena d’unanimità semplicemente virtuali e supposte con le quali – come scriverebbe Emil Cioran – si finisce per praticare un “assassinio per entusiasmo” dei principi fondamentali che si difendono. La filosofia dei valori, risposta al nichilismo. Un noto pensatore come Garzon Valdés sosteneva (forse solo a titolo di provocazione intellettuale e per “animare il dibattito”), che coloro che non comprendono l’importanza del complesso dei diritti e valori fondamentali che costituisce i “fuori limite”, saranno classificati come “incompetenti di base” e resteranno sottomessi alle decisioni di quelli che saranno, al contrario, ritenuti come pienamente competenti sull’oggetto. E’ il famoso “li si costringerà ad essere liberi” di Rousseau, salvo che oggigiorno, se i marginalizzati scegliessero l’asilo nello spazio pubblico mondializzato, troverebbero difficilmente un angolo dove rifugiarsi. Il filosofo argentino si riferisce sicuramente ai nazisti che preparavano la “soluzione finale”, o ai colonizzatori spagnoli ribelli alle leyes nuevas del 1542 sul trattamento umano e la protezione degli indiani. Ma, al di fuori dei grandi archetipi delle malignità che agiscono sotto il motto del Lucifero di Milton (“Male sii il mio Bene”), osserviamo quotidianamente nel mondo reale che la discordia non deriva dal rigetto in blocco dei “fuori-limite”, ma nasce tra avversari che accampano, a sostegno dei loro comportamenti, giustificazioni interne ai “limiti” (à ce hors-limites). I cattivi ordinari, in ogni caso, argomentano come dei buoni perdenti. Non si dice come potrebbe esercitarsi correttamente ed effettivamente questa dittatura dei competenti sugli “incompetenti di base” salvo che si avverte che solo i membri del partito dei neo-costituzionalisti vi saranno intrinsecamente qualificati. Il problema, come notato da Schmitt, rinvia conseguentemente al quis iudicabit? ovvero a chi avrà in ultima istanza, il potere di giudicare reprobi ed eletti, gli invitati all’agape del dibattito leal-idealista e i condannati alle tenebre? Quando proclamiamo la necessità d’una coabitazione di valori eterogenei, ci si rende conto che ciò non basta, a meno di nascondere soltanto il problema, invece di risolverlo. E’ per questa via metodologicamente indiretta che la confusione neo costituzionalista miscela i principi con i valori. Al termine della metafisica classica, la filosofia dei valori ha tentato di occupare il posto di un’ontologia moribonda30. In un notevole lavoro su questo tema Carl Schmitt precisava che fu all’inizio una “risposta alla crisi nichilista del XIX secolo”31. Il valore e la validità, riteneva dal canto suo Heidegger, arrivano a divenire un sostituto positivista della metafisica. I valori non sono essenze: “Non sono, ma valgono” e non significano niente al di là della relazione con il soggetto che valuta gli oggetti in relazione ai suoi desideri, ai suoi bisogni, alle sue preferenze ecc.. La nozione di “valore” non ha mai potuto sfuggire alla sua origine economica. Ogni valore suppone una competizione con altri valori: questa s’esprime sempre nel giudicare che l’uno è “migliore” dell’altro, il che comporta, per misurarla, il passaggio dalla qualità alla quantità. Parlare di valore significa quindi costruire – nel compromettente scenario d’un soggettivismo profondo – una scala e una “quotizzazione” mobile di tali o talaltri valori. E chi definisce un valore deve, insieme, definire un antivalore, un valore negativo. I valori, nota Schmitt «valgono così sempre contro qualcuno». Il problema si sposta allora su chi fissa le diverse coordinate della scala mobile dei valori, chi ha il potere di dichiarare che una cosa è migliore o peggiore di un’altra, il quis iudicabit? … Quando dal neo costituzionalismo si afferma che l’unico metavalore inamovibile è quello della preservazione del pluralismo, s’intronizza così una sorta di autorità obiettiva che avrebbe la capacità di decidere quali valori integrare nella diversità plurale da rispettare, e quali sono quelli che, all’inverso, dovranno essere iscritti nella lista dei valori da evitare, da non ammettere alla gara del consenso. L’idea di valore implica necessariamente una pluralità di giudizi comparativi che riafferma la sua dimensione soggettiva. Ma un pluralismo in cui tutti i valori si equivalessero non è altro che un “sogno della ragione” perché se tutto vale, se il ruolo della valutazione dei valori è giustamente di stabilire una scala e una gerarchia di valutazioni comparative allora non vale più niente e nessun “consenso razionale” è più possibile a partire da operazioni misurate su un insieme sistematicamente svalutato che non sposterebbe neppure l’ago della bilancia. Sarebbe erroneo, d’altro canto, immaginarsi di poter giungere al “consenso razionale” attraverso una disputa su valori opposti. Il fondamento di tale errore risiede nell’assimilazione, fatta dal neo costituzionalismo, tra principi oggettivi e valori soggettivi. Il diritto come arte della gestione e regolamentazione dei conflitti, ha da sempre fatto ricorso ai principi – i “principi generali del diritto” ecc. – perché i principi partono d’una evidenza originale indimostrabile, base di ogni dimostrazione oggettiva: essi non precedono dalla pura soggettività. Di più, i principi sono «pro-etici», ossia sono di guida, indicano, mostrano, consigliano, persuadono senza pretendere d’imporsi. Partendo da questi, è possibile trovare la formula di ripartizione più giusta ed equilibrata. Al contrario i valori sono “tetici”32 ossia s’impongono per essere esercitati. Il valore non ha altra evidenza che quella della propria soggettività, si difende e s’installa ostinatamente come una conclusione in se: si rivela, in definitiva “conflittogeno”, e se viene imposto mascherato dall’unanimità virtuale attraverso l’opera del consenso razionale, allora tenderà a far scoppiare il bellum omnium contra omnes. Globalismo giuridico e disarmo degli stati. Il programma neo-costituzionalista è sufficientemente egemonico per essere “applicabile a qualsiasi ordinamento, anche internazionale”33 Ferrajoli distingue a tale proposito due percorsi d’intervento. Il primo è “il superamento delle sovranità attraverso la rifondazione del sistema delle fonti e la proiezione, sul piano internazionale, delle istanze statali tradizionali delle garanzie costituzionali” … In altri termini: la diffusione planetaria della Costituzione cosmopolita e il ricalco delle decisioni giudiziarie supreme sul nocciolo duro dei valori e diritti a pretensione globale. Il secondo è: il superamento delle frontiere statali delle cittadinanze attraverso l’instaurazione d’una cittadinanza universale”. Ovvero l’elargizione definitiva della cittadinanza cosmopolita Kantiana per una sorta d’edittto di Caracalla planetario. Tuttavia, dato che le norme non s’impongono da sole, né le sentenze s’eseguono in forza della sola enunciazione (esigono una volontà e una coazione esecutiva per divenire effettive), sembra che occorra allora ricorrere al potere esecutivo politico. Ora, lo constatiamo un’ennesima volta, il neo-costituzionalismo da un colpo finale onde anestetizzare l’elemento politico che caratterizzava lo Stato di diritto classico, ossia il principio democratico della sovranità popolare. S’impongono una serie di valori e di diritti fondamentali indecidibili e inattaccabili dalla maggioranza e neppure dall’unanimità, allorquando si trasforma il giudice, compreso il giudice a competenza generale, in sovrano. E’ la politica che diventa uno strumento d’intervento del diritto, precisa Ferraioli34. E’ su tale percorso che viene proposto di cercare una “sfera pubblica globale” cosparsa d’ “istituzioni internazionali (giudiziarie) di garanzia” destinate ad applicare un minimum di diritto penale globale, il cui archetipo è la Corte penale internazionale (CPI) competente ai crimini contro l’umanità e organizzata dal Trattato di Roma del 17 luglio 199835. Questo nuovo obiettivo neo-costituzionalista, assai prossimo al “globalismo giuridico” dovrebbe essere accompagnato da riforme nel sistema attuale delle relazioni internazionali: “modificare gli organi dell’ONU, cominciando dal Consiglio di sicurezza … la progressiva sparizione delle forze armate, il rilancio del disarmo degli Stati, compresi i più potenti e riprendere gli interventi e stipulare convenzioni tutti orientati verso l’interdizione totale alla vendita e produzione di armi”36. Se si considera la questione di sapere chi dovrà eseguire le decisioni di queste istituzioni di garanzia, tenuto conto dell’interdizione progressiva della guerra, la corrente neo-costituzionalista evoca un “intervento di polizia internazionale (che) supporrà, essenzialmente un’opera di mediazione giuridicamente regolata, per le garanzie e i controlli processuali che il diritto comporta”37. La pretesa di neutralizzare la dimensione politica dell’uomo, qui mediante l’intermediazione del diritto, non è meno falsa ora che all’esordio. Essendo un dato che la dimensione politica è propria dell’uomo, volerla sopprimere equivale a disumanizzarla. Non è neppure necessario rammentare Aristotele: basta chiedersi se noi ci stiamo avvicinando alle divinità o abbassandoci alla mediocrità. Il diritto non può instaurare la pace. L’avvenire della pace universale promessa dal neo-costituzionalismo è ben nota. Hans Kelsen, al termine della seconda guerra mondiale, ce l’aveva descritto ne “La pace attraverso il diritto” la pace sarà stabilita attraverso il diritto. La pace sarà un diritto azionabile davanti ai Tribunali internazionali e la guerra, considerata crimine, sarà perseguita davanti a questi. Lo jus ad bellum, il diritto di ricorrere alla guerra sarà prescritto, e al posto suo, sarà posto uno jus contra bellum, che punirà la belligeranza. Si utilizzeranno le armi soltanto per mantenere o ristabilire la pace, in nome dell’umanità. Risorgeranno le guerre discriminatorie, dove il nemico sarà demonizzato come nemico dell’umanità e condannato alla distruzione totale. le guerre discriminatorie s’unificheranno e si presenteranno come una guerra civile unica, totale e perpetua, contro il “Male”, fino a quando non sarà definitivamente estirpato. Il territorio di questa guerra è senza confini. Copre tutto il pianeta. In questo mondo nuovo, nessuno può restare neutrale, perché la neutralità è necessariamente alleanza col nemico, ossia con il “Male”. E’ l’eccezione che diviene così permanente sotto la copertura della democrazia e del diritto. “Davanti all’irresistibile progresso di ciò che è stato definito come “una guerra civile mondiale” scrive Giorgio Agamben, “lo stato d’eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea”. Questo Stato d’eccezione, continua Agamben, “si presenta in questa prospettiva come una soglia d’indeterminazione …tra democrazia e assolutismo”38. La pace non si è stabilita attraverso il diritto, perché il diritto non può instaurare la pace. La può sostenere una volta stabilita, ma la pace costituisce l’esclusiva opera dell’alta politica. Come sottolineava Julien Freund, pace e guerra sono nozioni reciproche: è impossibile conseguire la prima senza tener conto della seconda e del nemico. perché la pace si fa col nemico, ha bisogno del nemico “la relazione tra pace e guerra è politicamente così stretta, scriveva Freund, che qualora si criminalizzi la guerra … si criminalizza anche la pace”39. Poco importa allora che le nuove operazioni militari sferrate per “ragioni umanitarie” siano denominate guerre od operazioni di polizia. In ogni caso, l’intervento diviene discriminatorio e demonizza il nemico considerandolo fuori dell’umanità, e per di più dando ragione a Tribunali istituiti per giudicare i vinti e consacrare la superiorità morale del vincitore40. Così il neo-costituzionalismo porta alle estreme conseguenze la neutralizzazione del politico (occorrerebbe anche indubbiamente parlare di dislocazione), processo già in atto, ma non ancora completato nell’epoca dello Stato di diritto classico. Per giudiziarizzare completamente gli elementi politici, occorreva operare un rinnovamento del positivismo, decostruendo la tappa normativista di Kelsen e la sua teoria pura del diritto verso un “positivismo dei valori” utilizzante la piramide delle norme come un sistema tentacolare almeno così stretto e cogente (violent) del diritto naturale, ma ancor più meccanizzato in forza della sua paradossale origine positivista. Il passaggio della testualità giuridica ai principi del diritto non fu, in questo stadio, senza risultati innovativi (nouvelles) sui rapporti tra diritto e politica. Implicò notoriamente di sopravalorizzare il giudice e la sua interpretazione delle regole. Servendosi della tipologia dei giudici e dei modelli di diritto elaborati da François Ost41, potremmo caratterizzare il Giudice post-moderno come un “giudice Mercurio” (Ermes). Il “giudice Giove” (jupiter) sarebbe collocato al vertice della piramide normativa, (essendo) l’unico capace di poterne dedurre in modo inflessibile della decisione. Il “giudice Ercole”, conformemente alla parabola di Dworkin avrebbe l’onere infine della conoscenza del diritto richiesta onde identificare i principi direttivi che consentiranno di decidere nel caso concreto in giudizio. Qui l’innovazione è quella di una piramide rovesciata o d’un imbuto. Il compito del “giudice Mercurio” (sul punto mi allontano dalla descrizione del professore belga) è di restare attento al corso dei valori che la condizione spirituale dell’epoca lo Zeitgeist, considera come dominante. In conclusione, si può constatare che il neo-costituzionalismo è un portare alle estreme conseguenze lo stato di diritto al fine di depolitizzarlo, ma che non inventa un nuovo paradigma che supererà il positivismo. Lo trasforma in un positivismo dei valori. Fa dello Stato di diritto un tecnico normativista dei diritti dell’uomo a beneficio d’un potere giudiziario divenuto l’attore emergente della “post-politica”42. Luis Maria Bandieri (tradotto dal francese da Maria D’Antonio)

 

SIRIA, DOSSIER E FAKE NEWS, di Giuseppe Germinario

Tranne rare eccezioni in un confronto militare la particolare posizione dell’aggressore richiede solitamente un’azione specifica che possa innescare o giustificare l’iniziativa. La gamma di iniziative è particolarmente nutrita. Si va dalla provocazione all’induzione alla reazione, alla istigazione, alla vera e propria montatura del casus belli. Un evento così traumatico deve essere giustificato, richiede la necessaria motivazione specie in un agone ancora delimitato dalla presenza degli stati nazionali e dal riconoscimento reciproco della propria esistenza.

Il conflitto in Siria non sfugge a queste dinamiche.

Partito da un movimento di contestazione, grazie ad alcune provocazioni mirate soprattutto verso le forze di polizia si è trasformato in guerra civile; da guerra civile in pochi mesi si è evoluto in un confronto prevalente con orde di uomini, da soli o con la propria famiglia, provenienti dall’Europa e dai luoghi più disparati del Nord-Africa e del Medio Oriente in cerca di fortuna; messe a mal partito queste ultime, la Siria sta ormai diventando sempre più terreno di confronto diretto di potenze regionali e globali. Una condizione che difficilmente le consentirà di salvaguardare totalmente l’integrità territoriale.

L’attitudine alla resistenza del regime di Assad è stata mirabile come pure la sua capacità di guadagnare consenso tra la popolazione. Nel suo cammino ha incontrato fortunatamente la volontà dei russi di porre finalmente un limite all’incalzare sino all’interno dei propri confini delle strategie americane; volontà senza la quale Assad probabilmente avrebbe già raggiunto Gheddafi nel suo tragico destino e la Siria avrebbe subito una sorte analoga alla Libia, ma con consistenti parti di territorio predate dai vicini.

Le forze esterne presenti sul campo sono ancora, almeno ufficialmente e con la parziale eccezione dell’esercito turco, in numero limitato e sono attente ad evitare scontri diretti tali da innescare un crescendo imprevedibile del conflitto.

