Il demone nella sacra narrazione dell’America, di MICHAEL VLAHOS A cura di Roberto Buffagni

Il bellissimo saggio di Michael Vlahos, studioso di storia militare, strategia, antropologia, che qui traduciamo e pubblichiamo, rischiara uno degli aspetti più enigmatici della presente svolta storica. In questo scritto, con il suo ricchissimo corredo di note, Vlahos indaga le radici invisibili dei gravi errori strategici commessi negli ultimi trent’anni dalla potenza egemone occidentale, gli Stati Uniti d’America; e le cerca dove è meno facile scorgerle: nel mito fondativo americano, nella religione civile d’America, nei moventi più profondi e meno consapevoli della psiche americana.

Ne raccomando l’attenta e paziente lettura, e suggerisco al lettore di dedicare tempo anche ai numerosi rinvii ai testi citati in nota, spesso illuminanti. È tempo ben speso. Buona lettura.

Roberto Buffagni

 

 

 Il demone nella sacra narrazione dell’America

L’America è una religione infiammata da un’apocalisse eternamente ricorrente, e la guerra è il suo rituale di purificazione.[1]

 

di MICHAEL VLAHOS[2], 3 giugno 2023

 

 

L’America è una religione. Il 4 luglio 1776, gli Stati Uniti furono battezzati con queste parole: “Ci impegniamo reciprocamente con le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore“. Con questo giuramento[3], una nazione è nata e ha inaugurato il mito del suo ingresso nel divenire storico. Però, i Fondatori – i nostri “creatori” – hanno immaginato più di una nazione. Hanno anche abbozzato l’arco narrativo di un viaggio divinamente eroico, e designato gli Stati Uniti come il culmine (futuro) della Storia.

Questa è la sacra narrazione dell’America. Sin dalla loro fondazione, gli Stati Uniti hanno perseguito, con ardente fervore religioso, una superiore vocazione a redimere l’umanità, punire i malvagi e battezzare l’Età dell’Oro sulla terra. Mentre Francia, Gran Bretagna, Germania e Russia si aggiravano per il mondo alla ricerca di nuove colonie e conquiste[4], l’America si è costantemente attenuta alla sua originale visione della propria missione divina quale “Nuovo Israele di Dio”[5]. Mentre le narrazioni mitiche delle altre grandi potenze erano crudelmente egocentriche, la Scrittura americana era – e rimane tuttora – “Servire l’Uomo”[6].

Così, tra tutte le rivoluzioni scatenate dalla Modernità, gli Stati Uniti si dichiarano, nella loro stessa Scrittura, il precursore e l’apripista dell’Umanità. L’America è la nazione eccezionale, l’unica, la pura di cuore, la battezzatrice e la redentrice di tutti i popoli umiliati e oppressi: L'”ultima, la migliore speranza della Terra”[7].

Questo è il catechismo della Religione Civile Americana[8]. Agli occhi del mondo, tutto questo può sembrare un vano rituale di autoglorificazione, eppure la Religione Civile è l’articolo di fede nazionale degli americani. È la Sacra Scrittura, che prende forma retorica attraverso ciò che gli americani considerano la Storia. Eppure questa visione della storia è meglio compresa se la si intende come un corpus di letteratura sacra, per molti versi paragonabile all’Islam.

Al posto del Corano, l’America ha la sua Dichiarazione di Indipendenza e la sua Costituzione. Al posto della Sira (السيرة النبوية), degli Hadith (حديث) e dei Tafsir (تفسير), l’America ha i Federalist Papers, le omelie presidenziali a partire dal Discorso di addio di Washington[9], e le tradizioni, le storie e i detti dei Fondatori, fino alle interpretazioni moderne offerte dai “grandi americani” che si sono succeduti. Invece del Fiqh (فقه) e del suo sistema di Madhhab (مذهب), l’America ha le sue scuole di giurisprudenza che interpretano e traducono – in una sorta di Ijtihad (اجتهاد) – le sue scritture nel corretto “modo di agire” (cfr. Madhhab).

Oggi possiamo davvero comprendere il pensiero e l’azione americani solo attraverso la lente della religione. L’America è infatti una religione intransigente come l’Islam[10]. Per esempio, si può pensare che agli americani manchi la Shahada (ٱلشَّهَادَةُ), o “la testimonianza” della fede, ma non è passato molto tempo da quando gli studenti di tutte le scuole pubbliche americane recitavano quotidianamente il Pledge of Allegiance (“il giuramento”). Non solo l’inno nazionale americano è un puro inno sacro, ma le sue parole sacre – Libertà e Democrazia – sono cantate ritualmente dal suo popolo proprio come ʾIn shāʾ Allāh dai musulmani.

La nostra letteratura sacra definisce chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, e, come per la Ummah islamica (أُمّة), costituisce l’alveo del nostro Io nazionale. Inoltre, come l’Islam, anche la missione dell’America è “giustamente” guidata, e sarà compiuta solo quando tutta l’umanità sarà riunita nel suo abbraccio “democratico”. Proprio come il Dar-al-Islam, nel suo periodo di massimo splendore, spingeva incessantemente per una comunità globale “con il fuoco e la spada”, gli Stati Uniti hanno perseguito un universalismo non meno incessante nel loro secolo di apogeo.

 

La nostra letteratura sacra definisce l’identità americana come un grande arco narrativo, donato da Dio, che si realizza attraverso una serie ricorrente di storie che illustrano epifanie del sacro continuamente ascendenti: un ciclo storico di lotte estatiche che danno forma al mitico passaggio verso l’inverarsi storico dell’America, e che culminano in un’apocalisse – “rivelazione” o “svelamento” (in greco antico apokálupsis). All’interno di questi cicli apocalittici, il significato nascosto dell’arco narrativo sacro americano si rivela solo attraverso la realizzazione della democrazia universale. Come l’Islam, anche la religione americana culmina in un’apocalisse[11].

Come tale, l’arco narrativo americano può realizzarsi solo attraverso la battaglia. Ogni “momento culminante” nella narrazione sacra americana è stato realizzato attraverso il sacrificio reciproco e il potere trascendentale della vittoria in battaglia. Dal momento della sua fondazione a oggi, la guerra è stata l’incudine dell’America, e nel sangue essa è stata divinamente temprata[12].

Non solo ogni grande guerra americana è considerata un punto di riferimento per il progresso verso un Graal millenaristico, ma ogni generazione americana è stata incoraggiata a spostare in avanti il metro di misura dell’avanzamento. Anche se non tutte le lotte sono state coronate da successo, ogni spinta ha costituito un trampolino di lancio per il prossimo grande passo. La narrazione sacra americana è così onnipresente e onnipotente che, in oltre 250 anni, non c’è stata alcuna pausa storica significativa nell’inflessibile spinta americana verso la Jihad.

La narrazione sacra governa gli americani: governa ciò che pensano, dicono e fanno. La domanda è: chi controlla questa narrazione sacra? Naturalmente, il Vangelo americano è una creazione del popolo americano. Per quanto crediamo – anche se spesso in senso figurato – alla sua ispirazione divina, la “buona novella” dell’America è una nostra creazione. E proprio come per la Costituzione, in teoria abbiamo il potere di emendarla. Tuttavia, dato che l’imperativo dell’esegesi è scolpito nelle tavolette di Ur della religione civile americana, il settarismo diventa inevitabile.

La religione civile americana è inestricabilmente legata alla Riforma, al cristianesimo calvinista e alla sanguinosa storia del protestantesimo, con la narrazione sacra dell’America plasmata e battezzata attraverso il primo e il secondo Grande Risveglio del Paese. Sebbene la sua lettura scritturale sia divenuta laica nell’era del Progresso, la religione americana è rimasta legata alle sue radici formative. Infatti, anche la nostra contemporanea “Chiesa di Woke”[13] non può sfuggire alle sue origini cristiane calviniste.

Più volte nella storia americana, sette autoctone hanno cercato di “revisionare” la narrazione sacra, forse addirittura trasfigurandola. Per di più – dato il messianismo jihadista che fa da cornice alle Scritture nazionali americane – questo percorso revisionista deve passare attraverso la valle di lacrime dell’effusione di sangue fraterno e delle guerre civili.

L’apocalisse che porta il Millennio promesso all’umanità deve necessariamente riflettere l’anelito apocalittico del Vangelo americano: se siamo caduti nella corruzione, dobbiamo essere purificati e resi di nuovo degni di agire come Redentore del Mondo. Per i suoi peccati, una narrazione sacra corrotta non può trovare espiazione. Semmai, un Nuovo Testamento inossidabile deve sostituire il Vecchio Testamento arrugginito. La rinascita esige quindi il passaggio attraverso il fuoco purificatore della guerra. In effetti, l’ossessione per il potenziale purificatore e consacrante delle prove e dei terrori insiti nella guerra è il demone che si nasconde nei meandri della nostra letteratura sacra.

Questo invasamento demoniaco della guerra si radica nella nascita stessa dell’America come nazione. La Rivoluzione americana costrinse la nuova nazione a cacciare i propri fratelli e ad abbandonare l’antica parentela con la Gran Bretagna. Persino il codice sorgente della narrazione sacra dell’America – la Dichiarazione – è stato predeterminato in conformità alla trasfigurazione dei nostri (ex) parenti in (d’ora in poi) estranei e alieni, se non nemici. L’indipendenza richiedeva una metamorfosi. Il passaggio alla “rivelazione” passava attraverso il fuoco della guerra esistenziale intestina.

La Dichiarazione prefigurava anche la seconda possessione demoniaca dell’America. La guerra civile americana si sviluppò da una vistosa spaccatura settaria[14] che andò sempre più fuori controllo dopo il 1815. Due sette neocristiane evangelizzatrici ferocemente diverse, eppure inquietantemente simili, portarono a uno scisma nella religione civile[15] che assunse l’intensità appassionata delle guerre di religione europee (1545-1648)[16].

Il terzo invasamento dell’America ad opera della guerra santa si trasformò in un’apocalisse nientemeno che globale. Qui gli Stati Uniti non dovettero affrontare sette rivali all’interno della Religione Civile Americana, ma piuttosto il Demiurgo (gnostico) stesso, in una serie di sue manifestazioni tenebrose – fascismo, nazismo, comunismo – che potevano essere sconfitte solo dalla Luce.

Dal 1945, gli Stati Uniti hanno spesso confuso le battaglie neo-settarie affrontate in patria con la loro jihad universale per elevare e redimere l’umanità all’estero. Il nucleo della narrazione sacra dell’America – la sua autocomprensione come nazione divinamente ordinata, universalista e apocalittica – è, nella sua intensa religiosità, preoccupante. Il fatto che gli americani siano del tutto ignari di questo zelo religioso è inquietante. Ciononostante, questa narrazione sacra ha guidato gli americani di ogni generazione, spingendoli a ricreare e rivivere il loro arco narrativo originale – un eterno ricorso che oggi ha ramificazioni globali.

Questo ci porta alla nostra situazione attuale. Dal 2014, una nuova setta in rapida crescita – la “Chiesa di Woke” – ha cercato di trasformare e possedere pienamente la religione civile americana, per regnare come confessione religiosa sua erede. Ironicamente, il fervore del suo evangelismo incanala il post-millenarismo del Primo Grande Risveglio, il cui messianismo è stato codificato nel Novus Ordo Seclorum[17] (Nuovo Ordine dei Secoli).

Come ha preso forma la religione civile americana? Qual è l’origine del momento critico in cui ci troviamo oggi?

 

I quattro pilastri della rettitudine americana

La religione civile americana è guidata da quattro convinzioni e atteggiamenti di fondo: 1) missionarismo, 2) messianismo, 3) manicheismo e 4) millenarismo. In primo luogo, si ritiene che gli Stati Uniti siano in missione per conto di Dio, come ci ricorda Elwood Blues[18]. L’America è stata incaricata da Dio (o dalla Provvidenza[19]) e quindi porta con sé la Sua autorità, con il popolo americano che funge da agente divino. Con la fondazione dell’America, questa voce divina – che si leva al di sopra e dall’esterno, ma che sorge anche dall’interno – diviene immanente nei Fondatori dell’America e nei suoi “eletti”.

Il secondo motore della teologia americana è il suo idealismo messianico, radicato in una visione escatologica dell’esistenza. Si ritiene che l’America sia stata scelta – in quanto “nazione eccezionale” – per sollevare gli umiliati e soccorrere gli oppressi. L’America è la Nazione Redentrice[20] per eccellenza. La “salvezza” del mondo è affidata all’America, che deve assumersi il compito di rovesciare e punire i malvagi, di inseguire e abbattere il Male stesso. Questa certezza della propria unzione sacra, del proprio ruolo nel “giudizio finale” rende gli americani particolarmente inclini ad adottare una mentalità “bianco o nero”. L’America rappresenta la Luce, che lotta contro l’eterno “Lato Oscuro”[21] – questo è il terzo pilastro e il fondamento del manicheismo americano.

Infine, come città splendente su una collina[22], l’America rappresenta la nazione scelta da Dio, il cui popolo ha il sacro compito di mantenere la promessa postmillenaria del Regno dei Cieli sulla Terra. L’America guiderà quindi l’Umanità attraverso un mitico passaggio verso i benedetti “ampi e soleggiati altipiani”[23]. Questi quattro quadri mentali sono inestricabili dal nostro stesso essere americani e costituiscono il fulcro della nostra visione del mondo ancora oggi.

Prima di esaminare in modo più dettagliato questi pilastri della religione civile americana, una parola di cautela. Tutte le nazioni hanno dei miti fondativi e – in modo pesante o più leggero – sono tutte governate da essi. L’America non è unica tra le nazioni. Tuttavia, la sua narrazione sacra è davvero diversa, e rappresenta una forza potente nella psiche nazionale. Questa narrazione sacra non può catturare pienamente la ricchezza e la diversità di un ethos originale, un tempo radicato in antiche tradizioni. La cultura americana rimane un terreno di intrecci di tradizioni popolari e di visioni del mondo che ricordano ancora i suoi antecedenti storici. Alcuni li hanno definiti “il seme di Albione”[24].

Eppure, più volte, élite troppo zelanti, spinte da programmi estremi e utopistici, sono riuscite ad appropriarsi della Religione Civile e l’hanno piegata alla loro fede e alla loro visione del mondo universalistica, sebbene fosse in contrasto con le tradizioni normative contrastanti dell’American way of life.

Tuttavia, ogni generazione americana, dalla fondazione in poi, è stata governata da una religione civile che ne formava il contesto culturale. Se la narrazione sacra dell’America è stata vista e interpretata attraverso il prisma di una corrente di pensiero dominante – che fa capo più a Thomas Jefferson che a George Washington – ha comunque catturato l’identità americana, anima e corpo. Come ha fatto un caravanserraglio di tradizioni popolari, abitudini e retaggi coloniali a trasformarsi nella religione civile americana, intransigente e assolutista, che conosciamo oggi?

Il tempo di passione della nascita d’America – lo sconvolgimento rivoluzionario avvertito da ogni cittadino – ha offerto a una minoranza fanatica[25] lo scenario perfetto per catturare l’immaginazione americana con la promessa di un “progetto” eterno, il crogiolo perfetto per realizzare una metamorfosi nazionale.

Quindi, dalla caotica selva di possibilità di questo ambiente, una nuova religione e la sua narrazione sacra furono in grado di cristallizzarsi, creando al contempo le condizioni per fare proselitismo in una società coloniale più passiva e politicamente agnostica. Una minoranza di zeloti, che nelle generazioni a venire verrà ricordata come “I Figli della Libertà”, divenne il cocchiere in incognito della Rivoluzione.

Dall’America tardo-coloniale ai giorni nostri, i veri credenti hanno “guidato” ogni arco narrativo apocalittico americano. Come nella maggior parte delle rivoluzioni della storia, i pochi ardenti sono gli evangelisti che danno forma al caos del cambiamento, iniettando la loro rettitudine nelle arterie spirituali dei molti.

 

  1. L’America missionaria

La missione americana sgorga da una sorgente divina. Nel corso del tempo, l’alleanza originaria della comunità puritana con Dio[26] si è trasformata nella direttiva principale dell’America. L’America è diventata così “una città su una collina, alla quale gli occhi di tutti i popoli” – non solo in America ma in tutto il mondo – guardano con meraviglia. Lo Stato Missionario che ne deriva ha una sola brama: bagnare tutti i popoli nell’acqua battesimale della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza.

Questa missione americana è stata risvegliata e ribattezzata quattro volte. Il primo e il secondo “Grande Risveglio” furono eventi nazionali drammatici, galvanizzati dal fuoco spirituale del revivalismo cristiano. Precedendo la Rivoluzione americana, il Primo Grande Risveglio[27] elettrizzò il grido di “Libertà” con un taglio evangelico[28], che riecheggiava la squillante profezia di Jonathan Edwards.

 

Il Secondo Grande Risveglio diede vita a nuove sette americane, come la Christian Science[29], gli Shakers[30] e la Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni[31], e guidò i movimenti sia pro sia contro la schiavitù verso l’evangelizzazione settaria, con la piena aspettativa di una lotta apocalittica. Il periodo della Ricostruzione che seguì era finalizzato al compimento di una narrazione salvifica che non avrebbe semplicemente riscattato gli schiavi, ma anche lavato i peccati dell’America stessa – un secondo battesimo nazionale[32].

Le epifanie nazionali cristiane furono poi seguite da un altro tipo di terzo grande risveglio, anche se non fu mai formalmente chiamato così. Tuttavia, dalla corruzione della Gilded Age e dal purgatorio della società industriale, sorse un movimento chiamato Vangelo sociale,[33] per aiutare gli americani a scoprire una nuova promessa di salvezza in questa vita. Questo movimento, a sua volta, animò una causa Progressista emergente: divenire levatrici del nuovo, in modo che il vecchio cristianesimo potesse dare vita a una nuova visione secolare che rimanesse comunque fedele a se stessa[34]. I progressisti, affatto laici, accettarono volentieri la benedizione cristiana su un’impresa per nulla interessata alle vecchie radici cristiane[35].

Nonostante l’apparente rifiuto di ogni ascendenza cristiana, tuttavia, il rituale e la dottrina di questa nuova incarnazione della religione civile si sarebbero attenuti alla forma originale e sacra del calvinismo. Solo che da allora in poi, tutte le apocalissi americane avrebbero potuto comandarci e ipnotizzarci con una voce laica.

La Missione Americana mescola, così, la redenzione con la conversione. I proclami sulla volontà di rendere il mondo “sicuro” – come sostenuto da Woodrow Wilson[36] nel suo discorso sulla Dichiarazione di Guerra, o, nel nostro tempo, sulla Responsabilità di Proteggere (R2P) di Samantha Power[37] – sono fuorvianti. In realtà, l’invocazione retorica di un “mondo sicuro e protetto” rappresenta una investitura divina americana, e il suo vero obiettivo è: convertire tutte le nazioni e i popoli alla religione americana.

Questo arco narrativo è iniziato con il Secondo Grande Risveglio, quando i missionari cristiani “procedettero dagli Stati Uniti verso i quattro angoli della terra”[38]. Negli anni Novanta del XIX secolo, quando lo Stato-nazione si proiettò sul mondo, lo Stato aveva srotolato nuovi stendardi missionari e nuovi catechismi, ma parlando con voce laica: per esempio, “conversione attraverso l’istruzione”, “educazione alla democrazia” e “civiltà americana”.

 

In effetti, la Commissione Taft, fissando la bussola culturale del dominio americano sulle Filippine, fece dell’educazione alla democrazia e alla civiltà americana il progetto di nation-building[39]  dell’epoca. Furono inviati centinaia di insegnanti americani (i “Thomasites”) e l’esercito americano costruì migliaia di scuole. Così, la costruzione di scuole divenne il tropo eroico della costruzione della democrazia, una “parola fatta carne” ufficiale pronta ad ispirare le successive missioni di “nation-building” in Iraq e Afghanistan.

Così, l’appello della Missione americana si è evoluto dalla redenzione di se stessi alla redenzione del mondo. Inizialmente guidato dal revivalismo cristiano, lo zelo missionario dell’America si è presto orientato verso un’alleanza secolare, ma ancora sacra (i 14 Punti di Wilson fanno uso esplicito di questa parola) con il mondo in quanto tale. L’autorità di questa alleanza implicita è ancora oggi in pieno vigore. Nessun’altra religione mondiale ha fatto un proselitismo più aggressivo con le sue dottrine.

 

  1. L’America messianica

Il messianismo americano incanala il potere delle eredità teologiche intrise della visione di Calvino sulla predestinazione. Riflette un abbraccio collettivo della predestinazione, che avvolge sia la nazione che i cittadini. Nel 1765, John Adams dichiarò che il popolo americano era guidato da una “provvidenza benigna” e che la sua missione aveva dimensioni messianiche[40]:

 

Ho sempre considerato l’insediamento dell’America con riverenza e meraviglia, come l’apertura di una grande scena e di un disegno della provvidenza, per l’illuminazione degli ignoranti e l’emancipazione della parte schiava dell’umanità su tutta la terra.

 

Quindi, l’America non solo ha un carattere “messianico” – in quanto “posseduta da passione e zelo” – ma manifesta una visione implicitamente biblica che proclama la sua fede nella natura predestinata del suo passaggio. Una “nazione eletta” divinamente scelta per agire nel nome della Provvidenza come Redentore del Mondo: il grande arco della narrazione sacra americana marcia sempre in avanti – con l’America come braccio di Dio – verso il millennio “benedetto”. Rivelando l’estasi di questo Zeitgeist messianico, Walt Whitman[41] poteva così esclamare nel 1860:

 

Io sono il cantore – canto ad alta voce sopra il corteo; …

 

Canto il nuovo impero, più grande di tutti i precedenti – Come in una visione mi viene incontro;

 

Canto l’America, la padrona – Canto una supremazia più grande; …

 

E tu, Libertad del mondo!

 

O come cantava Herman Melville[42] nel 1850:

 

Noi siamo i pionieri del mondo; l’avanguardia, inviata attraverso il deserto delle cose non sperimentate, per aprire un nuovo sentiero nel Nuovo Mondo che è nostro. La nostra forza è nella nostra giovinezza… la nostra voce profonda è udita lontano. Siamo stati a lungo scettici nei confronti di noi stessi e abbiamo dubitato che il Messia politico fosse venuto. Ma è venuto in noi.

 

A metà del XIX secolo, l’etere della Missione americana era pienamente infuso di messianismo della “Giovane Libertad”, in una fusione dimorfica di Antico e Nuovo Testamento. In effetti, l’eredità di Edwards è riuscita a creare un’autentica voce cristiano-americana, per quanto questa possa sembrare lontana dalle realtà della vita politica americana della metà del XIX secolo.

 

III. L’America manichea

L’idea di un’eterna lotta del bene contro il male risale all’antica Persia e alla religione gnostica e dualistica del profeta Mani (آینِ مانی). Si tratta di un tema duraturo, la cui corrente profonda si riversa nel cristianesimo e nelle sue numerose eresie (ad esempio, Albigesi, Bogomili e Pauliciani). Il manicheismo americano presuppone un Demiurgo e, dopo averlo evocato, lo proclama come proprio. Una volta che l’America rivendica l’intero potere del Bene e lo rende del tutto intrinseco alla sua concezione del Sé, lo Straniero, l’Estraneo e ciò che viene designato come l’Altro possono essere transustanziati di colpo – attraverso la celebrazione della liturgia nazionale – in puro Male.

In questo atto riflessivo, l’alterità precede il vilipendio definitivo e ufficiale. La fede religiosa crea un contesto che permette di trasformare l’altro in un male che distrugge il mondo. È con questa sacra ingiunzione che i guardiani dell’opinione pubblica americana accusano ed ostracizzano regolarmente le voci americane dissenzienti.

L’icona originale del male americano è emersa con la Rivoluzione Americana, con la quale rimane per sempre sincronizzata. Durante questa primordiale apocalisse americana, i rivoluzionari scacciarono gli ex fratelli come presunti agenti del tiranno primordiale, Giorgio III. Il fascino freudiano della trasformazione del fratello in Altro ha raggiunto il suo apice nella seconda apocalisse americana. Durante la Guerra Civile, “fratello contro fratello” divenne il motto quotidiano della guerra. Rispetto alla Guerra di Rivoluzione, l’apostasia americana era maturata. Durante la guerra civile, l’espiazione e la riparazione – il ricongiungimento con il corpo della Chiesa (americana) – divennero il compito più urgente dell’Unione.

Passando al XX secolo, era necessaria una riconciliazione operativa attraverso la quale l’ex nemico potesse trovare l’espiazione ed essere accolto, in ginocchio, nella vera fede garantita dalla profezia americana. Ciò è del tutto in linea con la formula originale osservata dall’America per trattare con il Prototipo dell’Altro. In conformità ad essa i Tories[43], responsabili mai perdonati del (nostro) peccato originale, sono stati scacciati ed esiliati dalla Città sulla Collina per tutta l’eternità[44]: banditi nelle gelide distese al di là del firmamento americano, oggi note come Canada. In questo modo, le prime due apocalissi dell’America hanno creato una patologia dualistica nella narrazione sacra americana: ostracismo o redenzione.

La soluzione novecentesca dell’America è stata quella di trasformare il nemico distillando tutto il male e il peccato in un individuo “satanico” che fosse la nuova personificazione del Male. Quindi, il nemico primordiale dell’America non erano i tedeschi, ma Hitler; non i sovietici, ma Stalin; non i russi, ma Putin. Il male personificato come Anticristo è stato il santo dei santi nella formula di redenzione dell’America per quasi un secolo.

 

  1. L’America millenaristica

Anche se oggi non è il senso corrente della parola, “apocalisse”, come detto in precedenza, significa rivelazione – togliere il velo sulla Parola di Dio e sul suo Piano. “Apocalisse”, quindi, non significa la fine del mondo, ma piuttosto il suo culmine: “Tutta la storia è, infine, apocalittica”.

Un particolare esito apocalittico – il postmillenarismo – è incorporato nella narrazione sacra americana. Può essere ricondotto, ancora una volta, a Jonathan Edwards. Gli storici hanno accusato Edwards di aver “catalizzato questo particolare filone di escatologia”[45], indirizzando così l’America verso il “destino manifesto”[46].

Oggi, nessun americano “giustamente guidato[47]” può prendere in considerazione, e tanto meno accettare, un eschaton minore. Per esempio, dati i dogmi della religione civile americana, un “realismo” che osi mettere in discussione il potere divino della democrazia diventa immediatamente anatema. Una visione dell'”interesse nazionale” slegata dal nostro piano sacro[48] equivale all’apostasia. Consultiamo le nostre Scritture americane. Innanzitutto, Apocalisse 14:19:

 

And the angel thrust in his sickle into the earth, and gathered the vine of the earth, and cast it into the great winepress of the wrath of God[49].

Confrontatelo con questo versetto della liturgia della guerra civile – L’inno di battaglia della Repubblica:

 

He is trampling out the vintage where the grapes of wrath are stored; He hath loosed the fateful lightning of His terrible swift sword.[50]

Così, sulla scia della sua seconda guerra apocalittica, nel 1865, con la politica purificata e il male abbattuto[51], poté nascere una nuova America.

Gli americani ritenevano che ciascuna delle crisi nazionali americane avrebbe potuto inaugurare nell’immediato un’era millenaria, un “Novus Ordo Seclorum[52], come prefigurato e profetizzato nelle parole di Washington. L’apocalisse e il suo potere rivelatore indicano quindi sempre la fine predestinata del nostro arco narrativo, una mimesi celeste in cui il mondo divino si rispecchia in terra.

Per questo, nel 1945, circa ottant’anni dopo la guerra civile, la terza apocalisse americana fu considerata un’altra opportunità provvidenziale per realizzare la profezia destinale dell’America. Anche se la promessa di un giudizio finale fu congelata dalla Guerra Fredda e rinviata ai posteri, l’establishment statunitense iniziò a sbandierare un Millennio in attesa: che c’era di nuovo un imminente “Mondo libero” da realizzare, un giorno, in un sacro ordine internazionale liberale.

L’improvvisa caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 inaugurò una falsa aurora. Semplicemente, la classe dirigente americana non era preparata a una sincronicità junghiana[53] dell’apocalissi così perfetta. Hanno freneticamente dichiarato un “Nuovo Ordine Mondiale” e celebrato la “fine della storia”[54], come se tutta l’umanità fosse semplicemente destinata a inchinarsi al Grande Sigillo dell’America.

