SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI, di Fabio Falchi

SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI

il link di riferimento http://italiaeilmondo.com/2019/02/18/per-un-sovranismo-europeista-di-franco-cardini-tratto-da-https-www-vision-gt-eu-wp-content-uploads-2019-02-ad_6_2019-pdf/
“Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci)  è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono – e si devono – rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell’Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all’Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l’Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri “transnazionali”, dall’altro però pensa che per riuscirvi l’Europa si dovrebbe sganciare dall’America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono “transnazionali” in quanto di necessità “agganciati” a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per “regolare” i rapporti internazionali. D’altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l’Iran o la questione dell’Ucraina o la guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo “solo” con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della “sovranità nazionale” quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o “ideologiche” ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.D’altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l’opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti  rappresentava la regola non l’eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una “Internazionale” dei popoli europei. In definitiva oggi essere “inter-nazionalisti” significa sia difendere il “senso di appartenenza” che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all’euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all’imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
*Vedi https://www.vision-gt.eu/platform-europe/per-un-sovranismo-europeista/?fbclid=IwAR3IuoODDScZH4zjsiWOZQ_P-Z5TEQBngxxQvY9hW4-rkPDEmVocx2lQD6g
** Tuttavia, si deve distinguere tra diverse forme di nazionalismo. Un conto è lo sciovinismo, che genera intolleranza e xenofobia, un altro il patriottismo, ovverosia la difesa del “senso di appartenenza” ad una terra, ad una cultura, ad un popolo. In quest’ultimo caso non si può certo parlare di nazionalismo ottuso, basti pensare alle lotte di liberazione nazionale.

GIUDICI E GOVERNO, di Teodoro Klitsche de la Grange

GIUDICI E GOVERNO

A valutare la vicenda della Diciotti secondo i parametri (prevalenti nei commenti sui media) dell’ “uno vale uno” e della legalità (egualitaria) si perde solo tempo in discussioni senza senso e senza base. Meglio ragionare in termini a un tempo più realistici e più ordinamentali, e tener conto del pensiero politico-giuridico qualitativamente prevalente.

La questione è se Salvini (ma ormai mezzo governo) debba essere giudicato per aver tenuto la Diciotti e i suoi migranti “a bagno maria” non permettendone lo sbarco. A seconda dell’angolo visuale da cui si guarda la vicenda il tutto può costituire un reato (approccio giuridico-causidico-forenzese) ovvero una misura per la tutela di un interesse azionale (visione politico-ordinamentale). E può essere – e tante volte nella storia lo è stato – entrambi: un reato cioè, ma, al tempo. una misura politicamente opportuna. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando (il quale da giurista e statista se ne intendeva)  che se avesse dovuto essere processato per tutti i passaporti falsi che aveva rilasciato da Ministro, avrebbe trascorso in galera tutta la vita. Solo che quei passaporti falsi “s’avevano da dare” per raccogliere le informazioni opportune per vincere la guerra. Ossia a rispettare la legge avrebbe compromesso l’interesse nazionale. E dato che salus rei publicae surtema lex, la via “retta” era (ed è) evidente.

Ciò non toglie che debba esserci un rimedio per conciliare le opposte conseguenze che derivavano dalla prospettiva (visuale) diversa.

Dato che lo Stato democratico-liberale è uno status mixtus che si regge sia sui principi di forma politica che su quelli dello stato borghese, il sistema per conciliare i punti di frizione è stato particolarmente sviluppato. E la giustizia penale sui politici è quella che ha raccolto più interesse anche “mediatico” da qualche secolo. Anzi già da prima Machiavelli scriveva che la giustizia “politica” è opportuna in una repubblica: ma di stare attenti alla composizione dell’organo giudicante “perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”. Dalla riflessione dei teorici dello Stato borghese (Constant per primo) si desume che la giustizia “politica” non può che essere derogatoria: non cioè uguale a quella ordinaria. Ne deriva che secondo Carl Schmitt “il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi…per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa  del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza (in cui)… deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenuta il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale”.

Se però tali deroghe e particolarità non sono poste in essere le conseguenze sono:

1) che l’organo competente a decidere diventa un’istanza politica o addirittura l’organo reale di direzione politica (così da ufficio giudiziario diventa autorità politica). Lo Stato non è più uno Stato democratico-rappresentativo, ma uno Justizstaat, ossia uno Stato giurisdizionale. E l’organo deputato alla giustizia politica è quello politicamente più influente come, un tempo il Consiglio dei dieci a Venezia.

2) che se i magistrati costituiscono una burocrazia reclutata per concorso – come avviene, per lo più, nelle democrazie moderne – il carattere democratico-rappresentativo dello Stato va perso. Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.

Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.

A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, “in una cella della prigione della Santé”?

E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità  con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente).

Teodoro Klitsche de la Grange

Per un sovranismo europeista, di Franco Cardini – tratto da https://www.vision-gt.eu/wp-content/uploads/2019/02/AD_6_2019.pdf

Il termine “sovranismo” sino a un paio di anni fa è servito più che altro ad esorcizzare tutti quei tentativi di recuperare nella battaglia politica e nell’analisi teorica il ruolo e la funzione degli stati nazionali. L’evidenza delle dinamiche geopolitiche fondate sull’azione fondamentale di questi, la crisi delle teorie globaliste più radicali  e il contestuale ritorno a pieno titolo nel dibattito di queste chiavi di interpretazione hanno concesso piena legittimità a questo termine anche negli ambienti più ostici e riottosi. E’ il ritorno sulla ribalta del “politico” a scapito dell’economicismo e dell’apoliticismo sino ad ora imperanti. Un segnale positivo e promettente, ma foriero anche di indeterminatezze e fraintendimenti; un rimescolamento utile comunque a puntualizzare e sviluppare gli argomenti. Qui sotto il saggio del professor Franco Cardini apparso sul nuovo sito di particolare interesse www.vision-gt.eu_Giuseppe Germinario

Per un sovranismo europeista

Franco Cardini

https://www.vision-gt.eu/wp-content/uploads/2019/02/AD_6_2019.pdf

PER UN SOVRANISMO EUROPEISTA

Dalla “storia” personale alla storia di una falsa partenza europeista.

 

Pare che il cuore non invecchi: peccato che invecchi il resto, obiettano i pessimisti. Eppure, sarà un po’ il complesso di Peter Pan che molti vecchietti si portano addosso, sarà la sensazione di un discorso rimasto sospeso, di qualcosa che più che essere fallita è stata tradita e abbandonata, ma quando penso all’Europa mi pare che, per quanto mi riguarda, il tempo si sia fermato. E mi ritrovo ancora al 1965, in quella stanzetta del centro vecchio di Firenze dove una decina di noi, pagandosi mese dietro mese per autotassazione l’affitto “di tasca nostra”, discuteva di Russia e di America, di Nasser e di Fidel Castro, di “terza forza” e di non-allineamento”. Venivamo compatti da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che si caratterizzava per una curiosa schizofrenia: al di là del diffuso e seminnocuo nostalgismo neofascista che  per alcuni era una caccia calda e per altri una riserva di voti, esso parlava alla base e per la base un linguaggio ispirato a un radicalismo sociale che sarebbe sembrato forse massimalista allo stesso Bordiga mentre ai vertici (ch’erano quelli ai quali si erano accomodati, se non su poltrone quanto meno su poltroncine e strapuntini, i nostri deputati, i dirigenti locali, gli intrufolati nei vari sottogoverni, i faccendieri politici eccetera) si restava fedeli a un atlantismo opaco, ostinato, che al momento buono nei corridoi del parlamento si traduceva in voti d’appoggio a quel potere costituito che pure,  ufficialmente, li faceva sputare addosso dai suoi media (ma allora non si chiamavano così) e manganellare dalla sua polizia. Quanto alla chiamiamola così “ideologia” di partito, ci si fermava a un nazionalismo miope e greve, roba da “Maestrine della Penna Rossa” di de Amicis che avrebbe indignato il vecchio Corradini da quanto era sorpassato: non si andava al di là di Trieste italiana e dell’anticomunismo, e quando noi giovanotti ci ostinavamo a rievocare la nostra più eroica stagione, i fatti d’Ungheria del ’56, gli altri rimanevano tiepidi. Le prospettive europeistiche alle quali allora aderivamo, lontani da quelle del Movimento Federalista e del “Manifesto di Ventotene”, erano semmai quelle di Pierre Drieu La Rochelle che Paul Serant aveva disegnato nella monografia Romanticismo fascista.

Usciti dal MSI nel 1965, aderimmo tutti a Jeune Europe, il movimento fondato dal belga Jean Thiriart – un vecchio sostenitore di Léon Degrelle –  che fu tra l’altro il primo a usare sistematicamente e intensivamente del simbolo della “croce celtica”, del quale in seguito i movimenti neofascisti si sono appropriati. Ma Jeune Europe, nonostante in tal modo sia stata qualificata  dai  mass  media,  non  era  affatto  un  movimento      neofascista:

propugnava il concetto di “Nazione Europea” sostenendo che, nonostante il plurilinguismo e il suo carattere – come avrebbe scritto Massimo Cacciari – di “arcipelago” – i popoli europei avevano il diritto storico di adire a un sentimento nazionale così come i nordamericani avevano rivendicato per se stessi il diritto a dirsi “nazione americana”. Jeune Europe sosteneva la necessità storica, per l’Europa, di unirsi cancellando la separazione in  “Mondo Libero” e “Mondo Socialista” che con la Cortina di Fero le era stata imposta da USA e URSS e di costituire un solo stato per un solo popolo, indipendente e neutrale (per quanto non equidistante) rispetto alle superpotenze USA e URSS. La parte migliore delle cose frettolosamente elaborate all’interno di Jeune Europe, che si sciolse spontaneamente nel 1969, è confluita poi nel Think Tank guidato da Alain de Benoist, il cui pensiero di “Nuovo Destra”, rielaborato poi in “Nuove Sintesi”, è oggi ripreso con grande libertà e sviluppato nelle riviste “Trasgressioni” e “Diorama Letterario”  dirette da un apprezzato universitario specialista di scienza della Politica, il professor Marco Tarchi dell’Università di Firenze.

Non ho finora detto nulla dell’Unione Europea, nata com’è noto dallo sviluppo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) poi trasformatasi in CEE (Comunità Economica Europea) e articolatasi nelle istituzioni della Commissione Europea, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo. Posso adesso dichiarare in tutta serenità e franchezza  che nell’UE avevamo riposto speranze e fiducia in quanto ingannati non già dai suoi atti ufficiali – che mai si sono discostati dalla natura economico- finanziaria di essa -, bensì da frequenti dichiarazioni dei suoi rappresentanti, che a lungo hanno fatto credere che esistesse, in prospettiva, la volontà di trasformarla in una realtà politica in qualche modo capace di esprimere una vita statuale, di tipo federativo (di modello tedesco o statunitense) o confederativo (di modello svizzero) che fosse. Insomma, quel che in qualche modo ci auguriamo e continuiamo ad augurarci erano (sono, e restano) gli “Stati Uniti d’Europa”. Bisogna dire che, specie dopo il deplorevole  fallimento del decollo di una Costituzione Europea che si è fermata al preambolo scivolando sulla buccia di banana dell’affermazione o meno di “radici cristiani” alla base dell’identità europea e della sua storia, la fiducia nella volontà e nella capacità dell’UE di trasformarsi in una realtà politica è venuta del tutto meno.

Siamo, in altri termini, all’Anno Zero dell’unità politica europea. L’Unione Europea, questa venerabile istituzione che vanta Padri Fondatori quali Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, non ha in fondo fallito ai suoi compiti, in quanto essi sono sempre stati di natura economica e finanziaria; ha conseguito traguardi d’integrazione importante quali l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione di una moneta comune e vari provvedimenti di finanziamento importante di organi ed iniziative quali i programmi universitari Erasmus. Il punto è che i popoli europei hanno sperato per  lunghi anni che tutto ciò conducesse anche, in tempi ragionevolmente rapidi, a un’unità politica: Pe essa, com’è noto, sono necessari quattro elementi: la “bandiera”, vale a dire l’identità politica istituzionale”; la “toga”, vale a dire quella giuridica e giurisdizionale”, la “spada”, vale a dire il sistema comunitario di difesa”; la “moneta”, vale a dire una valuta unica. Solo il quarto di questi elementi esiste oggi: ed è garantito dalla Banca Centrale Europea, che non è soggetto di diritto pubblico. Si è parlato per lungo tempo, e si parla ancora, di un “esercito europeo”: ma per il momento ci si è limitati a obbligare qualunque stato intenda aderire all’UE ad aderire altresì alla NATO, organizzazione militare alla quale partecipano anche gli USA e che, nata per fronteggiare la potenza sovietica, non ha ancora trovato dopo la dissoluzione di essa il modo di ridefinire e di rilegittimare i suoi obiettivi, restando tuttavia egemonizzata da una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti. Nel corso della “guerra fredda”, e poi durante gli anni che hanno assistito al crescere della preoccupazione per un vero o supposto “problema islamico”, si è fatto strada un comune, crescente sentimento di semi-identificazione tra un’Europa del  cui carattere istituzionale di potenza politica non si parlava più e un concetto politico-culturale vago ed ambiguo, l’Occidente.

Giunti quindi all’Anno Zero dell’integrazione europea, riconosciuto cioè che l’unione socioeconomica e sociofinanziaria disegnata dall’UE non ha condotto ad alcuna integrazione politica, e che a questa dobbiamo mirare se non vogliamo cedere al riemergere di sentimenti e d’impulsi micronazionalistici quali si presentano nella forma dei cosiddetti sovranismi,  è necessario far chiarezza su che cosa sia l’Europa e che cosa l’Occidente.

Europa e Occidente

 E’   problematico   il    sostenere   l’esistenza   effettiva   di   un’identità «occidentale», il proporne l’alterità o la complementarità rispetto a una “orientale” e magari l’identificare sia pur più o meno imperfettamente il concetto di Europa con quello di Occidente e pretendere quindi che esso possa definirsi unicamente nel confronto-scontro con “l’Oriente”, come invece con disinvoltura si tende a fare specie nei paesi della cosiddetta Europa occidentale: espressione essa stessa d’altronde abbastanza vaga, resa chiara e perentoria (e fornita dunque di una sua ingannevole “realtà”, non corrispondente ad alcun oggetto concreto) solo in seguito e a causa degli anni della “guerra fredda” e dell’affrontamento tra paesi aderenti all’Alleanza Atlantica e paesi stretti attorno al Patto di Varsavia.

Poche nozioni sono infatti più infide e scivolose di quella di  “Occidente”, tanto più poi nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a metastoricizzarsi. In effetti, il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello di modernità: vero è che gli si sono trovate antiche radici – coincidenti appunto con quelle dell’Europa – facendolo erede della Grecia antica in lotta contro la Persia1 e di quella Cristianità latino-germanica (che in differente misura e in tempi diversi fu anche celtica, slava, baltica, perfino uraloaltaica con ungari e finni) la quale però poteva  dirsi “occidentale” – nozione questa che, al puro livello geografico, è, come qualunque altra del suo tipo, eminentemente relativa – in quanto istituzionalmente figlia della pars Occidentís dell’impero romano, ritagliata alla fine del IV secolo da Teodosio per il figlio Onorio. Si è riusciti pertanto ad enucleare un concetto in apparenza univoco di “Occidente” solo a patto di passar sopra alle grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee, quali quella avviata da Alessandro Magno e che da almeno il I secolo a.C. fu assunta a fulcro delle scelte politiche e culturali dell’impero romano: una sintesi che preparò e rese possibile nei tre-quattro secoli successivi il trionfo in tutta  l’area ellenistico-romana di una religione nata nel Vicino Oriente per quanto ormai ritrascritta largamente nei termini di una filosofia greca che aveva dal canto suo largamente attinto ai lidi dei misteri egizi, dell’astrologia caldea, della sapienza ebraica e persiana. Ma la vittoria del cristianesimo fu possibile, come ha sostenuto Arnold Toynbee in Il mondo e l’Occidente, in quanto “la minoranza dominante greco-romana che aveva devastato il mondo conquistandolo e saccheggiandolo e ora ne pattugliava le rovine come gendarmeria “autocostituita” era ormai afflitta da inedia spirituale. Il mondo ellenistico-romano aveva bisogno di un Sotèr: e fu l’Oriente a procurargliene uno.

D’altro canto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini, nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava il Novalis, di Cristianità – Chrístenheit oder Europa – non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico- ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai esso stesso, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva  profondamente ridefinito. La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” – dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia, aspiravano invece a un equilibrio nuovo, a  un mondo rinnovato nel quale Urbs ed Orbs coincidessero e nel quale il

messaggio di Alessandro Magno che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano si traducesse in una nuova sintesi. La linea che oppone Silla e Pompeo da una parte agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare dall’altra è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal cristianesimo) è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna la cancellazione della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposto e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane.2 D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò dal canto suo la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo. Augusto riprendeva, contro Antonio deciso sostenitore della linea di Cesare, quella ch’era stata propria di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati.

All’indomani della prima crociata Fulcherio di Chartres, osservava: “…Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali.. perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?”. E’ evidente che Fulcherio usava le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini  “Oriente”  e “Occidente”, “orientale” e “occidentale”    acquistavano,

nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano. Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come vediamo in alcuni cronisti delle crociate, cresce e si afferma il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si presenterà con virulenza all’atto della quarta crociata.

Ma verso la metà Duecento le conquiste eurasiatiche dei tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto però richiuso su se stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi da un lato, una casuale scoperta compiuta dall’altro grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto. La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima  terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni. Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata. Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele. Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza

– fino ad allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo.

Frattanto l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di Cristianità avversa all’Islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle conseguenze della quale forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano consapevoli. L’Europa era propriamente la sede – patria e domus – della Cristianità, identificabile con la christiana religio e pertanto si poteva stimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo, come Enea Silvio aveva già dichiarato nella Prefazione alla Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era già imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare già in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa. Un’identità nella  quale tuttavia l’Europa stava per così dire assorbendo la  Cristianità, preparando la crociata ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale.

 

Modernità e processo di globalizzazione

 

Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latinogermanica (ormai del resto lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il medioevo e quindi non più definibile in quanto “Cristianità latina”), il nostro continente si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i greci (la cultura dei quali è comunemente avvertita ormai, almeno dal Quattro-Cinquecento circa, come la radice profonda di quella europea moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva allora – l’ha definito bene Carl Schmitt – quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme tuttavia da una comune Weltanschauung economicopolitica, quella di un’“economiamondo” l’egemonia all’interno della quale è tuttavia contesa; mentre il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche nessuna delle quali rinunzia al suo ecumenismo ma ciascuna delle quali ha un suo ruolo di fronte allo stato o agli stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono, gli offre il movente nobile (non vogliamo  dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi.