Non mancano di certo casi di attacchi diretti, in parte legati alla casualità, in parte al tentativo di testare le reazioni, in parte ancora dovuti alla conduzione schizofrenica delle campagne militari dettata dal conflitto di strategie e dal drammatico scontro politico interno soprattutto ai centri americani e sauditi. In quest’ultimo caso sono il probabile esito di pesanti provocazioni dei fautori di un conflitto più aperto presenti anche nelle potenze regionali, in particolare Israele e Arabia Saudita, intenzionate a trascinare i grandi nel conflitto a loro sostegno e in loro vece. Ne hanno fatto le spese, circa un mese fa, alcune decine di contractors russi (ex militari) vittime di bombardamenti aerei americani e israeliani.

Sta di fatto, però che le forze irregolari disposte a prestarsi a strumento di questi giochi sono in via di significativo prosciugamento, mentre gli eserciti regolari sono restii ad entrare in campo sia per un’opinione pubblica ancora ostile agli interventi, sia per l’insostenibilità di un eventuale numero elevato di perdite specie del campo occidentale, sia per la condizione caotica del fronte che ancora per la concreta possibilità di estensione incontrollata del conflitto.

Da qui la ricerca di una giustificazione e la costruzione di pretesti verosimili che legittimino gli interventi e motivino le forze disponibili.

Gli attacchi chimici sono tornati di gran voga ad essere il motivo scatenante delle intromissioni, salvo essere smentiti se non addirittura attribuiti alle presunte vittime nel breve volgere di pochi giorni e a seguito di rapidi accertamenti.

Dal punto di vista emotivo sono ancora un buon detonatore; quanto alla verosimiglianza delle versioni offerte lasciano però ormai a desiderare, visti i precedenti ingannevoli e la relativa permeabilità del sistema di informazione.

Il rapporto dato in pasto dai servizi segreti francesi e utilizzato per giustificare l’intervento anglo-franco-americano del quattordici aprile in Siria rappresenta al momento lo stato dell’arte della pretestuosità e dell’arroganza.  https://www.les-crises.fr/frappes-syrie-les-preuves-presentees-par-le-drian-le-vide-comme-nouveau-fondement-juridique-a-l-agression/

https://www.les-crises.fr/en-quete-de-verite-dans-les-decombres-de-douma-et-les-doutes-dun-medecin-sur-lattaque-chimique-par-robert-fisk/

Alcuni siti francesi si sono premurati di smontarlo punto per punto nei vari aspetti praticamente in tempo reale

  • Hanno stigmatizzato la scarsa serietà dei redattori affidatisi esclusivamente a immagini raccogliticce, definite spontanee, senza data e indicazioni precise
  • Hanno sottolineato l’ipocrisia dell’affermazione riguardante l’assenza di informatori sul campo, quando gli stessi servizi sono stati in grado di fornire l’esatta composizione delle fazioni impegnate a resistere agli attacchi delle truppe lealiste
  • Hanno denunciato la palese capziosità dell’indicazione in Assad dell’unico beneficiario possibile di tale utilizzo, a dispetto dei precedenti rapporti di organizzazioni internazionali

Sta di fatto che ciò che è apparso poco attendibile per una parte dello stesso staff presidenziale americano è rimasta una incontrovertibile verità per l’altra parte e soprattutto per il giovane Macron.

In altri tempi, quando le cortine di ferro delimitavano più chiaramente le sfere di influenza e ingessavano il confronto mediatico, tanta sfrontatezza sarebbe passata inosservata se non spacciata con buone probabilità di successo addirittura per autorevolezza.

Oggi lo scontro politico attraversa platealmente e apertamente i centri decisionali specie americani, senza esclusione di colpi. L’allentamento della presa sta facendo emergere potenziali competitori globali e una miriade di potenze regionali ambiziose in un turbinio di posizioni e di giravolte repentine tali da rendere sempre meno credibile la parola e la costruzione mediatica. Una complessità della quale rischiano di rimanere vittime, oltre che artefici anche gli attori più importanti e navigati.

Sta di fatto che la Siria è ormai diventato prevalentemente un campo di battaglia tra forze esterne dove le stesse forze lealiste di Assad, le più gelose paladine delle prerogative sovrane del paese, anche in caso di vittoria definitiva, per altro ancora lungi dall’essere conseguita, difficilmente potranno recuperare in tempi rapidi l’autonomia politica di un tempo. La posta in palio, ormai, nel breve periodo non è più l’allontanamento di Assad e nemmeno la sconfitta dei russi; è piuttosto il drastico contenimento dell’Iran. Un obbiettivo in grado di conciliare in qualche modo, in casa americana, le posizioni del nucleo originario sostenitore di Trump favorevole ad un accordo e la componente del vecchio establishment sostenitrice di uno scontro più tattico verso la Russia di Putin. Il sacrificio di Flynn e di Bannon e lo snaturamento dei propositi iniziali sono stati l’obolo necessario alla sanzione del compromesso e della stessa sopravvivenza di Trump.

Sul piano degli schieramenti internazionali hanno sancito il sodalizio americano con l’Arabia del giovane Saud e l’Israele del vecchio Netanyau; una alleanza che si sta trasformando rapidamente in un vero e proprio processo di integrazione degli stessi comandi militari nel teatro siriano i frutti del quale non tarderanno purtroppo a manifestarsi.

Si sente parlare sempre più spesso di una prossima vittoria in campo aperto rispettivamente della Russia, dell’Iran e di Assad. La sproporzione evidente delle forze militari in campo e delle risorse economiche, umane e tecnologiche disponibili dovrebbe indurre a maggior prudenza.

La maggiore coesione, la motivazione più convinta, una maggiore sagacia tattica, il parziale recupero del gap tecnologico sono i fattori che hanno consentito la tenuta dello scacchiere siriano e del regime di Assad nel breve periodo; nel lungo il logoramento potrebbe incidere più pesantemente sullo schieramento lealista.

Di tenuta tuttavia si tratta. Di una strategia tutto sommato ancora difensiva anche se dall’esito diverso rispetto a quanto accaduto in Libia e nell’Europa Orientale negli ultimi trenta anni.

Sono altri i fattori in grado di determinare un ribaltamento dei rapporti e un eventuale collasso, per lo più inerenti la situazione interna dei paesi coinvolti.

Anche la Siria ha conosciuto la propria nemesi.

Da oggetto delle brame del vicinato e da punto focale di una crisi definitiva della capacità di resistenza russa e iraniana si è trasformata in punto di irradiamento di crisi e destabilizzazione verso i predatori.

Lo si è visto in Turchia con la recrudescenza dell’irredentismo curdo e con il tentativo di colpo di stato di Gulen, duramente sopito da Erdogan. Eventi che hanno spinto il governo turco ad una inedita aspirazione di autonomia e ad un controllo ferreo delle leve anche a scapito dell’immediata efficienza degli apparati.

 Lo si intravede in Israele con la sorda guerra di Netanyau con parti della magistratura e dei servizi di intelligence che rischia di trascinare il leader verso un destino simile al suo ex-omologo Sarkozy

Lo si sospetta in Arabia Saudita dove il processo ambizioso e inderogabile di ammodernamento istituzionale, quello di riconversione di una economia troppo legata alla monocoltura di giacimenti petroliferi in via di esaurimento e di (apparente?) distanziamento dai settori più integralisti e oscurantisti del sunnismo viene sostenuto dai classici strumenti di una struttura tribale costituiti da rapimenti, sequestri e uccisioni di notabili rivali, espropriazione di patrimoni e colpi di mano su rituali di successione codificati nel tempo. Il colpo di mano nella notte di sabato scorso, documentato da immagini nelle quali riecheggiavano nutrite sparatorie nel palazzo reale a base di fucili di assalto e granate, apparse solo per pochi minuti e miracolosamente scomparse assieme all’assoluto silenzio stampa in prima mondiale, rivela quanto siano ancora precari e instabili gli equilibri in quel paese con un delfino impegnato a stringere relazioni sempre più strette, quasi simbiotiche con il nemico conclamato del mondo arabo, Israele e con il “profanatore della terra sacra” dai tempi della prima guerra a Saddam, gli Stati Uniti e coinvolto ormai direttamente in due conflitti apparentemente minori, quanto inaspettatamente logoranti. Una irruenza e un cumulo di contraddizioni e contrapposizioni giunte sino ai regimi sunniti della penisola che potrebbero costare cari alle ambizioni se non addirittura alla vita del delfino Salman.

Quanto all’Iran si è visto offrire su un piatto d’argento, grazie all’intervento americano in Iraq, l’allargamento della sfera di influenza ad occidente dopo aver approfittato della situazione precaria in Afghanistan. Si è guadagnato sul campo il potere di influenza in Siria, Libano e Striscia di Gaza incuneandosi tra le rivalità di Turchia e Arabia Saudita. E’ riuscita a mantenere un equilibrio in Libano e continua a strumentalizzare, come il resto degli attori, la questione palestinese. Allarmato dalle primavere arabe ha intensificato lo sviluppo del programma nucleare diventando un avversario temibile di Israele e dell’Arabia Saudita e cercando di entrare nel club della dissuasione nucleare. Alcune iniziative propagandistiche apparentemente gratuite ai danni degli Stati Uniti hanno forse mitigato le irruenze dei più oltranzisti, ma hanno certamente contribuito a lacerare il tenue filo che li univa agli USA. Con l’arrivo di Trump gran parte delle mediazioni raggiunte sono destinate a saltare; a meno che nel frattempo non salti il Presidente. Si tratta, comunque, di un regime e di una società molto più permeabili rispetto alle apparenze. Lo scempio operato dai servizi israeliani e americani tra i tecnici e i responsabili del programma nucleare sono un evidente indizio dello stato presente.

Lo si arguisce in Francia con un giovane e intraprendente presidente smanioso di acquisire il supporto indispensabile del paese ancora più potente, gli Stati Uniti, necessario a preservare le proprie residue sfere di influenza, di riserva economica in Africa, in Siria e nel Pacifico. Quanto sia però precaria e debole questa posizione lo rivela l’aleatorietà degli impegni economici che il regime saudita ha stretto con esso a differenza della consistenza con quelli americani. Una aleatorietà, concretizzatasi in un semplice accordo di valorizzazione del settore turistico in Arabia in netto contrasto con la pesante influenza e con le compromissioni pesanti di essa nel sistema economico-finanziario e sociale della Francia. Legami che hanno già fatto saltare le ambizioni di Sarkozy, con l’affaire libico e che promettono ulteriori sviluppi.

La fretta tradita e la grossolana costruzione di quel documento rivelano la fragilità della sicumera tutta francese di Macron, piuttosto che la sua fattiva determinazione. Il comunicato finale seguito all’incontro tra Trump e il Presidente di Francia, non ostante le effusioni, è tutta lì a rivelare le divergenze con la dirigenza americana e i legami troppo stretti, sia pur discreti, di Macron con il vecchio establishment.

Tutto dipenderà dalla prosecuzione della deriva che sta seguendo Trump. A determinarla però non sarà certamente ed eventualmente il nuovo Napoleone, se non in misura irrilevante.

Il passo dalle fake alle bolle può consumarsi rapidamente e imprevedibilmente.

Questo secolo ha rivelato la rapida evaporazione di tanti leader di successo dalle promettenti carriere. E siamo appena all’inizio.

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”, di Teodoro Klitsche de la Grange

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”(*)

Sono molti gli interrogativi che pone questo denso saggio del prof. Bandieri sul neo-costituzionalismo.

Come scrive Michel Lhomme nella presentazione dello scritto su “Nouvelle École”[1] “Può sintetizzarsi la dottrina neo-costituzionalista in quattro punti: 1) Prevalenza dei diritti dell’uomo su ogni (altro) diritto; 2) Affermazione di questa preminenza nella e per mezzo della Costituzione, per pararsi da un “colpo di stato” parlamentare; 3) l’imposizione di una norma giuridica immediatamente applicabile, senza discussione legislativa, è mettere tra parentesi il concetto della sovranità popolare, del demos; 4) infine l’istituzione di un’autorità giuridica superiore che sanziona la violazione delle norme costituzionali, e che si basa sui giudici costituzionali (che non sono solo quelli interni ma anche dei Tribunali internazionali – NDR…)”.

Altre sintesi sono state formulate per le concezioni degli studiosi neo-costituzionalisti[2].

Le critiche di Bandieri al neo-costituzionalismo possono riassumersi così:

1) Il neocostituzionalismo non è opposto al neo-positivismo, ma ne è una seconda fase: un positivismo di valori al posto di un positivismo di norme.

2) Il neo-costituzionalismo è coerente all’attuale fase (di decadenza) dello Stato moderno. Si può dire che come il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 corrispondeva al “mezzogiorno” del Rechstaat, e come questo era un “Centauro” machiavellico[3] (metà uomo – il Rechtstaat, metà animale – il Machtstaat), così il positivismo giuridico “classico”, come scrive Schmitt, era una sintesi di decisionismo e normativismo.

Con Kelsen e il normativismo si aveva il primo depotenziamento, corrispondente all’accentuarsi del carattere democratico degli Stati europei, al pluralismo politico e quindi allo Stato pluriclasse (M.S. Giannini). Con lo Stato costituzionale di diritto (o dei diritti) lo Stato, oltre che pluriclasse tende a diventare anche pluri-etnico; nel contempo si accresce la presenza nell’ordinamento del diritto “esterno”, cioè internazionale, a opera non solo degli Stati, ma delle Corti di giustizia internazionali e della soggezione degli Stati a sistemi d’alleanza invasivi e alla globalizzazione del diritto.

3) Tuttavia tale diverso approccio non risolve i problemi e le contraddizioni né costituisce una novità radicale. Il diritto “mite” o “liquido” si basa sempre, come ogni diritto, sulla coazione e in ciò, come insegnava Kant, consiste la sua differenza dalla morale. La prova più evidente ne sono le guerre, ribattezzate atti di polizia internazionale e che hanno poco di nuovo rispetto agli atti d’intervento già conosciuti dalla Storia (dall’intervento italiano nel regno delle Due Sicilie nel 1860, a quelli del Patto di Varsavia in Ungheria e Cecoslovacchia, ambedue fondati sulla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata)[4]. È la motivazione che cambia (Pareto avrebbe scritto la derivazione): l’Unione sovietica era comprensibilmente renitente a farsi sottrarre attraverso congressi, discussioni, cambiamenti di maggioranze di partito quello che era stato conquistato con il sangue di centinaia di migliaia di soldati sovietici, e riconosciuto (e stipulato) con accordi internazionali di spartizione geo-politica.

Gli interventi umanitari di quest’ultimo ventennio hanno il pregio delle buone intenzioni, ma non quello di essere costati perdite, umane e materiali, né di essere originati da una violazione a diritti dello Stato, e del conseguente diritto a “riparazione”[5].

4) Il neo-costituzionalismo non incide, ovviamente, sul rapporto comando-obbedienza, presupposto del “politico”. In particolare non elimina, come detto, la coazione dal diritto, del quale, come sostenuto da Kant e Thomasius, è una componente essenziale. Il diritto, per essere tale può essere mite o inflessibile, fluido o solido, ma deve necessariamente avere i carabinieri alla porta. Quello che realmente il neo-costituzionalismo modifica è il “tipo” dello Stato che diventa da legislativo-parlamentare a giurisdizionale (Justizstaat).

Non contribuisce a ciò solo il fatto più vistoso – la diffusione delle Corti che giudicano della costituzionalità delle leggi (cioè dell’operato legislativo dei Parlamenti e dei Governi). Accanto a quello c’è la diffusione delle Corti internazionali e la previsione dell’ “adeguamento” della legislazione interna a quella internazionale, anche senza il passaggio attraverso leggi di “recepimento”.

Il che mette in forse il carattere di “chiusura” dello Stato, che diventa “permeabile” alla normazione e anche all’iniziativa politica di altri Stati.