Naturalmente, il Millennio promesso rimane ancora sfuggente. Ma questo non ha impedito all’establishment della politica estera degli Stati Uniti di attribuire una posta in gioco esistenziale a ogni nuova guerra che intraprende, appiccicando su di essa i sogni, divinamente sanciti, inclusi nella ricerca mitica – sempre affascinante – del compimento spirituale dell’America. La profondità e l’ampiezza della religione civile americana rivaleggiano con qualsiasi fede mondiale, non solo per l’enormità della teologia, la forza dei dogmi e la presa della sua letteratura sacra, ma anche per il suo impatto maniacalmente benefico e tuttavia brutale sull’umanità e sulla storia.

Per comprendere meglio la narrazione sacra americana, può essere utile valutare l’arco narrativo nazionale dell’America come si farebbe con una serie televisiva. In quanto tale, la serie americana di successo è già stata rinnovata per un certo numero di stagioni, anche se la nostra è una storia sacra organizzata intorno alle apocalissi.

Come religione universalista radicata fin dalla nascita nell’apocalisse, il ciclo di vita di 250 anni dell’America è interamente catturato dal suo sacro arco apocalittico, punteggiato da tre sorprendenti “rivelazioni”: la nascita con la Rivoluzione Americana, un battesimo o purificazione nella Guerra Civile, e una redenzione mondiale durante le due Guerre Mondiali – quasi compiuta, ma anticipata.

Cosa ci aspetta dunque nella nuova, e forse ultima, stagione? Dove siamo diretti, in questa melodrammatica prova?

 

La quarta apocalisse americana?

Gli americani continuano a negare che la loro ideologia nazionale equivalga a una religione civile. E’ vero che la grande intuizione in merito di Robert Bellah ha trovato ascolto sin dal 1973, ed è citata, a intermittenza, nei media mainstream[55] americani. Tuttavia, è un riconoscimento criptico e raro, e la consapevolezza popolare di esso è quasi inesistente. Gli americani rimuovono risolutamente la loro religione civile per tre motivi.

In primo luogo, gli Stati Uniti sono nati nello sfolgorio del pensiero illuminista, dove religione – soprattutto la Chiesa romana – equivaleva a superstizione. Edward Gibbon, che nel 1775 ebbe la sua epifania nel Foro Romano, attribuì il “declino e la caduta” di Roma alle forze della “barbarie e della religione”[56].

Tuttavia, i Fondatori abitavano un ambiente plasmato da uno Zeitgeist protestante, che dominava le loro vite. Se gli americani dovevano essere campioni della Ragione – dove “la Scienza è reale” e (in quasi tutte le dispute) “fornisce la soluzione” – quel Tempio della Ragione doveva avere radici affondate nella Predestinazione calvinista. Naturalmente, ogni americano “giustamente guidato” sa che il suo Paese è sinonimo di Progresso: l’America non può mai essere medievale. Quindi, in un atteggiamento del tutto privo di autoconsapevolezza, qualsiasi religione di Stato regnante – con le sue dure leggi religiose – apparirebbe arretrata, primitiva o, come spesso si dice del fondamentalismo islamico, equivale a “tornare al XIV secolo”[57].

Inoltre, gli americani – quasi senza eccezione – non riescono a concepire la religione in assenza di una “Chiesa” formale e confessionale. Così, anche all’apice della Guerra Fredda, i mali del comunismo non erano identificati come i peccati di una Chiesa alternativa. Il canone marxista-leninista non poteva essere teologia: doveva invece essere “ideologia”. Dopo tutto, come potrebbero essere religiosi i “comunisti senza Dio”? A ciò si aggiunga il fatto che molti esponenti della sinistra americana simpatizzavano con l'”idea” del socialismo e lo trovavano attraente per gli Stati Uniti, sempre che fosse stato “fatto bene”. In altre parole, credevano che una bella dose di democrazia e libertà americana avrebbe sicuramente ripulito il marxismo dai suoi mali e distillato i suoi altrimenti nobili ideali. Il socialismo è fallito in Russia perché non è stato unto dalla “buona novella” americana: una sua versione americana, invece, avrebbe prosperato.

Infine, una confessione di fede americana – l’aperta enunciazione dell’esistenza di una religione civile nazionale – sembrerebbe annullare la clausola di separazione tra Chiese e Stato della Costituzione. Tuttavia, la religione civile americana originale, così come concepita dai Fondatori, può essere definita una chiesa di Stato? Quasi certamente, essi direbbero di no. Dopo tutto, una religione civile non è una chiesa, almeno non nel modo in cui l’Illuminismo intendeva la religione. Nel XVIII secolo, per “religione” si intendeva una chiesa di Stato. Il diritto canonico e la common law rientravano quindi entrambi nelle prerogative dello Stato, che i Fondatori intendevano come Parlamento e Re. Possedere la Chiesa d’Inghilterra significava che lo Stato britannico poteva dire alla gente come vivere e pensare[58]– e lo fece -, come dimostrano l’Atto di uniformità[59], i Test Acts e le leggi penali.

Queste sono alcune delle ragioni per cui alcuni potrebbero esser contrari a inquadrare l’ultimo movimento di fede che emerge dall’attuale quarto Grande Risveglio come un’altra sfida settaria, familiare, persino classica, alla religione civile. In realtà, il “Risveglio”[60] è paragonabile alle sette evangeliche aggressivamente confliggenti, incardinate nel Nord e nel Sud, che spinsero l’America in una lotta (intestina) negli anni Cinquanta dell’Ottocento, dopo il Secondo Grande Risveglio. La sua origine può anche essere ricondotta direttamente ai temi laico-socialisti dell’era progressista, che si riflettevano nel Vangelo sociale.

Tuttavia, la crescita di questa nuova e virulenta setta americana va ben oltre, segnalando l’emergere di una futura nuova chiesa americana, una chiesa vera e propria. In questo caso, la “Chiesa di Woke”[61] implica un futuro edificio giuridico, inteso a revisionare e trasformare radicalmente il patto costituzionale americano attraverso dottrine semisacre e sponsorizzate dallo Stato, tra cui la “Critical Race Theory” (CRT), la “Diversity, Equity, and Inclusion” (DEI), la “Environmental, Social, and Corporate Governance” (ESG).

Nel XXI secolo, la protezione e il privilegio dello Stato hanno creato un proscenio politico su cui agisce una coalizione di tre distinti gruppi identitari laico-spirituali: Femministe, Persone di Colore e LGBT. Ognuna di queste sette ha al suo interno un gruppo di fazioni e denominazioni in crisi. Questa alleanza di sette si è fusa in una coalizione politica “intersezionale” che può essere sostenuta finché il suo programma comune rimane condivisibile.

Sotto la nuova religione wokeista, i confini tra il globale e il locale, l’interno e l’estero svaniscono, per essere sostituiti da un americanismo proselitista, totalizzante e imperiale.

Tuttavia, se il loro programma comune venisse attuato costituzionalmente, la Chiesa di Woke sarebbe in grado di trasformare la vita americana: non solo stabilirebbe un apparato di controllo sul modo in cui i cittadini comuni pensano e si comportano, ma conferirebbe anche l’ordinazione auna nuova élite dirigente, i nuovi chierici della Chiesa Woke.

Gli sforzi della Chiesa di Woke per consacrare la classe dirigente americana – attraverso un corpo consacrato di veri credenti – non mirano tanto ad allevare una nuova aristocrazia, quanto piuttosto a preservare il controllo dell’élite sulla ricchezza e sul potere nella vita americana. In questo senso, la Chiesa non cerca semplicemente di reinterpretare (ijtihād) la dottrina, la legge e le scritture della religione civile originale, come altre sette della storia americana. Rappresenta anche un percorso seguito dalla classe dirigente per consolidare il suo potere e mantenere lo status quo. Il “radicalismo radicale” forse non è poi così radicale, ma il suo estremismo fa presagire autodafé settari e guerre esistenziali all’interno della religione civile[62] come quelle che caratterizzarono l’America tardo-antica.

In un altro senso, la nascente e fluttuante Chiesa di Woke assomiglia di più, formalmente – per il suo successo nella sovversione dello Stato e delle élite al potere – al cristianesimo insurrezionale della fine del III secolo d.C. Ciò che può allarmare è che questo movimento di fede è riuscito a conquistare le “altezze di comando”[63] della vita americana in poco più di un decennio. Tuttavia, anche questo indica una relazione simbiotica tra Chiesa e Stato che è più che mai senza tempo. Come la Chiesa primitiva catturò l’aristocrazia romana, così quei nobili romani si impossessarono della Chiesa per confermare il loro potere[64]. La religione civile è uno strumento di potere tanto venale quanto sacro.

La Chiesa di Woke ha, per il momento, conquistato lo Stato federale degli Stati Uniti e le istituzioni dominanti[65] della vita americana. Molti antecedenti storici dell’odierno movimento di fede Woke, ossia le sette evangeliche[66] calviniste americane precedenti la Guerra Civile, come Slave Power e Abolizionisti, hanno anch’essi cercato di appropriarsi della religione civile americana fondamentale, e di trasfigurarla in una chiesa di Stato a propria immagine e somiglianza. Nessuna di queste sette fanatiche ebbe successo. Tuttavia, equiparando la teologia e il dogma del suo movimento a quella che dovrebbe essere la legge (statunitense), la dottrina Woke sta effettivamente scatenando una Sharia americana e reclamando l’istituzione di una vera e propria nuova religione di Stato americana – così come la intendevano i nostri Fondatori del XVIII secolo – con più forza di qualsiasi altro movimento settario nella storia americana.

In che modo tutto questo è rilevante per l’impegno dell’America nel mondo e, più direttamente, per la politica estera egemonica americana, come dimostra la guerra in Ucraina? Nella nuova religione wokeista, i confini tra globale e locale, tra interno ed estero svaniscono, per essere sostituiti da un americanismo proselitista, totalizzante e imperiale.

Come surrogato della vecchia religione civile americana, la Chiesa di Woke esercita l’universalismo in forma estremista, perseguendo la sua ideologia in patria e all’estero in egual misura. Innalzando il vessillo del globalismo Woke, la “buona novella” originaria dell’America viene così sostituita, senza soluzione di continuità, da una visione più virtuosa che se ne fa erede. Il “nazionalismo” e l’amor di patria saranno d’ora in poi giudicati forze arretrate e primitive. Il “populismo” e la sovranità del popolo, a lungo celebrati come l’anima della nazione americana, diventano equivalenti all’autocrazia, un male medievale da eliminare dagli Stati Uniti.

La “corruzione” (interna) dell’America ad opera di tali forze “reazionarie” viene collegata all’influenza nefasta di Stati stranieri e attori internazionali detestati, come l’Ungheria o la Russia, che infettano il corpo americano[67]. Questa isteria Woke ricorda da vicino il bacillo mortale del comunismo della Red Scare [68]all’inizio della Guerra Fredda, con la Russia che fungeva da “Grande Satana”[69] nelle guerre culturali globali[70] dell’establishment liberale americano[71].

Al male di una Russia reazionaria, barbara e arcobalenofobica – e alla più grande minaccia incombente sull’ordine internazionale liberale da parte di un asse autocratico globale – dobbiamo aggiungere anche il terrore apocalittico che la Chiesa di Woke prova per il cambiamento climatico. L’apocalisse climatica[72] è forse il più grande contesto tous azimuts mai ideata dall’universalismo americano per giustificare l’egemonia globale degli Stati Uniti. Nella causa della salvezza del pianeta, ogni intervento americano può apparire giusto. Si noti come gli autocrati del Lato Oscuro della Forza[73] siano anche inquinatori climatici che utilizzano combustibili fossili, in combutta con gli assassini divoratori di benzina[74] (cioè le compagnie petrolifere) al nostro interno. In quest’ottica, le minacce estere sembrano essere soltanto lo specchio di una minaccia più profonda a casa nostra.

In definitiva, la strategia della Chiesa di Woke e della sua classe clericale è quella di sfruttare una crociata intersezionale[75] contro l’arretratezza pagana, l’anti-genderismo[76] malvagio e l’apostasia climatica all’estero – Russia, Ungheria, Arabia Saudita, Iran, Cina, ecc – per giustificare una jihad interna. Inoltre, mentre propaganda il brand del  Girl Boss Militarism[77], il suo gruppo di parrocchiani “propende di più verso il femminile”. Col tempo, il nuovo “Woke Imperium”[78] americano porterà con la forza tutti gli americani – e il mondo intero – all’ovile della nuova Chiesa; o almeno così sperano i credenti.

È questa comoda simbiosi o identità tra nemici stranieri e interni che è la cosa più preoccupante. Nella sua ricerca fondamentalmente globale di una quarta apocalisse – in cui convertire tutta l’umanità significa assicurare anche la totale conversione degli americani – la Chiesa di Woke rifiuta la vecchia, originale religione civile americana e la sua preoccupazione centrale: l’America. Sebbene il suo essere incentrata sugli Stati Uniti riveli un certo grado di continuità storica, la sua aspirazione a globalizzare l’americanismo per creare uno Stato mondiale omogeneo basato sulla sua ideologia e sui suoi valori universali tradisce e sovverte la vecchia religione civile.

Il dispiegarsi della quarta apocalisse provocata dal “risveglio” è sempre stata diversa dalle precedenti rappresentazioni (o stagioni) dell’apocalisse americana nella nostra serie nazionale. L’Apocalisse differita (1945-1950) – un sequel della Terza Apocalisse – ha spinto gli Stati Uniti a 60 anni (1963-2023) di ripetute e non necessarie débâcles sul campo di battaglia. Ogni episodio è culminato in una guerra sacra (Vietnam, guerra per procura in Afghanistan, Desert Storm, la ventennale Guerra globale al terrorismo, e ora la guerra per procura in Ucraina) condotta per realizzare la profezia di un millennio democratico globale – e ogni volta il sogno è svanito. A sua volta, il quarto ciclo del nostro arco narrativo è stato segnato da una disperazione apocalittica.

Di conseguenza, il messianismo americano è diventato una caricatura manichea di se stesso, in cui le “buone novelle” americane sono state sostituite dallo spettro sempre presente del Male e dalla minaccia della forza. Le parole sacre, Libertà e Democrazia, pur essendo ancora cantate, sono diventate un mantra vuoto. Il “vangelo” americano non predica più la redenzione e l’espiazione: ora opera con la coercizione e la punizione. Il voltafaccia è avvenuto in un istante, con l’11 settembre e con Guantanamo. L’etica propria alla Terza Apocalisse, con i processi di Norimberga e la loro maestosa esibizione pubblica di controllo giudiziario democratico, è stata scartata, e sostituita dalla giustizia sommaria. Quasi da un giorno all’altro, l’America ha abbandonato le “regole internazionali” e le “norme civili” – e ha invece costruito un arcipelago di torture e incarcerazioni arbitrarie, senza supervisione e senza appello.

Non cerchiamo più la guida in un’autorità superiore e indulgente, ma nella voce iraconda del Vecchio Testamento che è in noi. Nell’iterazione Woke del manicheismo americano, il Male ha la precedenza sul Bene ed è fervidamente personalizzato. Con Milošević, Gheddafi, Osama Bin Ladin, Saddam e ora Putin, il Male può ora essere individuato artigianalmente, anche se non sempre eticamente. Per questo, la lotta contro il male in veste di anticristo diviene il tropo retorico pulsante di questa quarta stagione della sacra narrazione americana. Senza ironia, il ventesimo anniversario dell’invasione dell’Iraq da parte dell’America ha, sorprendentemente, resuscitato il suo meme più famigerato – “l’Asse del Male”[79] – senza arrossire o vergognarsi. La guerra per procura della NATO contro la Russia lo vede, ora, come un sinonimo della sua capacità di indossare il manto retorico[80] di quella che di recente fu giudicata la più grande débâcle strategica americana.

Se noi, come americani, siamo ritualmente coinvolti in una grande narrazione che va oltre la nostra capacità di comprenderla, per tacere della capacità di controllarla, che cosa ci aspetta? Possiamo dare una sterzata a questo arco narrativo finale in modo da evitare la catastrofe totale? Abbiamo voce in capitolo o potere sul nostro destino declinante?

 

Giudizio (Giudizi) finale(i)?

Gli Stati Uniti sono governati dalla loro religione civile, non dall’ideologia. Gli americani sono guidati da una narrazione sacra. Tuttavia, a guidarla è sempre un piccolo gruppo di élite fanatiche, che guidano una storia che può realizzarsi solo in guerra.

In altre parole, l’America è una serie di successo con un arco narrativo marziale punteggiato da bagliori e fuochi d’artificio. Dal lancio al perigeo all’apogeo, la “storia americana” è giunta alla sua quarta stagione. Le prime tre sono state illuminate dal fuoco di battaglie apocalittiche. Quei momenti estatici di vittoria e sacrificio sono stati resi sacri e sono stati considerati il “culmine vitale” dell’America. Ma ora, mentre l’arco narrativo scende, sembra che siamo entrati in un’altra grande battaglia. Sarà una nuova Rivelazione – la nostra quarta apocalisse – o diventerà il finale della nostra serie?

American Story: The Hit Series [Attenzione: contenuti religiosi violenti] ha un pubblico universale, e ogni stagione è ancorata a un climax apocalittico. Inoltre, ogni singolo episodio è caratterizzato da una battaglia, che si svolge sempre in modo predefinito rispetto alla trama standard, come programmato dal nostro produttore hollywoodiano divinamente nominato. Ogni episodio di “Next Generation” ha la sua guerra sacra e trascendentale, anche se spesso distruttiva. L’arco di ogni stagione spinge i confini della Rivelazione verso un finale di serie predestinato. Le prime tre stagioni sono state esaltanti, persino estatiche quando hanno raggiunto quelle sacre vette di vittoria e sacrificio.

Ma poi, durante l’apertura della quarta stagione, intorno al 1962, il grande arco narrativo declinò di uno o più gradi rispetto al suo apogeo, e nel 1968 la discesa fu evidente. È vero, in un episodio – 1981-88 – i retrorazzi hanno rallentato la discesa. Tuttavia, il percorso discendente è ripreso. L’arco narrativo non riguarda la ricchezza americana o la ricerca della felicità. Riguarda la Rivelazione e la Predestinazione e il compimento della Missione dell’America. I primi episodi della quarta stagione mostrano come l’opportunità dell’apocalisse sia stata usata male (Vietnam), abortita (caduta dell’Unione Sovietica), tradita (Iraq) e sprecata (Afghanistan).

Tuttavia, queste occasioni perdute impallidiscono di fronte alla battaglia che ci viene ora imposta. Cosa sono le semplici operazioni speciali, le guerricciole, le controinsurrezioni e i colpi di Stato di fronte alla realtà che gli Stati Uniti stanno ora sfidando aggressivamente le due maggiori e più pericolose grandi potenze, la Russia e la Cina? Inoltre, dalle loro “altezze di comando”, i governanti americani ne hanno fatto un confronto esistenziale: o la democrazia e il suo “rule-based order” domineranno il mondo, o le “autocrazie” vinceranno[81]. Si sente la campana a martello dell’apocalisse. Questo episodio sarà il finale della stagione, o forse della serie? Le domande abbondano.

 

La guerra globale può condurre l’America alla guerra civile?

Oggi l’America sta combattendo due guerre contemporaneamente, una in patria e l’altra all’estero. Collegando gli obiettivi della guerra interna (convertire la nazione alla Chiesa di Woke) con quelli della guerra esterna (trionfare nella guerra per procura contro la Russia come prova di rettitudine), l’establishment dipende ora dalla vittoria in una guerra straniera per rafforzare la sua leva politica, promuovere la sua agenda interna e mantenere il suo potere. Questo è il loro pensiero.

Eppure, gli Stati Uniti non hanno mai cercato di intensificare uno scontro globale[82] quando erano consumati da una lotta esistenziale interna. Al contrario, durante la guerra civile americana, Washington ha agito con estrema cautela[83], anche se la Gran Bretagna e la Francia si sono impegnate in una guerra per procura contro di essi[84].

Il pubblico occidentale si pavoneggia e strilla per i sorprendenti trionfi ucraini della Volontà, mentre si prende narcisisticamente tutto il merito delle loro vittorie, come se fossero sue.

La dualità tra guerra interna ed esterna crea una dinamica reciprocamente distruttiva. Secondo questa logica, se l’Impero Woke prevale in Ucraina, sarà vittorioso anche in patria. Tuttavia, potrebbe verificarsi anche una dinamica negativa. Una sconfitta nella guerra in Ucraina significherebbe un fallimento politico in patria. Quindi, la NATO deve vincere e non si può permettere che l’Ucraina perda[85].

Se perdere è impensabile, di fronte alla sconfitta la NATO ha una sola opzione: l’escalation. Ma l’escalation, per una nazione divisa, comporta anche l’intensificazione del conflitto interno.

 

È possibile che un’apocalisse vicaria porti a un vero e proprio Armageddon?

C’è una sospensione dell’incredulità non ancora esplicitata, nella quarta apocalisse americana.

Per oltre un anno, la NATO ha fatto guerra alla Russia, e ha esultato per questa guerra, reclamando la caduta della Russia[86]. In effetti, molti nel partito della guerra si spingono fino a esclamare: “In nome di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere”[87], e chiedono l’umiliazione e persino la distruzione della Federazione Russa[88]. Ma allo stesso tempo, e spesso con lo stesso respiro, il partito della guerra insiste sul fatto che l’Occidente non è in guerra con la Russia, poiché non ci sono forze statunitensi o della NATO dispiegate in Ucraina: semmai, stiamo solo fornendo armi a Kiyv. Molti continuano a negare strenuamente che si tratti di una guerra per procura[89].

Allo stesso tempo, però, i veri tifosi sfegatati della guerra in Ucraina hanno proclamato a gran voce che si tratta di un ottimo affare. La Russia va abbattuta senza una sola vittima della NATO. Dissangueremo il nostro malvagio nemico con il sangue dei volenterosi ucraini. Un affarone! Praticamente un furto![90] Inoltre, migliaia di americani si sono coraggiosamente arruolati – come partecipanti puramente vicari – per combattere a fianco dell’Ucraina nelle trincee dei social media. Questi eroi della 195esima brigata da tastiera – la North Atlantic Fellas Organization (NAFO – date un’occhiata anche al loro merchandising![91]) – combattono quotidianamente[92] contro la Quinta Colonna americana[93] di Burattini di Putin e degli Amichetti della Russia.

Nel frattempo, gli spettatori occidentali si pavoneggiano e strillano di gioia per i sorprendenti trionfi ucraini della volontà, prendendosi narcisisticamente tutto il merito delle loro vittorie, come se fossero le proprie. Se questa è davvero la quarta apocalisse americana, allora è davvero un risultato notevole. Questa è la nostra espiazione per tutta la frustrazione e l’infinito sacrificio di sangue dei fallimentari episodi di guerra sporca che abbiamo visto all’inizio della quarta stagione (“Apocalisse differita”). Dopo i terrori di Tet, Khe Sahn, Desert One, Contras, Mogadiscio e Falluja, la serie offre ora un’epifania senza sangue. Quindi, il nostro auspicato finale di stagione è semplicemente stupefacente: non viene versata una sola goccia di sangue dei GI, dei nostri ragazzi!

Gli Stati Uniti possono ora combattere il loro “più grande nemico geopolitico”[94], ma non moriranno americani, bensì ucraini volenterosi e sacrificali. Nel frattempo, il grande pubblico virtuale americano, insaziabilmente preso dai giochi  CGI[95] e assuefatto dagli “hot take” sui social media, si immerge nella gloria della vittoria imminente: esulta per ogni video di propaganda ucraina e per ogni rappresentazione degli ucraini come una Compagnia dell’Anello[96] che combatte le tenebre di Mordor, gli Orchi russi.[97]

Quando i venti della guerra hanno iniziato a cambiare, verso la fine del 2022, le prime opzioni strategiche di “guerra facile” della NATO per aumentare gli aiuti – armi potenti, comando e controllo alleati, C4ISR della NATO, addestramento di alto livello – avevano portato Kyiv a “vittorie” misteriose e piuttosto magiche nell’autunno del 2022. Tuttavia, nella primavera del 2023, i depositi di armi sono vuoti, e l’esercito ucraino si sta dissanguando, mentre gli opliti ucraini in carne ed ossa vengono fatti a pezzi in un esercizio di dissanguamento che ricorda le tragiche trincee della battaglia di Verdun[98] della Prima Guerra Mondiale. Le opzioni di escalation si sono ridotte.

Davanti a noi si profila soltanto un sempre maggior numero di linee rosse fosforescenti che la NATO potrebbe incautamente oltrepassare, anche a costo di rischiare un’altra guerra mondiale. Questo è il lato negativo del combattere una guerra con l’adrenalina dei media, definita dall’estasi infinita della “vicarietà”[99]. Ma questo non è un videogioco. Quando si viene uccisi nella vita reale, non c’è la resurrezione automatica.

 

Finale di serie: cratere d’impatto?

Alla fine della terza stagione (1961), gli Stati Uniti si ergevano a cavallo del mondo come un Colosso. “Ike” Eisenhower, Generale degli Eserciti della nostra terza Apocalisse americana, presiedeva l’impero del “Mondo Libero” su tutto ciò che contava.

Eppure, quando è uscito di scena, i suoi più giovani successori si sono imbarcati in una serie di guerre corrosive e senza fine. Gettando via tutti gli antichi precetti contro l’intervento militare e i legami con l’estero dei loro antenati, gli uomini nuovi si allontanarono dalla sacra tradizione americana. Dopo decenni di questo genere, invece di cortigiani di palazzo che giocavano alla controinsurrezione – ignorando le comunità i cui figli morivano sul serio nei loro giochi – le guerre degli episodi finali della quarta stagione sono ora realizzate da un esecutivo che crede di avere carta bianca, a patto di essere parsimonioso con le vite delle sue Forze Armate volontarie.

Gli Stati Uniti hanno iniziato e completato il loro fatidico passaggio come incarnazione di Ordini (divini): da un “Nuovo Ordine per i Tempi” alle “Nazioni Unite”, a un “Nuovo Ordine Mondiale”, e infine a un liberale “Ordine basato sulle Regole”. Ma questi cosiddetti Ordini sono un simulacro del demone che si nasconde nel profondo della narrazione sacra americana e di tutti noi: la fissazione per il fuoco purificatore della guerra, che ci ha spinti all’eccesso, e sull’orlo della rovina.

La nostra è davvero una metamorfosi straordinaria: dall’eccezionalismo americano che annunciava la sua “buona novella”- la Redenzione dell’Umanità – al disvelamento della tirannia globale.

[1] https://www.agonmag.com/p/the-demon-in-americas-sacred-narrative

[2] Michael Vlahos, Ph.D., ha insegnato nel programma di studi sulla sicurezza globale presso la School of Arts and Sciences della Johns Hopkins University ed è stato professore presso il dipartimento di strategia e politica dello US Naval War College. Il dottor Vlahos è stato a lungo commentatore di affari esteri e sicurezza nazionale con la CNN. I suoi articoli sono apparsi su “Foreign Affairs”, “The Times Literary Supplement”, “Foreign Policy” e “Rolling Stone”. Dal 2001 è ospite regolare del programma nazionale John Batchelor Show sulla WABC. “italiaeilmondo.com” ha tradotto e pubblicato due suoi articoli su tema analogo: http://italiaeilmondo.com/2023/03/29/lamerica-e-una-religione-di-michael-vlahos/ ; e http://italiaeilmondo.com/2023/02/04/dal-salvatore-al-trickster-divino-la-spinta-teologica-nella-politica-estera-degli-stati-uniti/ . Di grande interesse anche il dialogo in tre parti di M. Vlahos con il colonnello Douglas MacGregor sulla guerra in Ucraina, qui sottotitolato in italiano: http://italiaeilmondo.com/2022/12/31/lo-stato-della-guerra-in-ucraina_-con-il-colonnello-douglas-mcgregor/

 

[3] https://books.google.it/books/about/1789_the_Emblems_of_Reason.html?id=k13XAAAAMAAJ&redir_esc=y#:~:text=In%20this%20classic%20text%20on,in%20the%20contemporary%20visual%20arts.%22

[4] L’Autore qui allude implicitamente alla Lettera di Pietro, 5:8: “sobrii estote vigilate quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit quaerens quem devoret”, “Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno a guisa di leon ruggente cercando chi possa divorare.” Cfr. http://bibleglot.com/pair/Vulgate/ItaRive/1Pet.5/ [N.d.C.]