Nell’accezione moderna la parola “Occidente” rinvia quindi a nuovi contenuti: essi nascono allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV XVI l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si sposta sulle rive dell’Oceano Atlantico mentre l’affermazione dello stato assoluto apre la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugura il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si prepara la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo. Senza dubbio l’Occidente elabora, col Locke, l’idea di tolleranza; e di li a poco scoprirà, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accetterà – unica forse tra le civiltà umane – di non pensare più a sé stesso come al centro del mondo. E’ non meno vero che, con la cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fino dal grande romanzo egizio prima, ellenistico poi – scopriranno di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco,  il persiano, l’indiano, il centrorasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico,3  il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…)4. Ma vero è altresì che, nel contempo, esso elaborerà con il colonialismo –

anche in ciò unico tra le civiltà umane- un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio.

V’è di più: dal momento che l’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale secondo alcuni l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa dal Jefferson al Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà;5 l’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha annunziato che fine e diritto dell’uomo è la ricerca della felicità su questa  terra.

Eppure non si è ancora esaurito, anzi subisce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre grecopersiane, quindi le contese tra romani e parti, poi quelle tra sasanidi e bizantini, e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia, quindi la “guerra fredda che secondo alcuni si potrebbe considerare la terza guerra mondiale, infine oggi quella che l’amministrazione Bush ha definito dopo  l’11 settembre 2001 la war against Terror e che qualcuno ha proposto di considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico” e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con la guerra tra greci e persiani.

E’ logico che, da questo punto di vista, le offensive orientali siano regolarmente intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa. E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso  e  della  civiltà  resta,  kiplinghianamente,  «il  fardello    dell’uomo

bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of lífe e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze. Ma quest’Occidente corrisponde ormai a un concetto che in apparenza è antico mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi della prima metà del Novecento, quello di “civiltà occidentale”.

Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione occidentale, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere  più umano,6 la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato forse, ma certo importante.

Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli stati assoluti – i quali avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita, la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e  isole vergini, Rousseau e Bernardin de SaintPierre). L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare.

Modernità e Occidente: l’endiadi “Modernità occidentale-Occidente moderno”

 

 

Per questo l’Occidente – come espressione politicoculturale -, ad onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; mentre, per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una identità imperfetta. In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che dopo il 1945 il bipolarismo del “sistema di Yalta”, proponendo una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a ovest e in un “mondo socialista” a est secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa e praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica; e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia oggi una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlanticocentrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi7 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico-materiale-esistenziale dell’Europa occidentale,8 oppure nuovo Occidente americo-australiano-giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Europa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo?

Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia sparsa in e imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto  dell’umanesimo

e dell’illuminismo,9 o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi,  in ultima analisi, alla sua forza (e alla Volontà di Potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava):10 a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo.

Sovranità e sovranismi

 Primato dell’individualismo assoluto, quindi di tutto quel che attiene alla Volontà di Potenza: economia, finanza, tecnologia; identificazione della democrazia parlamentare con un sistema che si è in grado e in diritto di “esportare”, e quindi identificazione dell’interesse dell’Occidente con quello del genere umano; civiltà dei diritti sempre più diffusi e approfonditi e della legittimazione della ricerca della felicità; espansione indefinita del ciclo produzione-consumo-profitto e parallela concentrazione della ricchezza; sviluppo indefinito dell’eguaglianza politico-culturale non accompagnata tuttavia da quella socioeconomica; tendenziale azzeramento delle differenze qualitativo-culturali e parallela esaltazione di quelle socioeconomiche. Questi i connotati della civiltà occidentale nell’attuale sviluppo del processo di globalizzazione: una “civiltà” che include tutte le élites del pianeta, qualunque sia la loro origine etnoculturale (e ne fa fede l’omogeneizzazione del sapere universitario e delle pratiche si selezione finalizzate alla riduzione della politica a “comitato d’affari” delle lobbies economiche e finanziarie).

Non è questo il profilo dinamico auspicato per la tradizione europea che rivendica le sue radici cristiane pur nella consapevolezza della laicità dei loro frutti e che, memore della lezione comunitarista già intrinseca ai patti di Westfalia del 1648 allorché si volle porre un limite alla destrutturazione etico- religiosa manifestatasi con le “guerre di religione” e con la “guerra dei Trent’Anni”, pose il principio della mutua inter christianos tolerantia a sigillo della ripresa di un processo di costruzione europea (diciamo processo: non progresso) che avrebbe dovuto essere armonico e, con la dinamica della secolarizzazione, finire con l’includere gli stessi non cristiani mantenendo tuttavia inalterato il principio secondo il quale non c’è legge immanente che non debba ancorarsi a un principio di superiore ordine metafisica.

Fu l’avvìo dell’età delle Rivoluzioni, e quindi le dinamiche connesse con l’avvìo dei nazionalismi e con il loro rapporto con le borghesie  capitalistiche,

 

a progressivamente distruggere il carattere comunitarista della cultura europea sostituendolo con l’individualismo massificato da una parte, con il turbocapitalismo tardomoderno e postmoderno dall’altra.

Oggi, dinanzi all’arrogante superpotenza delle lobbies multinazionali che hanno distrutto gli stati facendo della politica il loro “comitato d’affari”, il sovranismo limitato e settoriale di chi si arresta praticamente alla prospettiva di una nuova indipendenza monetaria serve soltanto a spazzar via quel poco di difese comunitarie che le società possono ancora opporre alle élites mondialistiche: le quali, se sono ormai in grado di signoreggiare le realtà istituzionali sovranazionali, tanto più lo sarebbero  immediatamente asservendo e fagocitando gli stati europei tornati “indipendenti” l’uno dall’altro, quindi esposti singolarmente al divide et impera delle banche e dei centri di potere privatizzati.

Questo il punto debole dei “sovranisti”: il non esserlo abbastanza. Il pretendersi tali sul paino economico e monetario, ma non su quello della politica, della diplomazia, della difesa. Il pretendere la liberazione dalla sudditanza all’euro ma non quello della sudditanza alla NATO che sta trascinando l’Europa nel suo avventurismo militare e nel gorgo vorticoso di quell’alleanza industriale-finanziaria militare ch’era già stata denunziata come un pericolo, per gli USA, da Dwight D. Eisenhower nel ’60, alla sine del suo secondo mandato presidenziale, e che oggi si è trasformata in pericolo sopranazionale, transnazionale e globale. Contro di esso è necessario  in Europa un sovranismo globale, che si eserciti soprattutto e anzitutto nell’àmbito dell’etica e della politica imponendo agli europei di riprendere in mano le redini del loro destino. Per questo sono forse necessari partiti che si strutturino su una base europea battendo le difficoltà localistiche  e linguistiche e mirando a una costituzione confederale – preferibile alla federale al fine di garantire maggiormente lo sviluppo delle preziose diversità culturali dell’Arcipelago Europa – appoggiata a un parlamento bicamerale in cui la Camera Bassa sia la voce proporzionale delle varie comunità etno- storico-culturali scomponendo e ricomponendo la geografia continentale sconvolta negli ultimi due secoli circa dalle pretese dei fautori dello “stato nazionale” mentre la Camera Alta sia garante della continuità rispetto al cammino storico-politico degli stati nazionali quali si sono andati configurando nel secolo XIX e che non può venire sconvolto e azzerato.

Per tutto ciò, è necessario che l’Europa miri a una sua effettiva unità politica riprendendo il cammino di libertà e d’indipendenza dai blocchi che ormai non sono più soltanto quelli politici. Per affrancarci dal potere dei “signori sconosciuti” (ma non troppo) che ci dominano con le loro lobbies è necessario affrancarci dalla sudditanza rispetto agli Stati Uniti d’America: e, dal momento che non è detto per nulla che Mister Trump ci liberi dalla sua presenza nella NATO, i legami della quale con il mondo statunitense restano stretti e molteplici, liberarci da una pastoia politico-militare divenuta a più livelli  insostenibile  per  i  costi  che  comporta  e  i  rischi  che  rappresenta è divenuto vitale. La nuova Europa non deve ereditare nemici già precostituita: dev’esse libera di trattare con tutti, anche con gli stati della Schangai Cooperation Organization (SCO) che vede unite Russia, Cina, India e altri partners e che, attraverso la One Road, One Belt, la “Nuova Via della Seta”, si appresta a strettamente collegare mondo estasiatico e mondo mediterraneo. E’ un’occasione che una nuova Europa politicamente unita nella libertà e nella diversità non può e non deve mancare.

1 Ma va ricordato che, per gli antichi elleni, la parola “Europa” rimandava a un mondo straniero rispetto al loro: cfr. J. Goody, L’Orient en Occident, paris 1999, pp. 9, 14. Luciano Canfora ricorda che nell’ Iliade non si riscontrano né l’opposizione Europa-Asia, né quella greci-barbari; esse nascono con le guerre persiane o dopo di esse, com’è attestato dalla Geografia di Ecateo di Mileto che è divisa in due libri, l’uno dedicato all’Europa (limitata più o meno alla Grecia, Peloponneso escluso, e alle colonie greche) e l’altro all’Asia. La polarizzazione tra greci e barbari compare con Erodoto, l’opposizione tra Europa e Asia con I Persiani di Eschilo, del 472 a.C.; nella Grecia delle città si radicò profondamente l’equivalenza Grecia=Europa=Libertà/Democrazia, Persia=Asia=Schiavitù . Il rapporto Grecia-Europa-Libertà è destinato   a una lunga storia (L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, pp.16-18).

2 Sulla pretestuosità della distinzione e sui suoi caratteri storicamente pregiudiziali e astratti, cfr. G. Corm, Oriente e Occidente. Il mito di una frattura, tr.it. Firenze 2002; sulla contrapposizione Oriente-Occidente come falsa e sulla sua necessaria demistificazione, cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003.

3 Cfr. V. Pinto, Sein una Raum, L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky, “L’Acropoli”, 2, marzo 2004, pp.203-24.

4 Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a

  1. Hentsch, L’Orient imaginaire, Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in
  2. Fleury, Dialoguer avec l’Orient, Paris 2003.

5 Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, Milano 2002.

6 Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile forse, tuttavia documentati e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it. , Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Paris 2003.

7 La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante comunque il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la  tradizione europei nei valori del nuovo mondo, tr.it., Milano 1996, e a L. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna trovando adepti anche in Italia, all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, “Percorsi”, 4, genn.2004, pp.13-54.

8 Cfr. AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XX:e siècle, dir. P. D. Barjot et C. Réveillard, Paris 2002.

9 Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma-Modernità (con un cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Paris 2002.

10 Sull’Oriente come Volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Torino 2002.

Franco  Cardini,  professore  emerito  di  Storia  medievale  nell’Istituto  Italiano  di


Scienze Umane/Scuola Normale Superiore.

ORDINAMENTO ED ORGANIZZAZIONE TRA PLURALISMO ED UNITÀ DELL’ISTITUZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange pubblicato nel 1990 dal periodico Behemoth http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01

Considerazioni sul pensiero di Hauriou, Schmitt e Romano

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero istitu­zionista di Hauriou, Romano, Schmitt. – 3. Linee di ela­borazione successiva. – 4. Il carattere fondamentale del­ l’organizzazione nel pensiero istituzionista. – 5. Conclu­sione.

 

  1. – All’influenza di Santi Romano dob­ biamo che, per i giuristi italiani non orientati verso il nor­mativismo, è quasi un luogo comune affermare che è l’ordi­namento a produrre il diritto, o meglio il diritto è tale, in quanto è ordinamento. E, per definire l’ordinamento, si è per lo più ricorsi al concetto di organizzazione (1), impie­ gato dal giurista siciliano per dare l’idea di che cosa, in primo luogo, fosse l’ordinamento giuridico. Da questa con­sapevolezza si è fatta derivare la necessità di studiare, per capire il fenomeno giuridico, le organizzazioni; e, del pari, che queste sono fonte non solo di rapporti giuridici, ma di norme, e, in genere, di diritto oggettivo.

Se però  andiamo  a vedere  cosa  s’intende per organizza­zione (lasciando momentaneamente  da parte l’ordinamen­to) si scopre una genericità definitoria, e spesso, un’assenza totale  di definizione.  Così  tale  concetto,  indicato  talvolta come  la  nuova  frontiera  del diritto  (pubblico),  assume  le sembianze  dell’araba fenice, di cui secondo un noto detto, tutti  giuravano  dell’esistenza,  ma  senza sapere, non  aven­dola vista, come fosse. Soluzione che appartiene al genere delle scorciatoie  scientifiche,  restie  alla precisione  concet­tuale, quanto prodighe nell’impiego di termini, che, indefi­niti, proprio perciò sono assai comodi. Ciascuno infatti può connotarli come vuole, e trovarsi tuttavia d’accordo, come i teologi ricordati nelle “Lettres Provinciales”  con chi, pur servendosene, ne ha un concetto opposto.

Accanto a chi si contenta di questo approccio pirandellia­no, vi sono altri che, volenterosamente, hanno voluto dare una fisionomia all’araba fenice. E così si è sostenuto che perché un gruppo umano possa avere un’organizzazione occorre: a) una distinzione di compiti – questa ritenuta essenziale -; b) per il raggiungimento di un fine : non sem­ pre ritenuto essenziale né necessario.

A ben vedere non ci si può ritenere appagati da tale con­notazione tributaria più all’analisi semantica del termine che alla sua effettiva corrispondenza alla realtà.

Invero, se la si volesse seriamente applicare nel mondo giuridico, non si potrebbe fare a meno di considerare orga­nizzazioni -e per tale via, almeno in parte e/o in nuce ordi­namenti, anche gruppi umani a carattere effimero ed occa­sionale. I turisti di un viaggio “organizzato” o i bambini che giocano ai quattro cantoni sarebbero così la morula delle grandi organizzazioni sociali (2). Identiche nei connotati essenziali – come l’individuo sviluppato rispetto all’em­brione – e diverse solo quantitativamente, perché, come l’individuo, enormemente più ricche di cellule e assai più differenziate.

In effetti al di là delle considerazioni che possono farsi su tali concezioni, appare chiaro che sono assai lontane (e non hanno colto i caratteri più pregnanti) del concetto (di ordi­namento e) di organizzazione, formulato dai giuristi – comunemente “classificati” come istituzionisti -come Santi Romano, Maurice Hauriou ed, in certa  misura,  il “secondo” Carl Schmitt (3). A questi, in effetti non sarebbe capitato di formulare un concetto così poco adattabile al fenomeno primario dell’esperienza giuridica da essi considerato, e cioè lo  Stato.

Nel loro pensiero è l’analisi dell’istituzione-Stato a costi­tuire la base per la costruzione dei concetti su ricordati, di cui rappresenta la forma-concreta-più complessa ed avan­zata. E, dello Stato, l’essenziale è costituito dalla stabilità e dall’effettività; pertanto tutti, in misura maggiore o minore, sottolineano tali caratteri, che un gruppo umano deve avere per costituire un ordinamento. Stabilità i cui connotati sono variamente individuati: da quello puramente temporale (la durata) alla certezza dei rapporti, al progetto politico (all”‘idea” e forse anche alla “formula politica” di Gaetano Mosca) e soprattutto al concreto rapporto di comando – obbedienza che deve sussistere in ogni organizzazione sociale che non sia effimera od occasionale. Su quest’ultimo aspetto (che ha carattere determinante rispetto agli altri, perché è il sussistere di rapporti di comando ed obbedienza che conferisce durata, certezza e concretezza all’istituzio­ne) è d’uopo soffermarsi.

 

  1. Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, – In effetti nel pensiero degli autori citati, tranne che per Schmitt, l’essenzialità del rapporto comando-obbe­ dienza per l’esistenza di un’organizzazione sociale non è stata posta in rilievo maggiore di altri caratteri; ciò spiega in parte perché sia stata successivamente quasi totalmente dimenticata a beneficio d’interpretazioni riduttive del pen­ siero dei due giuristi, ma, soprattutto, della teoria istituzio­nista. Hauriou, com’è noto, pone in rilievo, nel costruire il proprio concetto d’istituzione, quelli di “potere” “ordine” e “libertà”. Non è inesatto affermare che dei tre concetti è stato il secondo ad aver più successo. Primo e terzo sono stati assai meno considerati. Ma non è inutile notare come è il”potere” a costituire la base del pensiero di Hauriou, nel quale tutti e tre confluiscono e caratterizzano il concetto di istituzione.

È questa a ricondurre ad unità la dialettica fra questi ele­menti. Ma non può dimenticarsi che nel concetto di potere il giurista francese concentrava gli aspetti volontaristici e soggettivistici della propria concezione del diritto; secondo Hauriou  “Il potere  è una  libera  energia  della  volontà che assume  il  compito  del  governo  di  un  gruppo   umano mediante la creazione dell’ordine e del diritto” (4). Essen­ziale a questo compito creativo è il comando, per cui, qual­ che pagina dopo, nel delineare i caratteri dell’organizza­zione sociale, specifica: “Il y a d’abord une erreur à éviter (dans laquelle, bien entendu, des quantités de gens se sont précipités): c’est l’explication  de l’organisation  sociale par la divisione du travail ou par la différenciation des fonctions entendue au sens économique de la loi du moindre effort. Il y a une trentaine d’années, on a cru à cette explication par les organismes vivants; je pense qu’on en est revenu. En tout cas, en matiére d’organisation sociale, la differéncia­ tion des organes et des fonctions, au sense économique, est un phénomène tardif, et non point primaire. Les phénomèns primaires sont d’ordre politique,  c’est l’apparition d’un centre directeur ou fondateur, celle d’organes de gouverne­ment, celle d’equilibres gouvernamentaux et, enfin, des consentements” (5); onde conclude che “l’apparizione del Centro fondatore e degli organi di governo costituisce, se si vuole, una differenziazione tra governcmti e governati, ma questa è di natura politica e non ha alcun rapporto con la divisione del lavoro” (6). L’organizzazione sociale lungi dallo spiegarsi con il meccanico svolgersi di leggi naturali, sorge da una “libera energia della volontà”, questa energia crea “l’ordine ed il diritto”; l’ordinamento (e l’organizza­zione) nasce con la differenziazione tra governanti e gover­nati, distinzione  che non ha nulla  d’economico.

Per Santi Romano, “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma perciò stesso in diritto… Viceversa non è diritto… soltanto ciò che non ha organizzazione sociale” (7). E che cos’è un’organizza­zione sociale? Santi Romano aveva una giusta diffidenza verso il concetto: ma quando giunge a dare una rappresen­tazione delle istituzioni (in rapporto al concetto d’organiz­zazione), scrive che: “…Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizio­ne, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti, di libertà, di freni, che riduce a sistema e unifica una serie di elementi in sé e per sé distinti. Ciò significa che l’istituzione, nel senso da noi profilato, è la prima, originaria ed essen­ziale manifestazione del diritto. Questo non può estrinse­carsi se non in un’istituzione, e l’istituzione intanto esiste e può dirsi tale in quanto è creata e mantenuta in vita dal dirit­to” (8).