5) La critica di Bandieri sottolinea le illusioni sulla sostituzione del diritto alla politica. La dimensione politica dell’uomo è insopprimibile, sostiene, nella scia di Aristotele e S. Tommaso, lo studioso argentino. Pretendere che procedure, contraddittorio, mediazione, “bilanciamento” possano surrogare legittimità, autorità, consenso è un’illusione ricorrente nella modernità. Marx credeva di ridurre la politica all’economia, e abbiamo visto com’è finita; oggi si cerca di ridurre quella al diritto, alla tecnica, all’etica, domani, forse, all’arte, con risultati prevedibilmente non dissimili da quello del (defunto) socialismo reale.

Questo – ed altro – c’è nel saggio di Bandieri. Il lettore ne trarrà le somme. Per intanto vorrei sottolineare due tra le “fallacie” decisive del neocostituzionalismo, ed altrettanti considerevoli meriti dello stesso.

Cominciando da quest’ultimi: è indubbio che sostituendo “principi” o “valori” alla norma kelseniana il neo costituzionalismo risulta più aderente alla realtà dello Stato contemporaneo, con controllo di costituzionalità e relative corti allo stesso competenti.  Che queste debbano poi giudicare le leggi in base a “principi” e “tavole di valori” più che a norme gerarchicamente ordinate (stufenbau) è la constatazione di una prassi; a sua volta fondata su esigenze e caratteri delle costituzioni contemporanee, con norme spesso contraddittorie che vanno “bilanciate” e “compromessi formali dilatori”, così frequenti nelle costituzioni degli Stati pluriclasse, cui dare senso (e così scritti e reiscritti) in base a “valori”; questi costituiscono i momenti di sintesi – e verifica – di precetti generici e sostanzialmente confliggenti. D’altra parte è pur vero che il richiamo a principi e valori immette nell’istituzione un surplus di “fluidità” che richiama, e non poco, quella tesi di Hauriou, il quale vedeva nell’ordinamento un ordine non statico, al punto che la paragonava a un esercito in marcia (agmen): che marcia e procede conservando la forma. E rimproverava a Kelsen e, per diverse ragioni, a Duguit di aver concepito il diritto come un insieme statico, e quindi – in sostanza – poco vitale (e reale), perché non aderente alla mutevolezza delle situazioni e delle relazioni sociali[6].

Quanto alle “fallacie” il neo-costituzionalismo condivide con il suo antecedente – il normativismo – di considerare decisivo il parametro di riferimento “oggettivo” del giudizio giuridico (e giudiziario): cioè il “principio” o il “valore” (al posto della norma sopraordinata). Tuttavia apprezzare la congruità rispetto ai valori piuttosto che alle norme è attività, sicuramente giuridica, ma non esauriente né decisiva del diritto.

Non esauriente perché accantona il problema dell’effettività (e dell’applicazione) del diritto. Sul punto ci si può riportare alla critica che fa Bandieri citando Cicerone e il consensus omnium: ciò che rende credibile e applicabile il richiamo ai valori (e il sindacato delle leggi in base ai valori) non è tanto la procedura adottata o la saggezza dell’interprete, ma il fatto che quei principi o valori, in base ai quali si giudica, siano condivisi dai cittadini. Per tale profilo una decisione del giudice vale quanto una deliberazione del Parlamento o un provvedimento del governo. Ma anche, sotto un diverso aspetto, alla nota concezione di Santi Romano che il diritto è in primo luogo la “complessa e varia organizzazione dello Stato”[7] (che sposta l’angolo visuale dal momento del consenso preventivo a quello della coazione efficace); e a quella di Smend sui fattori d’integrazione e al suo concetto “dinamico” della costituzione come integrazione della sintesi politica: per cui i valori sono riconducibili ad uno dei fattori d’integrazione – quello “materiale”, mentre il neocostituzionalismo non considera e tiene in disparte gli altri due (funzionale e personale).

Si può così rivolgere al neo-costituzionalismo la stessa obiezione fatta al normativismo: che è una coperta troppo corta. Ad esempio la legittimità è generalmente concepita in primo luogo come opinione dei governati sul diritto che ha chi governa, di governare: in un regime democratico, gli eletti dal popolo. Ma nel “governo dei giudici” e così delle Corti costituzionali, il principio democratico è debolmente presente, perché la composizione di queste è rapportabile solo mediatamente, parzialmente e indirettamente alla volontà (e decisione) del popolo, espressa dal corpo elettorale[8]. La legittimità democratica delle corti è assai gracile, mentre lo è, ben più robusta, quella degli organi i cui atti le corti devono controllare: parlamenti e governi. E così è in gran parte delle costituzioni moderne.

D’altra parte il neo-costituzionalismo identifica la Costituzione con la “tavola dei valori” espressa nelle norme della costituzione formale; per cui è costituzionale ciò che è a quella conforme. Se tuttavia per costituzione s’intende l’ordinamento dell’unità politica, costituzionale (o meno) non è tanto il conforme a principi o valori ma ciò che è conforme all’esistenza (in suo esse perseverari) della sintesi politica. In fondo questo opposto concetto di costituzione (o meglio di essenza della costituzione) dura ormai da due secoli. A chi riduceva la Costituzione a norme ed ai principi dello Stato borghese (M.me de Staël, ma tale concezione era condivisa dai rivoluzionari dell’89 – v. art. 16 Dichiarazione dei diritti del 1789), Louis de Bonald replicava che la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza[9].

Per cui è costituzionale quello che conserva e fa durare l’unità (la sintesi) politica. Cioè qualcosa di essenzialmente estraneo alla funzione giudiziaria.

Radbruch contrappone il dovere del governante e quello del giudice, in due (notissime) espressioni latine: per il primo l’imperativo consiste in  salus rei publicae supema lex; per il secondo fiat iustitia pereat mundus.

Con la conseguenza che se il primo adotta come regola di condotta la massima del secondo, è un cattivo governante; se il secondo quella del primo, un pessimo giudice. Ciò non toglie che potrebbero essere dei buoni giudici i primi, e dei buoni governanti i secondi. Ma hanno il limite di trovarsi nel posto sbagliato.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

Louis Maria Bandieri, nato a Buenos Aires nel 1945, è professore titolare ordinario di dottorato e post-dottorato all’Università cattolica argentina (UCA) “Santa Maria de los Buenos Aires”. Dottore in diritto e scienze giuridiche, è l’autore di numerose opere e di molti articoli dedicati a temi giuridici. Ha tenuto corsi e conferenze in diverse università latino-americane ed europee (tra cui l’Università di Orlèans). Studioso del pensiero di Carl Schmitt, attualmente sta lavorando alla teoria del federalismo.

(*) Si ringrazia il Prof. Bandieri per aver consentito alla traduzione e pubblicazione del saggio, apparso su “Nouvelle École”, rivista della quale si ringrazia il Direttore Alain De Benoist per aver concesso la traduzione.

[1] n. 62, anno 2013 p. 154.

[2] v., tra gli altri, Aldo Schiavello Neocostituzionalismo o Neocostituzionalismi? www.filosofico.net; Lo Stato costituzionale dei diritti; G. Bongiovanni La teoria costituzionalistica del diritto di Ronald Dworkin – tutti reperibili in rete

[3] Si noti che Machiavelli usa il paragone del Centauro proprio in relazione al rapporto, si direbbe oggi, tra forza e diritto “Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con la legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente dalli antichi scriptori, li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altri, avere per preceptore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile”, Principe, cap. XVIII.

[4] Con una forzatura: quello previsto nella Dichiarazione di Yalta era un intervento delle potenze vincitrici; quelli eseguiti nell’Europa dell’Est erano azioni militari decise da uno solo dei vincitori della seconda guerra mondiale.

[5] Un acuto teologo e giurista come Francisco Suarez scriveva “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, nequa ex ratione colligitur”; per cui justa causa della guerra è la tutela dei diritti dello Stato (e dei cittadini di questo), ma non la difesa dei diritti di altri, peraltro contro altri Stati, v. De charitate, disp. 13 De Bello.

[6] v. M Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 34 ; v. anche pp., 8 ss. 62, 69, 71, 75.

[7] v. L’ordinamento giuridico rist. Firenze 1967, p. 15.

[8] Tant’è che – solo per ricordare che nella Costituzione italiana nessuno dei componenti è scelto con elezione popolare. Un terzo è scelto dalle magistrature superiori, cioè da poteri burocratici; un terzo dal Presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, ma “mediato” dalle Camere; il terzo, il più vicino al corpo elettorale, lo è indirettamente e mediatamente essendo eletto dalle Camere. Anche se ci sono valide ragioni per non eleggere a suffragio popolare i componenti della Corte, resta il fatto che comunque, in una Repubblica democratica e il cui la sovranità appartiene al popolo, l’organo costituzionale più distante dal popolo è proprio quello deputato a giudicare le leggi (deliberate dal Parlamento, ad investitura popolare diretta). Il deficit di democrazia e conseguentemente di legittimità, è evidente.

[9] Observations sur l’ouvrage de Mme la Baronne de Staël…, trad. it. col titolo La costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 35.

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE, di Luigi Longo

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE

(a cura di) Luigi Longo

Le donne sono strane creature, anche quelle provviste di molta intelligenza.

 

Karl Marx*

                            Il mio problema è capire come mai la donna non arriva al punto

                            di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo.

                            Siccome sento che le coscienze sono due, non è una, però poi di

                            fatto ce n’è solo una e quell’una va a ruota libera come se l’altra

                            non ci fosse e l’altra si comporta come se non ci fosse davvero.

Carla Lonzi**

                            Ma perché gli uomini che nascono

                            Sono figli delle donne

                            Ma non sono come noi

                            […] gli uomini che cambiano

                            Sono quasi un ideale che non c’è

                                                         Mia Martini***

 

Una piccola premessa

Quando con Giuseppe Germinario parlammo della impostazione del blog Italiaeilmondo e della sua grafica proposi che non si potesse più pensare a un blog senza tenere conto che in tutto il mondo siamo sempre in due (1) e che dovevamo far diventare possibilità ciò che oggi è necessità della relazione con il pensiero femminile, nelle sue diverse articolazioni (2), per capire, interpretare, trasformare e creare un senso della vita.

Posso affermare, in estrema sintesi, che nella tradizione marxiana e marxista non c’è traccia di relazione profonda con il pensiero femminile, e questo è un’assenza che va capita storicamente e va colmata per creare le condizioni per la costruzione, teorica e pratica, di un ordine simbolico sessuato che aprirebbe nuovi orizzonti e nuove visioni del legame sociale della società data. Parafrasando lo storico Carlo Maria Cipolla (che parla di un’epoca di grandi cambiamenti scaturiti dalla rivoluzione industriale) posso dire che qualunque sia il giudizio o la critica assunti, si trova in corrispondenza della creazione del soggetto sessuato della storia un salto che non ha precedenti nella storia: un salto che introduce a un mondo completamente nuovo (3).

Lo spirito di ricerca è quello descritto efficacemente sia da Karl Marx:<< Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti>> (4), sia di Gianfranco La Grassa:<< Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo [ periodo trascorso dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale curato direttamente da K. Marx,

1867-2017, precisazione e corsivo miei] di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare attestati alla fonda dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi del viaggio, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale rotta effettiva si sta seguendo. Si può consultare la bussola quanto si vuole; se gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito (5) […] Ovviamente, non ho visitato tutti i moli, tutti i docks e quant’altro ci sia. Ne ho solo tratteggiato uno schizzo e soprattutto mi sono concentrato sulla “insenatura” in cui è situato, per ben individuare quel rapporto sociale che è il capitale, secondo la nota formula marxiana. Se non si conosce questa insenatura, si salpa sbagliando rotta e ci s’incaglia fin da subito. E’ invece necessario, dopo un secolo e mezzo, prendere il mare; magari credendo di andare verso le Indie. Ci si augura che in seguito qualcun altro, assumendo il comando delle navi, si troverà magari nelle Americhe.>> (6).

 

Perché proporre un saggio di Nancy Fraser

Ho proposto il saggio di Nancy Fraser (7) perché è una buona base di discussione dove viene avanzata una analisi storica sul capitalismo liberale concorrenziale del XIX° secolo, sul capitalismo regolato dallo Stato nel XX° secolo e sul capitalismo finanziarizzato nell’epoca attuale. E’ un saggio che attraverso le lotte di confine tra economia e politica, tra società e natura, tra produzione e riproduzione propone una periodizzazione all’interno delle tre fasi storiche incentrate sulla casalinghizzazione, sul fordismo e salario familiare, sulle famiglie bireddito.

Di Nancy Fraser non condivido la lettura fondamentalmente economicistica nonchè la concezione dello stato, della finanza e del ruolo delle classi lavoratrici; non mi convince il suo saggio soprattutto perché non affronta il problema, fondante e di grande attualità, che invece si poneva Carla Lonzi cioè quello di capire come mai la donna non arriva al punto di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo con cui creare un’altra sintesi di ordine simbolico sessuato espressione di due soggettività differenti; per me questo scritto di Nancy Fraser resta una lettura stimolante finalizzata ad iniziare una relazione con il pensiero femminile critico (8).

Inoltre la pubblicazione del saggio di Nancy Fraser è propedeutica ai prossimi miei due scritti che riguarderanno a) Il conflitto strategico e la mossa del cavallo. Appunti di ricerca e b) Il conflitto strategico, una buona base per la costruzione dell’ordine simbolico sessuato. Tempo e spazio della ricerca.

 

 CHI E’NANCY FRASER

 Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista statunitense, è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York, Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra “Giustizia globale” al College d’ètudes mondiales di Parigi.

 EPIGRAFI

 * Karl Marx, Lettera a Engels del 28 gennaio 1863 in Marx-Engels, Carteggio, Volume quarto (1861-1866), Editori Riuniti, Roma, 1972, pag.158.

** Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1980, p.13.

*** Mia Martini, Gli uomini che non cambiano, www.angolotesti.it ,1992.

 NOTE

 

  1. E’ il titolo del libro di Luce Irigaray, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006.
  2. Per una introduzione al pensiero femminista si veda Franco Restaino-Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999.
  3. Carlo Maria Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna, 2002, pag.419.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pp.7-8.
  5. Gianfranco La Grassa, Il capitale non è cosa ma rapporto sociale, www.conflittiestrategie.it, 5/8/2011.
  6. Gianfranco La Grassa, Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pag.79.
  7. Nancy Fraser, Le contraddizioni del capitale e del lavoro di cura in www.ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/12/11/contraddizioni-del-capitale-e-del-lavoro-di-cura .
  8. Per un approfondimento delle questioni trattate nel saggio si rimanda a Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona, 2014; Idem, Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo in Scienza & Politica n.54/2016, pp.87-102.

 

LE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALE E DEL ‘LAVORO DI CURA’

di NANCY FRASER*

Senza tutto quello che va comunemente sotto il nome di ‘lavoro di cura’ – mettere al mondo e crescere bambini, occuparsi di amici e familiari eccetera – non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Ma tutti questi processi di ‘riproduzione sociale’ – storicamente assegnati al lavoro delle donne – vivono oggi una profonda crisi. Una crisi che, secondo Nancy Fraser, autrice insieme ad Axel Honneth di Redistribuzione o riconoscimento?, è espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato, che da un lato dipende da questo lavoro di cura per la produzione economica e dall’altro tende a penalizzare quelle stesse capacità riproduttive di cui ha bisogno.

* * *

La «crisi della cura» è oggi un argomento centrale nel dibattito pubblico[1]. Spesso associata alle idee di «mancanza di tempo», «conciliazione lavoro-famiglia» e «impoverimento sociale», fa riferimento alle pressioni che, da più direzioni, stanno attualmente limitando un insieme fondamentale di capacità sociali: mettere al mondo e crescere bambini, prendersi cura di amici e familiari, sostenere famiglie e più ampie comunità, e più in generale mantenere legami[2]. Storicamente, questi processi di «riproduzione sociale» sono stati assegnati al lavoro delle donne, anche se gli uomini ne hanno sempre svolto una parte. Si tratta di un lavoro sia affettivo che materiale, spesso svolto senza retribuzione, indispensabile alla società. In sua assenza non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Nessuna società che indebolisca sistematicamente la riproduzione sociale può resistere a lungo. Oggi, tuttavia, una nuova forma di società capitalistica sta facendo proprio questo. Il risultato è una crisi profonda, non semplicemente della cura, ma della riproduzione sociale in senso lato.