[5] https://www.cambridge.org/core/journals/church-history/article/abs/gods-new-israel-religious-interpretations-of-american-destiny-edited-by-conrad-cherry-rev-and-updated-ed-chapel-hilluniversity-of-north-carolina-press-1998-xii-410-pp-4995-cloth-1895-paper/A8C9435D4A0F6864A36AD1A96F2EFFD7#access-block

[6] https://en.wikipedia.org/wiki/To_Serve_Man_(The_Twilight_Zone)

[7] https://www.ox.ac.uk/news/2020-05-22-last-best-hope-american-views-oxford

[8]  Robert N. Bellah, Civil Religion in America, Daedalus, Vol. 96, No. 1, Religion in America (Winter, 1967), pp. 1-21 (21 pages) https://www.jstor.org/stable/20027022

[9] FELIX GILBERT

To the Farewell Address: Ideas of Early American Foreign Policy

Copyright Date: 1961

Published by: Princeton University Press  http://www.jstor.org/stable/j.ctt7sjmr.

[10] S. Mike Pavelec – Michael Vlahos 2009 Fighting Identity: Sacred War and World Change, Naval War College Review, vol. 62, n. 4 Autumn, 2009 chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://digital-commons.usnwc.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1804&context=nwc-review

[11] David Cook, Studies in Muslim Apocalyptic

Copyright Date: 2021

Published by: Gerlach Press https://www.jstor.org/stable/j.ctv1b9f5v8

[12] Carolyn Marvin, David W. Ingle, Blood Sacrifice and the Nation: Totem Rituals and the American Flag, Cambridge U.P. 1999 https://books.google.it/books?id=sdRlbklRhycC&printsec=frontcover&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

 

[13] https://css.cua.edu/humanitas_journal/church-of-woke/

[14] George William Van Cleve, A Slaveholders’ Union: Slavery, Politics, and the Constitution in the Early American Republic, University of Chicago Press, 15 ott 2010 https://books.google.it/books?id=Dgp26Y2KzxUC&printsec=frontcover&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

[15] Mark A. Noll.  The Civil War as a Theological Crisis. Chapel Hill: University of North Carolina Press, 2006. https://jsr.fsu.edu/Volume9/Dollar.htm

[16] https://en.wikipedia.org/wiki/European_wars_of_religion

[17] È il motto che si legge sul rovescio dello Stemma degli Stati Uniti d’America [N.d.C.]  https://it.wikipedia.org/wiki/Novus_Ordo_Seclorum

[18] https://www.youtube.com/watch?v=2HCR4c1zPyk

[19] https://thefounding.net/americas-founding-with-a-firm-reliance-on-the-protection-of-divine-providence/

[20] William A. Clebsch, America’s “Mythique” as Redeemer Nation

Published online by Cambridge University Press:  30 July 2009 https://www.cambridge.org/core/journals/prospects/article/abs/americas-mythique-as-redeemer-nation/B1CBD5264061139C2FC894344A3C23D9

 

[21] https://youtu.be/MZK98LVFRH8

[22] È la celeberrima formula contenuta in un sermone del 1630 di John Winthrop, puritano, governatore della Massachusetts Bay Colony, e uno dei Padri Pellegrini, Dreams of a City on a Hill: “We shall find that the God of Israel is among us, when ten of us shall be able to resist a thousand of our enemies; when He shall make us a praise and glory that men shall say of succeeding plantations, ‘may the Lord make it like that of New England.’ For we must consider that we shall be as a city upon a hill. The eyes of all people are upon us. So that if we shall deal falsely with our God in this work we have undertaken, and so cause Him to withdraw His present help from us, we shall be made a story and a by-word through the world.”   https://www.americanyawp.com/reader/colliding-cultures/john-winthrop-dreams-of-a-city-on-a-hill-1630/ [N.d.C.]

 

[23] Da un celeberrimo discorso del 1940 di Winston Churchill, mentre si combatteva la Battaglia d’Inghilterra: ““I expect that the Battle of Britain is about to begin. Upon this battle depends the survival of Christian civilisation. Upon it depends our own British life and the long continuity of our institutions and our Empire. The whole fury and might of the enemy must very soon be turned on us. Hitler knows that he will have to break us in this island or lose the war. If we can stand up to him, all Europe may be free, and the life of the world may move forward into broad, sunlit uplands; but if we fail, then the whole world, including the United States, and all that we have known and cared for, will sink into the abyss of a new dark age made more sinister, and perhaps more protracted, by the lights of a perverted science. Let us there brace ourselves to our duty and so bear ourselves that if the British Empire and its Commonwealth last for a thousand years men will still say ‘This was their finest hour’.” https://www.martingilbert.com/blog/6106/ [N.d.C.]

[24] https://www.nytimes.com/2021/10/04/books/review/joe-klein-explains-how-the-history-of-four-centuries-ago-still-shapes-american-culture-and-politics.html

[25] https://www.nytimes.com/1992/03/01/books/it-was-never-the-same-after-them.html

[26] AA.VV. God’s New Israel: Religious Interpretations of American Destiny EDITED BY CONRAD CHERRY, 1998, University of North Carolina Press https://uncpress.org/book/9780807847541/gods-new-israel/

[27] https://www.agonmag.com/p/the-failure-of-conservatism-and-the

[28] https://christianhistoryinstitute.org/magazine/article/american-postmillennialism-seeing-the-glory

[29] https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_the_Christian_Science_movement

[30] https://it.wikipedia.org/wiki/Shakers

[31] Reviewed Work: Joseph Smith Jr.: Reappraisals after Two Centuries by Reid L. Neilson and Terryl L. Givens

Review by: Jordan Watkins https://doi.org/10.1525/nr.2012.15.4.113

 

[32] William A. Clebsch, Christian Interpretations of the Civil War https://www.jstor.org/stable/3161973

 

[33] chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.wrs.edu/assets/docs/Courses/Classic_Fundamentalism/Battle–Brief_History_Social_Gospel.pdf

[34] https://www.researchgate.net/publication/230756502_In_search_of_the_Kingdom_The_social_Gospel_settlement_sociology_and_the_science_of_reform_in_America’s_progressive_era

[35] chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://as.nyu.edu/content/dam/nyu-as/philosophy/documents/faculty-documents/boghossian/Boghossian_The-Gospel-of-Relaxation-Louis-Menand-Review.pdf

[36] https://www.loc.gov/exhibitions/world-war-i-american-experiences/about-this-exhibition/arguing-over-war/for-or-against-war/wilson-before-congress/#:~:text=He%20also%20argued%20that%20autocratic,Transcript

[37] https://www.newyorker.com/magazine/2019/09/16/the-moral-logic-of-humanitarian-intervention

[38] http://brothersjudd.com/index.cfm/fuseaction/reviews.detail/book_id/928/Special%20Prov.htm

[39] https://www.nytimes.com/2009/11/19/books/19book.html

[40] https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/R/bo67822116.html

[41] https://whitmanarchive.org/published/LG/1881/poems/105

[42] https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/R/bo67822116.html

[43] I Tories sono i lealisti, fedeli a Re Giorgio III; nella Rivoluzione americana. https://en.wikipedia.org/wiki/Loyalist_(American_Revolution) [N.d.C.]

[44] https://www.theguardian.com/books/2011/feb/19/libertys-exiles-maya-jasanoff-review

[45] C. C. Goen, Jonathan Edwards: A New Departure in Eschatology, https://www.jstor.org/stable/3161685

 

[46] https://it.wikipedia.org/wiki/Destino_manifesto

[47] https://en.wikipedia.org/wiki/Rashidun_Caliphate

[48] https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/R/bo67822116.html

[49] “L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio.” Ap. 14:19 Trad. CEI

[50] “Egli sta calpestando la vendemmia in cui è riposta l’uva dell’ira; ha sguainato il lampo fatale della sua terribile rapida spada”.

[51] Eric Foner, The Second Founding: How the Civil War and Reconstruction Remade the Constitution, W.W. Norton & Company , 2019 https://en.wikipedia.org/wiki/The_Second_Founding#:~:text=The%20Second%20Founding%3A%20How%20the,W.W.%20Norton%20%26%20Company%20in%202019.

https://books.google.it/books/about/The_Second_Founding_How_the_Civil_War_an.html?id=W_yKDwAAQBAJ&printsec=frontcover&source=kp_read_button&hl=en&newbks=1&newbks_redir=0&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

[52] http://www.greatseal.com/mottoes/seclorum.html

[53] https://it.wikipedia.org/wiki/Sincronicit%C3%A0

[54] https://it.wikipedia.org/wiki/Fine_della_storia#:~:text=La%20fine%20della%20storia%20%C3%A8,dal%20quale%20si%20starebbe%20aprendo

[55] https://www.liberalpatriot.com/p/the-democrats-patriotism-problem

[56] Helena Rosenblatt, On Context and Meaning in Pocock’s “Barbarism and Religion”, and on Gibbon’s “Protestantism” in His Chapters on Religion https://www.jstor.org/stable/43948778

 

[57] https://merip.org/2004/12/maxime-rodinson-on-islamic-fundamentalism/

[58] Anti-Catholicism in Eighteenth-Century England: A Political and Social Study by Colin Haydon (review)

Marie B. Rowlands https://muse.jhu.edu/article/442449/pdf

 

[59] https://www.parliament.uk/about/living-heritage/transformingsociety/private-lives/religion/collections/common-prayer/act-of-uniformity-1662/

[60] https://unherd.com/thepost/where-did-the-great-awokening-come-from/

[61] https://css.cua.edu/humanitas_journal/church-of-woke/

[62] https://lawliberty.org/uncivil-wars-of-civil-religion/

[63] https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1922/nov/13b.htm

[64] https://css.cua.edu/humanitas_journal/church-of-woke/

[65] https://www.racket.news/p/report-on-the-censorship-industrial-74b

[66] Ivy on Daly, ‘When Slavery Was Called Freedom: Evangelicalism, Proslavery, and the Causes of the Civil War’

Author: John Patrick Daly Reviewer: James Ivy https://networks.h-net.org/node/512/reviews/694/ivy-daly-when-slavery-was-called-freedom-evangelicalism-proslavery-and

[67] https://www.libraryofsocialscience.com/essays/vlahos-counterterrorism/

[68] https://en.wikipedia.org/wiki/Red_Scare

[69] https://www.richardhanania.com/p/russia-as-the-great-satan-in-the

[70] https://compactmag.com/article/pride-and-american-imperialism

[71] https://compactmag.com/article/america-the-last-ideological-empire

[72] https://www.spiked-online.com/2023/03/26/the-cult-of-the-climate-apocalypse/

[73] https://www.aei.org/research-products/report/from-environmentalism-to-climate-catastrophism-a-democratic-story/?mkt_tok=NDc1LVBCUS05NzEAAAGLqTnaMA0mJzdHLVT2jCR5i9F9aK-DVrr3l4OXAdKs9WOmKCp8hDOZmqfrUhsRYa9DdsrifKhrbXxHVbDdJZWnXYCaSKh0B7qNhLf1Wg7awurcWA

[74] https://www.latimes.com/opinion/story/2021-03-01/editorial-to-save-the-planet-from-climate-change-gas-guzzlers-have-to-die

[75] https://theupheaval.substack.com/p/intersectional-imperialism-and-the?s=r

[76] https://en.wikipedia.org/wiki/Anti-gender_movement

[77] https://chroniclesmagazine.org/web/the-rise-of-girlboss-militarism/

[78] chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://peacediplomacy.org/wp-content/uploads/2022/06/Woke-Imperium.pdf

[79] https://caitlinjohnstone.substack.com/p/theyre-rebooting-axis-of-evil-on

[80] https://www.moonofalabama.org/2023/03/axis.html

[81] https://nationalinterest.org/blog/buzz/increased-chinese-support-russia-will-imperil-world-206339

[82] https://easc.scholasticahq.com/article/5715-1862-the-superpower-the-united-states-and-the-war-that-didn-t-happen-why-america-and-china-are-not-destined-to-fight-unless-they-forget-everythi

[83] https://nationalinterest.org/feature/historys-warning-us-china-war-terrifyingly-possible-10754

[84] https://peacediplomacy.org/2022/10/17/americas-perilous-choice-in-ukraine-how-proxy-war-accelerates-a-great-power-decline/

[85] https://peacediplomacy.org/2022/10/17/americas-perilous-choice-in-ukraine-how-proxy-war-accelerates-a-great-power-decline/

[86] https://www.defense.gov/News/News-Stories/Article/Article/3304356/biden-ukraine-will-never-be-a-victory-for-russia-never/

[87] https://youtu.be/VLN_P5u1ALI?t=4

[88] https://niccolo.substack.com/p/delusion

[89] https://www.noahsnewsletter.com/p/is-ukraine-a-proxy-war

[90] https://cepa.org/article/its-costing-peanuts-for-the-us-to-defeat-russia/

[91] https://nafo-ofan.org/

[92] https://thegrayzone.com/2022/10/28/spooks-mercs-hawks-nafo-troll/

[93] https://www.realclearpolicy.com/articles/2023/03/28/russias_fifth_column_in_america_889897.html

[94] https://www.politico.com/news/2022/02/27/mitt-romney-russia-remains-geopolitical-foe-00012124

[95] https://store.steampowered.com/app/2251930/CGI_The_Game/

[96] https://twitter.com/uamemesforces/status/1536074185369329666

[97] https://www.lemonde.fr/en/pixels/article/2022/04/23/ukrainian-and-russian-tolkien-fans-battle-over-the-legacy-of-the-lord-of-the-rings_5981383_13.html

[98] https://en.wikipedia.org/wiki/Battle_of_Verdun

[99] https://www.urbandictionary.com/define.php?term=vicarity

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Il mondo degli affari non può più ignorare la geopolitica di FRANÇOIS-JOSEPH SCHICHAN

Una constatazione a metà. La geopolitica e il politico (in senso freundiano) agisce sempre più sulla economia, ma agisce sempre in essa. GIuseppe Germinario

Il mondo degli affari non può più ignorare la geopolitica
di FRANÇOIS-JOSEPH SCHICHAN

Dall’inizio della guerra in Ucraina, la geopolitica ha raggiunto l’economia. Le turbolenze nelle relazioni internazionali si ripercuotono sempre più sulle imprese e sugli investitori. Secondo un sondaggio di Oxford Analytica pubblicato ad aprile, il 93% delle multinazionali dichiara di aver registrato perdite legate al contesto geopolitico, rispetto ad appena il 35% nel 2020.
La guerra in Ucraina ha accelerato una tendenza in atto da diversi anni, in linea con gli sviluppi del sistema internazionale e l’internazionalizzazione delle imprese. Durante la Guerra Fredda, il settore privato era poco interessato dalla rivalità tra i blocchi. I sistemi economici erano ermetici e l’interdipendenza era limitata, se non inesistente. Le imprese erano quindi poco influenzate dall’instabilità delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Le interazioni politiche tra i blocchi seguivano regole del gioco prevedibili che preservavano lo status quo. Le preoccupazioni geopolitiche del settore privato si limitavano all’instabilità regionale, in particolare in Africa e in Medio Oriente.

Apertura globale
Oggi tutto è cambiato: il commercio internazionale si è ampliato con il libero scambio, accelerato dall’apertura dell’economia cinese, che ha portato all’interdipendenza delle catene di approvvigionamento da cui dipendono le aziende private. Le aziende private hanno anche investito massicciamente nelle economie emergenti – Cina e Russia in particolare – che ora rappresentano un rischio maggiore per le prestazioni e persino per la sopravvivenza di alcune imprese. La competizione tra le grandi potenze è tornata, ma la grande differenza è che i loro sistemi economici sono ora intrecciati, in particolare tra Cina e Stati Uniti.

La frammentazione delle relazioni internazionali amplifica la complessità di questi sviluppi e le difficoltà per il settore privato. La competizione tra Cina e Stati Uniti è l’asse principale attorno al quale si strutturano le relazioni internazionali, ma molti Paesi rifiutano di allinearsi all’uno o all’altro – in particolare i Paesi in via di sviluppo dell’Africa e del Sud America, nonché i Paesi del Golfo. Questi Paesi non sono disposti a scommettere sulla persistenza dell’onnipotenza americana e tengono aperte le loro opzioni. Inoltre, le aree di instabilità non mancano: Corea del Nord, Iran, Yemen, Africa… Sono molti i conflitti in corso o potenziali. A questo quadro potremmo aggiungere le crescenti incertezze nei Paesi solitamente considerati stabili – in particolare le democrazie occidentali. La Brexit o l’arrivo di Trump hanno portato a rapidi cambiamenti strutturali nella struttura economica del Regno Unito o degli Stati Uniti.

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L’economia cinese inizia in modo cauto ma ottimista

Questi sviluppi continueranno nei prossimi decenni e l’incertezza per le imprese non potrà che aumentare. L’esempio di Taiwan illustra queste incertezze: sebbene sia improbabile una guerra aperta nel breve termine, la Cina ha a disposizione gli strumenti per aumentare la pressione su Taiwan – disinformazione, blocchi commerciali, attacchi informatici. Lo Stretto di Taiwan rimane un importante nodo di comunicazione per componenti essenziali di prodotti ad alta tecnologia, tra cui le energie rinnovabili. Dal punto di vista delle imprese e degli investitori, il comportamento della Cina rappresenta oggi un livello di rischio pari a quello dell’Angola o della Libia di qualche anno fa.

Guerra economica
I rischi per le imprese derivano anche dalla risposta dei governi a queste incertezze geopolitiche. I governi stanno diventando sempre più interventisti e gran parte della nuova regolamentazione economica odierna ha origine da preoccupazioni geopolitiche.

Le sanzioni sono la forma di intervento con l’impatto più evidente sul settore privato. La riorganizzazione delle catene di approvvigionamento in seguito alle sanzioni contro la Russia comporta dei costi. Le aziende spesso vanno oltre la lettera delle sanzioni, temendo effetti negativi sulla loro reputazione. Le aziende sono intrappolate nella trappola delle narrazioni in competizione tra gli Stati. Non possono più rimanere neutrali e sono chiamate a prendere posizione dai politici e dall’opinione pubblica.

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Le sanzioni sono strumenti offensivi, ma i Paesi stanno sviluppando anche strumenti difensivi, come dimostrano i programmi di reinvestimento nel loro tessuto industriale attraverso sussidi massicci come l’Inflation Reduction Act americano e il suo equivalente europeo, meno ambizioso. Questo porta a ulteriori distorsioni economiche. In termini di investimenti internazionali, in Occidente si è intensificato il controllo degli investimenti esteri in settori sensibili. Gli Stati Uniti e l’Europa stanno ora esaminando un meccanismo di controllo degli investimenti esteri, per limitare il rischio di nuove dipendenze in settori ad alto rischio.

Perno asiatico
Di fronte alla Cina, gli Stati Uniti hanno avviato un processo di “disaccoppiamento economico”, ovvero di riduzione della dipendenza dell’economia statunitense dalla Cina. Questa politica sta portando a tensioni commerciali, come quelle causate dal recente divieto di esportazione in Cina di chip elettronici di ultima generazione. Queste restrizioni all’esportazione portano a loro volta a misure di ritorsione da parte della Cina. La Cina ha attaccato le aziende americane del settore della difesa, nonché importanti società di consulenza occidentali come Deloitte, il gruppo farmaceutico giapponese Astellas e il produttore americano di chip Micron.

Più in generale, lo stesso consenso sul libero scambio, che era già stato minato, viene ora messo in discussione. Gli Stati Uniti stanno subordinando la loro politica commerciale agli obiettivi di politica estera. Cercano alleanze economiche e commerciali con i Paesi allineati, contro quelli che minacciano lo status quo. Questa forma di frammentazione economica è in contrasto con la strategia di imprese e investitori, che da almeno tre decenni si basa sull’internazionalizzazione.

L’incertezza geopolitica crea anche opportunità. Gli investimenti nella difesa e nella sicurezza aumenteranno massicciamente con il riarmo dei Paesi della NATO. I massicci investimenti nell’autonomia strategica favoriranno anche alcuni settori, come l’industria verde e le nuove tecnologie. Le imprese possono approfittare della corsa alle sovvenzioni in corso tra Stati Uniti ed Europa, vendendo le loro attività al miglior offerente.

La geopolitica non è una nuova preoccupazione per le imprese o gli investitori privati, ma il livello di rischio attuale è aumentato notevolmente. Oggi è possibile che il settore privato registri perdite considerevoli che potrebbero mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di un’azienda, non a causa di un errore di investimento o della scarsa conoscenza di un mercato, ma a causa del rischio geopolitico. Si tratta di una situazione nuova per le aziende, che non hanno altra scelta se non quella di integrare queste incertezze nell’analisi della loro performance futura e della loro strategia commerciale. Se non si interessano alla geopolitica, possono essere certe che la geopolitica si interesserà a loro.

https://www.revueconflits.com/le-monde-des-affaires-ne-peut-plus-ignorer-la-geopolitique/

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SISTEMI PENSANTI, di Pierluigi Fagan

SISTEMI PENSANTI. Come testimonia la foto del settore cervello-mente (in senso letterale, psicologia o psicoanalisi o logica o altro attinente le funzioni mentali stanno altrove) della mia biblioteca, sono anni che studio l’argomento. Pare ovvio che l’interesse per i prodotti della mente come, ad esempio, le immagini di mondo, chiami curiosità sugli organi che li producono. Vengo dalla lettura del saggio di uno tra i più noti neuroscienziati, S. Dehaene, francese, sulla coscienza [Coscienza e cervello, Cortina, 2014]. Il testo mi sollecita delle riflessioni.
Dovete sapere che sebbene tutte le cose importanti dell’essere propriamente umani provengano dal nostro cervello-mente, la scienza ha approcciato il tremendo argomento solo di molto recente. C’era un motivo tecnico ovvero che il cervello produce mente quando è vivo al pari del corpo di cui è parte. Ma un organo così complesso era impossibile da studiare in vivo, di solito la scienza biologica parte da dissezioni di cose morte. Solo negli ultimi decenni si sono prodotte tecnologie che riescono a farci sapere qualcosa del ciò che accade lì mentre funziona.
Ma c’era forse anche un motivo culturale aggiunto. Abbiamo prodotto talmente tanto pensato, a base di credenze di ogni tipo, tra cui alcune metafisiche rilevanti come la credenza dell’anima e della sua possibile eternità (l’eternità presuppone l’immaterialità, ovvio), che sembra noi si sia ritrosi ad andare a scoprire come funzionano le cose lì dove tutto questo origina.
Per dirne una, non c’è libro sul cervello-mente che non citi una o più volte Cartesio e la sua idea dualistica della cosa estesa (materia) e la cosa pensante (mente o anima), incluso il celebre “L’errore di Cartesio” influente best seller di A. Damasio. Studiai a suo tempo il problema studiando Cartesio in filosofia. A riguardo ho sempre avuto una idea eccentrica. Partendo da elementi biografici ovvero gli scambi epistolari col fidato amico Marsenne (teologo) o il fatto che il Discorso sul metodo ospiti in poco più di una scarsa paginetta questa idea pur rilevante (ricordo che questa fu la prima opera colta prodotta in francese volgare, a dire quanto Cartesio evitasse e temesse l’accademia del tempo che parlava solo latino) o la sua precipitosa fuga verso la Svezia per sentirsi più libero, pare che il nostro fosse letteralmente terrorizzato da quello che era successo a Galilei.
Poiché non era certo un cuor di leone, è forse ipotizzabile che Cartesio non fosse poi così convintamente certo di questa impostazione dualista, semplicemente voleva lasciar intatto il mondo mentale che poi era sede dell’anima, per non urtare le credenze fondamentali per sbizzarrirsi poi col suo meccanicismo materiale sui corpi. Del resto, il dualismo non è nato con Cartesio, le fonti più antiche sono orfico-misterico-pitagoriche, platoniche ed ovviamente cristiane. Stiamo parlando di qualcosa come duemila anni prima che il francese presentasse la sua versione ed è anche strano che in queste ricostruzioni del sistema delle idee, gli studiosi stessi si sveglino a notare Cartesio e non la lunghezza ed importanza della tradizione precedente. Piacevolezze degli studi disciplinari non comunicanti.
A ciò si è aggiunta una peculiarità specifica del nucleo centrale della cultura occidentale degli ultimi decenni, il nucleo americano. Derogo qui dall’utilizzo della categoria “anglosassone” poiché tra americani e britannici ci sono molte similarità, ma anche alcune differenze, la geostoria conta. Gli americani si sono convinti che l’unico discorso pubblico ammesso, l’ancoraggio di verità, debba essere scientifico (filosofia analitica, logica formale, matematizzazione di tutto ed il suo contrario come in “economics”).
Poiché hanno lungamente ritenuto che con metodo scientifico non si potesse dire niente di argomenti come la coscienza, arrivando pure a dubitare esista tal cosa, hanno ficcato il tutto in una cosa che hanno chiamato “scatola nera” ovvero qualcosa che non si può conoscere dentro ma solo per ciò che emana fuori, il comportamento, ad esempio. Ovviamente, dalle tesi di laurea alla richiesta di fondi per ricerche, alle pubblicazioni e relative carriere, a nessuno veniva in mente di andar a ficcar il naso lì dove era, implicitamente, vietato. La gran parte dell’A.I. risente di questa impostazione. Lo stesso assioma che la consistenza materiale di ciò che fa il cervello (neuroni, assoni, dendriti, spine, neurotrasmettitori, architettonica, elettricità, cellule gliali, sistema nervoso-corporeo di un animale sociale etc.) è ininfluente perché tanto ciò che ci interessa è il suo risultato che è “informazione” e come tale si possono creare sistemi di informazione al silicio, da cui l’espressione programmatica che è la promessa di creare intelligenza non biologica (artificiale), regge tutta l’impresa.
Ma non è dimostrato, forse dimostrabile anche perché sappiano così poco del cervello-mente (ed anche di “intelligenza”) che pare un po’ assurdo noi si pensi di poter replicare qualcosa che neanche sappiamo bene cosa sia e come funzioni. Tant’è che dei tanti studiosi messi a sistema nell’impresa A.I., mancano sistematicamente i neuro-biologi (che potrebbero dire come funzionano le cose nei cervelli veri) ed abbondano gli ingegneri che sono persone degnissime ma non si capisce cosa sappiano di quei neuroni la cui funzione vorrebbero replicare. Così, come alcuni stanno spiegando (ad esempio il N. Cristianini, La scorciatoia, il Mulino 2023), in effetti l’A.I. è una impresa dedita a manipolare il comportamento umano, non a replicare l’intelligenza umana.
Ad ogni modo, negli ultimi soli tre decenni, alcuni hanno invece cominciato ad “aprire” la scatola (in realtà a rilevarne da fuori il funzionamento) per vedere lì come funzionano le cose. Ed è sintomatico che Dehaene, allievo di J.P. Changeux, non usi il termine “informazione” più delle virgole come accade nei tanti testi sull’argomento americani, sebbene debba spendere più di duecento pagine del suo libro, prima di giungere al dunque. Ed è altresì sintomatico che giunga al dunque, partendo da una osservazione di R. Cajal, premio Nobel del 1906 in condominio col nostro Golgi, gente che sezionava fette di cervello per capire com’era fatto. Sintomatico perché questi studiosi facevano la cosa più ovvia ovvero guardare la cosa per capire com’era fatta nella speranza di capire come funzionava. A molti studiosi del campo, oggi, sembra che interessi dire come funziona senza occuparsi più di tanto com’è fatto l’organo.
Ricordo una deliziosa intervista sul FT di un “Sir-qualcosa” di cui non ricordo il nome, che è ritenuto il più o uno dei più importanti neurochirurghi del mondo; quindi, uno che nella cosa ci mette le mani. Interrogato su cosa pensasse dell’A.I. confessava di non riuscire speso a capire di cosa si occupassero questi studiosi, a lui risultava un altro mondo quanto a cervello da cui una mente. Nel mio piccolo, dopo venticinque anni di professione a certi livelli, è lo stesso smarrimento che ho lungamente provato quando sono diventato uno studioso, riguardo i testi di economia. Per dirvene una anche qui, l’economia comportamentale che negli ultimi anni ha mietuto premi Nobel come grande scoperta recente sul comportamento economico umano assai meno razionale del lungamente presupposto (assioma necessario a rendere l’economia una materia “scientifica”), è da decenni e decenni base del plesso di conoscenze del marketing commerciale. Forse gli economisti non lo sapevano ed hanno reinventato cose stranote ma non assunte in accademia. La conoscenza è una impresa sociale, politica, economica oltreché propria dei suoi paradigmi ed è poco conosciuto quanto venga distorta dalle immagini di mondo.
Era la scusa per fare riflessioni sparse più ampie. In sé, quello che sostiene il francese, semmai vi interessa l’argomento specifico, è più o meno lo stesso di ciò che hanno sostenuto e sostengono altri, come i concetti di “informazione integrata” di G. Tononi, gli “assemblaggi di cellule di D. Hebb, il “pandemonio” di J. Selfridge, i “rientri” di G. Edelmann, la “coalizione neurale” di F. Crick e C. Koch, le “zone di convergenza” di Damasio. Il nostro lo chiama “spazio di lavoro globale” e sarebbero regioni della corteccia prefrontale e non solo, collegate poi anche al talamo (che è evolutivamente molto antico), in cui ci sono alte densità di cellule particolarmente grandi, con assoni particolarmente spessi ed a lunga gittata (che arrivano anche a due metri), con dendriti particolarmente spessi con un grandissimo numero di spine, che creano un sistema iperconnesso a due vie (emettono e ricevono). Questa sarebbe la coscienza (o “stato di coscienza”), aree di neuroni densamente interconnessi tra loro e con tutte le altre principali parti del cervello, che scaricano assieme sincronicamente e si eccitano l’un l’altro allungando il tempo di eccitazione, che poi sarebbe quello di attenzione cosciente. Altri, si danno da fare ad inibire il funzionamento di altre cellule e regioni, da cui la spiegazione del fatto che il nostro stato cosciente può trattare solo una cosa per volta. Il resto è tutto inconscio, preconscio, subliminale, memorie, sfuggevolezze, nuclei dell’emozione, sistemi disconnessi (come quello che regola il respiro) etc.
Naturalmente il tizio non s’è svegliato una mattina con l’idea come fanno i più a proposito dei tanti temi che ci spingono a dire la qualunque sul qualsivoglia. Ci sono firme della coscienza rilevate, controprove, deduzioni, decine di esperimenti inclusa l’analisi degli stati di non coscienza dal coma al vegetativo, al locked-in, al sonno. Di base però, mi sembrava interessante segnalare come l’andare presso le cose che vogliamo conoscere, prima di esprimere idee e giudizi, sia meglio del contrario. Spesso, evitazione della materia come della realtà, sono presupposti necessari per liberarci nell’empireo che ci piace tanto, quello puramente mentale, ideale, spirituale. Poi, se questa tesi è valida, quanto ed euristica per ulteriori approfondimenti si vedrà. A me pare intuitivamente consistente, la più consistente tra quella di cui ho letto nei volumi di cui alla foto, per quel che vale…
Poi tutto ciò ha a che fare con le immagini di mondo solo in parte. Il dominio proprio delle idm sarebbe l’auto-coscienza o coscienza riflessiva o metacognizione. Ma questo è argomento da “…non aprite quella porta” (cioè categoria film horror).