Anche nel trattare della giuridicità degli ordinamenti considerati “antigiuridici” sostiene che è “un’ordinamento giuridico…; in quanto irreggimenta e disciplina i propri ele­ menti” (9). È significativo che Romano dia quasi per nulla peso alla differenziazione delle funzioni, e ne attribuisca tanto ai concetti di “unità” e “chiusura” per definire l’istitu­ zione: ma, in relazione a ciò, giova sottolineare che è diffici­le, se non impossibile, concepire un ordinamento “unito”, se non attraverso il potere di comando di un individuo (o di un organo) su altri individui (od organi) e il correlativo crearsi di posizioni  (status) di sovra e sottoordinazione.

C’è poi un passo dell’ Ordinamento giuridico in cui ilgiu­ rista chiarisce in modo decisivo tale carattere essenziale del­l’ordinamento: ed è quando ricorda “che è possibile conce­pire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore,  ma  solo a quella  del giudice … Se così  è,  il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti” (10). Anche in questo passo Santi Romano indivi­dua nel potere (di comando) la condizione necessaria per­ché sussista un ordinamento (e con ciò l’organizzazione del gruppo sociale). D’altra parte in ciò è coerente col pensiero espresso in altri saggi. In uno dei più interessanti, !”‘Instau­razione di fatto di un ordinamento giuridico” , il rapporto forza-diritto-legittimità è analizzato in modo che risulte­rebbe incomprensibile, a non tener presente il concetto di istituzione, proficuamente caratterizzato dal rapporto comando-obbedienza. Analogamente nel descrivere l’or­ganizzazione unitaria  di un movimento rivoluzionario (che è un ordinamento giuridico, “sia pure imperfetto, fluttuan­te, provvisorio”), Romano ricorda “ci saranno dirigenti … norme di vario genere che regolano le attività rivoluziona­rie, persone ed enti che obbediscono a tali norme, sanzio­ni…” (11).

Sembra superfluo sottolineare che il concetto d’ordina­mento giuridico da Schmitt tratteggiato negli anni ’30 pre­suppone, anzi è costruito, intorno al rapporto comando­ obbedienza. Non solo Schmitt parla ripetutamente, nel riferirsi all’ordinamento concreto ed all’istituzione, di gerarchia e di disciplina, proprio negli scritti in cui sarebbe avvenuta la svolta del grande giurista verso l’istituzionismo; ma anche negli scritti precedenti, specialmente nella Politi­ sche Theologie I e nella Verfassungslehre è manifesto che l’esistenza di un’ordinamento (anche se Schmitt si riferisce quasi sempre ad un ordinamento politico) è determinato dal fatto che alcuni uomini hanno il (diritto di) comando su altri uomini.

Una comunità e un ordinamento sono tali in quanto sussi­ stono rapporti di sovra e sotto ordinazione tra le persone che vi partecipano (12). La stessa polemica che Schmitt svolge contro il concetto di ordinamento – come inteso dai giuristi normativisti – (13) rivela, accanto alla contrapposi­zione principale (tra diritto come ordinamento e diritto come norma) una, secondaria ma rivelatrice, tra conce­zione d’ordine” elaborato sui concreti rapporti tra compo­nenti l’istituzione e quella fondata su regole meramente tec­niche o comunque applicabili solo in una società dove vigono norme basate sullo “scambio” (cioè in definitiva, costituita  di rapporti tendenzialmente  e prevalentemente economici). Il carattere di categoria generale ,che ha un ordine del primo tipo e quello -limitato, se non  eccezionale

– del secondo non hanno bisogno di essere sottolineati.

Schmitt non sottovaluta gli elementi dell’istituzione non totalmente riducibili al rapporto comando-obbedienza: nel suo pensiero la legittimità è (in parte) il corrispondente dell’idea di Hauriou. Tuttavia l’ispirazione continua che trae dai pensatori controrivoluzionari, (il cui pensiero giuridico

– in termini necessariamente generici – potrebbe definirsi un misto di istituzionismo e decisionismo) gli evita di cadere nel soggettivismo esasperato, che è la principale strada che si apre ad un decisionista conseguente. La polemica anti­ romantica, contro un “Io” politico svincolato da ogni riferi­mento alla concreta situazione storica e politica; il suo stesso definirsi, negli anni ’30 “organo del pensiero giuri­ dico del popolo tedesco”, ancorava il suo decisionismo all”‘ubi consistam” della situazione storica, determinata da tutte le “costanti” di cui l’uomo di governo (e lo scienziato politico) deve tener conto.

Resta il fatto, di per sé incontrovertibile, che tutti e tre i grandi giuristi delineavano il concetto di organizzazione in termini che hanno poco a che vedere con la divisione dei compiti tra più soggetti: questa appare loro secondaria, e, tutto sommato, derivata da quell’altra, essenziale, divi­ sione dei compiti, che vuole il gruppo sociale costituito quando qualcuno comanda e gli altri obbediscono. Del pari la stessa attività “regolativa” o di normazione, appare secondaria e derivata rispetto all’essenzialità di quel rap­porto, come giustamente rilevava Santi Romano, coll’e­sempio – dinnanzi ricordato – di una comunità il cui tessuto connettivo era costituito dalle decisioni dei giudici (14).

  1. Linee di  elaborazione    – Nella  successiva elaborazione  del  concetto  anche  da  parte  dei  giuristi  più vicini  all’ipotesi  istituzionista,  questa  costante  dell’idea  di ordinamento   (ed  organizzazione)  è  andata  – in  parte  – smarrita. C’è, quindi, chi ha identificato gli elementi neces­ sari  dell'”ordinamento  giuridico”,  nella  plurisoggettività, nella  normazione,  e  nell’organizzazione.  E  quest’ultima, come accennato sopra, è caratterizzata  esclusivamente  dalla divisione  dei  compiti,  con  relativa  istituzione  di  “uffici”. Talaltro  ha  voluto  ricavare  il  concetto  d’organizzazione basandosi  su  quello  di  “potere”  (giuridico),  ritenuto  un prius  rispetto  a quello di diritto, e in grado di spiegare, in tali termini,  i rapporti tra organi della stessa organizzazio­ne,  che  è  poi  uno  dei  punti  dolenti  delle  tematiche  degli ordinamenti.  Con  ciò indubbiamente  ci  si avvicina  di più alle concezioni dei tre giuristi ricordati, non foss’altro per­ché, nell’analisi semantica del termine “potere” è implicito, in una certa misura, minima se si vuole, il concetto di domi­nio,  di  signoria  e  quindi  di comando.  Ma  le potenzialità positive di tale concezione non sono state spesso conseguentemente sviluppate e portate alle logiche conclusioni.

Il potere diventa così, più che altro, il contenuto (e il limi­te) della competenza dell’organo, anfibiologicamente (e, talvolta, ambiguamente) definibile sia in termini di divi­sione dei compiti (o del lavoro) sia in relazione ai rapporti di sovra e sottoordinazione. In questo si può notare la dimenticanza di un dato giuridico essenziale, costante preoccupazione dei teorici dell’istituzione, espressa in par­ticolare da Schmitt e da Romano: quello dell’unità dell’or­dinamento. A tale proposito è appena il caso di rilevare, prescindendo, al momento, da considerazioni di teoria generale e di sociologia del diritto, che qualsiasi organizza­zione sociale può agire per il diritto, in quanto “unità”. Il diritto positivo non prende in considerazione, come sog­getti di diritto, se non persone, fisiche o giuridiche che  siano. Perché un gruppo possa essere centro d’imputazione   di rapporti, occorre che i componenti raggiungano un’unità (di volizione e/o di azione). È solo questa che consente al gruppo d’agire e di avere rilievo giuridico.

A ·trasporre questo dato in termini di teoria  generale (cioè in quelli in cui lo formulavano Schmitt, Hauriou e Romano) ciò significa che un gruppo sociale può avere con­sistenza d’ordinamento, quando (attraverso la sua organiz­zazione) opera la reductio ad unitatem delle volontà dei membri; al minimo, attraverso un differente potenziale di potere tra i componenti, che assicuri in ogni caso una deci­sione valevole per tutti. Se questa unità non c’è, non c’è neppure  ordinamento,  né organizzazione.  Di guisa che   il problema di quale ne sia l’elemento essenziale e basilare consiste nell’identificare quello che consente di unificare le varie componenti, e renderle così capaci di agire unitaria­mente. Questo è, indubbiamente, l’organizzazione “gerar­chica” (intendendo tale termine in senso ampio) del gruppo (15), per cui ogni organizzazione ha un centro di riferi­mento dominante e decisivo rispetto agli altri. È significa­tivo del disinteresse verso tale approccio, che sia stato poco considerato come il diritto positivo, laddove, in un’ente, non si riesca a raggiungere questa unità (e conseguente­mente capacità d’agire), provveda con meccanismi “di sup­plenza”, tipici gli organi straordinari commissari o i provve­dimenti “sostitutivi”, nominati o deliberati da uffici ed organi di Enti sovraordinati. La scarna riflessione su questi istituti è in puntuale corrispondenza con la sottovaluta­zione dell’elemento “autoritario” e del carattere unitario dell’istituzione,  che da quello è assicurato.

D’altra parte, l’acuta sensibilità di Schmitt e Romano ai problemi del diritto “statu nascenti” ed alla concretezza sto­rico-politica faceva dell’idea di unità il dato (e l’esigenza) necessaria e centrale. Lo studio, acuto anche se non appro­fondito, dell’organizzazione rivoluzionaria che fa il giurista siciliano, lo rende palese. Tutti, d’altra parte, possono immaginare che fine avrebbe fatto la Rivoluzione d’otto­bre, se, dopo la votazione del comitato centrale nella notte del 23 ottobre 1917, maggioranza e minoranza bolscevica fossero andate ciascuna per la propria strada, e, ancor di più se i militanti non avessero eseguito (o eseguito solo in parte) le decisioni del Comitato  centrale.

L’idea di unità è d’altronde implicita nel concetto di “pouvoir” che tanta importanza ha nel pensiero di Hauriou. È importante notare come allo stesso appariva del tutto naturale che nell’idea di “pouvoir de droit” confluiscano i due aspetti della competenza (intesa in senso lato) e del dominio (che per Hauriou, dato il carattere burocratico del­l’istituzione-Stato consiste soprattutto nel potere di con­trollo).

Dato che, come abbiamo visto, il concetto d’organizza­zione accolto da alcuni giuristi successivi non è, se non in modesta misura, riferibile al pensiero di Romano, Schmitt ed Hauriou occorre ricavare quali referenti  culturali abbia la concezione criticata.

È condivisibile che una teoria istituzionista del diritto, è, come sostiene Schmitt con espressione sintetica, una teoria caratterizzata dal carattere di sovrapersonalità, cui si contrappongono la personalità del decisionismo e l’impersona­lità dell’impostazione normativistica (16). Tale scriminan­te, in sé riferibile più che al pensiero concretamente espresso, a tipi ideali, è un punto di partenza per comprendere i presupposti di una teoria istituzionale “debole”.

È indubbio che dopo il soggettivismo ed il razionalismo della seconda metà del XVIII secolo, fondamenti ideali della rivoluzione borghese, col XIX si apriva un periodo di prevalenza degli aspetti oggettivistici, considerati le “deter­minanti” del diritto. Non era solo la Scuola storica del dirit­to, né la filosofia hegeliana o i suoi epigoni (tra cui Marx): era la maior pars del pensiero politico-giuridico a reagire al soggettivismo razionalistico della Rivoluzione Francese. In linea generale ciò appare evidente: è più interessante però notarne  le conseguenze  sulla teoria  generale del diritto.

A tale proposito, la prevalenza, nella seconda metà del XIX secolo, del positivismo giuridico, ha costituito un freno al formarsi di concezioni giuridiche che tenessero in gran conto gli aspetti sociologico-fattuali non solo come condi­ zionanti (in modo decisivo) il diritto, ma come costitutivi dello stesso,  attraverso concetti come !'”istituzione” o simili ( ciò con l’eccezione, notata abitualmente, di Otto  Gierke).

In questo senso, il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 ha impedito che le concezioni maturate in altri ambiti scientifici potessero avere compiuta rispon­denza in quello giuridico. Questo è vero in particolare per la teoria dell’istituzione. È certo, a tale riguardo, che tra il pensiero istituzionista e le (prevalenti) concezioni politico­ istituzionali del periodo della Restaurazione c’è un nesso evidente; del pari molti giuristi hanno sottolineato il carat­tere “sociologico” della concezione istituzionista, creando un nesso (che c’è, ma probabilmente più tenue di quanto si creda) tra sociologia e teoria istituzionale.

Senonché la sociologia, come qualunque scienza natura­le, va alla ricerca delle determinanti e delle costanti dell’a­gire sociale; una spiegazione del diritto in termini puramente (meglio sarebbe dire piattamente) sociologici porta a sottovalutare e ad espungere dal mondo giuridico l’azione della libera volontà umana (Hauriou) e l’orgoglio della decisione fondamentale (Schmitt). E, quel che è più gra­ vido di conseguenze negative, la sociologia studia il diritto come fatto, mentre la scienza del diritto ha – ovviamente – una visione più ampia, comprensiva e diversa del fenomeno giuridico.

Ad applicare (con una certa ingenuità) il metodo delle ricerche sociologiche, è chiaro che costituiscono fatti l’esi­stenza di un gruppo sociale, la normazione che questi si da e l’organizzazione in cui si articola. Mentre sono spiegazioni di tali fatti, che l’organizzazione sia tale anche perché c’è una distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra ciò che è comune e ciò che è individuale, o per la funzione che ha l’i­stituzione.

La spiegazione di un fatto però si presta, agli occhi di metodologi incantati dalla “oggettività” e dalla “misurabili­tà” del dato empirico, ad essere tacciata di non scientificità, se non di pregiudiziali ideologiche. A poco vale che, in uno specifico campo d’indagine, il dato empirico spieghi assai meno di una valutazione e definizione degli elementi in gio-

 

co, o meglio che quello sia solo (e in parte) la base su cui lavorare per  arrivare  a conclusioni  di reale interesse.

Quando poi l’empirismo sociologico si coniuga con il determinismo economico, la distorsione del dato reale è assicurata.  Da un  simile mélange , tutti i concetti  giuridici

vengono piegati ai presupposti elementari di un sistema di pensiero  economico.  La distinzione  dei  compiti nell’appa­rato di “governo” del gruppo diventa così una sottospecie della divisione del lavoro: come questa è determinata dalla razionalità funzionalistica di una migliore  utilizzazione delle attitudini di ciascuno, ai fini di una maggiore produtti­vità sociale; la stessa distinzione tra chi comanda e chi obbe­disce (che è la base, sia pure funzionale, dell’ineguaglianza tra governanti e governati) diventa irrilevante, ma più ancora incompatibile, con un sistema di pensiero dominato dai postulati dell’eguaglianza tra homines  aeconomici  e della loro libertà di scegliere, acquistare e vendere, a pari condizioni,  dei beni.

Al termine di questa strada, non si riesce più a compren­dere in cosa una società cooperativa differisca dallo Stato, o, all’altro estremo sociologico, da un gruppo sociale occa­sionale. Che proprio teorici come Schmitt ed Hauriou aves­ sero messo in guardia contro queste interpretazioni econo­micistiche del diritto e del concetto d’istituzione è cosa che potrebbe, al limite, interessare poco, se non si volesse poi, attribuire alla teoria istituzionale implicazioni espressa­mente rifiutate dai “soci fondatori”. Come del pari, è evi­ dente che, come sopra cennato, lungi dal ricondursi ad una qualche forma di determinismo sociale, il pensiero di Hau­riou appare ispirato al bergsoniano èlan vita!, all’istituzione come impresa della volontà umana libera e creatrice; e quello di Schmitt alla decisione sovrana, condizionata sì dalla situazione storica, ma, quanto meno nel caso d’ecce­zione, libera nei mezzi e, in certa misura, negli stessi   fini.

Sotto un diverso aspetto, la teoria dell’istituzione è stata percepita (e recepita) come reazione avverso la “statalità” del diritto e come negazione del “monopolio” statale alla sua produzione, cui contrappone la pluralità degli ordina- menti giuridici.

Le valenze pluralistiche della teoria sono state tra le meglio accette, specie quando si coniugavano con precise (ancorché differenti) posizioni ideologiche. È stato quindi una conseguenza logica che dalla constatazione della plura­lità degli ordinamenti si passasse al pluralismo, dal relativi­smo vitalistico e realistico all’ideologia del neo-corporativi­smo, se non  del neo-feudalesimo  (17).  Questa è stata grandemente facilitata dall’immissione di robuste dosi di nor­mativismo nella teoria dell’istituzione: il pluralismo così inteso consente infatti di coniugare il diritto “originario” all’esistenza ed all’autonomia dei più svariati gruppi (ed istituzioni) con le garanzie che solo uno Stato legislativo parlamentare, con le sue norme “misurabili”, promulgate con leggi (costituzionali ed ordinarie) non facilmente modi­ficabili, può  offrire congruamente.

Applicando ai tipi di pensiero  giuridico  le correlazioni che Schmitt stabilisce tra “tipi” di Stato (giurisdizionale, legislativo-parlamentare, governativo-amministrativo) e scelte politiche (conservatorismo, evoluzionismo progressi­sta, radicalismo di destra o di sinistra), si può affermare che un tipo istituzionale “puro”, si coniuga col  conservatori­smo; quello normativista col progressismo moderato ed evoluzionista; il decisionismo col radicalismo. Con tutte le approssimazioni e i distinguo che il tema ed il carattere di queste classificazioni impone, il massimo della chiarezza nei risvolti politici di tali concezioni può però ancor meglio ritrovarsi nelle forme “miste” che nei tipi “puri” di pensie­ro. Sotto tale profilo, nella realtà storica la miscela più con­ servatrice è indubbiamente quella tra istituzionismo e nor­mativismo. (nel senso precisato). In effetti una teoria istitu­zionale “pura” è una  teoria  del  “movimento”  (evolutivo) del diritto prodotto dalle varie articolazioni dell’istituzione (Hauriou); mentre una regolamentazione legislativa rigida dell’attività sociale tende ad imbalsamarla in forme e rap­ porti la cui evoluzione viene resa più  difficile.

A ben vedere questa particolare “garanzia” della stabili­tà, tipica della vulgata pluralista, non la si trova nel concetto d’istituzione (o di ordinamento) di nessuno dei tre grandi giuristi: il paragone della scacchiera di Santi Romano, con l’organizzazione come prius e “ragione sufficiente” rispetto alla produzione normativa, con la stessa coesione dell’ordinamento  ritenuta  indipendente  dalle  “norme”,  ma assicu­rata dal comando, rende bene il senso del concetto, in cui è il reale che precede e prevale, in ogni caso, sul normativo.

Come lo rende la contrapposizione di Schmitt tra la neces­saria indeterminatezza di certi concetti, peculiari di un ordi­namento concreto, perciò stesso applicabili solo in un determinato contesto di rapporti sociali, ed il concetto di “norma” della dottrina normativista (18).