Considero questa crisi come un aspetto di una «crisi generale» che include anche componenti economiche, ecologiche e politiche, le quali si intersecano e aggravano l’un l’altra. La componente relativa alla riproduzione sociale costituisce una dimensione importante di questa crisi generale, ma è spesso trascurata nelle discussioni attuali, che si concentrano soprattutto sui pericoli economici o ecologici. Questo «separatismo critico» è problematico; la componente sociale svolge un ruolo tanto centrale nella crisi più ampia che nessuna delle altre può essere compresa senza tenerne conto. Tuttavia, è vero anche il contrario. La crisi della riproduzione sociale non è indipendente e non può essere adeguatamente compresa da sola. Come intenderla allora? Ritengo che la «crisi della cura» sia meglio interpretata come espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato. Ciò suggerisce due idee. In primo luogo, le attuali pressioni sulla cura non sono casuali, ma hanno profonde radici sistemiche nella struttura del nostro ordine sociale, che chiamo qui capitalismo finanziarizzato. Nonostante ciò, e questo è il secondo punto, l’attuale crisi della riproduzione sociale indica un che di viziato non solo nell’attuale forma finanziarizzata del capitalismo, ma nella società capitalistica in quanto tale.

La mia tesi è che ogni forma di società capitalistica nutra una profonda «tendenza alla crisi» o contraddizione sociale-riproduttiva: da un lato, la riproduzione sociale è una condizione di possibilità per l’accumulazione continua di capitale; dall’altro, la propensione del capitalismo all’accumulazione illimitata tende a destabilizzare i processi di riproduzione sociale da cui pure dipende. Questa contraddizione sociale-riproduttiva del capitalismo è alla radice della cosiddetta crisi della cura. Benché intrinseca al capitalismo in quanto tale, assume un carattere diverso e distintivo in ogni forma storicamente specifica di società capitalistica – nel capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo; nel capitalismo regolato dallo Stato del dopoguerra; e nel capitalismo neoliberale finanziarizzato del nostro tempo. I deficit di cura che oggi viviamo sono la forma che assume questa contraddizione nella sua terza, più recente fase dello sviluppo capitalistico.

Per sviluppare questa tesi, propongo in primo luogo un quadro della contraddizione sociale del capitalismo in quanto tale, nella sua forma generale. In secondo luogo, tratteggio le linee del suo dispiegamento storico nelle due fasi iniziali dello sviluppo capitalistico. Infine, suggerisco una lettura dei «deficit di cura» odierni come espressioni della contraddizione sociale del capitalismo nella sua fase finanziarizzata attuale.

Trarre vantaggio dal mondo della vita

Gran parte degli analisti della crisi contemporanea si concentrano sulle contraddizioni interne del sistema economico capitalistico. Nel suo cuore, sostengono, opera una tendenza radicata all’autodestabilizzazione, che si esprime periodicamente nelle crisi economiche. Fino a un certo punto, questa interpretazione è corretta; ma non prevede un quadro completo delle tendenze alla crisi intrinseche al capitalismo. Adottando una prospettiva economicistica, intende il capitalismo in modo troppo restrittivo, come un sistema economico simpliciter. Al contrario, intendo assumere una lettura più ampia del capitalismo, comprensiva sia dell’economia ufficiale sia delle sue condizioni «non-economiche» di sfondo. Una simile prospettiva ci consente di concettualizzare, e criticare, lo spettro complessivo delle tendenze alla crisi del capitalismo, incluse quelle riguardanti la riproduzione sociale.

Sostengo che il sottosistema economico capitalistico dipenda da attività sociali riproduttive esterne ad esso, le quali costituiscono una delle sue condizioni di possibilità fondamentali. Altre condizioni di sfondo comprendono le funzioni di governance dei pubblici poteri e la disponibilità della natura come fonte di «input produttivi» e come «canale di scarico» per gli scarti della produzione[3]. Qui, tuttavia, mi concentrerò sul modo in cui l’economia capitalistica dipende da – ma si potrebbe dire, approfitta di – attività di sostentamento, cura e interazione che producono e mantengono i legami sociali, benché non accordi loro alcun valore monetario e li tratti come se fossero gratuiti. Variamente denominata «cura», «lavoro affettivo» o «soggettivazione», quest’attività forma i soggetti umani del capitalismo, li sostiene come esseri naturali incarnati e li costituisce come esseri sociali, formando il loro habitus e l’ethos culturale in cui si muovono. Il lavoro di mettere al mondo e di socializzare i giovani svolge un ruolo centrale in questo processo, almeno quanto prendersi cura degli anziani, mantenere la sfera familiare, costruire la comunità e sostenere significati comuni, disposizioni affettive e orizzonti di valore che sono alla base della cooperazione sociale. Nelle società capitalistiche, gran parte di queste attività, benché non tutte, si svolge al di fuori del mercato – nelle case, nei quartieri, nelle associazioni della società civile, nelle reti informali e nelle istituzioni pubbliche come la scuola, e relativamente poche fra di esse prendono la forma del lavoro salariato. L’attività sociale-riproduttiva non pagata è necessaria all’esistenza del lavoro pagato, all’accumulazione di plusvalore e al funzionamento del capitalismo in quanto tale. Nulla di tutto questo potrebbe esistere in assenza del lavoro domestico, dell’educazione dei bambini, dell’istruzione scolastica, della cura affettiva e di una quantità di altre attività che servono a produrre nuove generazioni di lavoratori e a riprodurre le esistenti, nonché a mantenere legami sociali e visioni comuni. La riproduzione sociale è una condizione di sfondo indispensabile per la possibilità della produzione economica nella società capitalistica[4].

Tuttavia, almeno a partire dall’epoca industriale, le società capitalistiche hanno separato il lavoro di riproduzione sociale dal lavoro di produzione economica. Associando il primo alle donne e il secondo agli uomini, hanno ripagato le attività «riproduttive» con la moneta dell’«amore» e della «virtù», continuando a compensare il «lavoro produttivo» in denaro. In questo modo, le società capitalistiche hanno posto i fondamenti istituzionali per nuove, moderne forme di subordinazione delle donne. Separando il lavoro riproduttivo dal più vasto universo delle attività umane, in cui il lavoro delle donne occupava in precedenza un posto riconosciuto, lo hanno relegato in una «sfera domestica» di nuova istituzione, la cui importanza sociale è stata occultata. E in questo nuovo mondo, in cui il denaro è diventato il principale mezzo di potere, il carattere non remunerato del lavoro delle donne ne ha segnato il destino: chi svolge questo lavoro è in una posizione di subordinazione strutturale a chi guadagna salari in denaro, anche se soddisfa una precondizione necessaria per il lavoro salariato stesso – e viene saturato e mistificato con i nuovi ideali domestici di femminilità.

In generale, quindi, le società capitalistiche separano la riproduzione sociale dalla produzione economica, associando la prima alle donne e oscurando la sua importanza e il suo valore. Paradossalmente, tuttavia, esse rendono le loro economie ufficiali dipendenti proprio dagli stessi processi di riproduzione sociale il cui valore disconoscono. Questa peculiare relazione di separazione-dipendenza-disconoscimento è intrinseca fonte di instabilità: da un lato, la produzione economica capitalistica non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta all’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare gli stessi processi e le capacità riproduttive di cui il capitale – e tutti noi – abbiamo bisogno. Nel tempo, come vedremo, ciò può compromettere le condizioni sociali indispensabili all’economia capitalistica. Qui, in effetti, risiede una «contraddizione sociale» intrinseca alla struttura profonda del capitalismo. Come le contraddizioni economiche evidenziate dai marxisti, anche questa è alla base di una tendenza alla crisi. In questo caso, però, la contraddizione non si colloca «all’interno» dell’economia capitalistica, bensì sul confine che separa e al contempo unisce produzione e riproduzione. Né intra-economica né intra-domestica, si tratta di una contraddizione fra questi due elementi costitutivi della società capitalistica. Spesso, beninteso, questa contraddizione è sopita, e la connessa tendenza alla crisi rimane nascosta. Si fa acuta, tuttavia, quando la spinta del capitale all’accumulazione si rende avulsa dalle sue basi sociali, rivoltandosi contro di esse. In questo caso, la logica della produzione economica prevale su quella della riproduzione sociale, destabilizzando i processi da cui dipende il capitale – a risultarne compromesse sono allora le capacità sociali, sia domestiche che pubbliche, indispensabili per sostenere l’accumulazione nel lungo periodo. Distruggendo le condizioni della sua stessa esistenza, la dinamica accumulativa del capitale finisce di fatto per mangiarsi la coda.

Realizzazioni storiche

Questa è la struttura della generale tendenza alla crisi sociale del «capitalismo in quanto tale». Tuttavia, la società capitalistica esiste solo in forme o regimi di accumulazione storicamente specifici. Infatti, l’organizzazione capitalistica della riproduzione sociale ha subìto importanti mutazioni storiche, spesso come esito di contestazioni politiche – in particolare nei periodi di crisi, quando gli attori sociali lottano sui confini che delimitano l’«economia» dalla «società», la «produzione» dalla «riproduzione», il «lavoro» dalla «famiglia», talvolta riuscendo a ridisegnarli. Queste «lotte di confine», come le ho definite, sono tanto essenziali alle società capitalistiche quanto lo sono le lotte di classe analizzate da Marx, e i cambiamenti che producono segnano trasformazioni epocali[5]. Una prospettiva che ponga in primo piano questi cambiamenti può distinguere almeno tre regimi di articolazione della coppia «riproduzione sociale-produzione economica» nella storia del capitalismo.

  • Il primo è il regime del capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. Combinando sfruttamento industriale nel centro europeo ed espropriazione coloniale nella periferia, questo regime si è caratterizzato per la tendenza a lasciare i lavoratori riprodursi «autonomamente», al di fuori dei circuiti di valore monetizzato, mentre gli Stati si tenevano in disparte. Tuttavia, esso ha anche creato un nuovo immaginario borghese di vita domestica. Facendo della riproduzione sociale la provincia delle donne nella famiglia privata, questo regime ha elaborato l’ideale delle «sfere separate», proprio mentre ha privato gran parte delle persone delle condizioni necessarie alla sua realizzazione.
  • Il secondo regime è quello del capitalismo regolato dallo Stato del XX secolo. Basato su produzione industriale di massa e consumismo domestico al centro, e sostenuto dalla continua espropriazione coloniale e postcoloniale alla periferia, questo regime ha internalizzato la riproduzione sociale attraverso lo Stato e le prestazioni sociali aziendali. Modificando il modello vittoriano delle sfere separate, ha promosso l’ideale apparentemente più moderno del «salario familiare», anche se, ancora una volta, relativamente poche famiglie erano nelle condizioni di raggiungerlo.
  • Il terzo regime è il capitalismo finanziarizzato globale dell’epoca attuale. Questo regime ha delocalizzato la produzione manufatturiera in regioni a bassi costi salariali, ha reclutato le donne nelle forza lavoro pagata e incoraggiato il disinvestimento statale e aziendale dalla protezione sociale. Esternalizzando il lavoro di cura su famiglie e comunità, ha contemporaneamente diminuito la loro capacità di sostenerlo. In un contesto di crescente diseguaglianza, il risultato è un’organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, ricondotta al privato familiare per quelli che non possono – il tutto contornato dall’ideale ancora più moderno della «famiglia bireddito».

In ogni regime, dunque, le condizioni sociali-riproduttive per la produzione capitalistica hanno assunto una forma istituzionale e incarnato un ordine normativo differenti: prima le «sfere separate», poi «il salario familiare», ora la «famiglia bireddito». In ciascun caso, inoltre, la contraddizione sociale della società capitalistica ha assunto un profilo diverso, trovando espressione in un insieme eterogeneo di fenomeni di crisi. In ogni regime, infine, la contraddizione sociale del capitalismo ha provocato diverse forme di lotta sociale – lotte di classe, senz’altro, ma anche lotte di confine – le quali si sono intrecciate anche con altre lotte, per l’emancipazione di donne, schiavi e popoli colonizzati.

“Casalinghizzazione”

Consideriamo anzitutto il capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. In quest’epoca, gli imperativi di produzione e riproduzione sembravano stare in aperta contraddizione l’uno con l’altro. Nei primi centri manufatturieri del nucleo capitalista, gli industriali costrinsero donne e bambini nelle fabbriche e nelle miniere, avidi di lavoro a basso costo e data la loro reputazione di docilità. Pagate una miseria e costrette a lavorare per molte ore in condizioni malsane, queste lavoratrici diventarono il simbolo del disprezzo del sistema capitalistico per le relazioni e le capacità sociali alla base della sua produttività[6]. Ne seguì una crisi su almeno due livelli: da un lato, una crisi della riproduzione sociale fra poveri e classi lavoratrici, le cui capacità di sostentamento e riproduzione giunsero al collasso; dall’altro, un senso di panico morale fra le classi medie, scandalizzate da quella che ai loro occhi era la «distruzione della famiglia» e la «de-sessuazione» delle donne della classe operaia. La situazione era grave al punto che anche critici tanto acuti come Marx ed Engels fraintesero questi primi conflitti frontali fra produzione economica e riproduzione sociale: credendo che il capitalismo fosse entrato nella sua crisi terminale, essi pensavano che, nel distruggere la famiglia proletaria, il sistema stesse anche sradicando le basi dell’oppressione delle donne[7]. Ma quel che stava accadendo era in realtà proprio il contrario: nel corso del tempo, le società capitalistiche trovavano risorse per gestire questa contraddizione – in parte creando «la famiglia» nella sua ristretta forma moderna, reinventando e intensificando le differenze di genere, e modernizzando il dominio maschile.

In Europa, il processo ebbe inizio con l’adozione di una legislazione protettiva. L’idea era di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento di donne e bambini nel lavoro di fabbrica[8]. Guidata dai riformisti della classe media in alleanza con le nascenti organizzazioni dei lavoratori, questa «soluzione» rifletteva un amalgama complesso di motivazioni eterogenee. Un obiettivo, descritto com’è noto da Karl Polanyi, consisteva nel difendere la «società» dall’«economia»[9]. Un altro obiettivo consisteva nel placare l’ansia per il «livellamento di genere». Ma queste ragioni si legavano anche a qualcos’altro: l’importanza assegnata all’autorità maschile su donne e bambini, in particolare all’interno della famiglia[10]. Di conseguenza, la lotta per garantire l’integrità della riproduzione sociale finì per intrecciarsi con la difesa del dominio maschile.

L’effetto voluto, tuttavia, era di mettere a tacere la contraddizione sociale nel centro capitalistico – proprio mentre la schiavitù e il colonialismo nella periferia la portavano all’estremo. Creando quella che Maria Mies ha chamato «casalinghizzazione» (housewifization), intesa come l’altra faccia della colonizzazione[11], il capitalismo liberale concorrenziale diede forma a un nuovo immaginario di genere incentrato sulle sfere separate. Rappresentando la donna come «l’angelo del focolare», i suoi sostenitori erano alla ricerca di un’àncora di stabilità che controbilanciasse la volatilità dell’economia. Lo spietato mondo della produzione andava affiancato da un «paradiso in un mondo senza cuore»[12]. Finché ogni lato si atteneva alla sua designata sfera, fungendo da complemento dell’altro, il loro potenziale conflitto sarebbe rimasto nascosto.