Gabriele Germani

Ottimo post, pensare che l’ha scritto di getto, non osiamo pensare cosa fa quando si concentra 😃
Sul tema: per capirci qualcosa di più, nel 2014 iniziai un secondo percorso di laurea in Psicologia, cercando di approfondire ToM, filosofia della mente, neuroscienze, filosofia del linguaggio e archeologia della mente. Notai da subito come, nonostante in Italia avessimo delle eccellenze (due tra tutti: Rizzolatti e Gallese), la formazione universitaria fosse per lo più concentrata su marketing-lavoro, in ultima istanza clinica, dove la psicoanalisi ha un ruolo marginale.
Un vero peccato, perché la questione “mente” è a monte di un altro mare di problemi che ci riguardano tutti da vicino.

Claudio Raveli

Gabriele Germani concordo sull’ottimo e anche di più, per quanto ho potuto comprendere, attribuito al post.
Voglio qui dire che Pierluigi Fagan ha colto in pieno come le qualità attribuite alla AI siano mistificatorie e di fatto fonte di manipolazione che inizia proprio dalla sua definizione di Intelligenza artificiale.
E ha colto anche in pieno il neopositivismo meccanicistico di stampo statunitense degno di una situazione simile a quella descritta in “Noi” romanzo distopico risalente a un secolo fa di E. Zamiatin ,dove ogni attività umana è ridotta a formula matematica e sulla matematica, oggi, non a caso viene privilegiata quella applicata a scapito di quella generale e di base che non ha applicazioni pratiche immediate, come si può inferire da chi ha ottenuto le ultime medaglie Fields.

Claudio Bramby

Ho partecipato proprio questo fine settimana ad un incontro molto intenso ed estremamente interessante di 3 giorni a Prato sul tema “Scienza e Spiritualità” dove uno degli argomenti era proprio incentrato sulla coscienza e l’I.A. Erano presenti, tra gli altri, Federico Faggin (consiglio la lettura del suo recente libro “Irriducibile”) e alcuni teologi (Padre Paolo Gamberini e Paolo Squizzato) che hanno proposto la nuova visione del “Post-teismo” e di coscienza legata ad una nuova interpretazione del divino, molto legata ai recenti sviluppi della fisica quantistica. Relativamente all’I.A. Faggin ha espresso molto chiaramente la diffeeenza e i limiti della stessa rispetto alla coscienza umana e le ricerche e studi che la sua fondazione sta portando avanti. Grazie Pierluigi Fagan del suo contributo che aiuta il pensiero collettivo in questa critica fase del cammino umano.

Pierluigi Fagan

Claudio Bramby Vorrei precisare una cosa su “spiritualità” accennata nel testo in un contesto che poteva dare l’impressione una mia postura critica. Non credo esista nulla del mentale che non si possa riportare al cerebrale (o corporeo in senso lato), di questo mentale fa parte la spiritualità che è una indagine o un plesso di esperienze degnissime e umanissime, quindi interessantissime. Io sono convintamente evo-adattativo quindi ogni cosa dell’umano, mi porta sempre a domandarmi se ha avuto una funzione adattativa, non solo verso l’esterno anche verso l’interno. Ad esempio l’intera nostra complessione, come ogni forma vivente, tende a farci esistere al più a lungo possibile. Di contro, per altre vie, abbiamo sviluppato coscienza ed autocoscienza della nostra certa morte. Questa contraddizione insanabile, potrebbe aver favorito certe nostre idee che non vanno affatto svalutate, ma indagate, comprese, allacciate con altre. Sta il fatto che è provato che chi ha tali convinzioni e soprattutto le pratica e meglio se non da solo, ha meno disturbi mentali ed altri accidenti. Il cervello è una farmacia ambulante, premia le cose “buone da pensare”, poi magari bisogna vedere buone per cosa, ma questo è un altro discorso.

Cristiano Iera

Ok, mi piace molto la dissertazione filosofica e cognitiva, e per questo leggo assiduamente tutti i post di Germani e di Fagan, ma forse prima di parlare della possibilità di neuromimesi (ossia creare strutture simili a quelle cerebrali per emularle) dovreste conoscere il lavoro che IBM sta portando avanti da diversi anni (siamo alla release 4) con il TrueNorth Neurosynaptic System, che è un processore neuromorfico per il quale sono stati usati componenti “nuovi”, ossia non le solite porte logiche o gate array con cui sono fatti i processori tradizionali, ma dei dispositivi a semiconduttori dotati della capacità di interconnettere nodi di calcolo/memoria (non c’è distinzione come nei chip “tradizionali”) mediante vere e proprie “sinapsi”, esattamente come un cervello. La release 4 del sistema supera il milione di nodi, e ora la scalabilità è solo un problema tecnologico. Avere questi dispositivi pone anche il problema di programmarli, o meglio, metterli in condizioni di apprendere, trattandosi di reti neurali. Ciò richiede stratificazioni logiche, più o meno come quelle dei linguaggi di programmazione, solo che i microprogrammi in questo caso non sono sequenze di istruzioni deterministiche, ma descrizioni dei modi di funzionamento della rete neurale. Anche Intel sta lavorando, da qualche anno, a un chip neuromorfico basato su una nuova categoria di semiconduttori (Loihi versione 2, anche questo ha circa un milione di nodi per chip, ed è stata già annunciata la v3). Tutto ciò significa esattamente “andar dentro” al funzionamento logico di un “cervello emulato”, anche se – per ora – in modo primitivo. Comincerà a essere un po’ meno primitivo fra poco tempo, visti gli sviluppi che sta avendo neuralink e altri progetti simili. Per interfacciarsi con i percorsi neurali biologici bisognerà anche decodificarne la logica di funzionamento, cosa che si sta già progettando di fare non più secondo la logica della “scatola nera” di una volta, ma secondo la “scatola trasparente”: l’immissione nel tessuto cerebrale di alcuni milioni / miliardi di nanomacchine, indirizzabili tramite una codifica trasmessa a mezzo risonanza magnetica codificata, ognuna delle quali si lega elettrochimicamente ad un assone e ne comunica all’esterno lo stato. E’ come se facesse una misurazione dei potenziali elettrochimici cellula per cellula, sinapsi per sinapsi. E’ come un MDS (sistema di sviluppo utilizzato per fare il debug del microcodice dei microprocessori) collegato direttamente al cervello che consentirà di capire il significato puntuale di ogni segnale elettrochimico con cui il cervello funziona. L’obiettivo finale è anche di creare nanomacchine indirizzabili in grado di alterare lo stato degli assoni.
Una ulteriore direzione di sviluppo è quella della realizzazione di porte logiche in biomateriali su nanoscala, ossia porte logiche elettrochimiche che possano essere inserite direttamente “in vivo” e collegate alle fibre nervose, mantenendo però l’architettura “tradizionale” delle macchine sequenziali programmabili.

Pierluigi Fagan

Cristiano Iera Grazie per le informazioni. Citavo appunto questa linea di ricerca su computer organici e molecolari in una discussione più sotto. Credo, tra l’altro, sia la strada più rilevante per il futuro, un futuro cibernetico di umanità (non tutta, ovvio) potenziata. Che poi era l’intento strategico originario espresso nel Rapporto Converging Technologies for Improving Human Performance NANOTECHNOLOGY, BIOTECHNOLOGY, INFORMATION TECHNOLOGY AND COGNITIVE SCIENCE del 2002, promosso da National Science Foundation e Dipartimento al commercio USA.

Vincenzo Guida

Tra i tanti metodi matematici che si utilizzano nel campo dell’inteligenza arteficiale, le reti neurali artificiali sono senz’altro quello la cui ispirazione deriva dalla neurobiologia. Una rete neurale artificiale e’ costituita da un network topologico in cui different input vengono trasformati in un set di ouput tramite una funzione di trasferimento non lineare. Essa e’ stata concepita come emulazione del sistema neuronale biologico. I ricercatori di AI si domandano quotidianamente come addestrare questa rete in maniera efficiente e prendono a prestito idee che derivano dalla neurobiologia o almeno da quello che capiamo della neurobiologia. Dire che i matematici che lavorano sulla AI non si ispirano alla biologia e’ ingeneroso. Esiste pero’ una piu’ sottile considerazione da fare. Le reti neurali sono solo una branca della AI ed una branca che funziona molto bene per i problemi di apprendimento supervisionato. L’apprendimento supervisionato si occupa di problemi come distinguere l’immagine di un cane da quella di un gatto, ad esempio. Esistono pero’ problemi in cui il compito di apprendimento non e’ predefinito, ma si chiede all’AI di ricercare pattern nei dati, di formulare raccomdazioni su un problem anon predefinito, di catalogare, di distinguere… sono i cosiddetti problemi di apprendimento non supervisionato. Gli esperti di AI hanno svilupato algortmi per questo tipo di problemi, ma non sono ispirati alla biologia, la grande frattura tra neurobiologia e AI comicia li’ secondo me.

Pierluigi Fagan

Vincenzo Guida Giusto distinguo, concordo. Leggendo anche qualcosa di A.I., da tempo, mi pare si sottovalutino cose come la plasticità della materia cerebrale, la creatività del connettoma, gli influssi chimici corporei, la stessa ambientazione corporea, la sensibilità. Ma è un discorso complicato e poi la mia, ammetto, è una posizione un po’ prevenuta verso la riduzione del tutto mentale ad informazione. Tuttavia, anche si concentrassero solo su certi funzionamenti del cerebro-mentale, sono e sempre più saranno senz’altro in grado di sviluppare cose mirabolanti. Le reti neurali artificiali, come per altro tutto questo discorso anche versante bio, sono centrali nell’esplorazione del concetto di complessità.

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“Il percorso BRICS”: aspetti chiave e compiti dell’espansione dell’appartenenza, di Sergey Michnevich

“Il percorso BRICS”: aspetti chiave e compiti dell’espansione dell’appartenenza

Per ottenere i massimi benefici dalla cooperazione economica nel quadro dei BRICS, è necessario coinvolgere il settore privato il più attivamente possibile; in particolare attraverso le associazioni imprenditoriali dei BRICS e delle istituzioni partner come la SCO e la EAEU, scrive l’esperto del Valdai Club Sergey Mikhnevich .

Il rafforzamento dei BRICS e l’ingresso di questa associazione nei ranghi delle istituzioni chiave della governance globale ha attualizzato la questione dell’ampliamento della sua adesione. All’inizio di maggio di quest’anno, 19 paesi hanno in programma di diventare membri BRICS: Iran, Egitto, Arabia Saudita, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Indonesia e una serie di altri stati. I motivi per aderire ai BRICS includono l’attrattiva del modello di cooperazione esistente, la sua agenda, nonché il desiderio dei nuovi membri di diventare alcuni degli attori chiave che determineranno la direzione dello sviluppo del sistema politico ed economico internazionale multilaterale nel prossimo futuro.

Anil Suklal, sherpa sudafricano dei BRICS, osserva che in una situazione in cui “singoli paesi occidentali hanno preso in ostaggio il sistema multilaterale di relazioni e lo stanno usando a proprio vantaggio… Noi (nei BRICS — ndr), al contrario, vogliamo creare un’architettura globale delle relazioni internazionali e farlo insieme”. Secondo  Kirill Babaev, direttore dell’Istituto per la Cina e l’Asia moderna dell’Accademia delle scienze russa, BRICS, insieme all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), “riflettono la speranza di alcuni stati del mondo di creare un sistema di cooperazione inclusiva e cooperazione reciprocamente vantaggiosa, sia nel campo della sicurezza che nel campo dell’economia, libera dalla pressione delle strutture occidentali”.

Uno dei fattori che hanno aumentato l’influenza dei BRICS è stato l’impegno dei suoi membri a sviluppare approcci alla cooperazione, tenendo conto degli interessi reciproci determinati dai singoli partecipanti principali, senza che la pressione e la coercizione determinassero le condizioni per la loro attuazione. L’uguaglianza di tutti i partecipanti e l’agenda inclusiva sono elementi importanti che stanno alla base di quello che può essere definito il “Percorso BRICS”. Questo di per sé funge da potente fonte di “potere di attrazione” istituzionale (come un analogo del “soft power”) di questa associazione.

Nonostante anni di discorsi sull’espansione dell’adesione ai BRICS, la prima e ultima aggiunta dalla sua fondazione è stata il Sudafrica nel 2011, che ha aggiunto la lettera “S” all’acronimo BRIC. Molteplici sono le ragioni per cui, nei successivi 10+ anni, nessun altro Paese ha aderito all’associazione: dai rischi di complicare notevolmente il programma di lavoro e conciliare gli interessi non sempre coincidenti delle parti allo “zelante atteggiamento” degli Stati membri nei confronti rappresentare gli interessi delle loro regioni nei BRICS.

Anche nelle relazioni tra gli attuali membri del BRICS c’è un numero significativo di contraddizioni che rendono difficile approfondire la cooperazione, come tra Cina e India. Con l’allargamento dei membri dell’associazione, i punti di tensione, ovviamente, aumenteranno. Ad esempio, quando l’Argentina entrerà a far parte dei BRICS, potrebbe sorgere una competizione con il Brasile, che influirà sulla solidità e sulle potenziali capacità dell’organizzazione. Inoltre, è importante anche determinare una serie di requisiti per i nuovi membri.

Difficilmente si tratterà solo di criteri economici o di partecipazione ai lavori delle principali istituzioni di governance globale su scala globale e regionale, come il G20 o la SCO. È più probabile che gli attuali membri sviluppino criteri politici ed economici complessi che tengano conto dell’influenza del paese sulla scena internazionale e della sua capacità di risolvere i problemi globali più importanti in alcuni settori, come la sicurezza alimentare ed energetica.

Come osserva giustamente Dmitry Razumovsky, ex direttore dell’Istituto per l’America Latina dell’Accademia Russa delle Scienze, “oggi i BRICS non sono più un club di leader della crescita, e la capacità dei paesi candidati di partecipare efficacemente alla risoluzione della corrente più acuta i problemi che affliggono il mondo in via di sviluppo – le crisi energetica e alimentare – stanno venendo alla ribalta”.

A questo proposito, di particolare importanza per i BRICS è la misura in cui i suoi membri saranno in grado di costruire un programma d’azione efficace sullo sfondo della crisi delle istituzioni globali.

Il movimento lungo il “Percorso BRICS” come cooperazione radicata nello sviluppo di soluzioni globali attraverso il bilanciamento degli interessi reciproci e la rinuncia alla pressione può aiutare a mitigare i fenomeni di crisi esistenti e creare condizioni positive per l’ulteriore rafforzamento del potenziale dei membri come leader di il nuovo mondo multipolare.

Per questo motivo, è importante che i BRICS sviluppino la modalità ottimale per utilizzare le possibilità del formato BRICS+ per “integrare le integrazioni”, con la partecipazione di EAEU, SCO, MERCOSUR, ASEAN (attraverso la Cooperazione economica regionale globale), il Unione Africana, ecc. Il corrispondente mega-formato ombrello (America Latina, Africa, Eurasia) potrebbe essere utilizzato per creare un quadro istituzionale completo per promuovere la cooperazione economica tra tutti i paesi del Sud del mondo. Ekaterina Arapova e Yaroslav Lissovolik hanno scritto sulle prospettive dei BRICS+ per la formazione di un nuovo sistema di governance globale, tenendo conto delle esigenze dei paesi del Sud del mondo.

Il reale emergere dei BRICS sulla scena mondiale richiede anche un aumento degli sforzi dei membri dell’associazione per coordinare le loro posizioni in altre importanti istituzioni di governance globale, come il G20. All’interno del suo quadro, i paesi membri BRICS potrebbero elaborare un’agenda consolidata su questioni chiave, utilizzando l’esperienza del G7.

Allo stesso tempo, è importante per i BRICS “mostrare risultati pratici” in aree chiave. Tra questi, si possono notare in particolare la produzione industriale, il settore agroindustriale, l’energia e i trasporti, i sistemi di pagamento e regolamento, i. e. sfere che svolgono un ruolo speciale nell’assicurare la vitalità dei sistemi socio-economici. Allo stesso tempo, è necessario rafforzare i legami nel campo dell’armonizzazione della regolamentazione e della digitalizzazione – per garantire la massima continuità nell'”articolazione dei tessuti” dei legami in via di sviluppo, nonché dei contatti educativi e culturali – per garantire la loro integrazione e completezza natura attraverso la costruzione della fiducia reciproca e il coinvolgimento delle “grandi masse pubbliche e imprenditoriali”.

Allo stesso tempo, è importante che l’agenda includa non solo lo sviluppo di formati di regolamentazione e interazione, ma anche meccanismi e strumenti adattativi per la cooperazione, nonché la formazione di un pool e l’attuazione di specifici progetti pratici. Pertanto, se l’Iran si unirà ai BRICS, potrebbe contribuire all’utilizzo delle capacità dell’associazione per l’attuazione del megaprogetto del corridoio di trasporto internazionale nord-sud, a cui sono interessati gli attuali membri dei BRICS. Il rafforzamento della direzione del progetto richiede l’adattamento e il ridimensionamento del lavoro della New Development Bank(NDB) ai nuovi compiti ed esigenze dei candidati membri, nonché al riavvio del suo lavoro nella Federazione Russa, che è stato effettivamente sospeso sotto minaccia di sanzioni da parte di alcuni Stati occidentali.

In conclusione, sembra importante sottolineare ancora una volta che per ottenere i massimi benefici nella cooperazione economica nell’ambito dei BRICS, è necessario coinvolgere il settore privato il più attivamente possibile; in particolare attraverso le associazioni imprenditoriali dei BRICS e delle istituzioni partner come la SCO e la EAEU. Sembra promettente stabilire collegamenti istituzionali tra i consigli aziendali dei BRICS, la SCO e la EAEU. La base per questo potrebbe essere il sistema di dialoghi commerciali del Business Council EAEU, che è stato molto apprezzato dal Presidente della Russia Vladimir Putin. Un dialogo commerciale congiunto potrebbe diventare un efficace fornitore di progetti commerciali, economici e di investimento, oltre a rappresentare una voce imprenditoriale consolidata sulle questioni chiave dello sviluppo dell’integrazione megaregionale.

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La “grande battaglia, di Philippe Grasset

La “grande battaglia
10 giugno 2023 (18:00) – Devo confidarvi che difficilmente riuscirei a fornirvi un’analisi della battaglia in corso, o addirittura del suo esito, nonostante i segnali che si stanno accumulando in questa direzione. Capite a quale battaglia mi riferisco? Allora capirete anche la mia moderazione e cautela.

Nota di PhG-Bis: “Altri stanno facendo il duro lavoro, almeno di analisi della battaglia. PhG è particolarmente colpito dal lavoro di “Simplicius-The Thinker”, l’ultimo riferimento di cui parla l’intera AMC (“Alternative Media Community”, come Korybko chiama la stampa indipendente, che PhG chiama “Our Samizdat”). Date un’occhiata a Simplicius e capirete quanto sia difficile dare un quadro coerente della battaglia”.

Ma oltre a questa difficoltà di giudizio e di analisi che mi impedisce di dare un’opinione chiara e inequivocabile, mi ha colpito un’altra cosa, non priva di importanza. Se ne ha un’idea quando si sente fare riferimento, qua e là, alla grande battaglia di Kursk dell’estate del 1943, che, insieme a Stalingrado, fu il punto di svolta della Seconda guerra mondiale. Anch’io uso l’analogia con Kursk senza tener conto degli incomparabili fattori quantitativi (il numero di forze, essenzialmente), ma con un obiettivo diverso, anche se capisco perfettamente la ragione generale dell’analogia.

Quello che sappiamo e vediamo, in innumerevoli frammenti, notizie da tutte le parti, video, esplosioni, la confusione e la nebbia furiosa della guerra, l’accensione improvvisa di una manovra, le grida di guerra e i lamenti di morte, questa sensazione di immensa trepidazione dello scontro, è che questa è, come Kursk, una “grande battaglia”; e quindi sentiamo che, come in ogni “grande battaglia”, c’è la svolta di una guerra… E questo non vuol dire, contrariamente a quanto ho detto prima, che io sia convinto della vittoria di una parte e della sconfitta dell’altra! Sto dicendo che si tratta di una “grande battaglia”, nello stesso modo in cui parliamo di un fatto storico che nasconde l’ascesa alla dimensione metastorica, – qualcosa in cui gli dei hanno voce in capitolo.

È anche un momento terribile, in cui tutte le domande che si agitano nella testa delle persone e da una testa all’altra si uniscono in un’unica domanda. Questo è ciò che sta accadendo negli ultimi giorni, quando è diventato chiaro che la battaglia non seguirà la strategia dei cartoni animati che costituisce la spina dorsale del pensiero dei cervelli che non hanno le palle e i bulloni necessari, i cervelli che sorvegliano il futuro del mondo dal punto di vista strategico mantenuto da “D.C.-il pazzo”. Tutto questo porta a quel momento fatale in cui tutte le voci che contano in Occidente – tossicodipendenti e purganti – devono riunirsi per regolare i conti… Come ha detto ieri l’eccellente Mercouris:

“Alcuni dei leader, i Blinken, i Nuland, i Rasmussen, erano tra quelli che pensavano davvero che non appena fosse stata lanciata l’offensiva, i leader russi sarebbero andati nel panico, le truppe avrebbero perso tutto il morale e si sarebbero sciolte, e così via. Da qui l’aspetto molto strano della decisione di lanciare l’offensiva. Ma ora che sappiamo che non è così, ora [che l’offensiva non ha prodotto, tutt’altro, se non il risultato opposto, l’auspicato crollo della Russia], sorge la domanda: cosa dobbiamo fare? E tutti gli aspetti di questa domanda stanno convergendo verso il vertice della NATO [a Vilnius l’11 luglio]…”.

Il punto principale, dunque, è questo: visto che non c’è stato un crollo completo e immediato e non siamo a Mosca, dove il vertice di Vilnius potrebbe essere stato trasferito all’ultimo minuto per celebrare la vittoria di Blinken-Nuland-Rasmussen, cosa si può fare? Pochi osano saperlo, e pochissimi, se non nessuno, osano dirlo, – proprio questo: al ritmo con cui vanno le cose, si scopre che l’Ucraina non può sconfiggere la Russia, tutt’altro, e certamente il contrario, mentre l’Ucraina, con tutto quello che le è stato concesso, è già quasi la NATO. Riuscite a immaginare l’esito di questa logica, cosa significa? La finzione sta per crollare, improvvisamente così vicina ad essere abbracciata dalla gelida, insopportabile realtà – e la NATO trema dalla testa ai piedi.

Si può ben immaginare che in questo momento l’uno o l’altro stia brandendo un articolo di giornale, forse anche Rasmussen, in qualità di consigliere di Mister Z., si sarà infilato nella sala conferenze, e il testo del suo discorso – di cui si è parlato molto negli ultimi giorni – sarà brandito. Mercouris, aggirandosi tra la falange neocon, ha detto due giorni fa che i neocon hanno sempre un piano pronto da proporre, mentre nessuno nel resto della folla sconcertata ha un argomento da proporre… Permettetemi di ricordarvi la filosofia dei neocon, vista da Mercouris:

“I neocon non si tirano mai indietro. Se l’operazione che hanno lanciato ha successo, scelgono di intensificarla. Se l’operazione che hanno lanciato incontra grandi difficoltà, scelgono l’escalation”.

I neocon schiamazzano di piacere con il loro megafono Rasmussen, sicuri che il loro momento sia arrivato, mentre i polacchi esitano tra la loro famosa ubriachezza e una certa malinconia che deriva dai resoconti della battaglia in Ucraina: “È comunque un bel pezzo”. Il resto del pollame non osa dire ad alta voce ciò che non osa nemmeno pensare. Sul versante americano, Biden sta contando e ricontando le 32 o 34 accuse che i “federali” hanno mosso all’ex presidente Trump e le sta moltiplicando per 3,14116 (esattamente “3,14159265358979323846264338327950288419716939937510582” – e la lista continua – secondo i documenti riservati sequestrati dall’FBI con il codice “Pi”). Il suo obiettivo è ottenere proprio quella che ritiene essere la percentuale di voti favorevoli che i sondaggi gli assegneranno grazie a questo evento favorevole, e la facile vittoria che seguirà esattamente all’inizio del novembre 2024. A quel punto, giura, gli ucraini saranno seriamente aiutati – e lo dice come se pensasse che gli ucraini siano stati battuti nell’attuale controffensiva.

In generale, e nello stesso modo in cui vengono descritte nei dettagli le forze militari a nostra disposizione, ci viene detto quante persone manifesterebbero nelle strade e nelle urne se la NATO, con un unico gesto collettivo e compulsivo, decidesse di venire in aiuto dei coraggiosi polacchi, se questi ultimi, entrati in Ucraina, si trovassero a essere trattati male dalle orde russe – tanti “se”, ma come si muovono velocemente le cose! Come si vede e si osserva in anticipo, quasi con occhio divinatorio, “le sommet s’amuse”, come si diceva, ai tempi di Talleyrand, “Le Congrès s’amuse”.

Ma a differenza di Talleyrand, che era piuttosto pignolo, non si divertono per far andare meglio gli accordi e i compromessi, ma per dimenticare il loro sogno infranto. Vilnius potrebbe essere la loro strada per Damasco e, lo confessiamo, non sappiamo quali cose terribilmente terribili ci aspettano dopo. In ogni caso, ce lo siamo meritato e possiamo tutti unirci al coro del terribilmente sardonico Howard Kunstler, che si fa beffe degli sfortunati che hanno creduto in ciò che “le marionette fanno, fanno, fanno”:

“Quella che sembrava una grande idea per una certa cricca di cosiddetti neoconservatori nel nostro Paese – usare l’Ucraina come una trappola per orsi – ha invece improvvisamente rivelato i molteplici fallimenti dell’Europa e dell’America e ha indignato tutto il resto del mondo al di fuori della civiltà occidentale”. Oh, la meraviglia e la nausea!”.