Ciò perché, a differenza di alcune impostazioni “plurali­stiche”, la teoria dell’istituzione non prescinde mai dai rap­porti di sovra e sotto-ordinazione, né dalla concreta situa­zione che in quelli trova una costante. La pluralità di ordi­namenti e la loro compresenza nella realtà sociale non ne significa l’eguaglianza, né tanto meno il diritto all’esistenza. Un pluralismo, gravido di implicazioni giusnaturalistiche, concepisce invece l’esistenza di una pluralità di ordinamenti come diritto all’esistenza medesima. Sostituendo così l’indi­ viduo ed i diritti dell’uomo, punto di partenza del liberali­ smo politico, con i gruppi ed i loro diritti “naturali” o “stori­ci”, senza che con ciò, mutino presupposti e risultati; né si attingano le valenze realistiche della teoria dell’istituzione.

Partendo da un simile pluralismo non si riesce a compren­dere neppure il reale significato di quello che è il punto d’Archimede della teoria istituzionale: e cioè l’esistenza di ordinamenti illeciti accanto (e/o all”‘interno” di) quelli leci­ti. L’apparente antinomia si risolve, per Santi Romano, nel­l’effettività (e quindi nella “validità”) di entrambi, assicu­rata dal rapporto comando-obbedienza all’interno di cia­scuno di essi; per un pluralista coerente il problema è – a ben vedere -irrisolvibile: o la liceità reciproca è frutto di un impossibile  “riconoscimento”,  o l’asserita illiceità dell’uno

è frutto di un errore evidente se non di un inammissibile sopruso.

La caratteristica saliente, e il risultato, cui porta la conce­ zione criticata è la spoliticizzazione di ogni istituzione e di ogni teoria del diritto pubblico che si basi – anche se non totalmente – su categorie “politiche”. Organizzazione senza gerarchia e parità tra ordinamenti significa null’altro che la realizzazione del sogno sansimoniano di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose (19).

Un’organizzazione caratterizzata dalla mera ripartizione di competenza e lavoro tra più uffici, a cui è estraneo ogni rapporto di subordinazione, non ha, invero, altro senso. Politica è invece, in primo luogo, comando e subordinazio­ ne: anche se tale requisito non basta a qualificare il “politi­co”, è indubbio che la sua eliminazione dal mondo signifi­cherebbe rendere impossibile l’attività politica, che, per definizione, è attività di gruppi umani fortemente  coesi.

Del pari la rivendicazione della “parità” tra ordinamenti (o del diritto all’esistenza) si muove sullo stesso percorso. Parità tra ordinamenti vuol dire parità ed eguaglianza tra uomini che ne fanno parte, e, più ancora, tra coloro che li guidano. Il “diritto” all’esistenza di più ordinamenti, del pari, significa negazione dell’assolutezza della volontà che ne tiene unito almeno uno. Infatti ad una volontà che si assume assoluta non può contrapporsi alcun ostacolo giuri­dico. Entrambe le affermazioni sono quindi contrarie all’es­senza del politico, che postula la subordinazione  dell’uomo all’uomo e un comando privo di limiti, perché sussista una comunità politica (20). In questo contesto l’interpretazione pluralista della teoria dell’istituzione è l’esito, compiuto e coerente, della tendenza alla spoliticizzazione, tipica di un certo pensiero moderno.

  

  1. Il carattere fondamentale dell’organizzazione nel pen­siero – È stato asserito che la teoria istituzio­nale (specie nella formulazione di Hauriou) peccherebbe di “sociologismo”. L’errore (o meglio l’insufficienza) sarebbe quella di costruire il diritto sul “gruppo sociale”, mentre, perché un gruppo sociale sia coeso, occorre che i rapporti si organizzino nel (e con il) diritto. Questo sarebbe così l’ele­mento determinante nel dare consistenza giuridica al grup­po. Il fatto che questo esista viene così svalutato essendo, nella ipotesi più favorevole, una condizione, necessaria ma non sufficiente, perché si possa parlare di diritto.

In effetti la concezione criticata prende le mosse dalla necessità   di  differenziare,   nei  gruppi  sociali,  quelli  che costituiscono istituzioni da quelli occasionali, ed effimeri: e sarebbe il diritto a distinguere gli uni dagli altri. Inoltre è stato sostenuto, specie per Hauriou, che la sua imposta­zione non tiene conto della possibile genesi “contrattuale” delle istituzioni, che farebbe così venir men il presupposto “autoritario” della volontà del fondatore. Tale critica non pare cogliere nel segno: è infatti viziata, in primo luogo, dalla mancata individuazione dell’elemento essenziale del­l’istituzione, che imprime giuridicità (ed assieme lo rende tale) al gruppo sociale: la presenza dei rapporti di sovra e sotto ordinazione. Infatti, anche se da taluno è stato notato l’elemento “autoritario” che segna l’istituzione, è chiaro che tale critica presuppone di non tener conto (o non tenere nel dovuto rilievo), il rapporto comando-obbedienza. Invero ciò che differenzia un gruppo occasionale da un'”istituzione” non è il carattere giuridico (che è poste­rius), ma, come già scritto, tale rapporto, che ne assicura l’unità e la stabilità, e con ciò la giuridicità. Non è in altri termini il diritto ad autocrearsi, ma è sempre un elemento pre-giuridico a generare i rapporti giuridici.

Inoltre non è stato notato come sostenere che vi è un ordinamento “giuridico” quando è organizzato dal (o mediante  il) diritto vuol  dire esprimersi  per   tautologie,

come il malato immaginario di Molière durante l’esame di dottorato (21). Resta così da tale impostazione inspiegato il principale carattere innovativo della teoria dell’istituzione; quello di ridurre a questa il diritto, stabilendone l’identità. In realtà come scrive Schmitt, ciò che differenzia un giurista “istituzionista” da un “decisionista” o da un “normativi­sta”, non è il negare che il diritto consista, oltre che di istitu­zioni, di norme e decisioni (e viceversa, per gli altri “tipi” di pensiero giuridico), ma a quale di questi tre concetti, possa ridursi, in ultima analisi, il diritto. Affermare che un ordi­namento è giuridico in quanto “organizzato” dal diritto, significa sottrarre dalla connotazione del concetto il ter­mine diritto, dando per scontato che debba aggiungersi dal­ l’esterno, e, nel contempo, negando l’identità tra diritto ed istituzione, su cui si regge la teoria istituzionista (22).

D’altra parte l’elemento normativo (inteso nel senso di comando, e non di regola) è per il diritto necessario ed inso­stituibile: è strano che questo, ritenuto generalmente essen­ziale per il “giuridico”, sia stato trascurato nello studio della teoria istituzionale.  Specie se si tien conto che l’accentuato che la definizione dell’istituzione formulata da Hauriou non ne esclude affatto la fondazione “pattizia” (23), v’è da dire che gli istituzionisti pensavano principalmente alle istitu­ zioni – comunità (e non alle istituzioni – società) (24), non solo perché quella più complessa ed interessante per il giuri­sta, ovvero lo Stato, è un’istituzione – comunità (25); ma perché queste non consentono di spiegare il diritto in base a termini giuridici, spiegazione che può essere avanzata per le altre. Sono, in parole diverse, gli ordinamenti comunitari a costituire il caso-limite (il quale, proprio per questo, è più interessante in sede scientifica), che permette d’individua­re, nella purezza concettuale, gli elementi essenziali del diritto. La comunità prescinde dal consenso individuale, dal patto tra volontà libere ed eguali: l’elemento sociale e il carattere necessario (se non  “naturale”)  dell’ordinamento ne vengono così esaltati; la comunità è, per definizione, intessuta di rapporti di sovra e sotto-ordinazione, sin dal momento “costitutivo” (quasi sempre non individuabile); non è fondata sullo “scambio”. L’istituzione-società può prescindere  da gran parte  di questi  elementi:  solo da uno (forse da due) non può sfuggire: dalla presenza, una volta costituita, di una (o più) volontà “prevalenti”, decisive per l’agire comune. Così lo stesso carattere “pattizio” della costituzione di un associazione non toglie che, perché que­ sta possa esistere, vi debba essere un centro direttivo, che esercita dei poteri sociali, quanto meno quelli che consen­tono all’istituzione  di agire unitariamente  (26).

 

  1. – Secondo la nota tesi, esposta da Schmitt nella Politische Theologie e in Politische Romantik, De Bonald, de Maistre e Donoso Cortès sono pensatori emblematici del decisionismo politico. In effetti Schmitt ne espone il pensiero contrapponendolo sia al liberalismo della restaurazione che al romanticismo politico. Di fronte a posizioni ispirate al soggettivismo, al razionalismo, all’occasionalismo e alla sostanziale negazione della sovranità, il pensiero dei controrivoluzionari, dominato dall’oggettività della concreta situazione storica e dalla costante afferma­zione dell’insostituibilità di decisione e sovranità, ha il pre­gio della chiarezza e della coerenza, che solo una radicale opposizione, intessuta (e derivata) di esperienze di vita oltre che di convinzioni e di cognizioni teoriche può dare. Ciò non toglie che il giurista tedesco sia troppo avvertito per sottovalutare i tratti del pensiero dei controrivoluzionari riconducibili al “tipo ideale” del pensiero istituzionista: solo che non li sviluppa, probabilmente perché non interes­santi i temi affrontati nella Politische Theologie (alcuni cen­ ni, anche se non riçollegati alla teoria istituzionale, vi sono invece in “Politische Romantik” ). Nella realtà la concezione dei controrivoluzionari può essere ricondotta ad un mélange di istituzionismo e decisio­nismo, o meglio dei “tipi ideali” dell’uno e dell’altro. Del primo i controrivoluzionari hanno il senso del condiziona­mento storico-sociale delle istituzioni, l’infuenza su queste del sentire comune; un certo (limitato) determinismo stori­co; e la coscienza che ciò che è esistente, duraturo e proprio perciò vitale è, di per sé, produttivo di diritto. Del secondo la consapevolezza che comunque la comunità è tale (e può esistere) in quanto vi è un autorità assoluta, capace di pren­dere decisioni inappellabili; e che il potere consiste nel deci­dere per (e al di sopra degli altri). La formula paolina “om­ nis auctoritas a Dea”, (che si converte in quella maistriana che ogni potere è buono quando è costituito), non è inter­pretata dai controrivoluzionari nel senso, fatalista e deter­minista, dell”‘impersonalità” del potere, determinato da scelte imperscrutabili della Provvidenza (e/o della Storia), ma, in quello della necessità dell’autorità (cioè nel senso della “costante” storico·-politica di un potere sovrano), e nel contempo della personalità della stessa, libera nel prendere le decisioni fondamentali (27).È capitato così che i controrivoluzionari sono stati i primi ed energici assertori, in epoca contemporanea, di quelle tesi ricordate, fondamentali nel pensiero istituzionista. La consapevolezza di ciò non è stata, in genere avvertita; e, conseguentemente si è studiato poco o punto il rapporto tra questi e quelli.Ma, indubbiamente, il limite più grave che ne è derivato, è non aver compreso appieno il pensiero dei teorici dell’isti­tuzione, non avendo tenuto conto, nella giusta misura, del carattere decisivo che gli stessi attribuivano ai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, ed all’importanza dell’organiz­zazione “gerarchica” dell’istituzione. Ne è conseguita l’ac­centuazione del carattere sovra-personale (e, a tratti, impersonale) del pensiero istituzionale. Del determinismo sociale rispetto all’azione e alla volontà umana. Dell’istitu­zione come “cosa” (se non “macchina”), rispetto all’istitu­zione come insieme organizzato di rapporti tra uomini. Da ciò a passare ad una concezione tendenzialmente sansimo­niana ed “oggettivistica” dell’istituzione il passo è stato bre­ve
    1. Nella realtà, questo può compiersi solo a costo di fer­marsi all’aspetto superficiale ed esteriore dell’istituzione, dimenticandone la funzione e, soprattutto, omettendo di approfondire i risvolti più interessanti.

    Nel pensiero dei tre grandi giuristi, come dei loro precur­sori contro-rivoluzionari, l’istituzione è strettamente legata alla decisione ed alla struttura “gerarchica”; l’oggettività dell’organizzazione non prescinde, anzi è fondata sulla sog­gettività del comando. Elementi oggettivi e soggettivi stanno in equilibrio. Anche perciò può parlarsi di una con­cezione che è un misto dei tipi ideali dell’istituzionismo e del decisionismo. L’impostazione vitalistica e l’approccio reali­stico con cui si accostano ai problemi del diritto li colloca, anche se in misura diversa, vicini ai più noti scienziati  politici italiani del primo novecento, loro contemporanei, in cui la sensibilità sociologica si coniugava col realismo con cui indagavano  sui rapporti politici.

    La teoria della classe politica e delle élites, la legge ferrea delle oligarchie, la funzione ordinatrice dei principi di legit­timità, sono acquisizioni che appaiono – in larga parte – comuni ai “machiavellici” ed ai giuristi ricordati (28). La relazione tra il pensiero degli uni e quello degli altri, come

    • per i controrivoluzionari, è ancora poco approfondita, pro­babilmente in omaggio a specializzazioni scientifiche che sovente riescono, così, ad occultare le relazioni più interes­santi ed a precludersi una comprensione esauriente. Ma è sicuramente vero, come scrive Schmitt, che chi disturba questa divisione del lavoro nell’ingranaggio scientifico, diventa un guastafeste. E il guastafeste è, com’è noto, “sempre l’aggressore”.

    Teodoro Klitsche de la Grange

( 1) Il concetto (o meglio il termine) di organizzazione è stato impiegato per  connotare  sia  il  concetto di ordinamento  che come  “nuova  frontiera” della dottrina del diritto pubblico. In ambo  i  casi  la  letteratura  non manca, per  cui  ci  limitiamo  a citare  i  contributi  più  caratterizzanti,  rimandando per il resto alla dottrina citata da F. MODUGNO voce “Ordinamento giuridico­ dottrina” in Enciclopedia del diritto, p. 678 n. Quanto al primo problema si veda M.S. GIANNINI. Glielementi degli ordinamenti giuridici, in Rivista tri­ mestrale di diritto pubblico, 1958, p. 219; quanto al secondo i contributi sono assai più numerosi. A prescindere dalla nota impostazione di DE VALLES. Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931 e 1936; v .. da ultimo, G. BERTI Il principio organizzativo del diritto pubblico, Padova 1986 (con ampia trattazione del concetto di organizzazione); per contributi meno recenti v. S. FODERAR O La personalità interorganica, II ed, Padova 1957; il volume collettaneo L’organizzazione amministrativa. Atti del IV Convegno di scienza dell’amministrazione, Milano 1959.

(2)È rilievo simile a quello formulato da M.S. GIA NNINI. Gli elementi,

cit.. che ne rileva la inconsistenza per la ricostruzione dei fenomeni giuridici.

(3)Per SANTI ROMANO v. L’Ordinamento  giuridico,  1918 v.  anche voce Organi in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1983; Prin­ cipi di diritto costituzionale generale Milano 1947; per HAURIOU Préçis de droit constitutionel (1929), risi. 1965; IDEM. Theorie de l’institution et de la fondation ora in traduzione italiana ne la  Teoria giuridica  de/l’istituzione  e della fonda_zione, Milano 1967; per C. SCHMITT v. Legalitiit und legimitiit; Uber die drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, ora  entrambi  tra­ dotti in italiano (anche se non totalmente) ed inseriti nella raccolta di saggi “Le categorie del politico” Bologna 1972.

(4)Préçis de droit constitutionel, , p. 15. D’altra parte tenuto conto del­ l’influenza che il pensiero di Bergson ha esercitato sul giurista francese, è proprio il “potere” col suo carattere dinamico e creativo a dover costituire l’elemento primario di un pensiero giuridico influenzato da una filosofia vita­ listica.

(5) cit., 72, si noti che Hauriou cita la tesi di Prévost-Paradol per cui

”l’obéissence est le lien des  Societès”.

(6)loc. cii.

(7)L’ordinamento giuridico, Firenze 1967, pp. 43-44

(8)ult. cii., p. 43.

(9)Op. ult. cii., p. 44.

( IO)  Op. ult. cit.. p. 21.

(11) Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico Milano 1983 p. 224.

(12) in C. SCHMI1T Politische Theologie I, trad. it. in “Le categorie del politico” pp. 57-58. Schmitt, esponendo il pensiero di Hobbes rivela il carattere personale e concreto di ogni forma di subordinazione. “Se un potere dev’essere sottoposto ad un altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere”.

(13) Nel saggio “Uber die drei Arten”, in particolare pp. 251-255 trad. cit.

(14) È interessante notare che nel concetto d’istituzione formulato da Max Weber il rapporto di comando è Infatti l’istituzione è defi- nita “gruppo sociale”, i cui ordinamenti statuiti vengono imposti (con rela- tivo successo), entro un dato campo di azione, ad ogni agire che rivesta deter- minate caratteristiche (Wirtschaft und Gese//schaft, trad. it., p. 51).

Inoltre Weber richiama continuamente, quando scrive di “ordinamenti” dei gruppi sociali, l’elemento autoritario: così “per costituzione di un gruppo si deve intedere la possibilità effettiva di disposizione ad obbedire … nei con­ fronti della forza di imposizione della autorità di governo sussistente” (op. cit., p. 48).

Peraltro secondo Max Weber si ha un “gruppo sociale” quando l’osser­ vanza dell’ordinamento di questo “è garantita dall’atteggiamento di determi­ nati uomini, propriamente disposti a realizzarlo, cioè di un capo e, eventual­ mente, di un apparato amministrativo” ( op. cit., p. 46); al riguardo perché si abbia un gruppo, non ha importanza la distinzione tra comunità ed “associa­ zione”. L’essenziale è che vi sia la presenza di un “capo capo di famiglia, comitato di un unione, direttore di un impero, principe, presidente della repubblica, capo della Chiesa, il cui agire sia disposto a realizzare l’ordina­ mento del gruppo”; agire “non soltanto orientato in vista dell’ordinamento ma diretto alla sua imposizione coercitiva”

Imposizione che diventa connotato essenziale del concetto di “gruppo sociale”. Infatti – prosegue Weber “non ogni comunità od associazione costituisce un gruppo sociale- ad esempio non lo costituisce né una relazione erotica né un gruppo parentale privo di “capo”. Onde !'”esistenza del gruppo sociale è interamente legata alla presenza di un   capo”.

Interessante è anche la distinzione che Weber fa tra “ordinamento ammi­ nistrativo” (che regola l’agire del gruppo) ed “ordinamento regolativo” che regola “un agire sociale di altro genere”, che, secondo lo stesso, coincide in generale – con quello tra diritto pubblico e diritto privato (p. 50).

Resta il fatto che, nella sociologia weberiana i concetti di “gruppo socia­le”, “ordinamento” ed istituzione sono strettamente collegati alle relazioni sociali di comando e potere. Rilievo minore ha, invece, l’esistenza e la pro­ duzione di “regole” o “norme” relative all’azione dei consociati.

Anche secondo altri sociologi, ilconcetto d’organizzazione è strettamente legato alla struttura gerarchica. Gli apparati organizzati sono “comporta­ menti collettivi che sono ordinati, gerarchizzati, centralizzati.” (v. Gurvitch Trattato di Sociologia, Milano 1967, p. 229 v. anche p. 295).