In realtà, questa «soluzione» si rivelò piuttosto precaria. La legislazione protettiva non poteva assicurare la riproduzione del lavoro se i salari rimanevano al di sotto del livello necessario a sostenere una famiglia, se le abitazioni affollate e immerse nell’inquinamento impedivano la vita privata e causavano malattie polmonari, se l’occupazione stessa (quando disponibile) era soggetta a fluttuazioni selvagge dovute a bancarotte, crolli di mercato e panico finanziario. Neanche i lavoratori erano soddisfatti di questo compromesso. Mobilitandosi per salari più alti e migliori condizioni di lavoro, formarono sindacati, organizzarono scioperi e aderirono a partiti socialisti e laburisti. Lacerato da un conflitto di classe sempre più acuto ed esteso, il futuro del capitalismo sembrava tutto fuorché garantito.

Le sfere separate si rivelarono anch’esse problematiche. Le donne povere e razzializzate della classe operaia non erano certo nella posizione per soddisfare gli ideali vittoriani di vita domestica; se la legislazione protettiva mitigava il loro sfruttamento diretto, non offriva loro alcun supporto materiale o compensazione per la perdita del salario. Neanche le donne della middle-class, che avevano i mezzi per conformarsi agli ideali vittoriani, erano soddisfatte della loro situazione, che combinava comodità materiale e prestigio morale con lo stato di minorità legale e dipendenza istituzionalizzata. Per entrambi i gruppi, la «soluzione» delle sfere separate si realizzava in gran parte a spese delle donne. Ma finì anche per metterle le une contro le altre – come testimoniano le lotte del XIX secolo sulla prostituzione, in cui le preoccupazioni filantropiche delle donne della middle-class vittoriana confliggevano con gli interessi materiali delle loro «sorelle perdute»[13].

Una dinamica diversa aveva luogo alla periferia. Lì, poiché il colonialismo estrattivo saccheggiava popolazioni soggiogate, né le sfere separate né la protezione sociale godevano di alcun credito. Lungi dal tentare di proteggere le relazioni locali di riproduzione sociale, i poteri delle metropoli incoraggiavano attivamente la loro distruzione. Le popolazioni rurali furono depredate e le loro comunità distrutte per fornire cibo a basso costo, tessuti, minerali ed energia, senza i quali lo sfruttamento dei lavoratori industriali delle metropoli non sarebbe stato redditizio. Nelle Americhe, intanto, le capacità riproduttive delle donne ridotte in schiavitù furono asservite ai calcoli di profitto dei piantatori, che regolarmente distruggevano le famiglie di schiavi vendendone i membri a più proprietari[14]. Anche i bambini nativi furono strappati dalle comunità, reclutati in scuole missionarie e sottomessi a discipline coercitive di assimilazione[15]. Quando si rendevano necessarie delle giustificazioni, lo stato «retrogrado, patriarcale» delle collettività parentali indigene pre-capitalistiche serviva alquanto bene allo scopo. Anche qui, fra i colonialisti, le donne filantrope fecero sentire pubblicamente la loro voce, esortando «gli uomini bianchi a salvare le donne scure dagli uomini scuri»[16].

Tanto al centro quanto alla periferia, i movimenti femministi si trovarono a negoziare un campo politico minato. Nel rifiutare la tutela maritale e le sfere separate e nel rivendicare il diritto di voto, il rifiuto del sesso, l’ accesso alla proprietà, il diritto a stipulare contratti, a svolgere professioni ed esercitare un controllo sui propri salari, le femministe liberali sembravano dare più valore all’aspirazione «maschile» all’autonomia che agli ideali «femminili» di cura. E su questo punto, come su poco altro, le loro controparti socialiste-femministe in effetti concordavano. Considerando l’ingresso delle donne nel lavoro salariato come la strada verso l’emancipazione, anche queste ultime preferivano i valori «maschili» della produzione a quelli legati alla riproduzione. Queste associazioni erano senz’altro ideologiche, ma celavano un’intuizione profonda: nonostante le nuove forme di dominio che portava con sé, l’erosione delle relazioni di parentela tradizionali da parte del capitalismo conteneva un momento di emancipazione.

Intrappolate in questa contraddizione, molte femministe trovarono scarsa consolazione su entrambi i lati del doppio movimento di Polanyi: quello della protezione sociale, con il suo corollario di dominio maschile, e quello della logica di mercato, con il suo disprezzo per la riproduzione sociale. Incapaci tanto semplicemente di rifiutare quanto di accettare l’ordine liberale, avevano bisogno di una terza alternativa, che chiamarono emancipazione. Nella misura in cui le femministe furono capaci di impersonare quel termine, fecero effettivamente saltare la figura dualistica polanyiana, sostituendola con quello che potremmo chiamare un «triplo movimento». In questo conflitto su tre fronti, le sostenitrici della protezione e della mercatizzazione si scontravano non solo fra di loro, ma anche con chi difendeva l’emancipazione: con le femministe, certo, ma anche con socialisti, abolizionisti e anticolonialisti, i quali si sforzavano di mettere le due forze polanyiane l’una contro l’altra, proprio mentre si scontravano fra di loro. Per quanto in teoria promettente, una simile strategia era difficile da realizzare. Finché gli sforzi di «proteggere la società dall’economia» si confondevano con la difesa della gerarchia di genere, l’opposizione femminista al dominio maschile poteva facilmente essere accusata di avallare le forze economiche che stavano distruggendo la classe operaia e le comunità della periferia. Queste associazioni si sarebbero rivelate sorprendentemente durevoli, molto tempo dopo il collasso del capitalismo liberale concorrenziale sotto il peso delle sue molteplici contraddizioni, nell’agonia di guerre inter-imperialistiche, depressioni economiche e caos finanziario internazionale – aprendo la strada a un nuovo regime nella metà del XX secolo, quello del capitalismo regolato dallo Stato.

Fordismo e salario familiare

Emergendo dalle ceneri della Grande Depressione e della seconda guerra mondiale, il capitalismo regolato dallo Stato disinnescava la contraddizione fra produzione economica e riproduzione sociale in un altro modo – affidandosi al potere dello Stato sul lato della riproduzione. Assumendosi qualche responsabilità pubblica per la «previdenza sociale», gli Stati di quest’epoca cercarono di contrastare gli effetti corrosivi sulla riproduzione sociale non solo dello sfruttamento, ma anche della disoccupazione di massa. Tale obiettivo fu perseguito dagli Stati socialdemocratici del centro capitalistico e dagli Stati in via di sviluppo della periferia da poco indipendenti – nonostante le diseguali capacità di realizzarlo.

Le ragioni erano, ancora una volta, eterogenee. Un gruppo di élite illuminate era giunto a credere che l’interesse a breve termine del capitale nello spremere massimi profitti andasse subordinato all’esigenza più a lungo termine di sostenere l’accumulazione nel corso del tempo. L’istituzione del regime regolato dallo Stato rispondeva all’esigenza di salvare il sistema capitalistico dalle sue stesse propensioni a destabilizzarsi – nonché dallo spettro della rivoluzione in un’epoca di mobilitazioni di massa. La produttività e la ricerca del profitto richiedevano la coltivazione «biopolitica» di una forza lavoro in salute e istruita dotata di un interesse nel sistema, in opposizione alla cenciosa folla rivoluzionaria[17]. L’investimento pubblico in sanità, istruzione, servizi per l’infanzia e pensioni, con la partecipazione finanziaria delle imprese, era percepito come una necessità in un’epoca in cui i rapporti capitalistici avevano penetrato la vita sociale al punto che le classi lavoratrici non avevano più i mezzi per riprodurre se stesse in modo autosufficiente. In una tale situazione, la riproduzione sociale andava internalizzata, portata sotto il dominio ufficiale dell’ordine capitalista.

Il progetto rispondeva anche alla nuova problematica della «domanda» economica. Mirando ad appianare i cicli endemici di espansione e contrazione del capitalismo, i riformatori economici cercarono di assicurare la crescita continua consentendo ai lavoratori nel centro capitalista di assolvere a un doppio dovere di produttori e consumatori. Accettando la sindacalizzazione, che portava salari più alti, e la spesa pubblica, che creava occupazione, i decisori politici reinventarono ora la casa come uno spazio privato per il consumo domestico di oggetti di uso quotidiano prodotti in serie[18]. Legando la catena di montaggio al consumismo familiare della classe operaia da un lato, e alla riproduzione sostenuta dallo Stato dall’altro, tale modello fordista diede forma a una nuova sintesi di mercatizzazione e protezione sociale – progetti che Polanyi aveva considerato antitetici.

Ma furono soprattutto le classi lavoratrici – sia donne che uomini – a guidare la lotta per i servizi pubblici, agendo per proprie ragioni. In questione per loro era la piena appartenenza alla società come cittadini e cittadine democratici – quindi dignità, diritti, rispettabilità e benessere materiale, tutti elementi che erano intesi richiedere una vita familiare stabile. Appoggiando la socialdemocrazia, allora, le classi lavoratrici stavano anche valorizzando la riproduzione sociale contro il dinamismo divorante della produzione economica. In effetti, i lavoratori votavano per famiglia, territorio e mondo-della-vita contro fabbrica, sistema e macchine. Diversamente dalla legislazione protettiva del regime liberale, la politica del capitalismo regolato dallo Stato era il frutto di un compromesso di classe e rappresentava un progresso democratico. Diversamente dal regime precedente, inoltre, questi nuovi compromessi servirono, almeno per alcuni e per un po’ di tempo, a stabilizzare la riproduzione sociale. Per i lavoratori delle nazionalità maggioritarie dei paesi nel centro capitalista, esse alleviarono le pressioni materiali sulla vita familiare e favorirono l’integrazione politica.

Ma prima di affrettarci a proclamare un’età dell’oro, dovremmo tenere conto delle esclusioni costitutive che resero possibili questi risultati. Come in precedenza, la difesa della riproduzione sociale al centro si intrecciava con il (neo)imperialismo; i regimi fordisti finanziavano i diritti sociali in parte attraverso la continuazione dell’espropriazione della periferia – inclusa la «periferia nel centro» – che persisteva in vecchie e nuove forme dopo la decolonizzazione[19]. Nel frattempo, gli Stati postcoloniali stretti nella morsa della Guerra fredda diressero gran parte delle loro risorse, già impoverite dalla predazione imperiale, verso progetti di sviluppo su larga scala, che spesso comportavano l’espropriazione dei «propri» popoli indigeni. Per la grande maggioranza nella periferia la riproduzione sociale rimaneva esterna, dal momento che le popolazioni rurali furono abbandonate a loro stesse. Come il regime che lo aveva preceduto, anche il regime regolato dallo Stato si intrecciava con le gerarchie razziali: le assicurazioni sociali statunitensi escludevano lavoratori domestici e agricoli, di fatto tagliando fuori molti afroamericani dalle prestazioni sociali[20]. E la divisione razziale del lavoro riproduttivo, cominciata durante la schiavitù, assunse una nuova forma sotto Jim Crow, considerato che le donne di colore trovavano lavoro mal pagato crescendo i bambini e facendo le pulizie nelle case delle famiglie «bianche», a scapito delle loro[21].

Neanche la gerarchia di genere mancava in questo compromesso. In un periodo – approssimativamente dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta – in cui i movimenti femministi non godevano di molta visibilità pubblica, difficilmente qualcuno contestava l’idea che la dignità proletaria richiedesse «il salario familiare», un’autorità maschile in casa e un forte senso della differenza di genere. Di conseguenza, la tendenza generale del capitalismo regolato dallo Stato nei paesi del centro era di valorizzare il modello eteronormativo, maschio-capofamiglia e donna-casalinga, della famiglia basata sul genere. L’investimento pubblico nella riproduzione sociale rafforzava queste norme. Negli Stati Uniti, il sistema previdenziale assumeva una forma duale, divisa in assistenza per donne povere («bianche») e bambini senza accesso a un salario maschile, da un lato, e un’assicurazione sociale considerata rispettabile per quelli che venivano costruiti come «lavoratori», dall’altro[22]. Invece, i provvedimenti europei rafforzavano la gerarchia androcentrica in modo diverso, nell’opposizione fra sussidi destinati alle madri e diritti legati al lavoro salariato – promossa in molti casi attraverso programmi a favore delle nascite nati dalla concorrenza fra Stati[23]. Entrambi i modelli legittimavano, assumevano e incoraggiavano il salario familiare. Istituzionalizzando una visione androcentrica della famiglia e del lavoro, essi naturalizzavano l’eteronormatività e la gerarchia di genere, sottraendoli ampiamente alla contestazione politica.

Sotto tutti questi aspetti, la socialdemocrazia sacrificava l’emancipazione in nome di un’alleanza fra protezione sociale e mercatizzazione, nonostante per molti decenni avesse mitigato la contraddizione sociale del capitalismo. Tuttavia, il regime di Stato capitalistico cominciava a disfarsi; prima politicamente, negli anni Sessanta, quando la New Left globale fece irruzione denunciando, in nome dell’emancipazione, le sue esclusioni imperialistiche, di genere e razziali, nonché il suo paternalismo burocratico; e poi economicamente, negli anni Settanta, quando la stagflazione, la «crisi di produttività», e il calo dei tassi di crescita nella produzione manufatturiera rinvigorirono gli sforzi neoliberali di dare il via libera alla mercatizzazione. Ad essere sacrificata nell’unione delle forze di queste due fazioni, sarebbe stata la protezione sociale.

Famiglie bireddito

Come il precedente regime liberale, l’ordine del capitalismo regolato dallo Stato si è dissolto nel corso di una lunga crisi. A partire dagli anni Ottanta, alcuni osservatori potevano distinguere precocemente i primi tratti di un nuovo regime, che sarebbe diventato il capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Questo regime, globalizzato e neoliberale, promuove il disinvestimento pubblico e privato dalla protezione sociale mentre recluta le donne nella forza lavoro pagata – esternalizzando il lavoro di cura verso le famiglie e le comunità nell’atto stesso di indebolire la loro capacità di realizzarlo. Il risultato è una nuova organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, e ricondotta al privato familiare per quelli che non possono, considerato che alcuni membri della seconda categoria offrono lavoro di cura ad alcuni membri della prima, in cambio di (bassi) salari. Nel frattempo, l’azione congiunta della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente spogliato «il salario familiare» di ogni credibilità. Quell’ideale ha aperto la strada alla norma contemporanea della «famiglia bireddito».

Il principale motore di questi sviluppi, nonché tratto distintivo del regime, è la nuova centralità del debito. Il debito è lo strumento attraverso cui le istituzioni globali finanziarie premono sugli Stati per tagliare la spesa sociale, imporre l’austerità, e in generale colludere con gli investitori nell’estrazione di valore da popolazioni inermi. Di più, è soprattutto attraverso il debito che i contadini nel Sud Globale sono spossessati da un nuovo giro di appropriazioni private del suolo, finalizzato a monopolizzare l’offerta di energia, acqua, terra coltivabile e delle «compensazioni per l’emissione di anidride carbonica». È sempre più attraverso il debito che procede anche l’accumulazione nel nucleo storico del capitalismo: dal momento che il lavoro precario e malpagato nei servizi sostituisce il lavoro sindacalizzato industriale, i salari cadono al di sotto dei costi socialmente necessari di riproduzione; in questa «economia dei lavoretti» («gig economy»), la spesa costante per i consumi richiede un’espansione del volume dei crediti al consumatore, che cresce in modo esponenziale[24]. È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, disciplina gli Stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore da case, famiglie, comunità e natura.

L’effetto è quello di intensificare la contraddizione insita nel capitalismo fra produzione economica e riproduzione sociale. Mentre il regime precedente consentiva agli Stati di subordinare gli interessi a breve termine delle aziende private all’obiettivo a lungo termine dell’accumulazione, in parte stabilizzando la riproduzione con le prestazioni pubbliche, questo regime autorizza il capitale finanziario a subordinare Stati e istituzioni agli interessi immediati degli investitori privati, non ultimo chiedendo il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale. Se il regime precedente alleava la mercatizzazione con la protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera una configurazione anche più perversa, in cui l’emancipazione si unisce alla mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.