Mi piace molto questa associazione, se non di idee, almeno di riflessi salvavita: “Oh, la meraviglia e la nausea!”.

https://www.dedefensa.org/article/la-grande-bataille

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Conversazioni sulla Cina 4a puntata_Le ambizioni di una classe dirigente_Con Daniela Caruso

Se si può individuare una costante nella Cina degli ultimi ottanta anni è il sentimento di indipendenza e di ricostruzione nazionale. La Cina, in questo periodo, è incappata in due gravi crisi, la rivoluzione culturale a cavallo degli anni ’60/’70 e la crisi di piazza Tienanmen alla fine degli ’80. Due cicli interni al paese, riflesso di una situazione più generale legata alla drammatica implosione del blocco sovietico, che hanno fatto maturare una ferma convinzione nelle classi dirigenti: l’avvio di un colossale processo di trasformazione della società e dell’economia cinese all’ombra e con l’ossessione della stabilità del regime. Ne è venuta fuori, esempio raro nella storia mondiale, specie dei paesi di grandi dimensioni, si può dire con notevole successo in una sorta di dinamismo controllato, ma dai ritmi vertiginosi. Il segno di un regime in grado di gestire con flessibilità e con orecchie attente alle dinamiche sociali le proprie ambizioni e le proprie strategie di potenza e di sviluppo, contrariamente alla narrazione occidentale. Un merito che le ha garantito di acquisire il prestigio di un modello di riferimento nel mondo estraneo al club occidentale. Che questa aura possa trasformarsi a breve in ambizione imperiale è troppo azzardato affermarlo. Molto dipenderà dalle dinamiche geopolitiche piuttosto che da quelle interne al paese e dalla sua tradizione culturale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’Europa è seria riguardo all’autodifesa o al free riding?_ Di Emma Ashford

Con l’aumentare della tensione USA-Cina, aumenta anche la discussione sul fatto che gli stati europei stiano facendo la loro parte.

Di  , editorialista di Foreign Policy e senior fellow del programma Reimagining US Grand Strategy presso lo Stimson Center, e  , editorialista di Foreign Policy e vicepresidente e direttore senior dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council .

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Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio.
Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio.
Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio. MICHAL CIZEK/AFP TRAMITE GETTY IMAGES

Matt Kroenig: Ciao Emma! Spero che ti stia godendo questo bel clima primaverile. Sono appena tornato da Stoccolma, dove ho avuto alcune discussioni affascinanti con funzionari del ministero degli esteri e del nuovo consiglio di sicurezza nazionale.

È discutibile

Ho anche avuto un po’ di tempo libero per visitare i musei e, tra le altre cose, ho potuto vedere il cavallo scuoiato, impagliato e montato del re Gustavo Adolfo il Grande!

Emma Ashford: Curiosità: quel cavallo ha partecipato a più azioni militari contro la Russia di alcuni dei nostri alleati europei di free riding.

Quindi gli svedesi entreranno a far parte della NATO? Ora che abbiamo avuto le elezioni turche, ho sentito che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan potrebbe cedere e lasciarli aderire.

MK: Beh, a loro avviso, Erdogan non avrebbe ceduto, ma sarebbe stato all’altezza della sua fine dell’accordo. La Svezia e la Turchia hanno concluso un accordo al vertice della NATO a Madrid lo scorso anno, e la Svezia ha seguito la sua parte, approvando una nuova legislazione per criminalizzare l’appartenenza a un’organizzazione terroristica, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Quindi, ora tocca a Erdogan. L’auspicio di Stoccolma è che la nuova normativa gli permetta di dirsi soddisfatto e che approverà l’ingresso della Svezia nell’alleanza prima del vertice di luglio a Vilnius, in Lituania.

Erdogan potrebbe anche dire, però, che ha bisogno di più tempo per vedere come funziona nella pratica la nuova legge svedese. Ad esempio, la Svezia perseguirà effettivamente i membri del PKK ai sensi di questa legge? Quindi, potrebbe rimandare la decisione.

Tuttavia, Stoccolma sta principalmente pianificando, come se si trattasse di quando, non se, entrerà a far parte della NATO.

Come Macron ha detto senza mezzi termini alla conferenza GLOBSEC di questa settimana: gli europei possono permettersi di lasciare la loro sicurezza nelle mani degli elettori americani ?

EA: Ad essere onesti, non è certo la domanda più importante per coloro che sono preoccupati per la sicurezza europea. La Svezia non è poi così significativa in termini di difesa, Gustavus Adolphus e il suo cavallo impagliato a parte. Forse è per questo che le conversazioni a Washington negli ultimi mesi si sono concentrate principalmente su questioni più importanti: chi dovrebbe garantire la sicurezza europea? Gli Stati Uniti dovrebbero dare la priorità all’Asia rispetto all’Europa? E, come ha detto senza mezzi termini il presidente francese Emmanuel Macron alla conferenza GLOBSEC di questa settimana a Bratislava, in Slovacchia: gli europei possono permettersi di lasciare la loro sicurezza nelle mani degli elettori americani ?

MK: Macron è semplicemente francese. Altri leader europei sono stati chiari sul fatto che parla per la Francia, ma non per l’Europa. Dopo la visita di Macron in Cina, ad esempio, un gruppo di legislatori europei si è sentito obbligato a rilasciare una dichiarazione in cui si affermava: “Va sottolineato che le parole [di Macron] sono gravemente in disaccordo con il sentimento diffuso nelle legislature europee e oltre”.

C’è un modello di sicurezza transatlantica che ha funzionato per tre quarti di secolo, con il contributo degli Stati Uniti e delle potenze europee. Gli alleati europei (come la Germania) devono fare di più, ma non c’è motivo di ripensare radicalmente questo modello di successo.

EA: Sono completamente in disaccordo. Come ho scritto con alcuni colleghi la scorsa settimana, Macron potrebbe essere eccessivamente schietto, ma sta facendo le domande giuste. L’Europa vuole essere un vassallo degli Stati Uniti o un partner capace di reggersi sulle proprie gambe? E perché, quasi 80 anni dopo la decisione degli Stati Uniti di aiutare l’Europa a rimettersi in piedi dopo la seconda guerra mondiale, Washington sta ancora fornendo la parte del leone in finanziamenti, armi e truppe per la sicurezza europea?

È vero che questo modello ha funzionato per molto tempo. Ma le circostanze globali stanno cambiando e ci sono dei costi per continuare a farlo! Gli Stati Uniti sono in relativo declino, la Cina è in crescita e ci sono minacce urgenti altrove che richiedono anche l’attenzione degli Stati Uniti. Continuare a concentrarsi sull’Europa ha costi di opportunità per la base industriale della difesa degli Stati Uniti e per la posizione militare. La politica del dopoguerra degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa ebbe un enorme successo! Perché gli americani hanno così paura di abbracciare il nostro successo e adottare un approccio più diretto alla sicurezza europea?

MK: Ho così tanto da dire, non so da dove cominciare. In primo luogo, gli Stati Uniti stanno crescendo. La sua quota del PIL globale è aumentata negli ultimi anni, mentre la crescita della Cina si sta stabilizzando. Washington ei suoi alleati possono gestire contemporaneamente Mosca e Pechino.

EA: Tutto dipende da quale misura usi. La quota degli Stati Uniti sul PIL globale è aumentata. Ma la Cina l’ha superata per alcune misure del reddito nazionale lordo e sta colmando il divario in termini di ricchezza nazionale totale. Nel contesto storico, gli Stati Uniti sono relativamente più deboli di quanto non fossero durante la Guerra Fredda; e in un contesto regionale, il quadro è anche peggiore. Il Lowy Asia Power Index , che tenta di costruire un quadro completo delle risorse militari, economiche e politiche in una regione, suggerisce che gli Stati Uniti e la Cina sono sempre più alla pari in Asia. Quindi puoi selezionare alcuni dati per dimostrare che non ci sono problemi, ma penso che uno sguardo più ampio suggerisca che le cose non sono così rosee.

Non importa che abbiamo appena avuto una resa dei conti sul tetto del debito e sulla spesa pubblica a Washington! Dici “Washington e i suoi alleati possono gestire Mosca e Pechino” – sono d’accordo. Ma con i crescenti vincoli sugli Stati Uniti, quegli alleati devono fare di più. Questo non dovrebbe essere controverso.

MK: La Cina ha superato economicamente gli Stati Uniti solo se si tiene conto della parità di potere d’acquisto. Ciò potrebbe avere senso per i tagli di capelli ma non per la geopolitica.

EA: Mi dispiace, ma non vedo perché dovrebbe essere così. Le armi cinesi sono più economiche; i cinesi ottengono più soldi per il loro dollaro. Letteralmente, nel caso delle spese militari! Questo è un punto che il presidente del Joint Chiefs of Staff Gen. Mark Milley ha fatto al Congresso.
La Germania o la Francia improvvisamente faranno un passo avanti e guideranno le questioni di difesa e sicurezza europee? Negli ultimi anni, il loro istinto è stato più quello di placare la Russia che di resisterle.

MK: Questo è vero. Anche gli ufficiali militari cinesi costano meno. Ma ottieni quello per cui paghi. Gli ufficiali militari statunitensi sono meglio addestrati, istruiti e curati.

Inoltre, per l’influenza internazionale, il commercio, gli aiuti, ecc., i numeri sono assoluti. La Cina non ottiene un bonus perché i noodles sono economici a Nanchino. Gli studiosi di relazioni internazionali usano tipicamente il PIL nominale per misurare il potere per questo motivo.

Sarebbe interessante, tuttavia, che qualcuno facesse uno studio più approfondito su dove gli aggiustamenti della parità di potere d’acquisto siano importanti per il potere e l’influenza internazionale, e dove invece no. Se uno studio del genere esiste, non l’ho visto.

Ma stiamo andando un po’ fuori strada.

Penso che siamo d’accordo sul fatto che gli Stati Uniti ei loro alleati debbano fare di più per la loro difesa collettiva sia in Europa che in Asia. La domanda è come farlo. Io sostengo che il modello tradizionale, in cui gli Stati Uniti guidano e gli alleati contribuiscono, è l’unica soluzione praticabile.

La mia più grande critica all’articolo stimolante di te e dei tuoi colleghi, e altri simili, è che l’alternativa che proponi non è delineata in alcun dettaglio. Dici che gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi sull’Asia e che “l’Europa” dovrebbe “farsi avanti” per provvedere alla difesa dell’Europa. Non so cosa significhi.

Se vuoi che il tuo piano venga adottato, penso che dovresti fornire qualche dettaglio in più su come funzionerebbe.

EA: Beh, sono abbastanza sicuro di poter dire lo stesso della tua affermazione secondo cui “il modello attuale funziona”. Questo ha bisogno di un po’ più di dettagli, per essere sicuro. L’inerzia non è certo una strategia.

Ci sono un sacco di ottimi articoli e libri là fuori che descrivono in dettaglio come sarebbe un approccio più diretto degli Stati Uniti alla sicurezza europea. Barry Posen, ad esempio, ha diversi buoni pezzi che esplorano le ramificazioni della difesa, i costi e i rischi del trasferimento di maggiori responsabilità agli stati europei. Oppure ecco un fantastico forum del Center on Security Studies di Zurigo, con una varietà di autori. Ci sono molti dettagli là fuori se guardi, e molte persone intelligenti su entrambe le sponde dell’Atlantico stanno riflettendo su questo problema.

Ma in generale, farei un paio di punti chiave: 1) Il cambiamento dovrà essere graduale, forse fino a un decennio, per dare agli Stati europei il tempo di avviare la necessaria produzione industriale della difesa e costruire la necessaria forze, e 2) è importante notare che un approccio più diretto alla sicurezza europea non significa che gli Stati Uniti usciranno dalla NATO, né che si disimpegneranno dall’Europa. Affida semplicemente la responsabilità primaria della difesa agli stati europei, rendendo gli Stati Uniti più un backup e meno una prima risorsa.

MK: Ma gli Stati Uniti dovranno continuare a guidare o non funzionerà. Cos’è questa “Europa” di cui parli? La Germania o la Francia (i due pesi massimi dell’economia in Europa) improvvisamente faranno un passo avanti e guideranno le questioni di difesa e sicurezza europee? Negli ultimi anni, il loro istinto è stato più quello di placare la Russia che di resisterle. I paesi dell’Europa orientale si affideranno a Berlino e Parigi per guidare la sicurezza europea? Non credo. Washington può fidarsi di Parigi e Berlino per garantire gli interessi degli Stati Uniti in Europa? La risposta è no. E la deterrenza nucleare? La Germania passerà al nucleare in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare? La Francia costruirà fino a 1.500 armi nucleari (un aumento di sette volte) come contrappeso all’enorme arsenale russo?

Queste sono grandi domande e le risposte significano quasi sempre che Washington e il popolo americano si troverebbero in una situazione molto peggiore se tentassero di esternalizzare i loro importanti interessi in Europa a Macron!
L’articolo 5 della NATO dovrebbe essere perfettamente sufficiente per la credibilità senza truppe statunitensi in prima linea.
EA: Matt, sono inglese. Non c’è bisogno che mi diciate che il concetto di “europeo” come identità è fortemente contestato.

Ma il fatto è che l’Europa si è unita in molti altri settori, anche dove ci sono interessi divergenti. La Comunità europea (e successivamente l’Unione) ha costruito un’area di libero scambio nonostante l’opposizione interna di gruppi potenti come gli agricoltori. L’euro è riuscito a sopravvivere alle crisi finanziarie degli ultimi due decenni con tutti i suoi membri intatti. Gli stati europei tendono ad essere relativamente bravi a superare i problemi di azione collettiva quando vogliono.

Per molti versi, è degno di nota il fatto che l’unica area in cui l’Europa continua a lottare per riunirsi sia la difesa, l’area in cui gli Stati Uniti hanno sempre risolto il problema dell’azione collettiva, eliminando la necessità di un compromesso.

Hai ragione sul fatto che gli stati europei non hanno necessariamente tutti le stesse opinioni sulla difesa e sulla politica estera. Forse il risultato finale sarà una sorta di accordo di difesa minilaterale, in cui stati come la Polonia si concentreranno sulla Russia e stati come l’Italia e la Grecia si concentreranno sul Mediterraneo. Ma dire semplicemente “non può succedere” non è una risposta soddisfacente. Gli stati europei si alzeranno in difesa se necessario, il che significa che il governo degli Stati Uniti deve essere chiaro e coerente sulle sue intenzioni e aiutare con una transizione ordinata nella sicurezza europea.

MK: Non sto dicendo “non può succedere” perché non so ancora cosa sia “esso”. Dire che la Polonia si prenderà cura della Russia non ha senso. La Polonia costruirà armi nucleari?

EA: Se gli Stati Uniti non lasciano la NATO, allora il suo ombrello nucleare continua ad applicarsi. E anche i francesi e gli inglesi sono potenze nucleari.

MK: Va bene. Quindi, se l’alleanza continuerà a fare affidamento sugli Stati Uniti per la deterrenza strategica, allora Washington dovrà continuare a svolgere un importante ruolo di leadership. Per essere credibili, gli Stati Uniti dovranno anche mantenere le forze in Europa, idealmente in prima linea, per collegare le forze strategiche statunitensi a una grande guerra convenzionale in Europa. È quello che avete in mente anche voi e i vostri colleghi?

Se sì, qual è il nuovo modello? La Germania fornisce più uomini, carri armati e artiglieria? Mi sembra fantastico, ma non sono sicuro che sia il cambiamento radicale che sembri chiedere.

EA: No. L’articolo 5 della NATO dovrebbe essere perfettamente sufficiente per la credibilità senza truppe statunitensi in prima linea. E onestamente non importa l’esatta composizione della forza nell’Europa orientale fintanto che è europea piuttosto che americana. Ci sono una varietà di opzioni che potrebbero funzionare: Germania e Francia che si fanno avanti, Stati dell’Europa orientale che uniscono le loro risorse e approfondiscono la cooperazione in materia di difesa con il Regno Unito, ecc. Spetterà agli europei decidere.

Ci sono alcuni pezzi eccellenti del Center for Strategic and International Studies proprio qui a Washington che esplorano come alcuni di questi cambiamenti potrebbero apparire in pratica per la difesa aerea , la logistica e le forze navali.

Solo gli Stati Uniti hanno il potere e il diffuso sentimento di buona volontà all’interno dell’Europa per guidare l’alleanza transatlantica.

MK: Questi articoli esaminano i pezzi in cui gli stati europei possono contribuire di più. Sarebbe il benvenuto.

Mi sto un po’ frustrando. So com’è l’attuale architettura di sicurezza transatlantica. Continuo a non capire l’alternativa che proponi.

EA: Non capisco cosa ci sia di così difficile da capire. Una divisione del lavoro all’interno della NATO in cui gli stati europei portano la maggior parte dell’onere – e svolgono la maggior parte del lavoro in termini pratici – di scoraggiare la Russia, difendersi e proteggere le frontiere dell’Europa, mentre gli Stati Uniti adottano un approccio più diretto per concentrarsi sull’Asia, ma è disponibile a fornire risorse e aiuti se una grave crisi lo richiede. Questa è una vera partnership, ed è dove credo che gli Stati Uniti e l’Europa debbano andare se si vuole che la relazione transatlantica continui a prosperare.

Va bene per gli Stati Uniti, va bene per gli alleati americani in Asia, va bene per gli stati europei. Dopotutto, come ha sottolineato Macron, quale Stato si sentirebbe a suo agio nel mettere la propria difesa ai capricci degli elettori di un altro Paese? Con il riscaldamento delle primarie repubblicane degli Stati Uniti, puoi scommettere che nei prossimi mesi sentirai parlare di più sui free rider europei.

MK: Penso che solo gli Stati Uniti abbiano il potere e il diffuso sentimento di buona volontà all’interno dell’Europa per guidare l’alleanza transatlantica. Dovrebbe continuare a fornire una visione d’insieme e un coordinamento. Solo Washington può fornire deterrenza strategica contro la Russia. E penso anche che gli stati europei dovrebbero fornire più dadi e bulloni della difesa convenzionale, dagli aerei ai carri armati al personale, ecc.

Allora, siamo d’accordo o no? Penso che stiamo esaurendo lo spazio, quindi potremmo aver bisogno di tornare su questo in una colonna futura.

EA: Non siamo d’accordo. Ma possiamo essere d’accordo su questo: non passerà molto tempo prima che Macron faccia un’altra dichiarazione da prima pagina che infastidisce i transatlantici di Washington!

MK: C’est la vie.

Emma Ashford è editorialista presso Foreign Policy e senior fellow del programma Reimagining US Grand Strategy presso lo Stimson Center, assistente professore aggiunto presso la Georgetown University e autrice di Oil, the State, and War. Twitter:  @EmmaMAshford

Matthew Kroenig è editorialista presso Foreign Policy e vice presidente e direttore senior dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council e professore presso il Department of Government e la Edmund A. Walsh School of Foreign Service presso la Georgetown University. Il suo ultimo libro è The Return of Great Power Rivalry: Democracy Versus Autocracy From the Ancient World to the US and China . Twitter:  @matthewkroenig

https://foreignpolicy.com/2023/06/02/nato-macron-defense-europe-spending-free-riding/

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Stress-Test delle relazioni tra Cina e Russia, di Robert E. Hamilton

LINEA DI FONDO
Il dibattito sulla natura delle relazioni tra Cina e Russia infuria da quasi due decenni. Una parte ritiene che i due siano partner strategici; l’altra ritiene che i loro legami siano un “asse di convenienza” privo di profondità.
Comprendere la vera natura delle loro relazioni è di vitale importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Un vero partenariato strategico rappresenta una grave minaccia; legami meno solidi tra i due paesi danno agli Stati Uniti un maggiore margine di manovra nel trattare con loro.
Possiamo ottenere una comprensione più profonda e sfumata dei legami Cina-Russia osservando come interagiscono nelle regioni del mondo in cui entrambi hanno importanti interessi in gioco. Quattro regioni emergono come fondamentali: Asia centrale, Africa, Europa orientale e Asia orientale.
Le dichiarazioni non avrebbero potuto essere più diverse. A marzo, quando il presidente cinese Xi Jinping ha concluso la sua visita in Russia, i due governi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si descriveva che le loro relazioni avevano raggiunto “il livello più alto della storia”. Lo stesso giorno, il portavoce della Casa Bianca John Kirby ha liquidato le relazioni come “un matrimonio di convenienza”.

La differenza tra le due dichiarazioni inquadra perfettamente un dibattito sulle relazioni sino-russe che continua da quasi due decenni. Una parte insiste sul fatto che i legami tra Pechino e Mosca sono una vera e propria partnership strategica; l’altra sostiene che sono sottili e fragili, con la resistenza condivisa agli Stati Uniti. l’unica cosa che li lega. Come ha sostenuto Bobo Lo nel suo libro del 2008, questa visione vede le relazioni come un “asse di convenienza”.

Pur essendo utili come descrizioni abbreviate della relazione, sia la visione della partnership strategica che quella dell’asse di convenienza sono limitate nella loro capacità di spiegarla. Una visione più sfumata dei legami Cina-Russia emerge dall’esame della loro interazione “sul campo” in regioni in cui entrambi hanno importanti interessi in gioco.

Il dibattito: partnership strategica o “asse di convenienza”
Entrambe le parti potrebbero avere qualche velleità nel dibattito tra i campi del partenariato strategico e dell’asse di convenienza. Il campo del “partenariato strategico” comprende molti funzionari governativi e analisti cinesi e russi che considerano gli stretti legami come il modo migliore per sfidare gli Stati Uniti. Le dichiarazioni dei governi cinese e russo sulle loro relazioni tendono a essere piene di superlativi e poco concrete: Xi ha definito Putin il suo “migliore e intimo amico” e Putin ha osservato che le loro opinioni su tutte le principali questioni internazionali sono “identiche o molto vicine”.

La visione dell'”asse di convenienza” è popolare tra i funzionari governativi e gli analisti occidentali che preferiscono non considerare le ramificazioni negative di una vera alleanza Cina-Russia per i loro Paesi. Secondo questa visione, la relazione sino-russa è “altamente vincolata” e limitata al “reciproco interesse a minare l’ordine internazionale liberale guidato dagli Stati Uniti, che promuove la democrazia, i diritti umani e il libero mercato”.

I sostenitori della visione dell'”asse di convenienza” tendono a credere che i regimi autoritari non possano avere una relazione definita dai valori comuni e dai legami condivisi che, secondo loro, definiscono le relazioni tra gli Stati democratici. Al contrario, le autocrazie sono guidate dal nudo perseguimento degli interessi nazionali. Quando questi interessi si allineano, la cooperazione a breve termine è possibile e può persino prosperare. Ma una volta rimosso il “legante” degli interessi condivisi, la competizione e persino il conflitto tra Stati autoritari sono probabili. Poiché gli Stati autoritari usano la coercizione per risolvere i problemi politici interni, si sostiene, è più probabile che la usino per risolvere i problemi nelle relazioni internazionali, rendendo improbabile una cooperazione a lungo termine tra loro.

Esiste però un altro punto di vista, che sostiene che gli Stati autoritari possono avere e hanno relazioni stabili e produttive. Secondo questa prospettiva, esposta in modo molto convincente dal politologo Mark Haas, non è il contenuto delle ideologie di due Stati (democratici o autoritari) a determinare il loro grado di intesa, ma la “distanza ideologica” che li separa. Gli Stati separati da una distanza ideologica minima non vedono alcuna minaccia l’uno dall’altro. Gli Stati separati da una distanza ideologica significativa sospettano che l’altro minacci la loro sicurezza esterna e la stabilità politica interna. Quindi, le autocrazie vanno d’accordo con altre autocrazie, rendendo una partnership strategica Cina-Russia non solo concepibile, ma anche probabile.

Comprendere la natura delle relazioni tra Cina e Russia è di vitale importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Una vera e propria partnership strategica tra i due Paesi rappresenterebbe una grave minaccia per gli interessi americani. D’altro canto, una relazione poco approfondita ridurrebbe la minaccia di un’alleanza Pechino-Mosca diretta contro gli Stati Uniti. Quasi due decenni di dibattito tra i campi della “partnership strategica” e dell'”asse di convenienza” hanno prodotto molte opinioni forti, ma nessuna conclusione chiara. Questo perché nessuno dei due punti di vista è del tutto corretto.

Una visione regionale
Sebbene le narrazioni del partenariato strategico e dell’asse di convenienza siano utili semplificazioni della realtà, in pratica la relazione tra Pechino e Mosca non è né strettamente un partenariato strategico né un asse di convenienza. Come molte relazioni bilaterali, è una miscela complessa e dinamica di cooperazione, compartimentazione e competizione, fortemente influenzata dal contesto in cui avviene l’interazione. Il modo migliore per verificare i legami tra Cina e Russia non è leggere i loro comunicati al vertice, né misurare il volume degli scambi commerciali tra loro (i partner commerciali sono entrati in guerra tra loro molto spesso nel corso della storia), né misurare la portata e la frequenza delle loro esercitazioni militari congiunte. La migliore finestra sulle relazioni tra Cina e Russia è invece quella di studiare come interagiscono nelle regioni del mondo in cui entrambi hanno interessi in gioco. E qui emergono quattro regioni critiche: Asia centrale, Africa, Europa orientale e Asia orientale.

Queste regioni rappresentano un valido banco di prova per le relazioni tra Cina e Russia, perché offrono ambienti diversi per l’interazione tra i due Paesi e la variazione verifica alcune delle ipotesi fondamentali di ciascun approccio. L’Africa e l’Asia centrale verificano l’ipotesi che il principale motore dei legami tra Cina e Russia sia la resistenza condivisa a quella che entrambi sostengono essere “l’egemonia statunitense”. In queste regioni, la presenza diplomatica, militare ed economica dell’America è più leggera che in gran parte del mondo. La Cina e la Russia, invece, hanno importanti interessi in gioco e una presenza di conseguenza più pesante. In assenza di una presenza significativa degli Stati Uniti, la natura dell’interazione tra Cina e Russia dovrebbe fornire importanti indicazioni sulla vera natura delle loro relazioni.

Asia centrale

La Russia ha una lunga storia di dominio politico e militare sull’Asia centrale e ha visto la regione come il suo “ventre molle” a causa della sua vicinanza all’Afghanistan. Nel calcolo strategico del Cremlino, solo una forte influenza politica e una presenza militare negli Stati dell’Asia centrale possono proteggere la Russia dal calderone di instabilità che l’Afghanistan ha spesso rappresentato per i leader russi. Tre dei cinque Stati ex sovietici dell’Asia centrale sono membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare dominata dalla Russia. La Russia mantiene forze e basi militari in Kirghizistan e Tagikistan.

L’interesse della Cina per l’Asia centrale è stato principalmente economico: la regione è stata un importante destinatario degli investimenti cinesi in infrastrutture attraverso la Belt and Road Initiative (BRI). In effetti, la Cina ha scelto il Kazakistan come luogo per presentare formalmente la BRI. La regione occupa un posto di rilievo anche nella politica energetica cinese: il 60% del gas naturale fornito alla Cina attraverso i gasdotti proviene dal Turkmenistan. Il Kazakistan e l’Uzbekistan esportano gas in Cina, spesso come pagamento in natura per l’assistenza economica di Pechino. Collettivamente, gli Stati dell’Asia centrale inviano il 22% delle loro esportazioni totali alla Cina e ricevono da essa il 37% delle loro importazioni, e questa dipendenza commerciale è in aumento.

I ruoli di Mosca e Pechino in Asia centrale sono così distinti che i due sono stati definiti “lo sceriffo e il banchiere”. Secondo questa visione, la Russia si concentra sulla sicurezza e sulla stabilità politica, mentre la Cina si concentra sullo sviluppo economico. Se i due riescono a mantenere questi ruoli, coordinando le loro attività in Asia centrale a reciproco vantaggio, ciò dimostra che le loro relazioni sono più solide di quanto molti analisti e funzionari governativi occidentali sostengano.

Ma non è chiaro se sarà così. La Cina ha recentemente ampliato il suo ruolo diplomatico e di sicurezza nella regione, entrando in aree che la Russia aveva dominato. Il primo viaggio all’estero di Xi dopo il COVID è stato in Asia centrale lo scorso autunno. Nel 2016, inoltre, la Cina ha stabilito la prima base militare al di fuori dei propri confini, in Tagikistan. Il modo in cui la Russia risponderà a queste incursioni cinesi nelle sue tradizionali aree d’influenza ci dirà molto sulla sostenibilità della loro partnership in Asia centrale.

L’Africa

L’Africa è un altro luogo in cui Cina e Russia interagiscono sullo sfondo di una leggera presenza militare e diplomatica degli Stati Uniti. L’Africa rispecchia l’Asia centrale per alcuni aspetti e si differenzia per altri. Come in Asia centrale, l’obiettivo di Mosca è stato quello di sostenere i governi amici e di vendersi come fornitore di sicurezza, mentre Pechino si è concentrata sullo sviluppo economico. Ma i mezzi utilizzati dalla Russia in Africa sono diversi da quelli utilizzati in Asia centrale. In Asia centrale, lo strumento principale è l’esercito russo, ma in Africa il Gruppo Wagner ha assunto un ruolo centrale.