(15) È chiaro che nel testo il termine “gerarchia” non è inteso nel senso

“tecnico” e riduttivo con cui lo impiegano (correttamente nel loro campo d’indagine) gli studiosi del diritto amministrativo, dove tale termine significa un certo tipo di rapporto tra uffici amministrativi (ed anche Enti), che viene, con ciò, contrapposto, ad altri modelli d’organizzazione.

(16) il saggio Uber die drei Arten. cit., trad. it. cit.. p. 252.

(17)L’uso di termini come “neo-corporativismo” e “neo-feudalesimo” richiama istituzioni medievali, contrapposte allo Stato moderno e che riaffio­ rano nell’età contemporanea, che si pensa caratterizzata dalla crisi della forma -Stato. Con ciò si vuole denotare sia un processo di “patrimonializza­ zione” e di “appropriazione” collettiva (od individuale) dei poteri pubblici, accanto (o in luogo) dell’unità e della “sovranità” dello Stato. Senonché la differenza (se ne possono indicare tante) che pare opportuno sottolineare tra il pluralismo corporativo feudale medievale e quello sindacai-partitico moderno è che, mentre in quello si concepiva l’ecumene o l’unità politica (per debole e frammentaria che fosse) come una comunità di comunità; nel

secondo la si concepisce come una società di società. Con conseguenze assai rilevanti, sul carattere dell’autorità, sull’appartenenza individuale,  sui legami sociali e sulla stessa “governabilità” dei gruppi sociali (istituzioni) intermedi,  che è interessante  approfondire.

(18) Uber die drei Arten …, trad. it. cit., in particolare pp. 258-260

(19) Per la verità la frase di Saint-Simon (ripetuta poi da Engels), spesso interpretata nel senso utopistico cennato nel testo, aveva una valenza tecno­ cratica più che libertaria (o anti-autoritaria).

Come notava Michels “la scuola di Saint-Simon non immaginava affatto un avvenire senza classi …”. Essa anelava al contrario alla creazione di una nuova gerarchia, senza privilegi di nascita, ma con forti privilegi acquisiti, “deshommes /es plus aimant, /es plus intelligens et lesplus forts”; e proseguiva “uno dei più fervidi, sansimonisti … indotto a difendersi dal rimprovero di agevolare, mediante la sua dottrina, la via al despotismo, arrivò perfino al punto di sostenere che la maggioranza degli uomini deve ubbidienza all’auto­ rità emanata dalla capacità …” ( Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze 1933 pp. 4-5). Col tempo, in taluni, il carattere politico e (relativamente) “autoritario” del pensiero dei sansimoniani si è smarrito. Ne è rimasto quello utopistico,  il più adatto a mascherare  realtà,  di fatto, totalmente opposte.

(20) L’una e l’altra possono ricondursi al pensiero di  Schmitt, in  partico­ lare alla Politische Theologie, ed al Begriff des Politischen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, cit., p. 89-208.

(21)In effetti le definizioni di Santi Romano (come quella di Maurice

48    Hauriou) non cadono nell’ingenuità scientifica di spiegare un.termine con un sinonimo, come fanno certi giuristi, col risultato di trovarsi così sempre   al

punto di partenza. Ma quel che più interessa è che la definizione di Santi Romano del diritto non contiene, nel “definiens” nessun termine (o elemen­ to) specificamente giuridico (v. L’ordinamento giuridico, cap. 10, p. 25, 28). Società, ordine sociale, organizzazione sono tutti termini che possono essere impiegati indifferentemente nella scienza giuridica ed in altre scienze sociali, e, quel che più conta, denotano enti e rapporti concreti e “fattuali”. La circo­ stanza che. in sede di definizione non abbia impiegato alcun termine giuridi­ co, dimostra non solo il carattere euristico del processo logico seguito, ma più ancora che Romano riduceva il diritto al fatto dell’esistenza, in un grup­ po, degli elementi indicati come qualificanti.

(22) Nella realtà l’interpretazione del pensiero di Santi Romano è stata spesso viziata da una serie di equivalenze e di presunte antinomie in cui il pensiero del giurista siciliano andava, in buona parte, perso. In effetti 9ndo Santi Romano, il rapporto tra i termini “diritto” “ordinamento giu­ ridfco” e “istituzione” sono perfettamente equivalenti , secondo il seguente schema logico: diritto=ordinamento giuridico=istituzione (anche se Santi Romano distingue due modi di intendere il termine diritto, v. “L’ordina­ mento giuridico”, p. 27).

Invece secondo la tesi criticata la sequenza è totalmente diversa, ed è gra­ ficamente esprimibile così: ordinamento+diritto=istituzione. In cui, in effetti il concetto d’istituzione non coincide con nessuno degli altri due. Ma tale impostazione è stata fuorviata da un altra equivalenza, più o meno espressa, per cui non tutti gli ordinamenti sociali, pur essendo gruppi (e, in certa misura, organizzati) sono ordinamenti giuridici

Nel pensiero dei tre giuristi considerati invece un gruppo sociale ordinato

è perciò stesso, un ordinamento sociale e, conseguentemente, giuridico (e l’equivalenza è chiarissima soprattutto in Schmitt. come rilevato da P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Milano 1982, p. 98- 99); mentre un gruppo sociale “non ordinato”, perciò stesso non è un ordina­ mento giuridico. È il concetto d’ordine (di “chiusura”, di “orientamento” unitario e relativamente uniforme – dell’agire sociale attraverso una volontà prevalente) a costituire il discrimine tra gruppi sociali che sono ordi­ namenti (e quindi sono ordinamenti giuridici) e quelli che non Io sono. È a questo, ed ai connotati che esso ha necessariamente, che va ridotto il diritto. E concetti come ordine, comando, ed effettività del comando stesso, sono, occorre ripeterlo, “fattuali” prima che “giuridici”.

(23)la definizione in Préçis de droit constitutionel, cit. p. 73 (per la forma dell’istituzione).

(24) Hauriou (op. cit, 76), riferendosi allo Stato (come  istituzione) scrive che ha una “structure formelle parfait” (rispetto alle “institutiones simi­laires” ); esso è “/’organitation parfait de ce mouvement” (che è il “movimen­ to” intrinseco al concetto che dell'”ordre” ha Hauriou); mentre a pag. 1 ricorda che Io Stato è una forma perfezionata dell’ ordre.

La nozione di potere, ordine, Stato di Hauriou, con l’importanza che danno ai concetti di consenso “coutumier”; con il continuo richiamo alla communautè per la formazione dell’istituzione – Stato (ed anche per le altre istituzioni), mostrano come pensava, in primo luogo alle istituzioni “commu­nitaires”.

(25) Ci scusino i lettori esperti della metodologia weberiana l’impiego dei “tipi ideali” comunità e società per classificare situazioni Chi scrive pensa, che è nel giusto Cari Schmitt a sostenere che, al fondo, anche lo Stato (o l’unità politica) più impregnato dell’idealtipo “società” a fondo, o nelle situazioni d’emergenza, si rivela più vicino al tipo ideale “comunità”. In tal senso è da prendere l’affermazione del testo: non cioè che nello Stato moderno manchino gli elementi riconducibili al tipo “società”; ma solo che, in definitiva, sono (o diventano) prevalenti quelli accostabili al tipo “comuni­ tà”. In effetti talvolta tali concetti vengono impiegati non come “tipi ideali”, ma come denotanti realtà sociali concrete, riconducibili in tutto e per tutto agli stessi (come le classificazioni zoologiche e botaniche). Èsignificativo tal­ volta leggere scritti di giuristi tutti convinti che, come “esistono” in concreto contratti e provvedimenti, così dovrebbero esistere “comunità”, “società”, “patrimonialismo” e, quel che più conta, persuasi di aver compreso, così facendo il senso dell’opera e del metodo di Max Weber (in particolare per chiarire il reale pensiero di quest’ultimo v. la raccolta di saggi pubblicati in traduzione italiana col titolo “limetodo delle scienze storico-socia/i”, Torino 195).

(26) Ci riferiamo, per la contrapposizione e la definizione tra comunità e società (e quindi tra le istituzioni – comunità e le istituzioni – società) alla (classica) ripartizione di Ferdinand TONNIES (v. Gemeinschaft und Gesell­ schaft, it. Milano 1979, in particolare p. 45-47); non si comprende a tale proposito come taluno abbia potuto affermare (v. M.S. GIANNINI, Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 31) che TONNIES “di­ stinse due sorta di gruppi: quelli diffusi non organizzati, che sono la società e quelli, diffusi o concentrati o organizzati, che sono le comunità”. Mentre è noto che per TONNIES il fundamentum distinctionis tra le une e le altre non era, come pensa GIANNINI, di avere o meno un’organizzazione, ma quello di basarsi su rapporti di tipo “meccanico” o, invece su rapporti “organici”. Per TONNIES (com’è intuibile nell’osservazione della realtà sociale e giuri­ dica) la Fiat è una società, mentre la setta valdese è una comunità. Ciò non toglie che entrambe siano ed abbiano delle organizzazioni.

Invero secondo TONNIES comunità significa un certo modo di atteggiarsi di relazioni sociali per cui “la comunità debba essere intesa come un organi­ smo vivente, e la Società, invece come un aggregato e prodotto meccanico” ( op. cit., p. 47). La prima è concepita come “vita sociale ed organica”; la seconda è una “formazione ideale e meccanica” (op. cit., p. 45).

Com’è noto che TONNIES, sviluppando questa intuizione basilare, rap­ portava ad uno dei grandi gruppi (o meglio ai tipi ideali) di associazioni sociali una serie di concetti, anche giuridici, derivanti dallo schema comu­ nità/società, come: volontà essenziale/volontà arbitraria; io/persona; pos­ sesso/patrimonio; suolo/denaro; diritto familiare/diritto delle obbligazioni; status/contratto (op. cit., p. 229). In questo, com’è chiaro. non c’è nulla che lasci presagire un fundamentum distinctionis come quello che attribuisce GIANNINI al sociologo tedesco, tenuto conto anche del fatto sopra cenna­ to, che sia le “società” che le “comunità” hanno  un’organizzazione.

Il pensiero di TONNIES è stato peraltro costantemente interpretato nel senso esposto: basti citare all’uopo Max Weber, il quale pur innovando -in parte – alla distinzione di TONNIES, definisce “comunità” la relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una “comune appar­ tenenza oggettivamente sentita”; “associazione” se poggia “su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente”. (Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Milano 1980, p. 38).

(27) Il discorso sulla connessione tra istituzionismo e decisionismo nel pensiero dei controrivoluzionari potrebbe apparire impreciso, atteso l’im­ piego di termini e formule che, nate nella dottrina del diritto, possono tra­ sporsi con una certa difficoltà a problematiche non del tutto coincidenti

In effetti, come spesso notato, la dottrina dello Stato di Bonald, Maistre e Donoso Cortés (ma anche – in parte – quella di Haller) è incentrata sul rap­ porto tra metafisica (e visione del mondo) e società politica. L’uno determi­ nante l’altra; è il reale, che si tratti di leggi naturali o credenze, a determinare il normativo. In questo contesto il ruolo autonomo della decisione è quello (insopprimibile) della scelta -in un contesto dato-tra male e bene; è il libero arbitrio applicato alla politica. La libertà di scelta tra più situazioni determi­ nate. Il cattolicesimo di Bonald, Maistre e Donoso Cortés impediva loro di cadere sia in un determinismo storico-sociale assoluto, sia nell’altrettanto assoluto soggettivismo. L’espressione forse più chiara di questo rapporto la si trova formulata da Maistre all’inizio delle “Considerations sur la France”; “siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Libera­ mente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno real­ mente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali. Ognuno di questi esseri occupa il centro di una sfera di attività, il cui diametro varia a piacere del geometra eterno, che sa estendere, restringere, arrestare o diri­ gere la volontà, senza alterare la sua natura. Nelle opere dell’uomo, tutto è misero come l’autore: le vedute sono ristrette, i mezzi rigidi, le molle infles­ sibili, i movimenti penosi, e monotoni i risultati. Nelle opere della divinità, le ricchezze dell’infinito si mostrano allo scoperto fin nel minimo dettaglio: la sua potenza agisce come per gioco; nelle sue mani tutto è docile, nulla le resiste; per essa tutto è mezzo, perfino l’ostacolo: e le irregolarità prodotte dall’operare dei liberi agenti trovano il loro posto nell’ordine   generale.

Se si immagina un orologio di cui tutte le molle variassero continuamente di forza, di peso, di dimensione, di forma e di posizione, e che indicasse tut­ tavia l’ora invariabilmente, ci si farà un’idea dell’azione degli esseri liberi in relazione ai piani del Creatore. Nel mondo politico e morale, come nel mondo fisico, esiste un ordine comune, ed esistono eccezioni a questo ordine. Comunemente vediamo una serie di effetti prodotti dalle stesse cause; ma in alcune epoche vediamo azioni sospese, cause paralizzate  ed effetti   nuovi.”

(v. trad. it., Roma 1985, p. 3). Dalle due impostazioni, soggettivismo ed oggettivismo, il primo negherebbe l’uomo, nella sua natura problematica e nel suo essere libero e perciò nelle sue possibilità di salvezza, ilsecondo Dio e la Sua trascendenza. Nella realtà i riferimenti di Bonald, Maistre e Cortès (nonché di Haller) ad una concezione “istituzionale” (ante litteram) dello Stato (e – in minor misura – del diritto) sono così frequenti e ripetuti che larga parte delle tesi di Hauriou, Schmitt e Santi Romano ne sembrano la diretta derivazione, se non un’aggiornata ripetizione. Data l’influenza delle concezioni aristotelico-tomistiche sui controrivoluzionari non c’è neppure da stupirsi che la loro visione dello Stato non sia diversa. All’uopo è sufficiente ricordare l’affermazione di Bonald che: “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza” (v. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Stael, trad. it. La costituzione come esistenza, Roma, 1985 p. 35); e che ciò che fa uno Stato sono “monarchia, religione e giustizia” (op. cit., p. 36); ovvero l’importanza che tutti i controrivoluzionari danno all’idea (e cioè alla visione del mondo) come determinante le istituzioni, come nello stesso senso alle cause storiche e naturali; o anche l’affermazione di De Maistre che “la costituzione è un’opera divina” e che “le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta “(Essai sur !es constitutions politiques I e IX); ovvero quella di Donoso Cortès che considera “le leggi fatte per la società e non viceversa ” ( Discurso sobre la dictatura, trad. it., Brescia 1964). Tutte affermazioni (e tante altre se ne potrebbero ricordare, a voler esaspe­ rare la pazienza del lettore) che confermano il carattere “istituzionalista” della loro visione della società politica.

(28) I rapporti tra le teorie di PARETO, MOSCA, MICHELS, FERRE­RO, e quella dei tre giuristi considerati, sono, ancor più di quelle tra questi e controrivoluzionari, largamente (se non totalmente) da Secondo PARETO le  società  umane  non  possono  sussistere  senza  una gerarchia ( Oeuvres, voi. VII, p. 422 v. anche J. FREUND, Pareto, trad. it. Bari 1976

  1. 146), e che comunque ogni società è divisa in due strati “uno strato supe­riore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati”. ( Oeuvres voi. XII p. 1301). La “costante” della divisione in classi (governante e governata) nelle società umane è confermata da Mosca: “Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politi­ ci, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta; in tutte le società … esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati” ( La classe politica, rist. Bari 1966 p. 61). Il termine “organizzazio­ne” viene talvolta da Mosca riferito alla classe dirigente, tal’altra all’intera società. Ma, in ambedue i casi, Mosca chiaramente riferisce il concetto al rapporto comando -obbedienza, sia in funzione del dominio stesso (la classe politica si organizza per esercitare il comando o, il che è lo stesso, per imporre la volontà dei propri componenti alla maggioranza), sia in funzione dell’esistenza della comunità globalmente intesa (v. op. cit., p. 177). Ancor più chiaro è il collegamento tra dominio delle élites ed organizzazione in MICHELS. Secondo questi “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oli­garchia. L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici… Essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti …; il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza ine­vitabile dell’estendersi dell’organizzazione induce necessariamente i soci… a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e com­petenze, ai soli capi. .. L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che è governata” ( Studi sulla democrazia e l’autorità; Firenze 1933 p. 32-33).

 

 

Europa, svegliati, per favore!, di George Soros

Prosegue l’inedita discesa in campo di George Soros nel dibattito politico. Sappiamo bene che il suo impegno non si limita alla mera espressione del proprio pensiero. Come pure sappiamo bene come il dispendio immane di risorse abbia ben poco di filantropico e molto di tentativo diretto e indiretto di determinare ed influenzare le vicende politiche di mezzo mondo. Conosciamo pure la sua capacità di trarre grandi vantaggi anche personali dalle sue azioni di influenza e destabilizzazione. Gerge Soros è comunque espressione e portabandiera di forze ben più potenti e propense ad agire nell’ombra. Il fatto che debba esporsi in prima persona è il segno che altre forze ed altri centri alternativi sono sorti con diversi ed antitetici punti di vista in grado questa volta di minacciare seriamente il sistema di potere e di relazioni costruito a partire dal dopoguerra. Una illusione di trionfo, alimentata dalla implosione della Unione Sovietica, trasformatasi rapidamente in un incubo con l’emergere prima di nazioni e paesi in competizione sempre più aperta con il paese dominante e successivamente di un nemico interno impersonato dal Presidente Trump. Anche gli dei non sono invincibili. Giuseppe Germinario

Europa, svegliati, per favore!

https://www.project-syndicate.org/commentary/political-party-systems-undermining-european-union-by-george-soros-2019-02

MONACO DI BAVIERA – L’Europa sta scivolando nell’oblio come in preda al sonnambulismo, e i popoli europei devono svegliarsi prima che sia troppo tardi. Se questo non avverrà, l’Unione europea è destinata a finire come l’Unione sovietica nel 1991. Né i nostri leader né i cittadini sembrano comprendere che stiamo vivendo un momento di grande rivoluzione, che abbiamo davanti a noi un ventaglio infinito di possibilità, e che per questo vi è grande incertezza sul risultato finale.

La maggior parte di noi pensa che il futuro sarà più o meno simile al presente, ma questo non è affatto scontato. In una vita lunga e movimentata come la mia, ho vissuto in prima persona molti momenti di quella che io chiamo “radicale instabilità”. Ebbene, oggi stiamo attraversando uno di questi momenti.

Il prossimo punto di svolta sarà rappresentato dalle elezioni del Parlamento europeo che si terranno a maggio del 2019. Purtroppo, le forze anti-europee godranno di un vantaggio competitivo nel processo di votazione per una serie di ragioni, tra cui il sistema partitico superato che vige in gran parte dei paesi europei, l’impossibilità pratica di modificare il trattato e la mancanza di strumenti legali per disciplinare gli stati membri che violano i principi fondanti  dell’Unione europea. L’Ue può imporre l’acquis comunitario (il suo corpus giuridico) ai paesi candidati, ma non ha capacità sufficiente per garantirne l’osservanza da parte degli stati membri.