Il nuovo regime è emerso dalla fatale intersezione fra due insiemi di lotte. Un insieme opponeva una fazione ascendente di sostenitori del libero mercato, decisi a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro i movimenti dei lavoratori in declino nei paesi del centro; se in passato erano la base più forte di supporto alla socialdemocrazia, sono adesso sulla difensiva, se non del tutto sconfitti. L’altro insieme di lotte opponeva i «nuovi movimenti sociali» progressisti, che contestavano le gerarchie di genere, sesso, «razza», etnia e religione, contro popolazioni intenzionate a difendere mondi-della-vita  stabiliti e privilegi, ora minacciati dal «cosmopolitismo» della new economy. Dalla collisione di questi due insiemi di lotte è emerso un risultato inatteso: un neoliberalismo «progressista», che celebra la «diversità», la meritocrazia e l’«emancipazione» mentre smantella le protezioni sociali e ri-esternalizza la riproduzione sociale. La conseguenza non è solo l’abbandono delle popolazioni inermi alle predazioni del capitale, ma anche  la ridefinizione dell’emancipazione in termini di mercato[25]. Alcuni movimenti per l’emancipazione hanno partecipato a questo processo. Tutti – compresi i movimenti antirazzisti, multiculturalisti, per la liberazione LGBT e per l’ecologia – hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. Ma la traiettoria femminista si è rivelata particolarmente fatale, dato il legame capitalistico di lunga data fra genere e riproduzione sociale. Come i regimi precedenti, il capitalismo finanziarizzato istituzionalizza la divisione produzione-riproduzione su una base di genere. Diversamente dai regimi precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione. La riproduzione, per contro, appare come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da eliminare, in un modo o nell’altro, nella strada verso la liberazione.

A dispetto o forse a causa della sua aura femminista, questa concezione incarna l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume una nuova intensità. Oltre a ridurre le prestazioni pubbliche e ad assumere donne nel lavoro salariato, il capitalismo finanziarizzato ha abbassato i salari reali, così portando i membri dei nuclei familiari ad aumentare il numero di ore di lavoro pagato necessario a sostenere una famiglia, e spingendo a una corsa disperata per trasferire ad altri il lavoro di cura[26]. Per colmare il «divario della cura» (care gap), il regime importa lavoratrici migranti dalle nazioni più povere a quelle più ricche. Tipicamente, si tratta di donne razzializzate, spesso donne rurali provenienti da regioni povere che si fanno carico del lavoro riproduttivo e di cura che prima era svolto da donne più privilegiate. Ma per poterlo fare, le migranti devono trasferire le proprie responsabilità familiari e comunitarie ad altre lavoratrici della cura ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso – e così via, in sempre più lunghe «catene globali della cura». Lungi dal colmare il divario della cura, l’effetto netto è di delocalizzarlo – dalle famiglie più ricche alle più povere, dal Nord globale al Sud globale[27]. Questo scenario incontra le strategie di genere degli Stati postcoloniali a corto di denaro e indebitati, soggetti ai programmi di regolazione strutturale dell’FMI. Alla disperata ricerca di valuta forte, alcuni fra loro hanno promosso attivamente l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero lavoro di cura pagato e così beneficiare delle rimesse, mentre altri hanno corteggiato l’investimento estero diretto creando zone di trasformazione per l’esportazione, spesso nelle industrie, per esempio tessili o di elettronica, che preferiscono impiegare lavoratrici donne[28]. In entrambi i casi, le capacità sociali-riproduttive sono ulteriormente colpite.

Due recenti sviluppi negli Stati Uniti offrono un esempio della gravità della situazione. Il primo è la crescente popolarità del «congelamento degli ovuli», una procedura che normalmente costa 10 mila dollari, ma adesso offerta gratuitamente dalle aziende IT come beneficio aggiuntivo alle impiegate più qualificate. Impazienti di attirare e trattenere queste lavoratrici, aziende come Apple e Facebook offrono loro un forte incentivo a rimandare la gravidanza, dicendo, di fatto: «Aspetta e abbi i tuoi bambini a quaranta, cinquanta, o anche sessant’anni; dedica a noi i tuoi anni più produttivi, quelli in cui hai più energia»[29].

Un secondo sviluppo negli Stati Uniti è ugualmente sintomatico della contraddizione fra riproduzione e produzione: la proliferazione di tiralatte meccanici molto costosi ad alta tecnologia, per la raccolta del latte materno. Questa è la «soluzione» a cui ricorrere in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, privo di congedo obbligatorio di maternità o parentale, e una relazione d’amore con la tecnologia. Questo è un paese, inoltre, in cui l’allattamento al seno è de rigueur, ma è cambiato radicalmente, più di quanto venga riconosciuto. Non si tratta più di allattare un bambino al seno, ora «si allatta» raccogliendo il proprio latte meccanicamente e depositandolo per l’alimentazione con il biberon in un secondo momento da parte della tata. In un contesto caratterizzato da cronica mancanza di tempo, i tiralatte a doppia coppa che non richiedono l’uso delle mani sono considerati preferibili, perché permettono di raccogliere il latte contemporaneamente da entrambi i seni durante la guida in autostrada per andare al lavoro[30].

Date simili pressioni, c’è forse da stupirsi se negli ultimi anni sono esplose le lotte sulla riproduzione sociale? Le femministe del Nord spesso descrivono il fulcro delle loro rivendicazioni in termini di «conciliazione lavoro-famiglia»[31]. Ma le lotte sulla riproduzione sociale includono molto di più: movimenti comunitari per la casa, le cure sanitarie, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; lotte per i diritti di migranti, lavoratrici domestiche e impiegati pubblici; campagne per sindacalizzare le lavoratrici del settore dei servizi in case di cura, ospedali e centri per l’infanzia privati; lotte per i servizi pubblici come asili e centri per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta, per un generoso congedo di maternità e parentale pagato. Considerate insieme, queste rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una massiccia riorganizzazione del rapporto fra produzione e riproduzione: per delle soluzioni sociali che possano mettere persone di ogni classe, genere, sessualità e colore, nelle condizioni di coniugare attività sociali-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.

Le lotte sui confini della riproduzione sociale sono tanto centrali nell’attuale congiuntura quanto lo sono le lotte di classe per la produzione economica. Esse rispondono prima di tutto a una «crisi della cura» radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziarizzato. Globalizzato e alimentato dal debito, questo capitalismo sta espropriando sistematicamente le capacità disponibili per sostenere i legami sociali. Annunciando il nuovo ideale della famiglia bireddito, esso attira a sé movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai sostenitori della mercatizzazione per opporsi ai partigiani della protezione sociale, ora diventati sempre più risentiti e sciovinisti.

Un’altra mutazione?

Cosa potrebbe emergere da questa crisi? Nel corso della sua storia, la società capitalistica ha reinventato se stessa molte volte. Specie nei momenti di crisi generale, quando molteplici contraddizioni – politica, economica, ecologica e sociale-riproduttiva – si intrecciano e inaspriscono l’un l’altra, le lotte di confine sono esplose nelle giunture delle divisioni istituzionali costitutive del capitalismo: dove l’economia incontra la politica, dove la società incontra la natura, e dove la produzione incontra la riproduzione. Gli attori sociali si sono mobilitati su questi confini per ridisegnare la mappa istituzionale della società capitalistica. I loro sforzi hanno alimentato il passaggio prima dal capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo al capitalismo regolato dallo Stato del XX, e in seguito al capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Inoltre, la contraddizione sociale del capitalismo costituisce storicamente una componente essenziale nelle dinamiche che conducono alla crisi, dato che il confine che divide la riproduzione sociale dalla produzione economica si è rivelato come la sede e la posta in gioco fondamentale della lotta. Ogni volta, l’ordine di genere della società capitalistica è stato contestato, e l’esito è dipeso dalle alleanze formatesi fra i poli principali di un triplo movimento: mercatizzazione, protezione sociale, emancipazione. Queste dinamiche sono il motore della transizione, prima dalle sfere separate al salario familiare, poi alla famiglia bireddito.

Cosa aspettarsi dalla congiuntura attuale? Le contraddizioni odierne del capitalismo finanziarizzato sono tanto gravi da configurarsi come una crisi generale, e dovremmo aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica? L’attuale crisi alimenterà le lotte, con ampiezza e prospettiva tali da trasformare l’attuale regime? Una nuova forma di femminismo socialista potrebbe riuscire a rompere la storia d’amore fra mercatizzazione e movimento mainstream, creando una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E, se sì, a che fine? Come si potrebbe reinventare oggi la divisione riproduzione-produzione, e cosa potrebbe prendere il posto della famiglia bireddito?

Nulla di ciò che ho detto qui serve direttamente a rispondere a queste domande. Ma nel tracciare le basi che ci permettono di porle, ho provato a gettare un po’ di luce sulla congiuntura attuale. Più precisamente, ho suggerito che le radici della «crisi della cura» odierna risiedono nella contraddizione sociale insita nel capitalismo – o piuttosto nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Se questa interpretazione è corretta, allora la crisi non sarà risolta tentando di dare una ritoccata alle politiche sociali. Il percorso per la sua risoluzione può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Quel che è necessario, prima di tutto, è porre fine alla sottomissione rapace della riproduzione alla produzione compiuta dal capitalismo finanziarizzato – stavolta però senza sacrificare l’emancipazione o la protezione sociale. Ciò a sua volta richiede di reinventare la distinzione produzione-riproduzione e di reimmaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà del tutto compatibile con il capitalismo.

 

[* Questo saggio è uscito originariamente sulla New Left Review, n. 100/2016, con il titolo «Contradictions of Capital and Care» (goo.gl/wGYPFL). Su autorizzazione della NLR avrebbe dovuto essere pubblicato all’interno dell’Almanacco di filosofia di MicroMega in uscita il 14 dicembre ma la casa editrice Mimesis (chiedendo direttamente all’autrice che però non ha comunicato l’autorizzazione alla NLR), ha dato alle stampe una traduzione italiana che ci ha quindi indotti a scegliere di pubblicarlo sul sito anziché sul cartaceo.]

 

NOTE

[1] Una traduzione francese di questo saggio è stata presentata a Parigi il 14 giugno 2016 alla Marc Bloch Lecture dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales ed è disponibile sul sito dell’École. Ringrazio Pierre-Cyrille Hautcoeur per l’invito alla conferenza, Johanna Oksala per le discussioni stimolanti, Mala Htun ed Eli Zaretsky per gli utili commenti, e Selim Heper per l’assistenza nella ricerca.

[2] Si vedano, fra i molti altri esempi recenti, R. Rosen, «The Care Crisis», The Nation, 27/2/2007; C. Hess, «Women and the Care Crisis», Institute for Women’s Policy Research Briefing Paper n. 401/2013; D. Boffey, «Half of All Services Now Failing as UK Care Sector Crisis Deepens», The Guardian, 26/9/2015. Sulla «mancanza di tempo», cfr. A. Hochschild, The Time Bind, Henry Holt and Company, New York 2001; H. Boushey, Finding Time, Harvard University Press, Cambridge  2016. Sulla «conciliazione lavoro-famiglia», cfr. H. Boushey-A. Rees Anderson, «Work–Life Balance», Forbes, 26/7/2013; M. Beck, «Finding Work-Life Balance», The Huffington Post, 10/3/2015. Sull’«impoverimento sociale», cfr. S. Rai-C. Hoskyns- D. Thomas, «Depletion: The Cost of Social Reproduction», International Feminist Journal of Politics, n. 1/2013.

[3] Per un quadro sulle condizioni politiche di sfondo necessarie a un’economia capitalistica, cfr. N. Fraser, «Legitimation Crisis?», Critical Historical Studies, n. 2/2015. Sulle condizioni ecologiche, cfr. J. O’Connor, «Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction», Capitalism, Nature, Socialism, n. 1/1988; J. Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London-New York 2015.

[4] Molte teoriche femministe hanno proposto delle versioni di questo argomento. Per formulazioni marxiste-femministe, cfr. L. Vogel, Marxism and the Oppression of Women, Pluto Press, London 1983; S. Federici, Revolution at Point Zero, PM Press, New York 2012 (trad. it. di A. Curcio, Il punto zero della rivoluzione, Ombre corte, Verona 2014); C. Delphy, Close to Home, University of Massachusetts Press, Amherst 1984. Un’altra potente elaborazione si trova in N. Folbre, The Invisible Heart, The New Press, New York 2002 (trad. it. di F. Pretolani, Il cuore invisibile, EGEA, Milano 2014). Per la «teoria della riproduzione sociale», cfr. B. Laslett-J. Brenner, «Gender and Social Reproduction», Annual Review of Sociology, vol. 15, 1989; K. Bezanson-M. Luxton (a c. di), Social Reproduction, Montréal 2006; I. Bakker, «Social Reproduction and the Constitution of a Gendered Political Economy», New Political Economy, n. 4/2007; C. Arruzza, «Functionalist, Determinist, Reductionist», Science & Society, n. 1/2016.

[5] Sulle lotte di confine e per una critica della visione del capitalismo come economia, cfr. N. Fraser, «Behind Marx’s Hidden Abode»New Left Review, 2/2014.

[6] L. Tilly-J. Scott, Women, Work, and Family, Methuen, London 1987 (trad. it. di A. Lamarra, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società capitalistica, De Donato, Bari 1981).

[7] K. Marx-F. Engels, «Manifesto of the Communist Party», in The Marx-Engels Reader, W.W. Norton and Company, New York 1978, pp. 487–8 (trad. it. di P. Togliatti, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1980); F. Engels, The Origins of the Family, Private Property and the State, Charles H. Kerr & Co., Chicago 1902, pp. 90–100 (trad. it. di D. Della Terza, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 2005).

[8] N. Woloch, A Class by Herself, Princeton University Press, Princeton 2015.

[9] K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston 2001, pp. 87, 138-9, 213 (trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010).

[10] A. Baron, «Protective Labour Legislation and the Cult of Domesticity», Journal of Family Issues, n. 1/1981.

[11] M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London 2014, p. 74.

[12] E. Zaretsky, Capitalism, the Family and Personal Life, Harpercollins, New York 1986; S. Coontz, The Social Origins of Private Life, Verso, London-New York 1988.

[13] J. Walkowitz, Prostitution and Victorian Society, Cambridge University Press, Cambridge 1980; B. Hobson, Uneasy Virtue, University of Chicago Press, Chicago 1990.

[14] A. Davis, «Reflections on the Black Woman’s Role in the Community of Slaves», The Massachusetts Review, n. 2/1972 (trad. it. di M. Cartosio-L. Percovich, «Riflessioni sul ruolo della donna nera nella comunità degli schiavi», in A. Gordon et al., Donne bianche e donne nere nell’America dell’uomo bianco, La Salamandra, Milano 1975).

[15] D. W. Adams, Education for Extinction, University Press of Kansas, Kansas 1995; W. Churchill, Kill the Indian and Save the Man, City Lights Publishers, San Francisco 2004.

[16] G. Spivak, «Can the Subaltern Speak?» in C. Nelson-L. Grossberg (a c. di), Marxism and the Interpretation of Culture, Palgrave Macmillan, London 1988, p. 305 (trad. it. di A. D’Ottavio, in Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 296).

[17] M. Foucault, «Governmentality», in G. Burchell-C. Gordon-P. Miller (a c. di), The Foucault Effect, The University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 87–104 (trad. it. di P. Pasquino, «Governamentalità», Aut Aut, n. 28/1978); Id., The Birth of Biopolitics, Lectures at the Collège de France 1978–1979, Picador, New York 2010, p. 64 (trad. it. di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005).