Sebbene sia noto di recente per la sua campagna di terra bruciata, finora fallita, per conquistare la città ucraina di Bakhmut e per le faide pubbliche del suo capo Yevgeny Prigozhin con i vertici militari russi, Wagner è presente in Africa almeno dal 2017. Qui Wagner scambia i suoi servizi con accordi per l’estrazione di risorse, utilizzando la disinformazione per minare le relazioni degli Stati occidentali con i governi africani. Si ritiene che Wagner abbia circa 5.000 combattenti in Africa, dislocati in Burkina-Faso, Mali, Algeria, Libia, Sudan, Eritrea, Repubblica Centrafricana e Camerun. Wagner concentra le sue operazioni in Africa in tre aree: operazioni di combattimento, fornitura di sicurezza ai regimi locali e addestramento delle loro forze di sicurezza, e campagne di disinformazione. Il pagamento di questi servizi avviene direttamente o attraverso accordi per l’estrazione di risorse.

La presenza della Cina in Africa è più palese e tradizionale. Incentrate sullo sviluppo infrastrutturale legato alla BRI, le attività cinesi sono spesso formulate con un linguaggio “win-win” e si concentrano su progetti infrastrutturali tangibili e ad alta visibilità. Circa quarantasei Paesi africani hanno aderito alla BRI: complessivamente rappresentano oltre un miliardo di persone e coprono il 20% della superficie terrestre. Nel 2017, in Africa erano presenti circa 10.000 imprese cinesi che generavano entrate per 180 miliardi di dollari all’anno, cifra destinata a salire a 250 miliardi di dollari entro il 2025. I prestiti cinesi all’Africa hanno raggiunto 153 miliardi di dollari tra il 2010 e il 2019, ma potrebbero aver raggiunto il picco massimo poiché la Cina ritiene che alcuni governi africani abbiano raggiunto il limite della loro capacità di prestito. Al vertice del Forum per la cooperazione Cina-Africa del 2021, Xi ha promesso 40 miliardi di dollari in prestiti all’Africa, un calo del 33% rispetto alle promesse dei due vertici precedenti.

Sebbene il ruolo di Cina e Russia in Africa possa sembrare simile a quello di “sceriffo e banchiere” in Asia centrale, vi sono importanti differenze. In Asia centrale, Mosca vede la propria sicurezza come direttamente legata alla sicurezza degli Stati regionali, mentre in Africa la fornitura di sicurezza da parte della Russia ha un carattere letteralmente mercenario. L’interesse della Russia per la sicurezza degli Stati africani è strumentale: conta solo se è redditizio per il Gruppo Wagner e se mina le relazioni occidentali con i governi africani. I sondaggi di opinione indicano che gli africani stanno prendendo coscienza dell’atteggiamento della Russia nei confronti della loro sicurezza: tra il 2021 e il 2022 il gradimento della Russia nell’Africa subsahariana è sceso dal 45% al 35%.

In un’intervista rilasciatami nell’agosto del 2022, il dottor Paul Tembe ha sottolineato la differenza di percezione della Cina e della Russia tra gli africani e l’ineguaglianza complessiva delle loro relazioni. “L’impronta russa… è troppo grezza per essere duratura e creare un tipo di soft power e l’influenza che la Cina ha attualmente”. Ha aggiunto che i russi “non sono sceriffi perché vogliono esserlo; sono sceriffi perché è l’unica posizione a loro disposizione”. Questo accordo rende facile per la Cina “gettare la Russia sotto l’autobus” e “finanziare un nuovo tipo di sicurezza”. Come in Asia centrale, la Cina sta diventando disposta ad assumere un ruolo di sicurezza più diretto in Africa piuttosto che affidarsi alla Russia: Ha aperto una base navale a Gibuti nel 2017 e ci sono voci insistenti che ne stia progettando una sulla costa occidentale dell’Africa, in Guinea Equatoriale.

Europa orientale

L’Europa orientale e l’Asia orientale presentano un diverso tipo di test dei legami Cina-Russia. In ognuna di queste regioni, Pechino o Mosca sono impegnate in una lotta per la supremazia con gli Stati Uniti. In ogni regione, gli Stati Uniti e la Cina o la Russia ritengono che siano in gioco interessi vitali.

In Europa orientale, la guerra della Russia contro l’Ucraina è il crogiolo delle relazioni russo-cinesi. Gli Stati Uniti e la Russia hanno inquadrato la guerra come una competizione per il futuro dell’ordine mondiale e la Russia sostiene di combattere la guerra per la propria sopravvivenza. Gli interessi cinesi in Europa orientale sono di ordine molto inferiore, importanti ma non certo vitali. E la Cina sa certamente che se fornirà aiuti militari alla Russia, pagherà un prezzo in termini di danni alla reputazione e sotto forma di sanzioni secondarie imposte dall’Occidente.

Per questo motivo, le azioni di Pechino sono da tenere sotto stretta osservazione. La continuazione dell’approccio cinese, che fornisce un sostegno retorico alla Russia ma evita il supporto materiale, implica che Pechino non è disposta a sostenere i costi per conto di Mosca, minando la narrativa del partenariato strategico. Ad esempio, la proposta cinese di porre fine al conflitto ripete gran parte della narrativa russa sulle cause della guerra e legittimerebbe il sequestro di parti dell’Ucraina da parte della Russia, ma ribadisce anche il sostegno della Cina al “rispetto della sovranità di tutti i Paesi” e mette in guardia dall’uso di armi nucleari. In ogni caso, Pechino sa che il piano è morto all’arrivo a Kiev e nelle capitali occidentali, il che lo rende non tanto un piano serio per porre fine alla guerra alle condizioni della Russia, quanto un tentativo di minare le accuse che la Cina sia complice silenziosa della Russia.

D’altra parte, il sostegno materiale cinese alla Russia – soprattutto se si considera che Pechino conosce i costi che dovrà sostenere per tale sostegno – fornirebbe un forte sostegno alla narrativa della partnership strategica. La comunità di intelligence e il Dipartimento del Tesoro statunitensi sono giunti alla conclusione che, sebbene la Cina abbia preso in considerazione la richiesta di sostegno materiale da parte della Russia, finora Pechino non è stata disposta a fornirlo, lasciando che la Russia si rivolgesse a Stati come l’Iran e la Corea del Nord. Se i calcoli della Cina cambieranno e Pechino finirà per fornire sostegno materiale alla Russia, ciò rafforzerà la tesi che Cina e Russia sono veri partner strategici. In caso contrario, suggerisce che Pechino non è disposta a sottoscrivere l’avventurismo di Mosca e a permettere alla Russia di trascinarla in un conflitto in cui non ha interessi vitali in gioco.

Asia orientale

La situazione in Asia orientale rispecchia quella dell’Europa orientale. Qui gli Stati Uniti e la Cina sono impegnati in una lotta per la supremazia, e ciascuno di loro rivendica un interesse vitale nel risultato. La Russia, invece, ha in gioco interessi di ordine inferiore. Se la Russia decidesse di dare un sostegno più che retorico alle rivendicazioni territoriali della Cina in questa regione, Mosca sa che creerebbe un confronto ancora più ampio con l’Occidente di quello che sta già affrontando sull’Ucraina. Sebbene la Russia abbia dato un sostegno retorico alle rivendicazioni marittime della Cina nel Mar Cinese Meridionale, non ha intrapreso alcuna azione concreta che possa segnalare la volontà di sostenere dei costi per conto della Cina. In realtà, il sostegno della Russia sembra più volto a delegittimare la presenza americana nella regione che a sostenere concretamente le rivendicazioni della Cina.

Mosca ha suscitato preoccupazione tra gli analisti cinesi – e presumibilmente tra i funzionari governativi – per il suo avvicinamento ad alcuni dei maggiori avversari della Cina nella regione. Le vendite di armi russe al Vietnam rappresentano l’84% delle importazioni di armi del Paese e hanno aiutato Hanoi a trasformare le sue forze armate in alcune delle più moderne e capaci della regione, dotandole di un “limitato ma potente deterrente contro la Cina”. Oltre ai rapporti con il Vietnam, Mosca ha aumentato le vendite di armi alla Malesia e ha cercato di espandere i suoi legami di difesa con le Filippine e l’Indonesia, tutti elementi che sicuramente causano preoccupazione a Pechino.

La Russia ha anche cercato di fare breccia nella sfera energetica. Nel 2018, la Russia e il Vietnam hanno annunciato piani per lo sviluppo congiunto di giacimenti di gas nel Mar Cinese Meridionale, suscitando “forti proteste da parte della Cina, che rivendica la maggior parte del vasto specchio d’acqua e sta costruendo strutture militari nell’area”. Nel 2021, la Cina ha chiesto all’Indonesia di interrompere l’esplorazione di petrolio e gas al largo della sua costa settentrionale, in quello che Pechino ha dichiarato essere “territorio cinese”. Spesso viene trascurato in quella che viene descritta come una disputa bilaterale tra Giacarta e Pechino il fatto che la Zarubezhneft, società statale russa, sta finanziando il progetto.

Conclusione
Le relazioni tra Cina e Russia non sono né un partenariato strategico né un asse di convenienza. È complessa, dinamica e condizionata dall’ambiente in cui le due nazioni interagiscono. E le contingenze si verificano sul campo, non nei vertici e nelle visite bilaterali. In altre parole, nelle regioni del mondo in cui Cina e Russia perseguono attivamente i propri interessi nazionali attraverso attività politiche, militari ed economiche, le interazioni tra i due Paesi sono meno programmate e quindi hanno maggiori probabilità di rivelare verità sulla natura delle loro relazioni.

Piuttosto che cercare di ridurre le loro relazioni a un adesivo, gli analisti dovrebbero identificare le aree in cui i loro interessi nelle regioni chiave convergono e divergono. Ciò potrebbe consentire previsioni pragmatiche e basate su dati concreti sulla futura traiettoria delle relazioni in quelle regioni.

L’Asia centrale, l’Africa, l’Europa orientale e l’Asia orientale sono le regioni chiave da tenere d’occhio in futuro. In queste regioni, il ruolo degli Stati Uniti e l’intensità degli interessi cinesi e russi variano, consentendo di testare le relazioni in condizioni diverse. Pechino e Mosca si stanno espandendo in settori in cui l’altra è stata a lungo dominante: la Cina sta espandendo la sua presenza in Asia centrale e in Africa, mentre la Russia sta facendo incursioni negli investimenti economici in Asia orientale. Fino a questo momento, i due Paesi sono riusciti a compartimentare le loro differenze e a mantenere la loro cooperazione contro quella che definiscono “egemonia statunitense”. Ma questo non è scontato per il futuro.

Ciò che gli Stati Uniti non dovrebbero fare è cercare esplicitamente di “spingere un cuneo” tra Pechino e Mosca. Le loro differenze in regioni chiave del mondo potrebbero allontanarle o almeno limitare la loro cooperazione. Se ciò dovesse accadere, Washington dovrebbe essere pronta ad adattarsi alla nuova normalità. Ma inserendosi nell’equazione, i responsabili politici americani non faranno altro che ricordare ai leader cinesi e russi la loro comune animosità nei confronti degli Stati Uniti, avvicinandoli ancora di più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione del Foreign Policy Research Institute, un’organizzazione apartitica che cerca di pubblicare articoli ben argomentati e orientati alla politica sulla politica estera americana e sulle priorità della sicurezza nazionale.

https://www.fpri.org/article/2023/05/stress-testing-chinese-russian-relations/

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In un modo o nell’altro …. Ti prenderemo. _ AURELIEN

In un modo o nell’altro ….
Ti prenderemo.

AURELIEN
7 GIU 2023
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La maggior parte di noi ha visto prima o poi l’Amleto di Shakespeare e ne ricorda gli ultimi minuti: corpi che si accumulano ovunque, mentre l’ambasciatore norvegese si guarda intorno sconsolato alla ricerca di qualcuno ancora vivo a cui presentare le proprie credenziali.

Shakespeare era consapevole che qui, come nei Roman Plays, in Macbeth o anche in Romeo e Giulietta, stava descrivendo una società in cui il potere era tutto, e in cui le figure politiche erano essenzialmente indistinguibili dai gangster, con conflitti incessanti tra individui, famiglie e clan, rancori nutriti per generazioni, e nulla mai perdonato o dimenticato.

All’epoca di Shakespeare, l’unificazione e la centralizzazione dell’Inghilterra fecero sì che questo tipo di comportamento appartenesse per lo più al passato. Le leggi e le procedure avevano sostituito l’etica dei gangster: Enrico VIII fece giustiziare Thomas Cromwell perché si era stancato di lui, ma almeno dopo una sorta di processo. Eppure le storie di vendetta erano ancora popolari quando Shakespeare scriveva, e di fatto non hanno mai perso il loro fascino primitivo, atavico. La vendetta o la riparazione di torti reali o percepiti suscita qualcosa di profondo e primitivo in tutti noi, ed è ancora oggi presente ovunque nella cultura popolare e persino in quella d’élite.

Questo saggio tratta delle conseguenze politiche della sopravvivenza atavica del pensiero della vendetta nell’era moderna e della sua collisione con la crescente imposizione di norme giuridiche dello Stato liberale. Il desiderio di vendetta, di solito vicario, convive a disagio con l’attaccamento teorico a procedure legali oggettive; ma quando queste procedure non riescono a produrre un risultato che riteniamo moralmente soddisfacente, le abbandoniamo per qualcosa di molto più primitivo.

Esaminerò tre contraddizioni. In primo luogo, confondiamo abitualmente il diritto con la giustizia, senza essere veramente certi del significato di ciascun concetto. Quando il diritto non ci dà ciò che consideriamo giustizia, ci lamentiamo. In secondo luogo, mentre chiediamo la massima protezione procedurale e legale per noi stessi, siamo riluttanti a estendere questa protezione alle persone che non ci piacciono. Queste persone meritano giustizia, anche se in modo approssimativo. Infine, la maggior parte di noi è impegnata in un doppio pensiero per la maggior parte del tempo, volendo pensare a noi stessi come moderni, razionali e umani, ma cadendo con una velocità sconcertante nel mondo mentale del pubblico di Shakespeare: Amleto, la vendetta!, e spendiamo qualche sforzo per persuadere noi stessi e gli altri che queste due cose sono in realtà la stessa cosa.

Cominciamo, però, con una passeggiata attraverso alcune semplici definizioni e qualificazioni. Che dire, ad esempio, di “giustizia”? A volte chiedo agli studenti cosa pensano che significhi questo termine, e per lo più le risposte riguardano i sistemi di giustizia: tribunali, polizia, leggi, ecc. Ma in realtà la giustizia all’origine non significa affatto questo: nella felice espressione di Michael Sandel, si tratta della “cosa giusta da fare”, e in effetti sono stati scritti interi libri sul concetto di giustizia senza alcun riferimento al crimine e alla punizione. La giustizia riguarda quindi il nostro concetto di come dovrebbero essere gestiti gli affari pubblici e come dovrebbero essere trattate le persone. Un sistema di giustizia è un sistema che cerca di garantire che ciò che le persone ritengono “giusto” avvenga effettivamente nella pratica, e che ciò che è “ingiusto” venga sanzionato.

Ciò che pensiamo sia “giusto” cambia molto con il tempo e il contesto, e idealmente, almeno, le leggi dovrebbero cambiare lentamente, per riflettere i cambiamenti di atteggiamento che influenzano le nostre idee su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Buoni esempi sono la depenalizzazione dell’omosessualità e dell’aborto nella maggior parte dei Paesi negli anni ’60 e ’70, che sono stati il risultato di cambiamenti graduali negli atteggiamenti sociali dopo la Seconda Guerra Mondiale. I cattivi esempi sono tutti i tentativi di usare la legge per forzare l’accettazione di cambiamenti sociali per i quali l’opinione pubblica non è ancora pronta: ciò scredita il sistema giuridico nel suo complesso.

Quando pensiamo alle “leggi” pensiamo subito a una densa prosa tecnica in grandi libri che solo gli specialisti possono capire: ma in realtà le origini del diritto sono proprio nel senso popolare di ciò che è giusto. Naturalmente, per la maggior parte della storia dell’umanità, le società sono state per lo più analfabete e l’idea di discutere sulle sfumature delle clausole dei documenti sarebbe sembrata ridicola. La legge era fondamentalmente tradizione: il greco Nomos o l’egiziano Ma’at vengono spesso tradotti oggi con “legge”, ma in realtà significano fondamentalmente “usanza” o “ciò che facciamo”. In una società largamente analfabeta, si trattava di un insieme di precedenti tramandati dal passato, che tutti conoscevano. In effetti, la legge scritta è stata considerata con un certo sospetto fino a tempi relativamente recenti: la maggior parte delle civiltà prima della nostra ha voluto evitare di essere legata troppo strettamente alle parole nel prendere decisioni. I grandi casi giuridici dell’antichità (il processo a Socrate, per esempio) erano molto lontani da ciò che oggi intendiamo come processo giuridico.

Negli ultimi secoli si è assistito a una costante invasione pratica della lettera sullo spirito della legge, mentre allo stesso tempo le concezioni popolari (e per questo elitarie) di ciò che la giustizia è, o dovrebbe essere, non sono cambiate molto. Ciò ha creato una notevole tensione, perché non sempre ciò che la Legge dice effettivamente è ciò che pensiamo dovrebbe dire, o ciò che ci fa comodo. Negli ultimi tempi, inoltre, le élite politiche e intellettuali sono state disposte a usare la legge come arma politica, fingendo di rispettare procedure oggettive. Il risultato è stata tutta una serie di trattati, leggi, accordi, convenzioni e altro, che hanno cercato di portare chiarezza e coerenza nella confusione delle relazioni umane e istituzionali, non sempre con successo. Vediamo alcuni esempi del perché.

Il diritto è, almeno in linea di principio, un costrutto coerente e logico, con procedure e risultati che dovrebbero essere ripetibili. Pertanto, sebbene i giudici e le giurie non siano macchine che producono meccanicamente verdetti, in un sistema che funziona correttamente lo stesso insieme di prove, presentate con competenza dalle diverse parti, dovrebbe produrre risultati simili. Quando i giudici differiscono, ad esempio, dovrebbero comunque soppesare gli stessi fattori secondo gli stessi criteri. Nei processi penali di routine, o nei casi giuridici tecnici in cui esiste una grande quantità di legislazione e di precedenti, questo avviene generalmente. La difficoltà sorge quando la “legge” viene invocata come arma in situazioni cariche di emozioni e spesso oggetto di campagne politiche, e dove qualsiasi risultato deluderà qualcuno, per ragioni politiche. E c’è il segno che questa situazione sta peggiorando, dato che gruppi di interesse di ogni tipo immaginabile cercano di usare la legge come strumento spuntato per raggiungere obiettivi politici, e credono che essa possa e debba piegarsi alla loro volontà.

Il diritto penale è particolarmente esposto a questo tipo di manipolazione, perché in realtà prevede una serie di criteri rigorosi per quanto riguarda le prove ammissibili, lo standard di prova richiesto e la protezione concessa all’imputato. Questi criteri sono spesso incompatibili con l’impulso atavico alla vendetta o addirittura alla “giustizia”, che può essere all’origine dei processi penali e che influisce sul modo in cui il risultato viene percepito. I pubblici ministeri esperti sanno che le prove sono talvolta incomplete o carenti, che le testimonianze oculari sono tra il dubbio e l’inutile, che i testimoni possono sbagliare o dimenticare, che le autorità possono trascurare i punti deboli dei loro casi e che le persone possono confessare cose che non hanno fatto e non potrebbero fare. Di conseguenza, e a seconda della soglia di perseguibilità, fino a un terzo dei procedimenti giudiziari si concluderà con un nulla di fatto. Ma questa non è una debolezza del sistema, è il sistema che funziona come dovrebbe. Sono tutt’altro che un ammiratore acritico di John Rawls, ma credo che il suo argomento del Velo d’Ignoranza abbia un posto qui. Allontanatevi dalla furia delle lotte politiche condotte nel discorso del diritto e chiedetevi: che tipo di sistema giuridico vorreste se non sapeste in anticipo quale ruolo dovrete svolgere: vittima, testimone, accusato? Ma la maggior parte di noi non è in grado di mantenere questo grado di distacco: chiediamo per noi stessi tutele legali che poi non siamo disposti a estendere a coloro con cui non siamo d’accordo o che non ci piacciono. Per esempio, ho avuto conversazioni con donne intelligenti e istruite che vogliono l’inversione dell’onere della prova nei casi di stupro, in modo che l’accusato debba dimostrare la propria innocenza. Sono abbastanza aperte sul fatto che questo serve a garantire che più uomini vengano mandati in prigione e che, mentre ci saranno sicuramente molti errori giudiziari, questo è “giustificato” dall’affermazione che in altri casi i veri criminali possono averla “fatta franca”. In altre parole, si tratta di una punizione collettiva di gruppo, che è una delle più antiche concezioni di “giustizia” al mondo.

In effetti, uno dei maggiori problemi che il diritto penale incontra nell’attuale ambiente politicizzato e armato è proprio il fatto che la sua attenzione si concentra necessariamente sugli individui e sulle loro circostanze specifiche, mentre l’attenzione politica è spesso rivolta ai gruppi, o ai loro membri, e il criminale è visto soprattutto come un membro del gruppo e i presunti reati come parte di un modello.

Su questo si potrebbe dire molto di più, ma in pratica è impossibile che l’atavico impulso alla “giustizia” e alla vendetta collettiva, e il trattamento burocratico degli individui basato sulle regole, producano mai risultati che soddisfino tutti. Ma almeno, si può sostenere, se si vuole un sistema di diritto oggettivo e non l’ultimo atto di Amleto, bisogna essere pronti ad accettare che a volte le cose non andranno come vorremmo. Tra poco parlerò di alcuni importanti effetti politici internazionali di questa riluttanza, ma prima voglio discutere brevemente di altri due settori in cui il diritto (almeno secondo un’interpretazione) e la politica sono entrati in collisione in modo multiplo.

Il primo è il diritto internazionale, dove si discute persino su dove esista oggettivamente il soggetto, o almeno se esso conti come “diritto”. Non c’è dubbio che indossi un pesante travestimento giuridico e utilizzi procedure e terminologia che assomigliano ad altri tipi di diritto, ma il dibattito tra coloro che pensano che sia un tipo di diritto (essenzialmente i giuristi internazionali) e coloro che pensano che non lo sia (essenzialmente tutti gli altri) non potrà mai essere risolto. Il punto fondamentale è l’applicabilità: il diritto internazionale non è stato e non può essere applicato, se non contro le piccole e deboli potenze, e molti sostengono che questo non sia sufficiente. Piuttosto, il diritto internazionale è meglio inteso come un discorso; un corpo di discorsi e azioni che serve a strutturare e far rispettare la comprensione di una data situazione internazionale e a prevenire le sfide a coloro che hanno il potere di stabilire questo discorso. E come tutti i discorsi, anche quello del diritto internazionale può cambiare rapidamente: Ho già commentato più volte la rapidità con cui, all’epoca del conflitto in Kosovo nel 1999, si è improvvisamente ricordato che la presunzione post-1945 di non intervenire militarmente in altri Paesi era “sempre” stata subordinata al “rispetto dei diritti umani” o a una formula simile. Il risultato, in parte attraverso dottrine come l’intervento umanitario, la responsabilità di proteggere e la rappresaglia preventiva, che non hanno alcuno status nel diritto internazionale, è stato un concetto che essenzialmente si adatta a ciò che i potenti desiderano fare, condannando il comportamento degli altri. E anche se storicamente questa era la prassi, sta diventando sempre più la teoria dominante.

Ciò che è cambiato, tuttavia, è la crescente convinzione che il diritto (in questo caso il diritto internazionale) debba conformarsi alla nostra visione contemporanea, normativa e basata sull’ego del mondo: un sistema che non solo serva ai nostri scopi, ma che incarni anche le nostre norme, anche se cambiano. Soprattutto, la legge non dovrebbe impedirci di fare ciò che vogliamo o che è “giusto”. Poco prima dell’invasione dell’Iraq, ricordo una conversazione con un funzionario del governo americano che menzionava una riunione a cui aveva appena partecipato, in cui una Grande Persona si era lamentata che “se il diritto internazionale ci impedisce di rovesciare Saddam Hussein, ci deve essere qualcosa di sbagliato nel diritto internazionale”. Inquietantemente, molti avvocati dell’epoca sembravano essere d’accordo. Ma questo approccio guidato dall’ego, che richiede che la legge ci dica che abbiamo ragione, sembra in realtà piuttosto comune. Durante la crisi in Bosnia ho partecipato a un seminario di accademici arrabbiati, molti dei quali chiedevano di “fermare le uccisioni” uccidendo le persone che disapprovavano. Ho fatto notare che molte delle idee più bizzarre che venivano avanzate andavano contro il diritto internazionale, ma “questa è una cosa troppo seria per preoccuparsi del diritto internazionale”, ha detto un professore di diritto internazionale seduto accanto a me, in modo schiacciante, mentre dall’altra parte del tavolo un altro partecipante ha azzardato l’opinione che gli Stati che opprimono i propri popoli non dovrebbero comunque aspettarsi di beneficiare delle protezioni del diritto internazionale. Come dimostrano questi due esempi (e ce ne sono stati molti in seguito), il diritto internazionale non è solo un discorso di potere, ma anche un discorso di persone che vogliono il potere, o che vogliono provare il brivido di vedere morte e distruzione inflitte a persone che non amano, ma sotto un sicuro camuffamento legale. È compito degli avvocati, in queste circostanze, trovare giustificazioni razionali per l’inaccettabile, ma in fondo è a questo che servono gli avvocati, suppongo. Ma agli occhi della maggior parte del mondo questo uso improprio della legge è di per sé inaccettabile, ed è per questo che i cinesi, gli indiani e i russi parlano del ritorno a un sistema basato sulla legge, in contrapposizione all’attuale ossessione per un sistema “basato sulle regole” in cui le regole sono stabilite da una cricca autoproclamata. (Un modo semplice per concettualizzare la differenza è considerare la Chicago degli anni Venti, dove esisteva un sistema basato sulla legge, anche se ampiamente corrotto e ignorato, ma almeno ufficiale, e un sistema basato sulle regole originato e applicato dai vari gruppi di gangster della città).

Un caso correlato è quello della legge sui “diritti umani”, che è essenzialmente una serie di trattati, leggi e dichiarazioni che possono essere analizzate, anche se con un certo sforzo, come se fossero leggi vere e proprie. La differenza è che alcune sono effettivamente applicabili, anche se spesso con difficoltà, nei confronti della gente comune. Il problema è concettuale: la maggior parte delle leggi sulle risorse umane è così vaga e internamente incoerente che è molto difficile estrarne un senso coerente. Molti documenti chiave sono stati redatti così tanto tempo fa che non riflettono più il mondo attuale o, in alternativa, sono talmente contorti nel loro linguaggio nel tentativo di accontentare tutti che possono supportare quasi ogni interpretazione. Il risultato è che i giudici, spesso specialisti eruditi con poca esperienza della realtà dei soggetti che stanno valutando, assaliti da argomentazioni complesse e spesso reciprocamente incomprensibili da parte delle lobby politiche, finiscono per esprimere giudizi essenzialmente politici, a seconda di come si sentono o della loro lettura dei venti politici del momento. Questo toglie non solo la legittimità ai governi e ai parlamenti eletti, ma anche qualsiasi possibilità ai cittadini comuni di far sentire la propria voce contro il potere delle lobby e dei media. Si potrebbe dire molto di più, ma per il momento limitiamoci a notare che questo tipo di “legge” è in pratica solo un altro modo per la casta professionale e manageriale occidentale di imporre le proprie norme e i propri desideri al resto di noi; tanto più facilmente perché gli avvocati che discutono i casi, i media che li riportano e i giudici che li decidono sono tutti membri della stessa casta. Questo è un altro caso in cui la legge è chiaramente solo un riflesso del potere, e di conseguenza viene screditata.

Il più grande esempio di abuso del concetto di diritto, tuttavia, è probabilmente l’applicazione del diritto penale ai conflitti armati, o più precisamente il modo in cui si è sviluppato negli ultimi trent’anni, e la sua politicizzazione in un’arma PMC per la soppressione di leader e governi irritanti. Si tratta del concetto di Diritto Internazionale Umanitario, nato con ideali abbastanza nobili, ma che da allora è stato completamente catturato dal sistema di potere internazionale.