L’antiquato sistema dei partiti ostacola coloro che vogliono preservare i valori su cui poggia l’Ue, mentre aiuta chi vuole sostituire tali valori con qualcosa di profondamente diverso. Questo vale per i singoli paesi e ancora di più per le alleanze transeuropee.

Il sistema partitico dei singoli stati riflette le divisioni che hanno avuto rilevanza nel diciannovesimo e ventesimo secolo, come il conflitto tra capitale e lavoro. Ma la spaccatura che più conta al giorno d’oggi è quella tra le forze favorevoli e contrarie all’Europa.

Il paese dominante nell’Ue è la Germania, e l’alleanza politica dominante in Germania – quella tra l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e l’Unione Cristiano-Sociale in Baviera (CSU) – è divenuta insostenibile. Tale alleanza ha funzionato finché non c’era alcun partito degno di nota a destra della CSU in Baviera, ma le cose sono cambiate con l’ascesa del partito estremista Alternative für Deutschland (AfD). Alle elezioni federali del settembre scorso, la CSU ha incassato il peggior risultato da oltre sessant’anni, mentre l’AfD ha fatto il suo esordio nel Parlamento bavarese.

L’ascesa dell’AfD ha vanificato la ragion d’essere dell’alleanza CDU-CSU, che però non può infrangersi senza innescare nuove elezioni, non auspicabili né per la Germania né per l’Europa. Allo stato attuale, la coalizione di governo non può essere così filoeuropea come invece sarebbe senza l’incombente minaccia dell’AfD a destra.

La situazione è lungi dall’essere disperata. I Verdi tedeschi si sono confermati come l’unico partito realmente europeista del paese, e continuano a guadagnare consensi nei sondaggi, mentre l’AfD sembra aver raggiunto il suo apice (tranne nell’ex Germania orientale). Ora, però, gli elettori dell’alleanza CDU-CSU sono rappresentati da un partito il cui impegno verso i valori europei è ambivalente.

Anche nel Regno Unito una struttura partitica obsoleta impedisce alla volontà popolare di trovare la giusta espressione. Tanto i laburisti quanto i conservatori sono divisi al loro interno, ma i rispettivi leader, Jeremy Corbyn e Theresa May, sono così determinati a portare a compimento la Brexit da acconsentire a collaborare pur di riuscirvi. La situazione si è complicata a tal punto che la maggior parte dei britannici vuole solo farla finita, pur se ciò segnerà il destino del paese per i prossimi decenni.

Ma la collusione tra Corbyn e May ha suscitato una certa opposizione all’interno dei rispettivi partiti, che nel caso dei laburisti rasenta la ribellione. Il giorno dopo l’incontro tra Corbyn e May, quest’ultima ha annunciato un programma per aiutare i distretti laburisti più poveri nel nord dell’Inghilterra, favorevoli alla Brexit. Corbyn è ora accusato di essere venuto meno all’impegno manifestato alla conferenza del partito laburista del settembre 2018 di appoggiare un secondo referendum sulla Brexit se non sarà possibile andare alle urne.

D’altro canto, la gente sta cominciando a rendersi conto delle conseguenze nefaste dell’uscita dall’Ue. Le probabilità che l’accordo di May venga respinto il 14 febbraio prossimo aumentano giorno dopo giorno. Ciò potrebbe suscitare un’ondata crescente di sostegno a favore di un nuovo referendum o, meglio ancora, di una revoca della notifica dell’articolo 50.

L’Italia si trova in una situazione analoga. Nel 2017, l’Ue ha commesso l’errore fatale di applicare rigorosamente l’Accordo di Dublino, che ingiustamente grava sui paesi di primo approdo per i migranti, come l’Italia. La situazione venutasi a creare ha spinto nel 2018 l’elettorato italiano, prevalentemente favorevole sia all’Europa sia all’immigrazione, verso il partito anti-europeo della Lega e il Movimento 5 Stelle. Il Partito Democratico, che prima dominava, è allo sbando e, pertanto, quella fetta non esigua di elettori che continuano a essere filoeuropei non ha più un partito da votare. È, tuttavia, in corso un tentativo di organizzare una lista europeista congiunta, e un simile riordino del sistema partitico sta avvenendo anche in Francia, Polonia, Svezia e forse altrove.

Nel caso delle alleanze transeuropee, la situazione è ancora più grave. Se, infatti, i partiti nazionali affondano le radici in un qualche passato, le alleanze transeuropee si basano interamente sugli interessi personali dei leader politici. Il Partito popolare europeo (PPE) è il primo colpevole. Esso è quasi del tutto privo di principi, come dimostra la sua volontà di consentire a Fidesz, l’unione civica presieduta dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, di continuare a far parte della coalizione al fine di conservare la maggioranza e controllare l’assegnazione di incarichi di prestigio nell’Ue. Le forze anti-europee rischiano persino di fare bella figura in confronto poiché se non altro hanno dei principi, per quanto odiosi.

È difficile immaginare come i partiti filoeuropei possano uscire vittoriosi dalle elezioni di maggio se non anteporranno gli interessi dell’Europa ai propri. Si può comunque sostenere l’opportunità di preservare l’Ue per poi reinventarla del tutto. Ma questo richiederebbe un cambio di atteggiamento nell’Unione stessa. La leadership attuale rievoca il politburo all’epoca del crollo dell’Unione sovietica, che continuava a emettere ukase, i decreti dello zar, come se fossero ancora attuali.

Il primo passo per difendere l’Europa dai suoi nemici, sia interni che esterni, è riconoscere l’entità della minaccia che rappresentano. Il secondo consiste nel risvegliare la dormiente maggioranza filoeuropea e mobilitarla in difesa dei valori fondanti dell’Ue. Se ciò non avverrà, il sogno di un’Europa unita potrebbe trasformarsi nell’incubo del ventunesimo secolo.

Traduzione di Federica Frasca

La catastrofe delle élite, la rovina delle nazioni_ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto un’altra pregevole recensione pubblicata in contemporanea su https://civiumlibertas.blogspot.com/2019/02/la-catastrofe-delle-elite-ne-parla-t.html?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+blogspot%2FvDDIG+%28Civium+Libertas%29 e su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

 

Antonio Pilati, La catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143, € 17,50.

Dopo un silenzio durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le “idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori, ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”, ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo). Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.

Una parentesi per il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.

Ed è proprio quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin dalle prime pagine del libro.

Le élite inconsapevoli (così – giustamente – definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle regolarità del politico (e non solo). In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione l’aveva data Francis            Fukuyama col notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda (vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato – ogni conflitto (falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre 2001 (al più tardi) si aveva uno choc planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate) aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da condividere.

Scrive l’autore che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora, erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri; indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla “caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita, pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le  ostetriche dei populisti sono state le élite inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri  di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia)”.

Da cui la prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche da un’incapacità di sintesi sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre vent’anni fa.

Tuttavia la conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche chances in più: “Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli”. Speriamo bene.

C’è tanto altro in questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente di scriverne: ai lettori scoprirlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’Italia, l’Europa e il Mondo: uno spaccato della servitù volontaria ed obbligatoria funzionale alle strategie Usa nel conflitto per l’egemonia mondiale. a cura di Luigi Longo

L’Italia, l’Europa e il Mondo: uno spaccato della servitù volontaria ed obbligatoria funzionale alle strategie Usa nel conflitto per l’egemonia mondiale.

 

a cura di Luigi Longo

 

 

Le letture che propongo riguardano gli aspetti nazionali, europei e mondiali che interessano le strategie della potenza egemonica mondiale, quali sono gli Stati Uniti d’America, nell’avanzamento della fase multicentrica.

La prima è tratta dal libro di Gianni Lannes, Italia, Usa e getta. I nostri mari: una discarica americana per ordigni nucleari, Arianna editrice, Bologna, 2014 (capitoli nn.4 e 5); la seconda è un articolo di Manlio Dinucci, Washington, la ragione della forza in il Manifesto del 5 febbraio 2019.

Qui mi interessa evidenziare tre questioni.

 

La prima. La sfera militare, nella fase multicentrica sempre più incalzante, tende ad avere un ruolo determinante all’interno del blocco dominante degli agenti strategici (principali, gestionali ed esecutivi). Per inciso, i nostri agenti strategici esecutivi della sfera militare sono incastrati sotto il comando di quelli principali statunitensi sia direttamente (Pentagono, Servizi segreti, eccetera) sia indirettamente tramite Nato.

E’ nella fase multicentrica, dove prevale l’egemonia coercitiva, che si incominciano a vedere le modifiche legislative ed istituzionali orientate ad un accentramento dei poteri per accorciare la filiera del comando e rendere più efficaci ed efficienti le strategie tra le potenze mondiali, finalizzate all’espansione e al controllo delle aree di influenza nel conflitto per l’egemonia mondiale (le potenze attuali sono Usa, Cina e Russia).

 

La seconda. La fine del progetto dell’Unione Europea, strumento strategico degli Usa pensato dopo la fine della seconda guerra mondiale per il coordinamento del mondo occidentale in opposizione al mondo orientale coordinato dall’Urss, coincide con l’inizio del relativo declino della potenza mondiale egemone statunitense (preceduto da una breve fase di dominio mondiale unipolare dopo l’implosione dell’Urss durata più o meno 10 anni) che tenta un cambio di strategia, per rilanciare il suo progetto egemonico mondiale, smembrando l’apparente Unione Europea (che è solo economico-finanziaria), che, nella fase unipolare, dove prevale l’egemonia consensuale, ha avuto un ruolo di dipendenza e servitù volontaria ed obbligatoria (coordinato principalmente nell’ultima fase dalla Germania tramite il sistema monetario dell’euro) permettendo l’occupazione militare dello spazio europeo da parte degli Usa. Altro che cambiare le regole, come sostengono molti sovranisti nostrani, per riconquistare sovranità come da Costituzione per mezzo delle elezioni europee (sic), ben sapendo che i Trattati europei hanno annullato la Costituzione italiana (e non solo), e, ammesso e non concesso che la Costituzione abbia a che fare con la vita reale della popolazione.

 

La terza. La fine dell’Unione Europea [che può essere simboleggiata formalmente dal trattato inconsistente di Aquisgrana tra Germania e Francia, due nazioni espressione di agenti strategici gestionali, che, tra le altre questioni, dimenticano sia la forza di polizia multinazionale a statuto militare, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda), sia l’esercito europeo (la PeSCO), sia l’Eri (Iniziativa di rassicurazione dell’Europa), tutte sotto comando della Nato, cioè degli Usa] potrebbe comportare un ripensamento sia dell’autodeterminazione storica di una nazione sia dell’autodeterminazione storica del continente Europa.

Un ripensamento che deve partire dalla formazione di agenti strategici che siano in grado di rompere l’egemonia statunitense e guardare ad Oriente, a quelle nazioni che sono a favore di un mondo multicentrico: Russia e Cina.

Il problema delle nazioni europee è quello di essere egemonizzate e guidate da agenti strategici gestionali ed esecutivi delle strategie statunitensi per il dominio unipolare del mondo, ovverossia i tre rappresentanti Angela Merkel in Germania, Emmanuel Macron in Francia, Sergio Mattarella in Italia.

 

 

Gianni Lannes, Italia, Usa e getta. I nostri mari: una discarica americana per ordigni nucleari, Arianna editrice, Bologna, 2014:

 

Capitolo 4

 

Radiazioni belliche

 

«Non si sa che effetto avrà sul sistema immunitario dei siciliani di Lentini la radioattività delle scorie nucleari nascoste dagli americani nel suolo», si legge in un passaggio del libro Radiation and Human Health, scritto dal professor John William Gofman1, uno dei maggiori esperti in materia a livello internazionale.

A cosa si riferiva, lo scienziato nordamericano di caratura mondiale? Forse alle scorie della vicina base militare USA di Sigonella? Forse, in qualcuna delle 27 cave dismesse – etichettate “apri e chiudi” – del comprensorio locale? Gli investigatori della Direzione investigativa antimafia hanno rilevato che la base di Sigonella compare tra gli enti che per anni hanno scaricato rifiuti nella discarica abusiva di Salvatore Proto, un prestanome del clan Santapaola-Ercolano2. In ogni caso, c’è poco da stare allegri. Le ricerche scientifiche concordano nel ritenere l’esposizione a grandi quantità di radiazioni il maggiore fattore di rischio per il tumore del sangue. «La leucemia è associata al plutonio, responsabile della perdita dell’immunità biologica che colpisce un numero crescente di persone», argomenta Gofman nelle sue innumerevoli pubblicazioni. Il 21 gennaio 1968 un bombardiere B-52 americano che trasportava 4 bombe H cadeva nel nord della Groenlandia, disintegrandosi e spargendo rottami radioattivi su un’area vastissima di terra e di mare.

Nel giro di qualche anno, le persone che erano venute inavvertitamente a contatto con i rottami si ammalarono di leucemia, e in quel luogo proprio la leucemia divenne una delle più frequenti cause di morte.

Se si scava, emergono delle singolari analogie con due incidenti aerei – di carattere militare – che hanno funestato la Sicilia orientale a metà degli anni Ottanta.

Il 12 luglio 1984, alle ore 14:45, proprio a Lentini, un quadrigetto Lockeed C141B “Starlifter” dell’US Air Force, con un carico segreto si schiantò ed esplose in contrada Sabuci-San Demetrio, dopo essersi levato in volo da Sigonella, diretto in Germania. Nell’impatto, morirono sul colpo 9 militari americani.

«I marines giunsero sul luogo del disastro pochi minuti dopo e ostacolarono militarmente l’intervento dei mezzi di soccorso locali e l’accesso addirittura delle Forze dell’ordine italiane; l’indagine fu sottratta alla magistratura italiana», rivela il sostituto commissario della Polizia di Stato, Enzo Laezza che l’11 agosto 1987 ha perso la figlia Manuela di appena 7 anni, colpita dalla leucemia mieloide acuta.

Le autorità americane mantennero il massimo riserbo sul carico trasportato dal velivolo. La zona in cui era precipitato l’aereo USA venne transennata e per una quarantina di giorni la statale 194, che collega Catania a Ragusa, fu interdetta al traffico veicolare.

Un altro incidente aereo, del quale però si hanno solo scarne notizie, si verificò nel giugno del 1985. Nell’occasione, un altro velivolo dell’aviazione USA, in volo verso la base di Sigonella, perse quota proprio negli agrumeti di Lentini. L’aereo si disintegrò nell’impatto con il suolo. L’area rimase impenetrabile ai comuni mortali siciliani per diversi mesi, fino a quando tutti i frammenti del velivolo furono raccolti dai marines. Cosa trasportavano, i due aerei in missione per il Pentagono sui cieli di Lentini? Oltre ai velivoli e agli uomini che persero la vita nei due incidenti, cos’altro compenetrò il suolo siciliano da allora? A bordo vi erano materiali nucleari o soltanto uranio sporco usato come contrappeso dei velivoli? Conseguenze letali a prova di scienza.

Da allora, nelle contrade agricole del comprensorio di Lentini, Carlentini e Francofonte i bambini muoiono di leucemia più che in ogni altra parte d’Italia.

«In provincia di Siracusa negli ultimi anni si è osservato un aumento della mortalità per leucemie. Estendendo l’osservazione a otto anni, i tassi provinciali si attestano intorno a quelli regionali e nazionali, a eccezione del distretto di Lentini, dove si osservano tassi di gran lunga maggiori».

L’Atlante della “mortalità per tumori” (vol. 2), realizzato da alcuni epidemiologi coordinati da Anselmo Madeddu – con il contributo dell’università di Catania – e pubblicato dall’Azienda sanitaria locale, parla chiaro.

«Questo dato nell’ultimo periodo di osservazione non solo si è consolidato, ma è cresciuto e sembra ineluttabilmente destinato a moltiplicarsi. La mortalità e l’incidenza dei tumori del sangue, in particolare leucemie e linfomi, nella zona nord della provincia siracusana – caso totalmente diverso dalla situazione di Augusta, Priolo e Gela – stanno divenendo sempre più preoccupanti.

Sarebbe utile verificare se esistono fattori di rischio legati a determinati rifiuti tossici che hanno inquinato terreni e falde freatiche non distanti dall’insediamento militare di Sigonella», denuncia il dottor Pino Bruno, un medico della CGIL. Nell’area vivono 60.000 persone, su un totale di 403.000 dell’intero territorio provinciale. Il 30 gennaio 2006, l’associazione “Manuela-Michele”, che dal 1991 si batte per fare luce sul gran numero di bimbi e ragazzini deceduti a causa di questa particolare forma di cancro, ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Siracusa, sollecitando un’indagine sulla «tangibile possibilità che i numerosi casi di leucemia possano essere causati dalla commistione di reati contro l’ambiente». Secondo l’avvocato Santi Terranova, «tocca alla magistratura indagare e capire perché in questa zona della Sicilia i bambini muoiono in percentuale maggiore rispetto ad altre aree del Belpaese». L’incandescente fascicolo giudiziario giace nelle mani del sostituto procuratore Maurizio Musco. Il pubblico ministero, da me interpellato personalmente, però, non si sbottona di un millimetro. Ben due documentati rapporti dell’Azienda sanitaria siracusana ipotizzano una causa di inquinamento scatenata dalla presenza sul territorio di «discariche illegali di scorie radioattive. Infatti le radiazioni ionizzanti sono associate a un aumento di rischio per leucemie e possono avere due origini: origini nucleari, per disintegrazione di radionuclidi naturali come il radon, o per disintegrazione di radionuclidi artificiali, come nel caso delle centrali nucleari o delle bombe».

Il primo volume dell’Atlante ha ricevuto anche la prefazione del professor Donald Maxwel Parkin, membro dell’International Agency for Research on Cancer (IARC): «Si spera che gli autori di questa eccellente monografia avranno l’energia, il tempo e la pazienza per preparare una terza monografia, quando saranno disponibili i risultati scientifici». Il terzo volume dell’Atlante, la cui presentazione era prevista per l’ottobre del 2006, ha subito un brusco stop dalla Regione sotto il regno del governatore Totò Cuffaro.

L’area orientale della Sicilia è forse un luogo contaminato dalle invisibili radiazioni? Perché la magistratura non ha aperto doverosamente un’indagine, in occasione addirittura di ben due incidenti aerei? Il governo italiano non si è preoccupato di chiarire la vicenda e ha preferito occultare i rischi? Tutti gli scenari previsti da politicanti e strateghi negli interminabili anni della Guerra Fredda, erano così saltati. Forse in un Paese membro della Nato sono rovinate al suolo alcune bombe atomiche nordamericane, sia pure disattivate?

Il comando militare “alleato” e le autorità italiane hanno sempre mantenuto un silenzio tombale sui due incidenti di Lentini. Per quale ragione? Non era successo niente di preoccupante e tutto era apparentemente tranquillo?