[18] K. Ross, Fast Cars, Clean Bodies, The MIT Press, Cambridge, 1996; D. Hayden, Building Suburbia, Pantheon Books, New York 2003; S. Ewen, Captains of Consciousness, McGraw-Hill, New York 1976.

[19] A quest’epoca, il sostegno statale alla riproduzione sociale era finanziato dal gettito fiscale e da fondi dedicati cui contribuivano, in diverse proporzioni, sia i lavoratori delle metropoli che il capitale, a seconda dei rapporti di forza fra le classi di ogni Stato. Ma questi flussi di entrate lievitavano col valore sottratto alla periferia mediante i profitti dall’investimento estero diretto e il commercio basato su uno scambio diseguale: R. Prebisch, The Economic Development of Latin America and its Principal Problems, United Nations, Department of Economic Affairs, New York 1950; P. Baran, The Political Economy of Growth, Monthly Review Press, New York 1957; G. Pilling, «Imperialism, Trade and “Unequal Exchange”: The Work of Aghiri Emmanuel», Economy and Society, n. 2/1973; G. Köhler-A. Tausch, Global Keynesianism, Nova Publishers, New York 2001.

[20] J. Quadagno,  The Color of Welfare, Oxford University Press, Oxford 1994; I. Katznelson, When Affirmative Action Was White, W. W. Norton & Company, New York 2005.

[21] J. Jones, Labor of Love, Labor of Sorrow, Basic Books, New York 1985; E. Nakano Glenn, Forced to Care, Harvard University Press, Cambridge 2010.

[22] N. Fraser, «Women, Welfare, and the Politics of Need Interpretation», in Id., Unruly Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989; B. Nelson, «Women’s Poverty and Women’s Citizenship», Signs: Journal of Women in Culture and Society, n. 2/1985; D. Pearce, «Women, Work and Welfare», in K. Wolk Feinstein (a c. di), Working Women and Families, Sage Publications, Beverly Hills 1979; J. Brenner, «Gender, Social Reproduction, and Women’s Self-Organization», Gender & Society, n. 3/1991.

[23] H. Land, «Who Cares for the Family?», Journal of Social Policy, n. 3/1978; H. Holter (a c. di), Patriarchy in a Welfare Society, Universitetsforlaget, Oslo 1984; M. Ruggie, The State and Working Women, Princeton University Press, Princeton 1984; B. Siim, «Women and the Welfare State», in C. Ungerson, (a c. di), Gender and Caring, Hemel Hempstead: Harvester Wheatsheaf, New York 1990; A.S. Orloff, «Gendering the Comparative Analysis of Welfare States», Sociological Theory, n. 3/2009.

[24] A. Roberts, «Financing Social Reproduction», New Political Economy, n. 1/2013.

[25] Frutto di un’improbabile alleanza fra sostenitori del libero mercato e «nuovi movimenti sociali», il nuovo regime sta rimescolando tutti i consueti allineamenti politici, opponendo femministe «progressiste» neoliberali come Hillary Clinton a populisti autoritari nazionalisti come Donald Trump.

[26] E. Warren-A. Warren Tyagi, The Two-Income Trap, Basic Books, New York 2003 (trad. it. di P. Salerno, Ceti medi in trappola, Sapere 2000 Ediz. Multimediali, Roma 2004).

[27]A. Hochschild, «Love and Gold», in B. Ehrenreich-A. Hochschild (a c. di), Global Woman, Holt Paperbacks, New York 2002, pp. 15–30 (trad. it. di V. Bellazzi-A. Bellomi, Donne globali, Feltrinelli, Milano 2004); B. Young, «The “Mistress” and the “Maid” in the Globalized Economy», Socialist Register, n. 37/2001.

[28] J. Bair, «On Difference and Capital», Signs, n. 1/2010.

[29] «Apple and Facebook offer to freeze eggs for female employees», The Guardian, 15/10/2014. Significativamente, questo beneficio non è più riservato esclusivamente alla classe professionale-tecnica-manageriale. L’esercito degli Stati Uniti adesso rende gratuitamente disponibile il congelamento degli ovuli alle donne arruolate che hanno accettato di impegnarsi per lunghi periodi di servizio: «Pentagon to Offer Plan to Store Eggs and Sperm to Retain Young Troops», The New York Times, 3/2/2016. Qui la logica del militarismo prevale su quella della privatizzazione. A mia conoscenza, nessuno ha ancora affrontato l’impellente questione di cosa fare con gli ovuli di una donna arruolata che muore in guerra.

[30] C. Jung, Lactivism, Basic Books, New York 2015, in particolare pp. 130–1. L’Affordable Care Act (alias «Obamacare») adesso impone alle assicurazioni sanitarie di offrire questi tiralatte gratuitamente alle loro beneficiarie. Così persino questo beneficio non è più prerogativa esclusiva delle donne privilegiate. L’effetto è di creare un nuovo enorme mercato per produttori che realizzano i tiralatte nei grandi stabilimenti dei loro subappaltatori cinesi: S. Kliff, «The breast pump industry is booming, thanks to Obamacare», The Washington Post, 4/1/2013.

[31] L. Belkin, «The Opt-Out Revolution», The New York Times, 26/10/2003; J. Warner, Perfect Madness, Riverhead Books, New York 2006; L. Miller, «The Retro Wife», New York Magazine, 17/3/2013; A.M. Slaughter, «Why Women Still Can’t Have It All», The Atlantic, 7-8/2012; Id., Unfinished Business, Random House, New York 2015; J. Shulevitz, «How to Fix Feminism», The New York Times, 10/6/2016.

(11 dicembre 2017)

 

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE

  1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano 2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica
  2. Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica.

Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C’è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti”[1]. Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l’opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire”[2]. E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti”[3].

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito[4].

Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch’esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale)[5]. Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli”[6]. Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l’una assieme all’altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.

Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l’ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità”[7].

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all’elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie[8].

Con queste premesse, nell’indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest’ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l’opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell’aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie”[9].

  1. Tale conclusione di Santi Romano presenta caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un’analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in categorie.

Fin da Platone – secondo una di queste – il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza[10] in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana[11]; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo[12]. Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un’altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.

A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l’opinione e l’azione politica di massa[13].

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) – verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch’essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine – in senso ampio – differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l’ordine e l’unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s’ “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli[14]; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall’alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell’istituzione (cioè del diritto) e/o dell’ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest’ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un’istituzione è la durata, perché il proprio “dell’istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome”[15].

Santi Romano in un’altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s’impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors’anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi – e ciò è implicito nel loro stesso concetto – non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia[16].

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino[17].

L’altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell’arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell’arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell’ “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E’ da notare che per miti del genere l’eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce[18]. Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell’altra (la società comunista) non s’è vista neppure l’ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

  1. Nelle concezioni del mito c’è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l’inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  – ma logica – è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere – e organizzazione dello stesso – e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d’ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse… La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”[19]. E’ da notare l’insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all’assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all’autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

  1. Questo rapido – e forzatamente lacunoso – percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell’utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così – al contrario – il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del…pasto, ma l’ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l’uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l’istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell’ “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E’ specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s’intende per la comunità e per l’istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all’istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d’essere utili a ristrette cerchie della popolazione – in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l’essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell’anarchia e della dissoluzione della Polonia del ‘700.

  1. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall’aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d’istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l’uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l’idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E’ oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all’epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale[20] (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi[21] (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione[22]; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica[23] si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”[24] (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni[25] e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”[26] (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune[27]

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci”[28].

  1. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale)[29].

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti[30].

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla”[31].

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità[32].

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”[33] ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile[34]; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.

Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta[35].

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).

Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

  1. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati)[36].

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso[37].

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né       cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene[38], non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.

T.K.

 

[1] Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonchè, non solo in questo senso traslato e improprio,ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.

[2] A tale proposito chiarisce “ gioverà ricordare e precisare che la verità o realtà giuridica è quella che è stata accolta o addirittura creata da un determinato diritto positivo, anche se diversa dalla realtà che, in contrapposizione a quella puramente giuridica, si dice effettiva, o di fatto, o materiale, e, quindi, anche se esiste solo nella concezione di un ordinamento giuridico, purchè esso sia vigente ed operante” op. cit. p.127 (il corsivo è nostro).

[3] “Perchè ciò sia possibile, è necessario che esse abbiano quel carattere o quella forma fantastica o semifantastica, non certo facile a definirsi con precisione, che concordemente  si afferma essenziale perchè si abbia la figura del mito. Il mito è una non verità, un errore, una “inopia”, ma è anche immaginazione, una immaginazione “favolosa” ” op. loc. cit.

[4] “Il mito ha altresì un senso mistico, è una credenza che ha carattere di fede e quindi assume sempre un certo tono religioso, anche quando non riguarda la religione propriamente detta: il che, del resto, è in connessione con gli altri suoi caratteri che si sono accennati” op. cit. p. 128.

[5] E prosegue “Di solito, è credenza accolta da un numero molto variabile, ma sempre notevole, di individui che partecipano in  un modo o in un altro alla vita pubblica…..E può anche darsi che il mito rimanga circoscritto fra puri studiosi, particolarmente fra i seguaci di qualche sistema filosofico. Politica e filosofia sono campi particolarmente  favorevoli alla formazione e all’affermazione dei miti che interessano il diritto”.

[6] Con le conseguenze che vi sono teorie giuridiche che sono diventati miti. Un po come gli idola theatri di Bacone.

[7]  E prosegue “mentre in sostanza questo  loro carattere accentua e aggrava gli errori che stanno a base di esse. I miti, per così dire, ingenui sono di conseguenza più innocui dei miti, per così dire, sapienti, che meglio nascondono la contraddizione fra ciò che effettivamente sono, cioè errori, e ciò che vorrebbero essere, cioè verità” op. cit. p.129.

[8] Perchè “I popoli fondatori che rimangono fedeli alle loro tradizioni e ai loro ordinamenti politici,  che non si lasciano facilmente lusingare dai miraggi di radicali trasformazioni, sono, come è naturale, quelli che hanno più netta e precisa la percezione della realtà giuridica e non amano immaginare quegli “universali fantastici”, in cui i miti si risolvono” op. cit. p. 130.

[9] Op. cit., p. 134 (il corsivo è nostro).

[10] Gorg. 527 a.

[11] Gorg. 527 a  “Queste cose che ti sto raccontando forse ti sembrano le favole di una vecchietta, e non te ne importa niente. Avresti perfettamente ragione a disprezzarle, se fossimo capaci di trovarne altre, migliori e più vere”.

[12] “Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, e dalla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole” (Scienza nuova, II).

[13] v. G. Sorel, Réflexions sur la violence, trad. it. di A. Sarno, Bari 1970, p. 181. Peraltro Sorel sostiene che i miti “racchiudano le tendenze più spiccate di un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà” (ibidem, p. 180). Onde “importa, dunque, molto poco sapere ciò che i miti contengano di particolari, destinati ad apparire realmente sul piano della storia futura: essi non sono almanacchi strologici. Può anche accadere che niente di ciò che contengono si realizzi – come fu della catastrofe attesa dai primi cristiani” ciò perché “I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione”.

[14] Principe, XV.

[15] v. Précis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 19 (il corsivo è nostro); ma vi ritorna più volte op. cit., p. 72, 76, 93 e così via.

[16] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 155 (il corsivo è nostro).

[17] A proposito del comunismo è interessante notare come Hauriou nel Précis citato (edizione del 1929, cioè più di dieci anni dopo la rivoluzione d’ottobre) scriva: “La Russia sovietica non avrà che un governo di fatto fin quando non avrà ristabilito l’essenziale dell’ordine sociale civile. D’altronde, il governo sovietico si considera da se come semplice potere di fatto, e, per consolazione, decreta l’identificazione di fatto e diritto… Di più questo governo di fatto resterà abusivo e tirannico… anche se questo governo è stato riconosciuto de facto e anche de jure da potenze straniere, in diritto internazionale il riconoscimento di un governo non ha lo stesso significato e la stessa portata che nel diritto pubblico interno”. Questo riporta il discorso – che sarebbe lungo approfondire- sulla legittimità del potere e sul rapporto di questa con il diritto (op. cit.).

[18] Scriveva Oswald Spengler a proposito di quello che, con termine desunto dalla mineralogia chiamava “pseudomorfosi”, e che applicava i rapporti tra forme espressive e sostanza spirituale “Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo a altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contradice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto la specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi” (Der undergang des abeslandes, trad. it. Di J. Evola, Milano, p. 951).

Ne caso ovviamente non si tratta di rapporti tra forme e concezioni del mondo, e tra culture diverse, ma di miti mobilitanti e realizzazioni istituzionali. Tuttavia la forza mobilitante del mito qui s’incanala e prende la forma non conforme alle aspirazioni, ma a quello della concretizzazione possibile.

 

[19] Elementi di Scienza politica, Torino 1923, pp. 73 ss. (il corsivo è nostro)

[20] Ciò, a seguire quanto sostenuto dal coro dei mass-media.

[21] v. Du Pape, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 161.

[22] Nello specificare in che consiste la razionalità (degli atti) dell’autorità Vico scrive “Requiras igitur ab auctoritate rationem civilem, hoc est communem utilitatem, quam legibus omnibus aliquam subesse necesse est … Quae ratio civilis cum dictet publicam utilitatem, hoc ipso pars rationis naturalis est. Non tota autem ratio est, quia, ut utile dictet omnibus acquum, aliquando aliquibus iniqua est” v. De uno universi juris principio et fine uno caput LXXXIII.

[23] V. G. Zagrebelski, Imparare la democrazia (il corsivo è nostro). Sul piano del metodo il richiamo all’eccezione conferma l’affermazione di Schmitt che “l’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione” (v. Politische theologie, trad. it. di P. Schiera ne le Categorie del politico, Bologna 1972, p. 41) .

[24] V. G. Zagrebelski, op. loc. cit.

[25] “Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico” e “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente” (trad. di Federica Klitsche de la Grange). M. Hauriou La science sociale traditionelle, Paris 1896, ora rist. in Ecrits sociologiques, Paris 2008 p. 239.

[26] V. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, trad. it. di L. Ciaurro, Torino 1990, p. 119.

[27] Il quale scriveva nella Deutchlands Verfassung “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale … L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli ….. L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità”, mentre “Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” v. trad. it. di A. Plebe in Scritti politici, Bari 1961 pp. 44-45 e p. 32-33.

 

[28] E aggiungeva che “La soluzione del problema, prospettata dalla dottrina pura del diritto è la seguente: come la norma (contenete un dover essere: Sollnorm), considera come senso dell’at concreto per mezzo del quale è statuita, non coincide con questo stesso atto, così la validità normativa (Soll-Geltung) di una norma giuridica non coincide con la sua efficacia concreta (Seins-Wirksamkeit), Reine Rechtslehre trad. it. di Mario Losano, Torino (ed. 1975), p. 241; ma la soluzione del giurista austriaco, pur elegante, lascia perplessi: se il diritto appartiene all’attività pratica dell’uomo, un diritto che sia fatto valere poco o niente non ha alcuna funzione, se non quella, per l’appunto, mitica (nel terzo dei sensi esplicitati prima).

[29] Si sintetizza così un terreno assai frequentato, perché approfondirlo non è necessario per il tema trattato.

[30] È esemplare quanto capitato al sen. Monti che, ritenuto all’inizio il “salvatore d’Italia” a giudizio della maggior parte dei mass-media, dopo un modesto risultato della coalizione che lo sosteneva nelle politiche del 2013, è precipitato alle elezioni europee allo 0,7% di “Scelta civica”, movimento ispirato dallo stesso. Una percentuale che ne rivela il gradimento popolare irrilevante.

[31] B. Croce, Etica e politica, Bari 1931, p. 165.