Tradizionalmente, la guerra era spietata e crudele quanto la politica dinastica, di cui spesso faceva parte. Le città-stato greche praticavano allegramente il genocidio l’una contro l’altra e l’Impero romano, si potrebbe dire, è stato scavato su montagne di cadaveri. Proprio perché la maggior parte delle guerre era di tipo dinastico, ovvero una lotta a somma zero tra imperi e principati, lo sterminio era il metodo normale di lotta: dopo tutto, finché un solo parente maschio o un membro della linea reale rimaneva in vita, la guerra poteva riaccendersi in un secondo momento. Era normale che tutti i maschi superstiti di una città venissero massacrati e che le donne e i bambini venissero venduti come schiavi, dopo che la città era stata rasa al suolo e tutto ciò che aveva valore era stato rubato. (Questo tipo di comportamento era considerato ammirevole e su di esso sono state scritte epopee). Questo tipo di comportamento non era limitato all’Europa e al Medio Oriente: le guerre dei samurai erano almeno altrettanto sanguinose: basti pensare a Ran di Kurosawa.

Le prime mosse per controllare la guerra furono fatte dai comandanti e dai governi nazionali piuttosto che dai giuristi. Aveva senso pratico trattare bene la popolazione locale ed estendere ai feriti del nemico la stessa considerazione che si voleva avere per i propri. La professionalizzazione militare, gli eserciti di leva di massa, i moderni sistemi logistici e lo sviluppo di una casta militare internazionale hanno reso più facile per i governi accettare le proposte di limitazioni alla guerra, almeno tra Stati di pari livello. Non è questa la sede per approfondire la lunga e intricata storia dei tentativi di “umanizzare la guerra”: Voglio piuttosto iniziare da dove siamo ora, esaminando alcuni dei problemi pratici dell’applicazione del diritto alla guerra e come questi problemi abbiano prodotto un’atmosfera velenosa di odio e desiderio di vendetta, guidata dalla PMC internazionale e come modo per distruggere i propri nemici.

A differenza delle regole per cercare di rendere la guerra più umana, che spesso sono state create dagli stessi militari, le idee per le indagini e le punizioni penali sono praticamente sempre arrivate da attori esterni, spesso con una comprensione molto limitata della realtà del conflitto, ma con molto fervore morale. In alcuni casi (il processo di Norimberga è l’esempio più ovvio) i processi erano la soluzione meno peggiore a un problema ovvio: i leader del regime nazista non potevano essere lasciati in vita. Così, il verdetto veniva prima delle prove, che venivano prima delle accuse, che venivano prima delle indagini. Ma è dubbio che ci fosse una soluzione migliore, così come è dubbio che Norimberga debba essere un precedente per qualsiasi cosa.

Il fatto che per mezzo secolo non siano stati celebrati processi analoghi non è dovuto tanto all’assenza di crimini e atrocità, quanto al fatto che non c’era la necessità o la volontà politica di affrontarli nello stesso modo. È stato solo all’inizio degli anni Novanta che una combinazione di ONG sempre più potenti, mezzi di comunicazione di massa, televisione satellitare e la consapevolezza da parte degli Stati che il discorso del diritto penale poteva essere politicamente utile, si sono combinati, prima nel caso dell’ex Jugoslavia e poi del Ruanda, per produrre tribunali penali internazionali. Nel caso dell’ex Jugoslavia, inoltre, molti degli Stati successori erano deboli e uno era sotto occupazione militare. Nel caso del Ruanda, la dittatura in carica era più che pronta a vedere i suoi oppositori spediti in tribunale. Una tale combinazione di circostanze non si era mai verificata prima e non si sarebbe mai più verificata.

Le pressioni per i tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda non provenivano da avvocati penalisti, ben consapevoli dei potenziali problemi, ma da una coalizione di personaggi dei media, avvocati per i diritti umani, opportunisti politici e governi occidentali alla ricerca di “qualcosa” da fare per calmare l’opinione pubblica infiammata. A posteriori, è abbastanza chiaro che questi gruppi di interesse non avevano la minima idea di cosa sarebbe stato necessario fare e che le probabili difficoltà in ogni caso li hanno lasciati indifferenti. Il processo di pensiero è stato essenzialmente (1) ho visto cose terribili sulla mia TV (2) qualcuno deve essere ritenuto responsabile e punito. Il processo, nella misura in cui doveva esserci, era visto come una formalità. Madeline Albright, affettuosamente conosciuta (da lei stessa) come la “Madre del Tribunale”, pare abbia ipotizzato che il Tribunale per la Jugoslavia sarebbe durato forse un paio d’anni, avrebbe incriminato e condannato una ventina di serbi bosniaci e poi avrebbe chiuso. Nessuno dei progenitori dei tribunali ad hoc, pieni di rabbia e di desiderio di vendetta vicaria, ha mai pensato a cose banali come le prove, i testimoni, le testimonianze e un processo equo.

Questa è stata la prima e fondamentale debolezza dei tribunali ad hoc, che è rimasta tale anche per la Corte penale internazionale e per gli sforzi successivi. Gli avvocati per i diritti umani erano scandalizzati dal fatto che i testimoni (“vittime” nel loro linguaggio) potessero essere sottoposti a controinterrogatorio: sostenevano che sarebbe stato troppo traumatizzante. Quando Slobodan Milosevic, anch’egli abile avvocato, decise infine di riconoscere il tribunale jugoslavo e di condurre la propria difesa, distrusse completamente diversi testimoni dell’accusa, suscitando orrore e sgomento nella comunità dei diritti umani. Dopo tutto, ha sostenuto un opinionista del Guardian, credo, le vittime di Milosevic non hanno avuto un processo equo, quindi perché lui avrebbe dovuto? Sicuramente non si poteva permettere che nulla di così banale come le prove si frapponesse a un verdetto di colpevolezza? E una volta permesso alla difesa di mettere in dubbio la validità delle prove, qualsiasi risultato, persino l’assoluzione, era possibile.

Iniziò così la trasformazione della lobby delle Risorse Umane da un simpatico ma inefficace gruppo di persone benintenzionate in un commando della morte della PMC, che usava la legge (o una sua interpretazione) per distruggere le persone che disapprovava. I diritti umani, si scoprì, non potevano proteggere assolutamente tutti, e i sostenitori delle risorse umane non vedevano nulla di problematico nel sostenere il rapimento e la detenzione senza processo di persone che identificavano come malfattori, anche se non erano stati effettivamente accusati di nulla. In questa visione, i tribunali erano in pratica poco più che il braccio punitivo della comunità delle risorse umane, e il compito degli investigatori era quello di trovare le necessarie prove di colpevolezza, o almeno qualcosa che le assomigliasse. Un esempio classico è il regresso di Geoffrey Robertson, un avvocato britannico e attivista per i “diritti umani” che in precedenza aveva difeso cause impopolari. Durante la fervida atmosfera della fine degli anni Novanta, quando l’entusiasmo per i tribunali era al suo apice, aveva scritto della necessità di garantire che i vari malfattori fossero messi in prigione per “i crimini di cui sono colpevoli”. Diversi altri esperti di diritto che, a differenza di Robertson, non avevano dormito durante le lezioni di diritto penale a Oxford, furono costretti a far notare che nessuna di queste persone era stata processata e tanto meno giudicata colpevole. La legge può essere noiosa a volte. In seguito ho visto che il signor Robertson avrebbe partecipato a un finto “processo” di Slobodan Milosevic alla radio della BBC, e ho letto un po’ più a fondo per scoprire come avrebbe gestito la difesa di Milosevic, per poi scoprire che si presentava per l’accusa. Alla faccia delle cause impopolari.

L’effetto di tutto questo è stato essenzialmente quello di rovinare la credibilità che i tribunali internazionali hanno mai avuto. Ma, a onor del vero, va anche detto che spesso è stato chiesto loro di fare un lavoro impossibile. Concludo con due esempi. Il primo è il concetto, un po’ tecnico ma molto importante, di responsabilità di comando, che recentemente è stato esteso non solo ai comandanti militari, ma anche ai leader politici.

Dobbiamo innanzitutto ricordare che nei conflitti armati si uccidono persone, anche innocenti. Le leggi di guerra distinguono tra “obiettivi militari” che possono essere attaccati e altri che non possono esserlo. Inoltre, considerano bersaglio ammissibile chiunque porti armi o prenda parte attiva al conflitto, anche donne e bambini. Nella maggior parte dei conflitti odierni, tuttavia, queste distinzioni sono inutili, poiché non esiste una vera e propria linea di demarcazione tra coloro che partecipano al conflitto e coloro che non vi partecipano, e la maggior parte degli avversari non accetta comunque il nostro concetto di legge di guerra. In questo senso, la legge di guerra si discosta ogni anno di più dalla realtà della guerra, il che non può mai essere una buona cosa. In genere, un caporale di vent’anni in missione di pace, lontano da casa in un Paese di cui non parla la lingua, potrebbe trovarsi di fronte a un adolescente che gli si avvicina all’ingresso del complesso indossando cuffie e occhiali da sole, portando con sé uno zaino e rifiutando l’ordine di fermarsi. Il caporale potrebbe avere cinque secondi per decidere se sparare (e magari esporsi a un’accusa di omicidio e a uno scandalo internazionale) o non sparare, e magari diventare vittima di un attentatore suicida.

In teoria, i comandanti dovrebbero impartire ordini chiari e fermi per evitare che si verifichino errori e violazioni, e sono responsabili di ciò che fanno i loro soldati. Ma questa responsabilità, anche per gli avvocati delle risorse umane, non è assoluta. Nessun comandante può passare il proprio tempo a controllare con sospetto il comportamento di ogni soldato: quella che i militari chiamano catena di comando dovrebbe occuparsi almeno in parte di questo. Ma ci sono stati casi giudiziari che hanno messo in discussione l’estensione di questa responsabilità. Un caso classico è quello del generale Stanislav Galic, comandante delle forze serbo-bosniache che assediarono Sarajevo per tre anni. Nonostante l’impressione data dai media, la maggior parte delle vittime erano militari, provenienti dai combattimenti intorno alla città, ma ci sono stati anche casi di popolazione civile uccisa da colpi di mortaio o di armi leggere. Queste armi non erano abbastanza precise da sostenere un’accusa di omicidio deliberato e non c’erano prove che gli spari e i colpi di mortaio fossero stati ordinati deliberatamente, ma Galic è stato comunque accusato di non aver fatto sforzi adeguati per controllare le sue truppe. Egli sostenne di aver fatto tutto il possibile, ma, con un po’ di sorpresa da parte di chi assisteva al processo, i giudici decisero che non aveva fatto abbastanza e lo dichiararono colpevole. (Naturalmente, un altro gruppo di giudici avrebbe potuto concludere diversamente).

Ma per quanto si possa provare soddisfazione per l’incarcerazione di un comandante militare, i veri bersagli dell’odio sono i leader politici, ai quali la dottrina della responsabilità di comando è stata sempre più estesa. Naturalmente ciò richiede di dimostrare l’abitudine di un leader politico di dare ordini a un leader militare, anche per commettere crimini. Questo è raramente possibile ed è causa di molta frustrazione tra gli attivisti per le risorse umane, per i quali leader come il Presidente del Sudan Bashir, il Presidente della Siria Assad o Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio, diventano figure di odio che devono essere distrutte, in un modo o nell’altro, ma con una sorta di camuffamento legale per farci sentire meglio.

La soluzione scelta per i processi a Milosevic, più che altro per disperazione, è stata quella della colpevolezza per associazione, dignitosamente chiamata dottrina dell’impresa criminale comune. In pratica, si sosteneva che Milosevic era colpevole perché faceva parte di una cerchia di persone, alcune delle quali avevano influenza sulle persone, alcune delle quali si presumeva avessero dato ordini che avevano portato a crimini. Tuttavia, gli esperti che avessero letto la prima pagina degli atti d’accusa per la Bosnia e la Croazia sarebbero rimasti sorpresi nel vedere che non si sosteneva che Milosevic fosse responsabile, ordinatore o anche solo a conoscenza di alcuno dei crimini elencati negli atti d’accusa. Ma è stato comunque ritenuto colpevole di tali crimini. Di fatto, quindi, qualsiasi figura militare o politica di alto livello potrebbe essere accusata e condannata per qualsiasi cosa, e in effetti da allora sono stati fatti tentativi di incriminazioni simili, con risultati variabili. Stretti tra il desiderio dell’élite del PMC di distruggere le figure odiose in un modo o nell’altro, e le pratiche banali della procedura penale, i tribunali sono stati spinti sempre più ad essere istituzioni puramente politiche, come era stato previsto all’epoca, e come è evidente nella farsa malata dell’incriminazione del Presidente Putin, dopo la quale nessuno prenderà più sul serio tali tribunali.

Il secondo è la tendenza dei tribunali, sotto la pressione dei media e delle élite del PMC, a riscrivere la legge per rendere più facili i processi e i verdetti di colpevolezza. L’esempio classico è il crimine di Genocidio: un crimine complesso che è dimostrabile solo se si riesce a stabilire lo stato mentale interno di un individuo al di là di un ragionevole dubbio. Come è stato documentato, la Convenzione del 1947 era essenzialmente una costruzione della Guerra Fredda, progettata per mettere l’Unione Sovietica sulla difensiva riguardo ai movimenti forzati di popolazione dopo il 1945. Non è mai stata intesa come base per i procedimenti giudiziari. Ma era un termine comodo e i giornalisti e i militanti dell’HR lo applicarono presto agli eventi del 1994 in Ruanda. Leggendo nella crisi politica il solito discorso occidentale neocoloniale di “etnia” e “razza”, sono riusciti a convincere giudici senza alcuna conoscenza dell’Africa che era stato commesso un genocidio. Una volta che la situazione divenne più chiara dopo le testimonianze degli esperti, la corte si trovò di fronte a un enorme problema politico: sarebbe stata strappata da un arto all’altro a meno che non avesse emesso verdetti che le prove non giustificavano. La risposta fu quella di cambiare la definizione di Genocidio in modo che fosse sufficiente la convinzione soggettiva che vi fossero differenze razziali o etniche. (È vero che l’aristocrazia tutsi aveva coltivato a lungo il mito di essere una specie superiore dal punto di vista razziale e che questo era stato assorbito sia dai coloni europei che dai contadini hutu. Ma non era vero). In un modo o nell’altro.

Qualcosa di simile è accaduto con il processo di Srebrenica all’Aia. Il caso sembrava a prima vista poco promettente: i morti erano soldati della 28ª Divisione dell’esercito musulmano, che erano fuggiti dalla città dopo che una forza serbo-bosniaca molto più piccola l’aveva attaccata, portando con sé la maggior parte degli uomini in età militare. In nessun caso i morti erano un “gruppo” ai sensi della Convenzione. Ma i procuratori hanno tentato un’argomentazione ingegnosa: dopo aver catturato la città, i serbo-bosniaci hanno organizzato il trasporto delle donne, dei bambini e dei vecchi nel territorio controllato dai musulmani in autobus. In questo modo, si è sostenuto, la “presenza” musulmana nella città è stata “distrutta”, quindi si è trattato di un Genocidio, che sarebbe stato evitato se i musulmani fossero stati semplicemente lasciati a se stessi. Con sorpresa generale, l’argomentazione fu accettata, anche se la prosa tortuosa della sentenza suggerisce che i giudici non erano davvero convinti, ma volevano trovare un modo per inviare un messaggio politico su quella che fu di gran lunga la peggiore singola atrocità della guerra. L’effetto di tutte queste sentenze è stato quello di distruggere qualsiasi significato che il concetto di Genocidio potesse avere in passato.

Ho iniziato suggerendo una tensione tra il desiderio atavico di punizione e vendetta e la preoccupazione di erigere almeno un minimo ombrello legale per farci sentire meno come i personaggi di Amleto. Ma l’effetto di questa tensione è stato quello di degradare il discorso politico ovunque. È ormai comune vedere persone che non ci piacciono definite “criminali di guerra”: un termine privo di significato che può essere interpretato solo come “persone che non mi piacciono e che vorrei vedere davanti a un tribunale e condannate per un’accusa o un’altra, così da sentirmi meglio”. In un modo o nell’altro. Domande come “perché Henry Kissinger non è sotto processo all’Aia?”, molto poste di recente, non sono da prendere alla lettera, poiché cinque minuti di ricerca su Internet sulla giurisdizione forniranno una risposta. La vera domanda è “perché il mondo non si organizza per soddisfare i miei desideri di punizione e vendetta?”. Abbiamo una scelta e possiamo vivere nel mondo di Amleto e Al Capone, oppure in un mondo basato sulla legge in cui dobbiamo accettare che non possiamo sempre avere ciò che vogliamo. Ma in pratica, tutti noi vorremmo vivere in entrambi i mondi a seconda delle circostanze, anche se ci vergogneremmo ad ammetterlo.

Questi saggi sono gratuiti e intendo mantenerli tali, anche se più avanti nel corso dell’anno introdurrò un sistema per cui le persone potranno effettuare piccoli pagamenti, se lo desiderano. Ma ci sono anche altri modi per dimostrare il proprio apprezzamento. I “Mi piace” sono lusinghieri, ma mi aiutano anche a valutare quali argomenti interessano di più alle persone. Le condivisioni sono molto utili per portare nuovi lettori, ed è particolarmente utile se segnalate i post che ritenete meritevoli su altri siti che visitate o a cui contribuite, perché anche questo può portare nuovi lettori. E grazie per tutti i commenti molto interessanti: continuate a seguirli!

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Discorso del segretario Blinken: “Il fallimento strategico della Russia e il futuro sicuro dell’Ucraina”

Un compendio delle argomentazioni della componente più oltranzista e purtroppo dominante della amministrazione statunitense riguardanti. Assatanati! Un compendio che meriterebbe di essere chiosato, stigmatizzato e confutato punto per punto. Servirebbe a riordinare le idee. Blinken rappresenta una classe dirigente che vive in una sfera di cristallo, sino a diventare vittima delle proprie narrazioni; per questo condannata alle estreme conseguenze dei loro atti. Ma è una narrazione che guarda terribilmente lontano. Osservate cosa intende riservare al futuro dell’Ucraina e confrontatelo con il saggio dell’ex ministro ucraino pubblicato su Foreign Affairs e tradotto sul nostro sito tre giorni fa. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Discorso del segretario Blinken: “Il fallimento strategico della Russia e il futuro sicuro dell’Ucraina”.

DISCORSO

ANTONY J. BLINKEN, SEGRETARIO DI STATO

MUNICIPIO DI HELSINKI

HELSINKI, FINLANDIA

2 GIUGNO 2023

SINDACO VARTIAINEN:   Eccellenze, signore e signori, cari amici, è con grande piacere che vi do un caloroso benvenuto nella bellissima capitale della Finlandia, Helsinki, e nel municipio di Helsinki. Helsinki ha un grande onore di ospitare oggi questo evento speciale. Siamo onorati e molto grati di avere qui a Helsinki il Segretario di Stato americano Antony J. Blinken.

Helsinki è una città in cui converge l’armoniosa miscela di storia, innovazione, libertà e diplomazia. La nostra capitale è ed è stata un’arena per numerosi incontri ed eventi politici di alto livello, e siamo orgogliosi di fornire la piattaforma per questo momento storico, ora per la prima volta come l’orgogliosa capitale di un nuovo alleato della NATO.

Ora è con grande piacere che vi presento il co-organizzatore dell’evento, il dottor Mika Aaltola, direttore dell’Istituto finlandese per gli affari internazionali. Grazie. (Applausi.)

MR AALTOLA:   Eccellenze, signore e signori, questa è una giornata veramente storica. È la prima volta che un Segretario di Stato degli Stati Uniti si trova sul solido terreno granitico della NATO Finlandia. La visita del segretario Blinken rappresenta una nuova era nelle relazioni finlandesi-statunitensi che hanno legami storici di lunga data. Mai prima d’ora le relazioni tra i nostri due paesi sono state così strette.

Oltre ad essere ora alleati della NATO, la Finlandia e gli Stati Uniti stanno lavorando insieme per rafforzare la nostra cooperazione bilaterale in materia di difesa. Inoltre, la cooperazione economica è aumentata in modo significativo poiché lo scorso anno gli Stati Uniti sono diventati il ​​partner commerciale numero uno della Finlandia.

Anche se fisicamente separati da un oceano, i nostri paesi sono legati da legami che superano le distanze. Affrontiamo sfide di sicurezza comuni, ma, cosa ancora più importante, condividiamo la fede nella democrazia, nei nostri valori comuni e interessi condivisi.

Questi valori sono messi in discussione dalla brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Con il livello di sostegno economico e militare offerto all’Ucraina, gli Stati Uniti rimangono la forza indispensabile in Europa. Gli Stati Uniti erano già svegli quando la maggior parte dell’Europa dormiva ancora, relativamente indisturbata dai giochi politici di potere della Russia. La leadership statunitense è quanto mai necessaria. 

Questa leadership aiuta a tenere le porte aperte e i nemici a bada, ma non ci sarebbe leadership senza una partnership. Questa partnership è qualcosa che la Finlandia ha offerto agli Stati Uniti. La Finlandia è un valido alleato e un fornitore di sicurezza. Ci assumiamo le nostre responsabilità nella nostra regione e oltre, e ci impegniamo a sostenere l’Ucraina e a difendere noi stessi e   i valori che rappresentiamo. Questo impegno è condiviso dalla leadership finlandese ma, cosa ancora più importante, dal popolo finlandese.

La Finlandia si è classificata come il paese meno corrotto, più egualitario, uno dei paesi più istruiti e più democratici del mondo. È anche il paese più stabile del mondo. In questi tempi instabili, questa stabilità ha un valore proprio. Sorprendentemente per molti finlandesi, la Finlandia è anche il paese più felice del mondo. Mettiamo in discussione questo risultato ogni anno, ma ci viene segnalato che è così. È un dato di fatto, quindi quanto devono essere infelici gli altri se noi siamo i più felici. (Risata.)

Ma ora sono davvero felice di poter dare il benvenuto sul palco al Segretario di Stato degli Stati Uniti, il signor Antony Blinken. (Applausi.)

SEGRETARIO BLINKEN:   Grazie. Grazie mille. E sì, oggi provo un senso di felicità maggiore di quanto non provassi da molto tempo. (Risata.)

Sindaco Vartiainen, grazie per averci ospitato qui a Helsinki e in questo municipio assolutamente magnifico.

E Mika, i miei ringraziamenti a te, e anche a tutta la tua squadra – tutti i ricercatori dell’Istituto finlandese per gli affari internazionali, per aver approfondito la borsa di studio sulla diplomazia e anche per aver arricchito il dibattito pubblico.

Sono anche lieto che il mio amico e partner, Pekka Haavisto, sia qui con noi oggi. Abbiamo lavorato a stretto contatto insieme in questo ultimo anno davvero storico e sono grato per la vostra presenza.

A tutti gli illustri ospiti, due mesi fa, sono stato con i nostri alleati a Bruxelles mentre la bandiera della Finlandia è stata issata per la prima volta sul quartier generale della NATO. Il presidente Niinistö ha dichiarato, e cito: “L’era del non allineamento militare in Finlandia è giunta al termine. Inizia una nuova era”.

È stato un cambiamento epocale che sarebbe stato impensabile poco più di un anno prima. Prima dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, un finlandese su quattro sosteneva l’adesione del paese alla NATO. Dopo l’invasione su vasta scala, tre finlandesi su quattro hanno sostenuto l’adesione.

Non è stato difficile per i finlandesi immaginarsi nei panni degli ucraini. Ci erano entrati nel novembre del 1939, quando l’Unione Sovietica aveva invaso la Finlandia.

Come la cosiddetta “operazione speciale” del presidente Putin contro l’Ucraina, la cosiddetta “operazione di liberazione” dell’URSS ha falsamente accusato la Finlandia di aver provocato l’invasione.

Come i russi con Kiev, i sovietici erano fiduciosi di saccheggiare Helsinki in poche settimane, così fiduciosi che Dmitri Shostakovich compose la musica per la parata della vittoria, prima ancora che iniziasse la Guerra d’Inverno.

Come Putin in Ucraina, quando Stalin non è riuscito a superare la feroce e determinata resistenza dei finlandesi, è passato a una strategia del terrore, incenerendo interi villaggi e bombardando dal cielo così tanti ospedali che i finlandesi hanno iniziato a coprire le insegne della Croce Rossa sui tetti.

Come i milioni di rifugiati ucraini di oggi, centinaia di migliaia di finlandesi furono cacciati dalle loro case dall’invasione sovietica. Tra loro c’erano due bambini, Pirkko e Henri, le cui famiglie hanno evacuato le loro case in Carelia: la madre e il padre del nostro ospite, il sindaco della città.

Per molti finlandesi, i parallelismi tra il 1939 e il 2022 sono stati sorprendenti. Erano viscerali. E non avevano torto.

I finlandesi hanno capito che se la Russia avesse violato i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite – sovranità, integrità territoriale, indipendenza – se lo avesse fatto in Ucraina, avrebbe messo in pericolo anche la loro stessa pace e sicurezza.

Lo abbiamo capito anche noi. Ecco perché, nel corso del 2021, mentre la Russia aumentava le sue minacce contro Kiev e accumulava sempre più truppe, carri armati e aerei ai confini dell’Ucraina, abbiamo fatto ogni sforzo per convincere Mosca a ridurre la sua crisi fabbricata e risolvere i suoi problemi attraverso la diplomazia.

Il presidente Biden ha detto al presidente Putin che eravamo pronti a discutere le nostre reciproche preoccupazioni di sicurezza – un messaggio che ho ribadito più volte – anche di persona, con il ministro degli Esteri Lavrov. Abbiamo offerto proposte scritte per ridurre le tensioni. Insieme ai nostri alleati e partner, abbiamo utilizzato ogni forum per cercare di prevenire la guerra, dal Consiglio NATO-Russia all’OSCE, dall’ONU ai nostri canali diretti.

Attraverso questi impegni, abbiamo tracciato due possibili percorsi per Mosca: un percorso di diplomazia, che potrebbe portare a una maggiore sicurezza per l’Ucraina, per la Russia, per tutta l’Europa; o un percorso di aggressione, che comporterebbe gravi conseguenze per il governo russo.

Il presidente Biden ha chiarito che indipendentemente dal percorso scelto dal presidente Putin, saremmo stati pronti. E se la Russia scegliesse la guerra, faremmo tre cose: sostenere l’Ucraina, imporre costi elevati alla Russia e rafforzare la NATO, radunando i nostri alleati e partner intorno a questi obiettivi.

Mentre le nuvole temporalesche si addensavano, abbiamo aumentato l’assistenza militare, economica e umanitaria all’Ucraina. Prima nell’agosto 2021, e di nuovo a dicembre, abbiamo inviato attrezzature militari per rafforzare le difese dell’Ucraina, inclusi Javelins e Stingers. E abbiamo schierato un team del Cyber ​​Command degli Stati Uniti per aiutare l’Ucraina a rafforzare la sua rete elettrica e altre infrastrutture critiche contro gli attacchi informatici.

Abbiamo preparato una serie senza precedenti di sanzioni, controlli sulle esportazioni e altri costi economici per imporre gravi e immediate conseguenze alla Russia in caso di invasione su vasta scala.

Abbiamo adottato misure per non lasciare dubbi sul fatto che noi e i nostri alleati avremmo mantenuto il nostro impegno a difendere ogni centimetro del territorio della NATO.

E abbiamo lavorato incessantemente per radunare alleati e partner per aiutare l’Ucraina a difendersi e negare a Putin i suoi obiettivi strategici.

Sin dal primo giorno della sua amministrazione, il presidente Biden si è concentrato sulla ricostruzione e sul rilancio delle alleanze e dei partenariati americani, sapendo che siamo più forti quando lavoriamo a fianco di coloro che condividono i nostri interessi e i nostri valori.

Nel periodo precedente all’invasione della Russia, abbiamo dimostrato il potere di questi partenariati, coordinando la nostra pianificazione e strategia per una potenziale invasione con la NATO, con l’UE, con il G7 e altri alleati e partner di tutto il mondo.

Durante quelle fatidiche settimane di gennaio e febbraio del 2022, è diventato chiaro che nessuno sforzo diplomatico avrebbe fatto cambiare idea al presidente Putin. Avrebbe scelto la guerra.

E così, il 17 febbraio 2022, sono andato davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per avvertire il mondo che l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia era imminente.

Ho esposto i passi che la Russia avrebbe intrapreso: prima fabbricando un pretesto, e poi usando missili, carri armati, truppe, attacchi informatici per colpire obiettivi pre- identificati, tra cui Kiev, con l’obiettivo di rovesciare il governo democraticamente eletto dell’Ucraina e cancellare l’Ucraina dal mappa come un paese indipendente.

Speravamo – speravamo – di essere smentiti.

Sfortunatamente, avevamo ragione. Una settimana dopo il mio avvertimento al Consiglio di sicurezza, il presidente Putin ha invaso. Gli ucraini di ogni estrazione sociale – soldati e cittadini, uomini e donne, giovani e meno giovani – hanno difeso coraggiosamente la loro nazione.