Altri fatti. La base militare di Sigonella ha “smaltito”, ma è meglio dire “occultato”, le proprie scorie pericolose – prodotte in enorme quantità – nell’ampio complesso militare in territorio di Lentini, nella contrada Armicci. Sempre in loco sono stati interrati i rifiuti speciali ospedalieri prodotti nel grande ospedale della vicina base americana, che si occupa della salute degli ottomila soldati di stanza a Sigonella e di tutti gli altri assegnati alle diverse basi della marina militare USA dislocate nel Mediterraneo. Chi li controlla? Nessuno. Per lo “Zio Sam” non valgono le leggi italiane e il nostro governo non ha mai fatto rispettare la sua sovranità. Neppure l’EPA (agenzia federale americana di protezione ambientale) ha l’autorità di monitorare le basi militari all’estero. All’addetto stampa della base USA, a suo tempo, abbiamo girato i quesiti, ottenendo in cambio un seccato «No comment». Comunque, era alla Giano Ambiente, una società a responsabilità limitata, che l’US Navy aveva affidato lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri speciali. Fondata nel 1983, la Giano Ambiente fa parte del Gruppo Giano SpA, con sede a Messina e ufficio di rappresentanza a Milano. L’azienda opera nel settore per la bonifica, il trasporto, lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti d’ogni genere prodotti in Italia, Germania, Francia e Austria; vanta ufficialmente un fatturato annuo di 4 milioni di euro. Essa è anche una delle aziende di fiducia della Marina militare italiana: la Direzione Commissariato in Sicilia affida alla Giano la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti delle basi navali di Augusta, Messina e Catania; l’impresa esegue inoltre lo smaltimento dei rifiuti industriali e tossici prodotti negli impianti di Priolo e Gela, di proprietà delle principali aziende petrolchimiche. Amministratore e principale azionista della Giano è il manager Gaetano Mobilia, rinviato a giudizio nell’aprile del 2004 con l’accusa di turbativa d’asta, falso e abuso d’ufficio. Già nel febbraio del 2002 il Tribunale aveva interdetto il Mobilia per due mesi dall’esercizio dell’attività d’impresa. Il nome di Gaetano Mobilia è poi comparso nel Rapporto Ecomafia 1998 di Legambiente: il manager messinese è legato alla ODM del faccendiere Giorgio Comerio, più volte sotto inchiesta per traffici di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi, ovvero per affondamenti di navi e siluri nel Mediterraneo e in alcuni Oceani, nonché occultamenti in Africa (alla voce “Somalia”, ma non solo). Mobilia ha fatto anche parte del consiglio d’amministrazione della Servizi Ambientali di Filippo Duvia, società coinvolta nello scandalo dei rifiuti occultati nella discarica di Pitelli a La Spezia. Un dato generale: soltanto il Dipartimento della difesa USA produce mediamente 800.000 t di rifiuti nocivi, cinque volte quelli prodotti dalle cinque maggiori multinazionali chimiche, senza contare quelli nucleari.

Ma dove siamo? Nei pressi dell’Etna, prossimi a un altro deposito nucleare segreto. “Saygonella”, come dicono gli yankee, è stata messa a disposizione delle Forze Armate degli Stati Uniti d’America sulla base di un Memorandum firmato l’8 aprile 1957 e mai ratificato dal Parlamento italiano. Il 18 dicembre 2003, è stato predisposto segretamente un nuovo “Accordo Tecnico” tra l’Italia e gli Stati Uniti per regolare l’utilizzo delle installazioni militari della base militare. “Nassig” ricopre un ruolo fondamentale nello stoccaggio e nella manutenzione di testate e munizioni per le unità della VI flotta e i reparti dell’aviazione USA e NATO. L’infrastruttura è classificata dal Pentagono come “Special Ammunition Depot” (deposito di munizioni speciali), in quanto è a Sigonella che viene effettuato lo stoccaggio delle bombe nucleari del tipo B 57 – stimate in 100 unità – utilizzate per la guerra antisommergibile. Una ventina circa di queste testate nucleari è destinata ai velivoli Atlantic in forza al 41° Stormo dell’Aeronautica italiana. Il numero degli ordigni atomici occultati nella base siciliana cresce in particolari periodi di esercitazioni o di crisi internazionale, quando l’insediamento aeronavale funziona da centro di manutenzione per le armi nucleari destinate alle unità navali della VI flotta e ai velivoli imbarcati. «Periodicamente vengono dislocate a Sigonella anche le testate nucleari del tipo B 43, B 61 e B 83 con potenza distruttiva variabile da 1 kt a 1,45 Mt», rivela un alto ufficiale dell’US Navy, di origine italo-americana. A 39 km di distanza, si erge il vulcano Etna con le sue eruzioni e a 16 la città di Catania. La mastodontica base sorge nei territori di Lentini (Siracusa) e Motta Sant’Anastasia (Catania) e si compone di due sezioni: NAS 1 e NAS 2 (Naval Air Station 1 e 2). La prima ospita gli uffici amministrativi e di sicurezza, gli alloggi per gli ufficiali, servizi e strutture per il personale, un centro commerciale. NAS 2 sorge invece a 15 km di distanza e comprende le due zone militari operative degli USA e della NATO, un Air Terminal, altri centri residenziali, due piste d’atterraggio di 2500 m, due aree di parcheggio in grado di garantire la prontezza operativa a un’ottantina di mezzi, tra aerei da trasporto, cacciabombardieri, pattugliatori ed elicotteri da combattimento, depositi munizioni e sistemi radar e di intercettamento. A circa 3 km da NAS 2, nel territorio di Belpasso, è presente una terza area militare, in cui sono stati realizzati un centro trasmissioni e una decina di depositi sotterranei colmi di munizioni e di sistemi d’arma. Infine, nell’adiacente porto di Augusta, sovente attraccano e stazionano sommergibili a propulsione e armamento nucleare, sotto il controllo diretto del Pentagono5. L’US Naval Computer and Telecommunication Station Sicily controlla, inoltre, la base Ulmo di Niscemi, ove sono state installate 41 antenne, che collegano i reparti fra Asia sud-occidentale, Oceano Indiano e Oceano Atlantico, ed è stato allestito illegalmente il dispositivo di guerra denominato Muos, distruggendo un’antica sughereta protetta solo sulla carta.

Nel 2006, ho realizzato un’inchiesta giornalistica. Su questa base conoscitiva, i senatori Liotta, Russo Spena e Martone, il 13 settembre di sette anni fa, hanno indirizzato ai ministri dell’Ambiente, della salute e della difesa l’interrogazione a risposta scritta numero 4-026456.

A Lentini e dintorni, numerosi cittadini, e soprattutto quei genitori che hanno perso i figli, continuano a chiedere, con insistenza inascoltata, se esiste un qualche nesso di causalità tra l’elevato tasso di mortalità infantile per leucemie e i due incidenti aerei.

Perché il governo italiano non è intervenuto positivamente per garantire l’effettivo diritto alla salute, come sancito dall’articolo 32 della Costituzione? Non si può fare finta di nulla o girarsi dall’altra parte, anche se le radiazioni letali sono invisibili all’occhio umano. Si tratta di un crimine latente, che sfiora i governi, ma annienta i bambini.

 

 

Capitolo 5

 

Eldorado di guerra

 

Da anni svettiamo in cima alla classifica mondiale per spese ed esportazioni militari, grazie anche alle triangolazioni che hanno fatto la fortuna dei servizi segreti, soprattutto del SISMI, e causato l’eliminazione mirata di ben quattro giornalisti, vale a dire: Graziella De Palo e Italo Toni, assassinati in Libano nel 1980, nonché Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ammazzati in Somalia nel 1994. Sicuramente in barba alla legge 185 del 1990, che vieta la vendita a Paesi in guerra o in cui non regna la democrazia. Gli ignari contribuenti sborsano milioni di euro per mantenere le basi militari dello “zio Sam”.

Gli italiani pagano con nuovi debiti gli armamenti, che la Difesa USA ci assegna. Ultimo caso: il cacciabombardiere nucleare F- 35, dal costo faraonico in perenne lievitazione.

La casta dei politicanti drena senza controllo le casse pubbliche, sempre più al verde; poi agli italiani dicono che non ci sono risorse per la scuola pubblica, la sanità collettiva, la ricerca di qualità, i servizi pubblici efficienti, il lavoro dignitoso, e tanto meno per la cultura, la famiglia, la salvaguardia ambientale e la reale crescita umana. Che succede, in un Paese a sovranità cancellata in cui i segreti di Stato coprono di tutto, sotto il peso di molteplici e schiaccianti condizionamenti? In ossequio alle pianificazioni della NATO, ecco l’ultima «Direttiva Ministeriale sulla politica militare italiana». Argomenti e contenuti del documento ufficiale, firmato dal ministro della Difesa non lasciano adito a equivoci, dubbi o fraintendimenti; eppure, il testo istituzionale passato inosservato ad analisti e mass media. Di che si tratta? Di una cosa inquietante: la preparazione a un conflitto bellico convenzionale e ibrido contro un nemico esterno (Siria, Iran e altri Stati “canaglia”), ma anche contro un problema interno. La direttiva ministeriale, emanata per il 2013, è in vigore anche nel 2014; composta da 24 pagine, si richiama prevalentemente alle normative di guerra e, in particolare, alle decisioni della NATO. Inoltre, presenta un vistoso omissis, ovvero un riferimento a una norma, che non è indicata, ma solo presunta: la “Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale e norme sulla medesima materia”; infatti vi è scritto, alla lettera: «VISTO il Codice dell’ordinamento militare […] VISTO il TESTO unico delle disposizione regolamentari in materia di ordinamento militare […] VISTO il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135; VISTA la Legge […………….] recante “Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale e norme sulla medesima materia”; VISTE le Conclusioni del Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre 2012; VISTA la “Chicago Summit Declaration” rilasciata dai capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Alleanza atlantica il 20 maggio 2012, EMANA per l’anno 2013 la direttiva ministeriale in merito alla politica militare, di cui all’annesso documento… IL MINISTRO Giampaolo di Paola».

Nel sommario, c’è un riferimento esplicito alle «Direttive specifiche per il potenziamento della condotta delle operazioni», ovviamente belliche; infatti, a pagina 8 (punti da 29 al 33, in alcune parti evidenziate in grassetto) si legge: «29. In ragione della mutevolezza del quadro internazionale, l’Italia deve saper concorrere a iniziative multilaterali caratterizzate da un significativo impegno militare, per affrontare in tempi brevi e in maniera risolutiva, crisi che dovessero accendersi in aree o contesti di critica rilevanza per la sicurezza del Paese e della stabilità internazionale. 30. Nel contempo, alla luce delle istanze che giungono dal Paese, le Forze Armate devono tenersi pronte ad assicurare quel supporto tecnico e organizzativo che risulta decisivo in caso di particolari emergenze nazionali, nei modi e nei tempi che verranno richiesti da parte delle autorità preposte alla gestione di tali eventi. 31. Non può essere, infine, ignorata la possibilità, per quanto remota, di un coinvolgimento del Paese e del sistema delle alleanze del quale siamo parte in un confronto militare su vasta scala e di tipo “ibrido”, ovvero che implichi sia operazioni militari convenzionali, sia operazioni nello spettro informativo, sia operazioni nel dominio cibernetico. 32. Elemento irrinunciabile della politica nazionale è anche il rispetto degli impegni assunti in sede europea, impegni finalizzati a garantire la stabilità di lungo periodo della moneta comune e, con essa, dell’intero sistema economico comunitario. Tale stabilità dev’essere considerata come essenziale per il perseguimento del fine ultimo costituito dalla sicurezza del sistema internazionale e delle relazioni politiche ed economiche che in questo si sviluppano […]». Unione dittatoriale? Il Consiglio europeo si riunisce almeno due volte a semestre a Bruxelles, nel palazzo Justus Lipsius. È composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri dell’UE e dal presidente della Commissione europea. È presieduto dal suo presidente Herman Van Rompuy. Prende altresì parte alle riunioni l’alto rappresentante per gli Affari esteri. L’Europa del potere bancario internazionale, pilotata dalla politica di dominio imperiale degli Stati Uniti d’America, non ha nulla a che vedere con il “vecchio continente” dei popoli liberi, sovrani e pacifici; infatti, il 14 dicembre 2012 il Consiglio europeo approvava così: «Una tabella di marcia per il completamento dell’Unione economica e monetaria, basato su una maggiore integrazione e una solidarietà rafforzata. I leader dell’UE hanno esaminato anche aspetti connessi alla politica di sicurezza e di difesa comune, le strategie regionali, l’allargamento e il processo di stabilizzazione e associazione, e la Siria […]. Nella conferenza stampa che ha fatto seguito al primo giorno di vertice, Herman Van Rompuy ha presentato i risultati delle discussioni della serata: progressi sull’istituzione del meccanismo di vigilanza unico, che dovrebbe consentire la ricapitalizzazione diretta delle banche mediante il meccanismo europeo di stabilità, e la decisione di istituire un unico meccanismo di risoluzione, una volta istituito il meccanismo di vigilanza unico. Herman Van Rompuy ha annunciato che presenterà altre misure economiche, dirette a conseguire un’Unione economica e monetaria europea stabile, da discutere nel Consiglio europeo di giugno 2013. Il Consiglio europeo ha approvato una tabella di marcia per il completamento dell’Unione economica e monetaria, basato su una maggiore integrazione e una solidarietà rafforzata».

In tempi bellici vale appunto il Codice di Guerra del Patto Atlantico. Non a caso, si fa riferimento esplicito al Chicago Summit Declaration (dei capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Alleanza atlantica (maggio 2012)3. Anche i rappresentanti del Belpaese senza alcun mandato parlamentare hanno accettato di scatenare la guerra, addirittura quella nucleare.

In punta di diritto, il poco noto Trattato di Lisbona (firmato il 12 dicembre 2007 da Prodi & D’Alema) entrato in vigore nel 2009, ha superato (annullato) la Costituzione italiana, ma chi detta legge preferisce non farlo sapere al popolo sovrano solo in teoria.

Attenzione: la questione tocca il rapporto tra la democrazia rappresentativa e il potere militare, che si reggono su princìpi diversi: su libertà e controllo pubblico, la prima; su disciplina, obbedienza cieca e gerarchia, il secondo. Quale pericolo si profila, concretamente, per l’Occidente? L’instaurarsi di tendenze autoritarie, che trovano espressione nel pensiero militare e legittimazione nell’ambito politico. Imperversa infatti il modello autoritario delle élite militari che hanno preso il sopravvento sui Parlamenti, già esautorati dai governi, palesemente eterodiretti. Le democrazie rappresentative occidentali hanno subito non golpe militari, bensì svuotamenti graduali che comportano un mantenimento solo apparente di forme democratiche, che coprono in realtà una sostanza oligarchica. È in questo tipo di processo che hanno trovato un ruolo le élite militari insieme a quelle dei servizi di sicurezza, vale a dire il potere repressivo. A parte i terroristici postulati del pensiero geopolitico nordamericano, c’è un documento del Pentagono, risalente al gennaio del 1992 (Prevent the Re-Emergence of a New Rival), davvero “illuminato”. Lo scenario che vi si profila è la fine del mondo in senso occidentale, e l’involuzione del sistema verso un unico e assoluto governo mondiale, non eletto dai popoli, selezionato dal sistema di potere finanziario. È interesse vitale, per gli USA, impedire, sia in Europa che in Asia, il sorgere di una superpotenza in grado di sfidare il potere mondiale degli Stati Uniti. Tale strategia, ufficialmente smentita, traspare però nell’adozione di una struttura delle Forze armate nordamericane.

La forza militare gioca un ruolo determinante nelle relazioni internazionali, e le armi nucleari non verranno eliminate. Ecco i due punti cardine del pensiero a stelle e strisce del presente e del futuro: essere l’unica superpotenza e l’esportazione della democrazia secondo il proprio modello quale realizzazione di una nuova storia basata sulla pax americana, imposta con la forza militare. Attenzione non solo al potere finanziario, ma a quello delle élite militari. Alla luce di Eurogendfor (alla voce “Trattato di Velsen”), ovvero la gendarmeria militare europea sotto il controllo della NATO, che esautora tutte le forze di polizia, carabinieri compresi, con licenza di uccidere chiunque, a buon diritto, osi ribellarsi e di distruggere qualunque obiettivo civile senza alcun controllo della magistratura e del Parlamento.

E allora? «Per amare la pace, bisogna armare la pace. L’F-35 risponde a questa esigenza», aveva dichiarato pubblicamente il ministro della Difesa Mario Mauro, titolare nel governo Letta (dimissionato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano nel febbraio 2014): una “dichiarazione d’amore” al jet da guerra, utilizzata senza colpo ferire dalla multinazionale Lockheed Martin per lo “F 35 show” di New York.

Doveva essere il cacciabombardiere del futuro; invece l’F35 targato Lockheed, dopo la piena adesione dei governi tricolore al dispendioso e inutile programma di riarmo bellico in violazione dell’articolo 11 della Costituzione, rischia di diventare un boomerang. Specie ora che il Pentagono lo marchia come aereo difettoso e inaffidabile, con problemi strutturali e di gestione dei software. Il tutto, all’interno di un rapporto in cui, beffa ulteriore, si stimano nettamente al ribasso i livelli occupazionali promessi dal programma stesso. Secondo l’ultimo rapporto del Pentagono (per ora il sesto della serie) Director of Operational Test and Evaluation (DOT&E) – recapitato al Congresso venerdì 24 gennaio 2014, ma anticipato due giorni prima da una nota dell’agenzia giornalistica Reuters – «le prestazioni sull’operatività complessiva continuano a essere immature e rendono necessarie soluzioni industriali con assistenza e lavori inaccettabili per operazioni di combattimento».