[32] Anzi, si può sicuramente affermare che un regime politico che non pretenda di detenere, (insegnare, ordinare, pretendere) la verità è sicuramente più accettabile del contrario. Ma pone una serie di problemi affrontati da millenni dal pensiero filosofico e teologico: dal quid est veritas di Ponzio Pilato, all’affermazione di Giustiniano di detenere il diritto di prescrivere ai sudditi i “veri dei dogmata” alla lotta di Guglielmo di Ockem contro la teocrazia papale alla rivendicazione di Lutero che non si può comandare alla coscienza; dalle pagine di Spinoza alla distinzione tra potere spirituale e temporale della de ecclesiastica potestate declaratio (e dell’obbedienza dovuta) attribuita a Bossuet. E che Vico aveva espresso sinteticamente e precisamente in quel titolo sopra ricordato. Ma una trattazione del genere esula dai limiti del presente scritto.

[33] Du Pape, trad. it. Milano 1994, p. 155; il presupposto e la sostanza di ciò era già affermato da Machiavelli Principe, cap. XVIII

[34] Dei tre componenti del “triedro della guerra” di Clausewitz, ricordiamo solo il primo perché il secondo è più “tecnico”, il terzo, assai importante e spesso decisivo, non sempre ricorre nelle guerre reali, onde è necessario suscitarlo con un’accorta propaganda: dal preteso uso dei gas agli stupri di massa, spesso non corrispondenti a verità né limitata ad una parte in causa.

[35] C’è poi – oltre a quelli ricordati – un mito giuridico a effetti ancor più generali. E’ quello stigmatizzato, tra gli altri, come scriveva Gustave Le Bon per la Francia del suo Tempo (ma lo stesso vale per tante altre ragioni e per il periodo storico attuale): “Ci s’imbatte in Francia in una  massa di gente che si dichiara libera da qualsiasi fede religiosa, che non crede più agli dèi, che disprezza le superstizioni … Eppure in questo Paese di liberi pensatori sarebbe difficile trovare cittadini che manifestino il più lieve dubbio riguardo all’infallibile potenza delle costituzioni e delle leggi. Siamo tutti fermamente convinti che i testi legislativi possono modificare a piacere le condizioni sociali di un popolo. Con le leggi ogni riforma è possibile. Non dipende che da esse arricchire il povero alle spese del ricco, pareggiare le condizioni di tutti e assicurare la felicità universale” v. La Psychologie politique, trad. it. di A. Popa, Roma s.d., p. 53.

È  un mito “moderno” per eccellenza, già sottolineato da Joseph De Maistre che osservava “L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. . Nell’ordine fisico intende  ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce … ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto … Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo” (v. “Essai sur le princpipe génerateur des constitutions politiques…”, trad. it. di Roberto De Mattei, Milano 1975, pp. 41 e 39)

Dalla fiducia nella volontà umana si passa a quella dell’onnipotenza, almeno in relazione alle “regolarità”, presupposti e costanti politiche e sociali

 

[36] V. Carl Schmitt, Die tyrannie der Werte, trad. it.di Forstohff – Falconi Roma 1997 pp.35 ss.; Max Scheler Politik und moral, trad. it. Di L. Allodi; Brescia 2011 pp. 125 ss..; Max Weber ne Il Metodo della scienza storico sociale, trad. it. di P.Rossi, Milano 1980, p. 332.

[37] Il che va ricondotto alla tesi di Hauriou che all’autorità statale è connaturale il potere di coazione (e così alla  funzione pubblica). Se jus dicere e potere di applicare il decisum del giudizio non appartengono alla stessa – com’è naturale per la giustizia “internazionale” – il grado di effettiva applicazione del diritto tende a ridursi e con esso l’efficacia. Lo stesso succede laddove ricorrono situazioni di grave crisi (guerra civile, dualismo dei poteri).

[38] De civitate dei, lib.XI, 17.

RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

PARASSITARIO O PREDATORIO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARASSITARIO O PREDATORIO?

  1. Come è noto gli studiosi (italiani) di Scienza delle finanze sono soliti distinguere gli assetti di potere (sotto il profilo economico-finanziario) coercitivi in: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i più sono sottomessi e sfruttati al fine di trovare durevole vantaggio a favore di ceti ed interessi preferiti dalla élite dirigente); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile “a breve periodo”). Gli assetti suddetti non sono definiti in maniera univoca, né i criteri sono i medesimi per tutti gli studiosi che se ne sono occupati[1].

La distinzione, vicina (e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo politico vive, in qualche misura, anche di politica (e non solo per la politica), non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni organizzazione, anche la più tutoriale ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.

Per cui la “soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del contratto e così via.

  1. A quasi nove anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie identificate.

All’uopo è meglio ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale (dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%)[2]; nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%[3].

Peraltro i dati vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata (durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il gettito in termini reali è lievemente calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno credibili?).

Da questi (e altri) dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece, non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i governati) si è sommato al prelievo crescente.

Qualcuno potrebbe sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per mantenerlo, è che non sia troppo distante dalla parità.

Quando nell’impero romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte – quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di quelle degli esattori romani[4].

Anche nell’Italia contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano (in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero (nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta studiando come tosarli meglio).

  1. Ciò stante cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?

Quello sicuramente da escludere è che si tratti di un assetto tutorio (il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio, anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.

Meno agevole è ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.

Il cui discrimine è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e breve nel predatorio (consistente in vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e così via.

  1. Come cennato i criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica. Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che comprendeva nell’antichità sia lo jus vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).

Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente. Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile. La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi limiti) prevedibile e calcolabile, anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto possono distinguere l’assetto parassitario dal predatorio.

Il dominio, di converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S. Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle condizioni e limiti che la permettono).

Non costituisce invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza (più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare dell’istituzione.

Ma, anche in un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait del giurista francese, il Massnamezustand di Schmitt[5], lo justitium romano[6] sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.

  1. Sotto il profilo quantitativo ciò che connota l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa tollerabilità. E nessun fatto la rende tollerabile quanto il successo, in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato[7] e delle clientele preferite costituiscano una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e geografici).

Se invece andiamo a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è il seguente (periodo 1995-2014)

Incremento PIL

Svezia 41,7%

Francia 20,7%

Germania 28,7%

Spagna 23,9%

Grecia 13,5%

Portogallo 19,1%

Italia 1,9%[8]

Anche altri dati concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990 era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.

Tanto per fare un confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al 31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e “seconda” repubblica l’aumento medio della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%). Negli anni ’51-63 (il boom economico) il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati[9]. È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.

Anche se la “prima repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una banda di briganti (latrocinium), bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni della seconda.

Risultati così deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce: prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione fiscale di circa 6 punti percentuali[10].

Dato che l’aumento della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha dimensione di un arretramento relativo (rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né esclusivamente economiche.

Nella realtà attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.

A continuare così la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”.

  1. Ma del pari anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati, almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati[11].
  2. Alla configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è legata a condizioni fattuali – prima che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico” nelle stesse persone[12]

Anche se la concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle “società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti pubblici.

Il secondo elemento qualitativo che aumenta il potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di “contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro) sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione, modificazione, estinzione alla volontà paritaria dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà più obbligazione politica (e relativamente a queste).

Il che a ben vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo Stato “totale” del XX secolo.

  1. Piuttosto, al fine di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un dato ovvio.

Quasi tutti i manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti, diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.

Un acuto giurista come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano, almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui l’uomo è zoon politikon e “appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire)[13].

Tale diritto e la relativa giustizia (Themis) è connotato dall’ineguaglianza tra i soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike)[14].

A conferma del carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione” ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad accentuare il carattere non egualitario delle parti nelle obbligazioni relative.

La non-eguaglianza (tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali – mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate e bilaterali – ma, perfino in rapporti teoricamente egualitari, nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino al decuplo per quella di bollo (v. D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono contare sulla sollecitudine amorevole del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo[15].

Quindi se non del tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.

Quali rimedi? Ve ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico, che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va, evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente, nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.

Similmente ragionava Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o meno al vantaggio atteso dal contribuente[16].

In modo analogo occorre che la spinta appropriativa dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici e privati.

Ad essere più precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero (Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato[17].

Il che significa di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare) eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un’altra classe dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] Le definizioni e criteri indicati nel testo li sintetizzano, scontando una “percentuale” d’approssimazione. S’indicano comunque alcuni degli autori che se ne sono occupati: M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica.

[2] Fonte Adnkronos “rapporto Taxation Trends in the European Union 21017 della Commissione europea”.

[3] Fonte Sole 24 Ore.

[4] V. Salviano di Marsiglia De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[5] E ancor più la “Dittatura sovrana”, v. Carl Schmitt Die Diktatur trad. it. di A. Caracciolo p. 165 ss, Roma 2006.

[6] V. Giorgio Agamben Stato d’eccezione, Torino, 2003.

[7] Si impiega il termine usato da Miglio per definire l’apparato di collaborazione all’esercizio del comando del vertice politico v. G. Miglio Lezioni di politica, Vol. II, Bologna 2011, pp. 362 ss.

[8] Fonte: Termometro politico

[9] Fonte Treccani: Il miracolo economico italiano di A. Villa.

[10] Occorre precisare che per gli anni ’92-’94 il considerevole aumento della pressione fiscale è stato dovuto, in larga parte, alle misure del governo Amato, di “transizione” tra repubbliche, per cui a voler attribuire alla fase precedente l’aumento relativo, la pressione fiscale è aumentata di soli 2 punti. Ma una simile interpretazione, a parte il dubbio, toglie poco al giudizio complessivo.

[11] Ricordiamo alcuni degli interventi legislativi e delle prassi benevole verso gli apparati pubblici e proprio per questo lesive della parità tra cittadini e apparati pubblici, ricordando che sono solo una parte di quanto disposto nello stesso senso. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis. In particolare si precisava che non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema per non pagare il creditore è semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. La limitazione del soggetto “terzo pignorato”, ha, di fatto, come conseguenza di rendere impignorabili le somme liquide e disponibili. Ma i trucchi non finiscono qui. L’art. 1 del D.L. 8/1/93 n. 9, convertito con L. 18/3/93 n. 67, dispone: “le somme dovute a qualsiasi titolo dalle unità sanitarie locali e dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata  nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’irrogazione dei servizi sanitari”; ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa …” Ciò che accomuna tutti questi espedienti, che hanno contribuito ad “abbattere i flussi di cassa”, è di aver agito sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie i diritti (sostanziali) delle parti. La Corte costituzionale con sprazzi di tutela ha annullato ogni tanto norme come quelle citate (v. sent. 29/6/95 n. 285; Corte Cost., 26-03-2010 n. 123; Corte cost., 29-06-1995, n. 285;); ma altri precetti simili alle disposizioni annullate sono state emanate prontamente. Il tutto era (ed è) aggravato da atti amministrativi (anche a contenuto normativo) quindi emanati dal complesso governo/amministrazione (come il D.M. 1/9/98 n. 352, annullato dal Consiglio di Stato), che limitano ulteriormente i diritti di categorie di creditori. Oltretutto negli ultimi dieci anni è invalsa la prassi che, nelle liti tra Pubbliche amministrazioni e parti private, se soccombono le prime, molto raramente si vedono accollate le spese di giudizio, dovute per legge (possono essere motivatamente ed eccezionalmente compensate, ma nei fatti, lo sono quasi sempre, sicchè l’eccezione è divenuta regola); mentre se a soccombere sono i cittadini quasi sempre sono condannati al pagamento delle stesse. Inoltre in una situazione in cui il principale debitore è lo Stato italiano (il debito pubblico è pari ad oltre il 130% del prodotto interno lordo) non solo s’intralcia con leggi ad hoc il pagamento dei debiti ma si agevola lo Stato debitore fissando (con decreto ministeriale) tassi d’interesse praticamente inesistenti (attualmente è lo 0,10%), incentivando così il mantenimento dell’ (abnorme) debito pubblico a costo (praticamente) zero relativamente a certe classi di creditori (cui è imposto il tasso), ma praticando tassi più vantaggiosi per altre classi che prestano a condizioni di mercato (soprattutto banche, fondi d’investimento, assicurazioni). Combinando saggi d’interesse inesistenti con la moltiplicazione d’intralci alla realizzazione dei crediti (e con l’abituale lentezza della giustizia italiana) dei crediti si ha una moratoria (a tempo indeterminato) dei debiti pubblici verso alcune classi di creditori (quasi tutte). Il tutto presuppone l’esercizio del potere coercitivo: al creditore sgradito che non si vuole soddisfare si applicano disposizioni di legge, regolamentari, atti amministrativi, circolari. A quello  favorito si paga subito e con interessi di mercato.

È ricorrente poi il divieto di compensazione tra crediti e debiti della P.P.A.A. verso i privati. Qualche anno orsono un Presidente del consiglio si proclamava sdegnato verso le proposte di estendere la compensazione tra debiti e crediti verso lo Stato.

Tanto sdegno, invece che verso qualche uomo o partito politico, avrebbe dovuto essere indirizzato verso Giustiniano, il quale con una propria costituzione del 531 d.C., l’aveva resa di portata generale “compensatio ex omnibus actionibus ipso jure fieri sancimus …” (C, IIII,31,14) per cui (al più tardi) da quasi quindici secoli è diritto comune.

Un principio elementare, ispirato a razionalità e giustizia, fondato sulla parità delle parti ed assai ostico a sopportare da un apparato pubblico che si mantiene grazie ai denari dei governati.

Dato lo squilibrio tra creditori e debitore realizzato normalmente (per lo più) con eccezione, deroghe al diritto e il vantaggio che procura alla classe dirigente questa non ha alcun interesse a contenere il debito pubblico, perché mentre con i creditori sfavoriti ci si muove con poteri pubblicistici, cioè non paritari (comandi) con gli altri, preferiti, si negozia nell’ambito del diritto privato (contratti).

[12] V. Elementi di Scienza politica, lib. I°, cap. V, Torino 1923, p.131

[13] Si noti che Hauriou dall’ appartenenza ad un’istituzione notava che esiste anche un droit statutaire, concernente posizioni, facoltà e pretese degli appartenenti al gruppo.

[14] Come scriveva il giurista francese il primo era diritto interno all’istituzione (infraistituzionale), il secondo era tra gruppi sociali (e relative istituzioni) quindi intergroupale, V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 pp. 88 e 98

[15] Ad esempio l’art. 3 L. 662/93 dispone che nel caso di occupazioni illegittime di terreni, l’importo del risarcimento è aumentato del 10% (del valore del bene sottratto). Il quale, essendo l’indennizzo pari al 50% del valore, significa che anche a commettere l’illecito i poteri pubblici ci guadagnano, pagando sempre una frazione anche se lievemente maggiorata, del valore del bene incentivo a violare la legge col minimo rischio. Ovviamente – secondo i principi generali – il cittadino per tutelare i propri diritti deve agire in giudizio, sobbarcandosi le spese dell’avvocato e quelle imposte dallo Stato (enormemente aumentate dalla fine del secolo scorso) e, ancor più, attendendo i tempi lunghissimi della giustizia italiana, mentre i pubblici uffici, fabbricano in ufficio i provvedimenti d’accertamento delle violazioni e di innovazione delle sanzioni senza l’incomodo di dover cambiare scrivania. Provvedimenti peraltro esecutori anche se impugnati nel (breve) termine previsto della legislazione, mentre gli “analoghi” chiesti dai privati lo sono solo se il Giudice li dichiari tali. Tutto è orientato a rapidità e prontezza, se i poteri pubblici sono parte attiva; a complessità e lentezza, nelle situazioni inverse.

[16] V. L’illusione finanziaria, Milano, rist. 1976, pp. 7-8.

[17] Si riportano alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p. 250-251

 

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