E gli Stati Uniti si sono mossi rapidamente, con decisione e all’unisono con alleati e partner per fare esattamente quello che avevamo detto che avremmo fatto: sostenere l’Ucraina, imporre costi alla Russia, rafforzare la NATO – tutto questo con i nostri alleati e partner.

E con il nostro sostegno collettivo, l’Ucraina ha fatto quello che aveva promesso: ha difeso il suo territorio, la sua indipendenza, la sua democrazia.

Oggi, quello che voglio fare è illustrare questo e molti altri modi in cui la guerra di aggressione di Putin contro l’Ucraina è stata un fallimento strategico, riducendo notevolmente il potere della Russia, i suoi interessi e la sua influenza negli anni a venire. E condividerò anche la nostra visione del cammino verso una pace giusta e duratura.

Quando si guardano gli scopi e gli obiettivi strategici a lungo termine del presidente Putin, non c’è dubbio: la Russia oggi sta molto peggio di quanto non fosse prima della sua invasione su vasta scala dell’Ucraina – militarmente, economicamente, geopoliticamente.

Dove Putin mirava a proiettare forza, ha rivelato debolezza. Dove ha cercato di dividere, è unito. Quello che ha cercato di impedire, è precipitato. Questo risultato non è casuale. È il risultato diretto del coraggio e della solidarietà del popolo ucraino e dell’azione deliberata, decisa e rapida che noi e i nostri partner abbiamo intrapreso per sostenere l’Ucraina.

In primo luogo, per anni il presidente Putin ha cercato di indebolire e dividere la NATO, con la falsa affermazione che rappresentava una minaccia per la Russia. Infatti, prima che la Russia invadesse la Crimea e l’Ucraina orientale nel 2014, l’atteggiamento della NATO rifletteva la convinzione condivisa che un conflitto in Europa fosse improbabile. Gli Stati Uniti avevano ridotto significativamente le proprie forze in Europa dalla fine della Guerra Fredda, da 315.000 nel 1989 a 61.000 alla fine del 2013. La spesa per la difesa di molti paesi europei era in calo da anni. La dottrina strategica della NATO all’epoca definiva la Russia un partner.

Dopo l’invasione russa della Crimea e del Donbas nel 2014, la marea ha cominciato a cambiare. Gli alleati si sono impegnati a spendere il due per cento del PIL per la difesa e hanno dispiegato nuove forze sul fianco orientale della NATO in risposta all’aggressione della Russia. L’Alleanza ha accelerato la sua trasformazione dopo l’invasione su vasta scala della Russia – non per rappresentare una minaccia o perché la NATO cerca il conflitto. La NATO è sempre stata – e sempre sarà – un’alleanza difensiva. Ma l’aggressione, le minacce e le armi nucleari della Russia ci hanno costretto a rafforzare la nostra deterrenza e difesa.

Ore dopo l’invasione su vasta scala, abbiamo attivato la Forza di risposta difensiva della NATO. Nelle settimane che sono seguite, diversi alleati – tra cui Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Spagna, Francia – hanno inviato rapidamente truppe, aerei e navi per rafforzare il fianco orientale della NATO. Abbiamo raddoppiato il numero di navi che pattugliano il Mare del Nord e il Mar Baltico e raddoppiato il numero di gruppi tattici nella regione. Gli Stati Uniti hanno stabilito la loro prima presenza militare permanente in Polonia. E, naturalmente, la NATO ha aggiunto la Finlandia come suo 31° alleato, e presto aggiungeremo la Svezia come 32°.

Mentre ci dirigiamo verso il vertice della NATO a Vilnius, il nostro messaggio condiviso sarà chiaro: gli alleati della NATO sono impegnati a rafforzare la deterrenza e la difesa, a una spesa per la difesa maggiore e più intelligente, a legami più profondi con i partner indo-pacifici. La porta della NATO rimane aperta a nuovi membri e rimarrà aperta.

L’invasione della Russia ha anche portato l’Unione Europea a fare di più – e di più insieme agli Stati Uniti e alla NATO – che mai. L’UE e i suoi Stati membri hanno fornito all’Ucraina oltre 75 miliardi di dollari di sostegno militare, economico e umanitario. Ciò include 18 miliardi di dollari in assistenza alla sicurezza, dai sistemi di difesa aerea ai carri armati Leopard alle munizioni. In stretto coordinamento con gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri partner, l’UE ha lanciato le sanzioni più ambiziose di sempre, immobilizzando oltre la metà dei beni sovrani della Russia. E le nazioni europee hanno accolto più di 8 milioni di rifugiati ucraini, la maggior parte dei quali non solo ha avuto accesso ai servizi pubblici, ma anche il diritto al lavoro, allo studio.

In secondo luogo, per decenni Mosca ha lavorato per accrescere la dipendenza dell’Europa dal petrolio e dal gas russi. Dopo l’invasione su vasta scala del presidente Putin, l’Europa ha compiuto un rapido e deciso allontanamento dall’energia russa. Berlino ha subito cancellato il Nord Stream 2, che avrebbe raddoppiato il flusso di gas russo verso la Germania.

Prima dell’invasione di Putin, i paesi europei importavano il 37% del loro gas naturale dalla Russia. L’Europa lo ha tagliato di oltre la metà in meno di un anno. Nel 2022, i paesi dell’UE hanno generato un quinto record della loro elettricità attraverso l’eolico e il solare, più elettricità di quella generata dall’UE attraverso carbone, gas o qualsiasi altra fonte di energia. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno più che raddoppiato la propria fornitura di gas all’Europa, e anche i nostri alleati asiatici – Giappone, Repubblica di Corea – si sono attivati per aumentare l’offerta europea.

Nel frattempo, il tetto massimo del prezzo del petrolio che noi e i nostri partner del G7 abbiamo messo in atto ha mantenuto l’energia della Russia nel mercato globale, riducendo drasticamente le entrate russe. A un anno dalla sua invasione, le entrate petrolifere della Russia erano diminuite del 43%. Le entrate fiscali del governo russo da petrolio e gas sono diminuite di quasi due terzi. E Mosca non riavrà i mercati che ha perso in Europa.

In terzo luogo, il presidente Putin ha trascorso due decenni cercando di trasformare l’esercito russo in una forza moderna, con armi all’avanguardia, un comando semplificato e soldati ben addestrati e ben equipaggiati. Il Cremlino ha spesso affermato di avere il secondo esercito più forte del mondo, e molti ci credevano. Oggi, molti vedono l’esercito russo come il secondo più forte in Ucraina. Il suo equipaggiamento, la tecnologia, la leadership, le truppe, la strategia, le tattiche e il morale, un caso studio di fallimento, anche se Mosca infligge danni devastanti, indiscriminati e gratuiti all’Ucraina e agli ucraini.

Si stima che la Russia abbia subito più di 100.000 vittime solo negli ultimi sei mesi, mentre Putin invia ondate dopo ondate di russi in un tritacarne di sua creazione.

Nel frattempo, le sanzioni e i controlli sulle esportazioni imposti dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e da altri partner in tutto il mondo hanno gravemente degradato la macchina da guerra russa e le esportazioni di difesa, ritardandole per gli anni a venire. I partner e i clienti della difesa globale della Russia non possono più contare sugli ordini promessi, figuriamoci sui pezzi di ricambio. E mentre assistono alle scarse prestazioni della Russia sul campo di battaglia, stanno portando sempre più i loro affari altrove.

In quarto luogo, il presidente Putin voleva costruire la Russia come potenza economica globale. La sua invasione ha cementato il suo fallimento di lunga data nel diversificare l’economia russa, nel rafforzare il suo capitale umano e nell’integrare completamente il paese nell’economia globale. Oggi, l’economia russa è l’ombra di ciò che era, e una frazione di ciò che sarebbe potuta diventare se Putin avesse investito in tecnologia e innovazione piuttosto che in armi e guerra.

Le riserve estere della Russia sono diminuite di oltre la metà, così come i profitti delle sue imprese statali. Più di 1.700 compagnie straniere hanno ridotto, sospeso o terminato le operazioni in Russia dall’inizio dell’invasione. Sono decine di migliaia di posti di lavoro persi, un’enorme fuga di competenze straniere e miliardi di dollari di mancati introiti per il Cremlino.

Un milione di persone sono fuggite dalla Russia, tra cui molti dei migliori specialisti informatici, imprenditori, ingegneri, medici, professori, giornalisti, scienziati del paese. Anche innumerevoli artisti, scrittori, cineasti, musicisti se ne sono andati, senza vedere un futuro per loro stessi in un paese dove non possono esprimersi liberamente.

In quinto luogo, il presidente Putin ha investito notevoli sforzi per dimostrare che la Russia potrebbe essere un prezioso partner per la Cina. Alla vigilia dell’invasione, Pechino e Mosca hanno dichiarato una partnership “senza limiti”. Diciotto mesi dopo l’invasione, quella partnership a doppio senso sembra sempre più unilaterale. L’aggressione di Putin e l’uso come arma delle dipendenze strategiche dalla Russia sono servite da campanello d’allarme per i governi di tutto il mondo affinché compiano sforzi per ridurre il rischio. E insieme, gli Stati Uniti e i nostri partner stanno adottando misure per ridurre tali vulnerabilità, dalla costruzione di catene di approvvigionamento critiche più resilienti al rafforzamento dei nostri strumenti condivisi per contrastare la coercizione economica.

Quindi, l’aggressione della Russia non ci ha distratto dall’affrontare le sfide nell’Indo-Pacifico. In realtà ha affinato la nostra attenzione su di loro. E il nostro sostegno all’Ucraina non ha indebolito le nostre capacità di far fronte a potenziali minacce provenienti dalla Cina o da qualsiasi altro luogo, ma le ha rafforzate. E crediamo che Pechino stia prendendo atto del fatto che, lungi dall’essere intimidita da una violenta violazione della Carta delle Nazioni Unite, il mondo si è mobilitato per difenderla.

In sesto luogo, prima della guerra, il presidente Putin usava regolarmente l’influenza della Russia nelle organizzazioni internazionali per tentare di indebolire la Carta delle Nazioni Unite. Oggi la Russia è più isolata che mai sulla scena mondiale. Almeno 140 nazioni – due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite – hanno ripetutamente votato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per affermare la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, per respingere i tentativi di Putin di annettere illegalmente il territorio ucraino, per condannare l’aggressione e le atrocità della Russia e per chiamare per una pace coerente con i principi della Carta delle Nazioni Unite. I governi dell’ovest e dell’est, del nord e del sud hanno votato per sospendere la Russia da numerose istituzioni, dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite all’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale.

Ogni rimprovero e sconfitta per Mosca non è solo un voto contro l’aggressione della Russia, è un voto per i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite. E paesi di ogni parte del mondo stanno sostenendo gli sforzi per ritenere la Russia responsabile dei suoi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, dalla creazione di una commissione speciale delle Nazioni Unite per documentare i crimini e le violazioni dei diritti umani commessi nella guerra della Russia all’assistenza alle indagini dei pubblici ministeri in Ucraina e presso la Corte Penale Internazionale.

Settimo, il presidente Putin, per anni, ha cercato di dividere l’Occidente dal resto, sostenendo che la Russia stava promuovendo i migliori interessi del mondo in via di sviluppo.    Oggi, grazie alla dichiarazione aperta delle sue ambizioni imperiali e all’armamento di cibo e carburante, il presidente Putin ha diminuito l’influenza russa su tutti i continenti. Gli sforzi di Putin per ricostituire un impero secolare hanno ricordato a ogni nazione che aveva sopportato il dominio coloniale e la repressione il proprio dolore. Quindi, ha esacerbato le difficoltà economiche che molte nazioni stavano già attraversando a causa del COVID e del cambiamento climatico, tagliando il grano ucraino dai mercati mondiali, facendo aumentare il costo del cibo e del carburante ovunque.

Al contrario, in una sfida globale dopo l’altra, gli Stati Uniti e i nostri partner hanno dimostrato che la nostra attenzione all’Ucraina non ci distrarrà dal lavorare per migliorare la vita delle persone in tutto il mondo e affrontare i costi a cascata dell’aggressione russa.

Il nostro aiuto alimentare di emergenza senza precedenti ha impedito a milioni di persone di morire di fame. Solo lo scorso anno, gli Stati Uniti hanno fornito 13,5 miliardi di dollari in assistenza alimentare. E gli Stati Uniti stanno attualmente finanziando più della metà del budget del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. La Russia finanzia meno dell’uno per cento.

Abbiamo sostenuto un accordo negoziato dal Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres e dalla Turchia per spezzare la stretta mortale della Russia sul grano ucraino, consentendo a 29 milioni di tonnellate di cibo di uscire dall’Ucraina e raggiungere persone in tutto il mondo. Ciò include 8 milioni di tonnellate di grano, che è l’equivalente di circa 16 miliardi di pagnotte.

Insieme ad alleati e partner, stiamo mobilitando centinaia di miliardi di dollari in finanziamenti per infrastrutture di alta qualità nei paesi in cui sono maggiormente necessarie e costruendole in modo trasparente e favorevole all’ambiente; responsabilizza i lavoratori e le comunità locali.

Stiamo rafforzando la sicurezza sanitaria globale, dalla formazione di mezzo milione di operatori sanitari nel nostro emisfero, nelle Americhe, all’aiutare l’azienda farmaceutica Moderna a finalizzare i piani con il Kenya per costruire il suo primo impianto di produzione di vaccini a mRNA in Africa.

Di volta in volta, stiamo dimostrando chi alimenta i problemi globali e chi li risolve.

Infine, l’obiettivo principale del presidente Putin – anzi, la sua ossessione – è stato quello di cancellare l’idea stessa di Ucraina – la sua identità, la sua gente, la sua cultura, la sua agenzia, il suo territorio. Ma anche qui le azioni di Putin hanno provocato l’effetto opposto. Nessuno ha fatto di più per rafforzare l’identità nazionale dell’Ucraina dell’uomo che ha cercato di cancellarla. Nessuno ha fatto di più per approfondire l’unità e la solidarietà degli ucraini. Nessuno ha fatto di più per intensificare la determinazione degli ucraini a scrivere il proprio futuro alle proprie condizioni.

L’Ucraina non sarà mai la Russia. L’Ucraina è sovrana, indipendente, saldamente in controllo del proprio destino. In questo – l’obiettivo primario di Putin – ha fallito in modo clamoroso.

Il presidente Putin afferma costantemente che gli Stati Uniti, l’Europa e i paesi che sostengono l’Ucraina sono decisi a sconfiggere o distruggere la Russia, a rovesciare il suo governo, a trattenere il suo popolo. Questo è falso. Non cerchiamo il rovesciamento del governo russo e non l’abbiamo mai fatto. Il futuro della Russia spetta ai russi deciderlo.

Non abbiamo nulla contro il popolo russo, che non ha avuto voce in capitolo nell’iniziare questa tragica guerra. Ci lamentiamo del fatto che Putin stia mandando a morte decine di migliaia di russi in una guerra che potrebbe finire ora, se lo desiderasse, e che sta infliggendo un impatto rovinoso sull’economia russa e sulle sue prospettive. In effetti, ci si deve chiedere: in che modo la guerra di Putin ha migliorato la vita, i mezzi di sussistenza o le prospettive dei comuni cittadini russi?

Tutto ciò che noi e i nostri alleati e partner facciamo in risposta all’invasione di Putin ha lo stesso scopo: aiutare l’Ucraina a difendere la sua sovranità, la sua integrità territoriale e indipendenza e difendere le regole e i principi internazionali che sono minacciati dalla guerra in corso di Putin.

Lasciatemelo dire direttamente al popolo russo: gli Stati Uniti non sono vostri nemici. Alla fine pacifica della Guerra Fredda, abbiamo condiviso la speranza che la Russia emergesse verso un futuro più luminoso, libera e aperta, pienamente integrata con il mondo. Per più di 30 anni, abbiamo lavorato per perseguire relazioni stabili e di cooperazione con Mosca, perché credevamo che una Russia pacifica, sicura e prospera fosse nell’interesse dell’America – anzi, nell’interesse del mondo. Lo crediamo ancora oggi.

Non possiamo scegliere il tuo futuro per te e non cercheremo di farlo. Ma non permetteremo nemmeno al presidente Putin di imporre la sua volontà ad altre nazioni. Mosca deve trattare l’indipendenza, la sovranità, l’integrità territoriale dei suoi vicini con lo stesso rispetto che esige per la Russia.

Ora, come ho chiarito, praticamente sotto ogni punto di vista, l’invasione dell’Ucraina da parte del presidente Putin è stata un fallimento strategico. Eppure, mentre Putin non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi, non ha rinunciato a questi. È convinto di poter semplicemente sopravvivere all’Ucraina e ai suoi sostenitori, mandando a morte sempre più russi, infliggendo sempre più sofferenze ai civili ucraini. Pensa che anche se perde il gioco a breve, può comunque vincere il gioco lungo. Putin ha torto anche su questo.

Gli Stati Uniti – insieme ai nostri alleati e partner – sono fermamente impegnati a sostenere la difesa dell’Ucraina oggi, domani, per tutto il tempo necessario. E in America, questo sostegno è bipartisan. E proprio perché non ci facciamo illusioni sulle aspirazioni di Putin, crediamo che il prerequisito per una diplomazia significativa e una pace reale sia un’Ucraina più forte, capace di scoraggiare e difendersi da ogni futura aggressione.

Abbiamo radunato una squadra formidabile attorno a questo sforzo. Con la guida del Segretario alla Difesa Austin, più di 50 paesi stanno collaborando attraverso il Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina. E stiamo guidando con la forza del nostro esempio, fornendo decine di miliardi di dollari in assistenza per la sicurezza all’Ucraina con un sostegno forte e incrollabile da entrambi i lati delle ali nel nostro Congresso.

Oggi, l’America e i nostri alleati e partner stanno aiutando a soddisfare le esigenze dell’Ucraina sull’attuale campo di battaglia, sviluppando al tempo stesso una forza che può scoraggiare e difendersi dall’aggressione per gli anni a venire. Ciò significa aiutare a costruire un esercito ucraino del futuro, con finanziamenti a lungo termine, una forte forza aerea incentrata su moderni aerei da combattimento, una rete integrata di difesa aerea e missilistica, carri armati avanzati e veicoli corazzati, capacità nazionale di produrre munizioni e l’addestramento e supporto per mantenere le forze e le attrezzature pronte al combattimento.

Ciò significa anche che l’adesione dell’Ucraina alla NATO sarà una questione che spetta agli alleati e all’Ucraina – non alla Russia – decidere. Il percorso verso la pace sarà forgiato non solo attraverso la forza militare a lungo termine dell’Ucraina, ma anche la forza della sua economia e della sua democrazia. Questo è al centro della nostra visione per il futuro: l’Ucraina non deve solo sopravvivere, deve prosperare. Per essere abbastanza forte da scoraggiare e difendersi dagli aggressori oltre i suoi confini, l’Ucraina ha bisogno di una democrazia vibrante e prospera all’interno dei suoi confini.

È la strada per la quale ha votato il popolo ucraino quando ha conquistato l’indipendenza nel 1991. È la scelta che ha difeso al Maidan nel 2004, e ancora nel 2013: una società libera e aperta, rispettosa dei diritti umani e dello stato di diritto, pienamente integrato con l’Europa, dove tutti gli ucraini hanno dignità e l’opportunità di realizzare il loro pieno potenziale – e dove il governo risponde ai bisogni della sua gente, non a quelli degli interessi acquisiti e delle élite.

Ci impegniamo a lavorare con alleati e partner per aiutare gli ucraini a trasformare la loro visione in realtà. Non solo aiuteremo l’Ucraina a ricostruire la sua economia, ma a reinventarla, con nuove industrie, rotte commerciali, catene di approvvigionamento connesse con l’Europa e con i mercati di tutto il mondo. Continueremo a sostenere gli organismi anticorruzione indipendenti dell’Ucraina, una stampa libera e vibrante, le organizzazioni della società civile. Aiuteremo l’Ucraina a rinnovare la sua rete energetica – più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia – e lo faremo in un modo più pulito, più resiliente e più integrato con i suoi vicini, in modo che l’Ucraina possa un giorno diventare un esportatore di energia .

La maggiore integrazione dell’Ucraina con l’Europa è vitale per tutti questi sforzi. Kiev ha compiuto un passo da gigante in questa direzione lo scorso giugno, quando l’Unione ha formalmente concesso all’Ucraina lo status di candidato all’UE. E Kiev sta lavorando per compiere progressi verso i parametri di riferimento dell’UE anche se lotta per la sua sopravvivenza.

Investire nella forza dell’Ucraina non va a scapito della diplomazia. Apre la strada alla diplomazia. Il presidente Zelenskyy ha ripetutamente affermato che la diplomazia è l’unico modo per porre fine a questa guerra, e noi siamo d’accordo. A dicembre ha presentato una visione per una pace giusta e duratura. Invece di impegnarsi in quella proposta o addirittura di offrirne una sua, il presidente Putin ha detto che non c’è nulla di cui parlare fino a quando l’Ucraina non accetterà, e cito, le “nuove realtà territoriali” – in altre parole, accetterà il sequestro da parte della Russia del 20% del patrimonio territoriale ucraino. Putin ha trascorso l’inverno cercando di assiderare i civili ucraini, e poi la primavera cercando di bombardarli a morte. Giorno dopo giorno, la Russia fa piovere missili e droni su condomini, scuole, ospedali ucraini.

Ora, da lontano, è facile diventare insensibili a queste e ad altre atrocità russe, come l’attacco dei droni la scorsa settimana contro una clinica medica a Dnipro, che ha ucciso quattro persone, compresi i medici; o i 17 attacchi a Kiev nel solo mese di maggio, molti dei quali con missili ipersonici; o l’attacco missilistico di aprile alla città di Uman – a centinaia di chilometri dalla linea del fronte – in cui sono rimasti uccisi 23 civili. L’attacco missilistico ha colpito diversi condomini a Uman prima dell’alba. In uno di quegli edifici, un padre, Dmytro, corse nella stanza dove dormivano i suoi figli: Kyrylo, 17 anni; Sophia, 11 anni. Ma quando ha aperto la porta della loro camera da letto, non c’era spazio, solo fuoco e fumo. I suoi figli se n’erano andati. Altre due vite innocenti estinte. Due dei sei bambini uccisi dalla Russia in un solo colpo. Due delle migliaia di bambini ucraini uccisi dalla guerra di aggressione russa. Altre migliaia sono state ferite e altre migliaia sono state rapite dalle loro famiglie dalla Russia e date a famiglie russe. Milioni di persone sono state sfollate. Tutti fanno parte di una generazione di bambini ucraini terrorizzati, traumatizzati, segnati dalla guerra di aggressione di Putin; ci ricordano perché gli ucraini sono così ferocemente impegnati a difendere la loro nazione e perché meritano – meritano – una pace giusta e duratura.

Ora, alcuni hanno sostenuto che se gli Stati Uniti volessero davvero la pace, smetterebbero di sostenere l’Ucraina, e quindi se l’Ucraina volesse davvero porre fine alla guerra, taglierebbe semplicemente le sue perdite rinunciando al quinto del suo territorio che la Russia occupa illegalmente. . Giochiamo per un minuto. Quali vicini della Russia si sentirebbero sicuri della propria sovranità e integrità territoriale se l’aggressione di Putin dovesse essere ricompensata con un quinto del territorio dell’Ucraina?

E del resto, come si sentirebbe al sicuro all’interno dei propri confini un paese che vive vicino a un bullo, con una storia di minacce e aggressioni? Quale lezione impareranno altri aspiranti aggressori in tutto il mondo se a Putin sarà permesso di violare impunemente un principio fondamentale della Carta delle Nazioni Unite? E quante volte nella storia gli aggressori che si impadroniscono di tutto o parte di un paese vicino si sono accontentati e si sono fermati lì? Quando mai questo ha soddisfatto Vladimir Putin?

Gli Stati Uniti hanno lavorato con l’Ucraina – e con alleati e partner in tutto il mondo – per creare consenso sugli elementi fondamentali di una pace giusta e duratura. Per essere chiari, gli Stati Uniti accolgono con favore qualsiasi iniziativa che aiuti a portare il presidente Putin al tavolo per impegnarsi in una diplomazia significativa. Sosterremo gli sforzi – siano essi del Brasile, della Cina o di qualsiasi altra nazione – se aiutano a trovare una via per una pace giusta e duratura, coerente con i principi della Carta delle Nazioni Unite.

Ecco cosa significa.

Una pace giusta e duratura deve sostenere la Carta delle Nazioni Unite e affermare i principi di sovranità, integrità territoriale e indipendenza.

Una pace giusta e duratura richiede la piena partecipazione e il consenso dell’Ucraina – niente sull’Ucraina senza l’Ucraina.

Una pace giusta e duratura deve sostenere la ricostruzione e la ripresa dell’Ucraina, con la Russia che paga la sua parte.

Una pace giusta e duratura deve affrontare sia la responsabilità che la riconciliazione.

Una pace giusta e duratura può aprire la strada a rilievi sanzionatori connessi ad azioni concrete, in particolare il ritiro militare. Una pace giusta e duratura deve porre fine alla guerra di aggressione della Russia.

Ora, nelle prossime settimane e mesi, alcuni paesi chiederanno un cessate il fuoco. E in superficie, sembra sensato, persino attraente. Dopotutto, chi non vuole che le parti in guerra depongano le armi? Chi non vorrebbe che le uccisioni finissero?

Ma un cessate il fuoco che semplicemente congela le attuali linee in atto e consente a Putin di consolidare il controllo sul territorio che ha conquistato, e poi riposare, riarmarsi e riattaccare – questa non è una pace giusta e duratura. È una pace Potëmkin. Legittimerebbe l’accaparramento della terra da parte della Russia. Ricompenserebbe l’aggressore e punirebbe la vittima.

Se e quando la Russia sarà pronta a lavorare per una vera pace, gli Stati Uniti risponderanno di concerto con l’Ucraina e altri alleati e partner in tutto il mondo. E insieme all’Ucraina, agli alleati e ai partner, saremmo pronti ad avere una discussione più ampia sulla sicurezza europea che promuova la stabilità e la trasparenza e riduca la probabilità di futuri conflitti.

Nelle settimane e nei mesi a venire, gli Stati Uniti continueranno a lavorare con l’Ucraina, con i nostri alleati e partner e con tutte le parti impegnate a sostenere una pace giusta e duratura basata su questi principi.

Il 4 aprile 1949, 74 anni prima che la Finlandia entrasse a far parte della NATO, i membri originari dell’Alleanza si riunirono a Washington per firmare il suo trattato istitutivo. Il presidente Truman ha avvertito il gruppo, e cito: “Non possiamo avere successo se il nostro popolo è ossessionato dalla costante paura dell’aggressione e gravato dal costo di preparare le proprie nazioni individualmente contro l’attacco. [Speriamo] di creare uno scudo contro l’aggressione e la paura dell’aggressione – un baluardo che ci permetterà di andare avanti con il vero business di . . . raggiungere una vita più piena e più felice per tutti i nostri cittadini”.

Lo stesso è vero oggi. Nessuna nazione – né l’Ucraina, né gli Stati Uniti, né la Finlandia, né la Svezia, nessun altro paese può salvaguardare il proprio popolo se vive nella costante paura dell’aggressione. Ecco perché abbiamo tutti interesse a garantire che la guerra di aggressione del presidente Putin contro l’Ucraina continui a essere un fallimento strategico.

Nel suo discorso di Capodanno al popolo finlandese, il presidente Niinistö ha identificato uno dei difetti fondamentali del piano del presidente Putin per conquistare rapidamente l’Ucraina, un difetto che ha anche condannato il piano di Stalin per conquistare rapidamente la Finlandia. Come ha affermato il presidente Niinistö, e cito: “Come leader di un paese sotto un regime autoritario, Stalin e Putin non sono riusciti a riconoscere . . . che le persone che vivono in un paese libero hanno la propria volontà e le proprie convinzioni. E che una nazione che lavora insieme costituisce una forza immensa”.

I finlandesi hanno una parola per quella feroce combinazione di volontà e determinazione:  sisu . E oggi riconoscono  il sisu  nella lotta degli ucraini. E quando un popolo libero come gli ucraini ha alle spalle il sostegno di nazioni libere in tutto il mondo – nazioni che riconoscono il proprio destino e la propria libertà – i loro diritti e la loro sicurezza sono inestricabilmente legati insieme, la forza che possiedono non è semplicemente immensa. È inarrestabile.

Grazie mille. (Applausi.)

https://ru.usembassy.gov/secretary-blinken-russias-strategic-failure-and-ukraines-secure-future/

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