È il DOT&E a definire “inaccettabili” le prestazioni del software, ponendo l’accento su altri due problemi particolarmente critici, già denunciati a più riprese: la continua scarsa affidabilità del sistema logistico ALIS, del cui “terminale di ingresso” italiano il sito di Cameri dovrebbe presto cominciare a equipaggiarsi, e l’altrettanto perdurante mancanza di adeguati margini di crescita del peso del velivolo, fattore chiave per ogni sviluppo ulteriore di cellula, sistemi e quant’altro. La fusoliera, in particolare, è soggetta a crepe che richiedono continua assistenza, circostanza, questa, che – in caso di guerra o di conflitto – rischierebbe di comprometterne in modo pesante l’operatività. Sempre sul fronte dell’affidabilità della fusoliera, già un anno fa la Difesa statunitense aveva sottolineato come, nel tentativo di ridurre il peso del velivolo (è stato infatti quasi raggiunto il peso massimo, prima di compromettere le capacità tecniche previste per contratto) lo si era reso talmente fragile che, se colpito da un fulmine, sarebbe potuto esplodere. Risultato: il cacciabombardiere non può volare a meno di 45 km da un temporale. Per non parlare, poi, della scarsa visibilità posteriore e del sistema radar, incapace di inquadrare gli obiettivi. Beffardamente, sarebbero proprio gli F-35 nella versione a decollo verticale su pista corta ad avere il software più difettoso. L’Italia ha già finanziato l’acquisto di 90 caccia F-35 (inizialmente erano 131) per l’Aviazione e per la Marina: di questi, due terzi sono modelli “tradizionali” Lightning 2, un terzo invece è composto da F-35B a decollo corto e atterraggio verticale. L’intera operazione costa, nel 2014, circa 12 miliardi di euro, ma il prezzo finale, quando il velivolo sarà ormai obsoleto, è destinato ad aumentare notevolmente. L’adesione al programma JSF è stata siglata per la prima volta dall’Italia nel 1998 (con la firma dell’allora ministro Massimo D’Alema); la scelta è stata poi confermata nel 2002 – senza ratifica parlamentare – dall’esecutivo allora in atto di mister Silvio Berlusconi (tessera P2 numero 1816)8; la decisione è stata infine confermata nel 2012 dal governo Monti. Secondo il Consiglio supremo della difesa, presieduto da Giorgio Napolitano, la prescrizione voluta dalla maggioranza non è attuabile. Il Consiglio supremo della difesa ha ribadito che la titolarità delle scelte sull’ammodernamento delle Forze armate, quindi anche sugli F-35, spetta al governo. La polemica sul programma di acquisto degli F-35 (Joint Strike Fighters) si è recentemente riaccesa dopo la notizia che il governo si appresta a dimezzare il parco dei velivoli Canadair antincendio, per mancanza di fondi. Eppure i lavori per l’assemblaggio del primo F-35 destinato all’Italia sono già cominciati (lo ha attestato «Il Sole 24 Ore») e il cacciabombardiere dovrebbe essere completato nel secondo semestre del 2015. Per i generaloni dell’Arma azzurra, questo caccia multiruolo è «un sistema d’arma di combattimento di nuova generazione economicamente sostenibile e supportabile in tutto il mondo». Nel portale online dell’Aeronautica militare è scritto: «Il Joint Strike Fighter (JSF) è un velivolo multi-ruolo con uno spiccato orientamento per l’attacco aria-suolo, Stealth, cioè a bassa osservabilità radar e quindi a elevata sopravvivenza, in grado di utilizzare un’ampia gamma di armamento e capace di operare da piste semipreparate o deteriorate, pensato e progettato per quei contesti operativi che caratterizzano le moderne operazioni militari di quest’era successiva alla Guerra Fredda. Nello specifico, il JSF può soddisfare un ampio spettro di missioni, a conferma della notevole versatilità della macchina, assolvendo compiti di operazioni di proiezione in profondità del “potere aereo”, di soppressione dei sistemi d’arma missilistici avversari e di concorso al conseguimento della superiorità aerea».

Il programma d’acquisto italiano per 131 aerei da guerra, in ossequio ai voleri del padrone nordamericano, prevede attualmente (8 maggio 2014) una previsione minima di spesa pari a ben 15 miliardi di euro (una lievitazione ingiustificata di altri 3 miliardi), equivalenti a una manovra finanziaria. Altre nazioni hanno già rinunciato. Le temute penali sul ritiro italiano non esistono. Lo ha confermato, tra l’altro, l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini, che sa perfettamente quanto sia reale la subordinazione delle forze armate italiane. Perché comprare a tutti i costi – pagati però dagli ignari contribuenti – un autentico bidone, tant’è che lo stesso responsabile del programma Joint Strike Fighter, tale David Venlet, ha ammesso pubblicamente che «qualcosa non va nel programma, disegnato in modo da permettere la produzione massiccia prima ancora di terminare i test»? Infatti, secondo i responsabili tecnici USA, «il programma F35 continua a mostrare problemi tipici delle prime fasi di sperimentazione». Le reiterate richieste di ritocchi e modifiche fanno intuire che il JSF non sarà pronto per le operazioni belliche prima del 2019, ossia otto anni dopo il termine previsto. A quel punto, la macchina volante potrà essere considerata obsoleta, ma i costi saranno schizzati alle stelle.

In altri termini, il jet multiruolo, che doveva assicurare la superiorità aerea, atterrare sul ponte di una nave scendendo in verticale e di nascosto dai radar nemici, costa enormemente, ma non è ancora in grado di mantenere le promesse. In tempi di crisi speculativa, aumentano i dubbi sulla reale necessità di macchine inutili come i caccia di quinta generazione, che servono esclusivamente per fare la guerra, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione (superata dal Trattato di Lisbona): un’altra brutta storia sconosciuta ai più, e da non dimenticare, mai.

 

 

Washington, la ragione della forza

L’arte della guerra. L’escalation Usa, dall’incoronazione di Guaidò alla sospensione del Trattato Inf

Manlio Dinucci

Due settimane fa Washington ha incoronato presidente del Venezuela Juan Guaidò, pur non avendo questi neppure partecipato alle elezioni presidenziali, e ha dichiarato illegittimo il presidente Maduro, regolarmente eletto, preannunciando la sua deportazione a Guantanamo. La scorsa settimana ha annunciato la sospensione Usa del Trattato Inf, attribuendone la responsabilità alla Russia, e ha in tal modo aperto una ancora più pericolosa fase della corsa agli armamenti nucleari. Questa settimana Washington compie un altro passo: domani 6 febbraio, la Nato sotto comando Usa si allarga ulteriormente, con la firma del protocollo di adesione della Macedonia del Nord quale 30° membro.

Non sappiamo quale altro passo farà Washington la settimana prossima, ma sappiamo qual è la direzione: una sempre più rapida successione di atti di forza con cui gli Usa e le altre potenze dell’Occidente cercano di mantenere il predominio unipolare in un mondo che sta divenendo multipolare. Tale strategia – espressione non di forza ma di debolezza, tuttavia non meno pericolosa – calpesta le più elementari norme di diritto internazionale. Caso emblematico è il varo di nuove sanzioni Usa contro il Venezuela, con il «congelamento» di beni per 7 miliardi di dollari appartenenti alla compagnia petrolifera di Stato, allo scopo dichiarato di impedire al Venezuela, il paese con le maggiori riserve petrolifere del mondo, di esportare petrolio.

Il Venezuela, oltre a essere uno dei sette paesi del mondo con riserve di coltan, è ricco anche di oro, con riserve stimate in oltre 15 mila tonnellate, usato dallo Stato per procurarsi valuta pregiata e acquistare farmaci, prodotti alimentari e altri generi di prima necessità. Per questo il Dipartimento del Tesoro Usa, di concerto con i ministri delle Finanze e i governatori delle Banche Centrali di Unione europea e Giappone, ha condotto una operazione segreta di «esproprio internazionale» (documentata da Il Sole 24 Ore). Ha sequestrato 31 tonnellate di lingotti d’oro appartenenti allo Stato venezuelano: 14 tonnellate depositate presso la Banca d’Inghilterra, più altre 17 tonnellate trasferite a questa banca dalla tedesca Deutsche Bank che li aveva avuti in pegno a garanzia di un prestito, totalmente rimborsato dal Venezuela in valuta pregiata. Una vera e propria rapina, sullo stile di quella che nel 2011 ha portato al «congelamento» di 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici (ormai in gran parte spariti), con la differenza che quella contro l’oro venezuelano è stata condotta segretamente. Lo scopo è lo stesso: strangolare economicamente lo Stato-bersaglio per accelerarne il collasso, fomentando l’opposizione interna, e, se ciò non basta, attaccarlo militarmente dall’esterno.

Con lo stesso dispregio delle più elementari norme di condotta nei rapporti internazionali, gli Stati uniti e i loro alleati accusano la Russia di violare il Trattato Inf, senza portare alcuna prova, mentre ignorano le foto satellitari diffuse da Mosca le quali provano che gli Stati uniti avevano cominciato a preparare la produzione di missili nucleari proibiti dal Trattato, in un impianto della Raytheon, due anni prima che accusassero la Russia di violare il Trattato. Riguardo infine all’ulteriore allargamento della Nato, che sarà sancito domani, va ricordato che nel 1990, alla vigilia dello scioglimento del Patto di Varsavia, il Segretario di stato Usa James Baker assicurava il Presidente dell’Urss Mikhail Gorbaciov che «la Nato non si estenderà di un solo pollice ad Est». In vent’anni, dopo aver demolito con la guerra la Federazione Jugoslava, la Nato si è estesa da 16 a 30 paesi, espandendosi sempre più ad Est verso la Russia.

 

Marx, l’Europa e il globalismo, di Gennaro Scala

Marx, l’Europa e il globalismo

Marx, l'Europa e il globalismo
di Gennaro Scala
tratto da https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-marx_leuropa_e_il_globalismo/11_26268/?fbclid=IwAR2sRjjxWOCjYrwK3lm98F4QgB2yhcrKDj9uAYUXLuShEuyBjf814y-Rp3IIl 17 ottobre 1845, Karl scrive al borgomastro di Treviri per chiedere il passaporto prussiano, necessario per emigrare oltre Atlantico. Se lo vede rifiutare, ancora una volta incorrendo in un mandato di cattura. Con una lettera del 10 novembre 1845 rinuncia quindi alla propria nazionalità. D’ora in avanti sarà apolide. Marx decide dunque di non lasciare Bruxelles. La sua vita resterà ancorata all’Europa.

(Jacques Attali, Marx ovvero lo spirito del mondo)

Ti vorresti svegliare per liberarti dell’immagine dell’Europa. Ma non è possibile.

(dal film di Lars von Trier, Europa)

In un mio precedente intervento su Marx, Lenin e l’immigrazione accennavo al rapporto tra Marx e il “globalismo”, vorrei ora approfondire tale specifica questione. Esiste oggi, dopo che Edward Said sollevò il problema nel suo Orientalism, un’ampia letteratura complessivamente concorde sul fatto che Marx fu partecipe dell’eurocentrismo dominante nella cultura europea del suo tempo, dibattito di cui però non è giunta notizia agli ultimi sparuti difensori del sacro testo marxiano. Rimando in merito a quello che ho trovato uno dei testi migliori Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies, lavoro alquanto obiettivo, in cui Kevin B. Anderson, pur definendosi marxista, prende in esame i testi più “scabrosi” per la mentalità politicamente corretta “di sinistra”. Qui non ci occuperemo tanto dell’eurocentrismo di Marx, che daremo per stabilito, quanto della sua origine e significato, e del suo rapporto con il comunismo marxiano. Però, sia ben chiaro, non intendo fare un esercizio di “politicamente corretto”, la condivisione della pervasiva mentalità eurocentrica ottocentesca (e non facile per ognuno sfuggire ai pregiudizi più radicati del proprio tempo) non toglie nulla alla validità della sua analisi della formazione e dinamica de Il capitale. Inoltre, l’eurocentrismo è il risvolto negativo di ciò che lo rende una personalità per noi ancora significativa, l’essere stato un “segnalatore di incendio” che aveva avvertito profondamente quella crisi della civiltà europea che si concluderà con due guerre mondiali, per la quale prospettò una soluzione “radicale” ma utopica: il comunismo, in cui l’Europa si estendeva fino ad abbracciare l’umanità intera. In Marx l’adesione ai valori della civiltà europea e la preoccupazione per la sua sorte, il che è giusto e sacrosanto, si confonde con l’eurocentrismo, il che è sbagliato.

Per inciso, un certo economicismo entrato a far parte del senso comune, ritiene che con il passaggio all’egemonia statunitense si sia passati semplicemente da una forma di capitalismo ad un’altra (c’è da dire che Marx mai usò il termine capitalismo). In realtà, noi viviamo in un universo culturale che è diverso da quello di Dante, di Machiavelli, di Goethe, di Foscolo, di Verdi e persino di Gramsci. Con il passaggio alla “società di massa” siamo entrati in una diversa forma di civiltà, che seppur generata della civiltà europea, e di questa conserva geneticamente alcune forme, è però da questa diversa, come pochissimi intellettuali hanno visto, tra cui Pasolini che parlò di “genocidio culturale”.

La definizione sintetica più adeguata per la visione dei rapporti inter-nazionali di Marx sarebbe eurocentrismo globalista, ma useremo, per semplicità, il termine globalismo. Inoltre, in ambito accademico anglo-sassone la critica dell’“eurocentrismo” è diffusa (esiste anche una corrente di studi accademica, i post-colonial studies, che ruota intorno a questo tema) presentandolo però come qualcosa del passato, come già dice la definizione di questa disciplina, più difficilmente viene messa in luce la continuità tra l’eurocentrismo e il globalismo odierno, anzi spesso la critica dell’etnocentrismo viene effettuata secondo l’ottica del globalismo, il quale si presenta apparentemente in termini opposti, non come eurocentrismo che talvolta sfocia nel razzismo, ma universalismo che predica “accoglienza” verso i popoli sfortunati della Terra, i quali tutti hanno diritto a venire a lavorare per paghe da fame, o come manovalanza per la criminalità, nel paradiso occidentale. Per una istruttiva e incisiva descrizione di come sciovinismo e universalismo finiscano per identificarsi consiglio la lettura del classico testo di Nikolaj Trubeckoj, L’ Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo. Il globalismo è il nazionalismo della nazione dominante. Tutte le guerre post-89 sono state giustificate su una base universalistica, in difesa dei “diritti umani”, con cui venivano giustificati i “bombardamenti umanitari”. Tale globalismo si presenta come l’imposizione di un unico modello valido, la “democrazia occidentale” a cui tutti gli altri popoli della Terra si devono adeguare.

C’è stato un breve periodo, se commisurato ai tempi storici, ormai concluso, di rinascita del globalismo, dopo il crollo del mondo “bipolare” del dopoguerra seguito al “crollo dell’Unione Sovietica” e la possibilità di un analogo crollo in Cina, in cui è apparso possibile che l’Occidente a guida statunitense, potesse diventare l’unica potenza globale. Questo periodo è già concluso, con il ritorno in scena della Russia, e con la stabilizzazione della Cina quale grande potenza mondiale. Il globalismo di ritorno, se così possiamo chiamarlo, ha trovato varie forme di rappresentazione ideologica, tra cui Impero di Negri e Hardt svolse una particolare funzione ideologica tra le aree di sinistra post-sessantottine e post-marxiste: scomparso il Soggetto, la “classe operaia” sostituita da un soggetto non soggetto (se mi passate il gioco di parole), da una somma di singolarità (la moltitudine), veniva però ripreso lo schema che si può derivare dal Manifesto del partito comunista, che prevedeva una progressiva concentrazione del potere estesa a tutto il globo e relativa “scomparsa degli stati nazionali” a cui si opponeva una Moltitudine che veniva a sostituire la ormai mitica classe operaia. Significativamente veniva salutato da Slavoj Žižek come “il manifesto del XXI secolo”.

Non rendiamo però giustizia a Marx se oscuriamo la differenza tra il globalismo “post-moderno” di un Toni Negri, che è per la maggior parte affabulazione ideologica al servizio dei più pericolosi settori della classe dominante statunitense (quei settori globalisti che ultimamente con la Clinton non escludevano un attacco alla Russia), e il globalismo di Marx che è il tentativo utopico ma genuino di uscire da una situazione senza via uscita della civiltà europea. Rispetto all’immaginaria scomparsa dello stato-nazione decretata da Negri e Hardt, l’anti-nazionalismo marxiano ha ben più fondate ragioni, se visto in un’ottica europea (come vedremo), il problema è che vorrebbe risolversi nella soluzione utopica del comunismo. Scomparsa la “classe operaia”, sostituita da “diversi” di varia natura, fissati nella loro diversità secondo una forma di razzismo al contrario, le residuali forze di sinistra di derivazione comunista in occidente sono diventate un puro e semplice strumento del globalismo.

Come scrivevo precedentemente, l’opera maggiormente segnata dall’approccio globalista e che maggiormente ha influito negativamente sul movimento operaio del secolo scorso è stata, a mio parere, il Manifesto del partito comunista. Chi scrive non è stato indifferente a suo tempo al fascino esercitato da questo pamphlet, dopo la cui lettura la Storia (con la maiuscola) sembra acquisire un senso e una direzione. Ma una volta superata l’illusione di possedere la chiave per la comprensione dei fattori storici, lo schema dell’evoluzione storica non regge neanche ad un superficiale esame, cominciando dal famoso incipit “la storia è lotta di classe, schiavi e liberi, patrizi e plebei”, visto che non è ci è giunta notizia di lotte di classe tra schiavi e liberi nell’antica Grecia, tutt’al più potrebbe essere parzialmente valido per Roma antica (Spartaco e altri, anche se non furono certo lotte determinanti per l’assetto sociale romano), ma la palla già passa a “patrizi e plebei”. Dell’incipit del Manifesto si potrebbe conservare solo questa parte parte “la storia è lotta” (ritornando al detto di Eraclito secondo cui il conflitto è padre di tutte le cose), il conflitto è il motore della storia, ma non solo tra classi sociali, vi sono conflitti all’interno delle classi dominanti, conflitti tra le classi dominanti di diverse nazioni, conflitti tra i dominati, senza considerare le classi medie (visto che la polarizzazione tra “borghesi” e “proletari” prevista da Marx non si è verificata), insomma un reticolo di conflitti attraversa le società, al loro interno e verso l’esterno, e dà vita alla dinamica sociale, e in genere i conflitti che hanno l’effetto sociale più dirompente sono i conflitti tra eserciti quali concentrazione della forza, perché i conflitti si vincono in ultima analisi con la forza. Nonostante che Marx avesse il culto della Storia (“conosciamo una sola scienza: la storia”), il suo riduzionismo non è sostenibile proprio dal punto di vista storico. Uno storico di professione come Eric Hobsbawm in una prefazione a Forme precapitalistiche di produzione, sottolineava come Marx si concentrò sullo studio dei rapporti capitalistici di produzione, ma dal punto di vista dell’analisi propriamente storica sia lui che Engels erano dei “dilettanti ben informati”.

Sono convinto che oggi sia più di ieri necessaria la riscoperta di una prospettiva socialista, ovvero una forma di regolazione collettiva del sistema produttivo (senza però soffocare l’iniziativa individuale senza la quale ogni sistema diventa per forza di cose stagnante), data la irrazionalità di questo sistema, con le sue mostruose diseguaglianze, la sua tendenza a tagliare fuori dal “sistema” masse crescenti di popolazione, i rischi enormi per l’ambiente che esso comporta, il degrado dell’alimentazione, dell’istruzione, della formazione, delle attività del tempo libero. Tuttavia non è possibile ricostruire una prospettiva socialista senza fare i conti con lo scacco subito dal comunismo storico. Per la rinascita di un pensiero socialista oggi sono convinto sia necessario liberarsi dell’utopia universalista/globalista che ebbe il nome di comunismo, nata in un contesto particolare di crisi della civiltà europea. Essa è stata già di fatto accantonata dalla storia, ma il rischio oggi è quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, come suol dirsi. Coloro che non hanno fatto i conti con tale necessità non possono che diventare che gli utili idioti delle peggiori tendenze delle peggiori classi dominanti odierni (idiozia che talvolta fa il paio con il piccolissimo opportunismo di meschini mestieranti della politica). Come nel caso delle politiche a favore dell’immigrazione, sostenute dai principali partiti di sinistra europei, uno degli strumenti (certo, uno dei tanti) con cui le classi dominanti nei paesi occidentali hanno abolito gli “eccessivi diritti” di classi popolari che nei paesi occidentali avevano “alzato troppo la testa”. Non è un caso che questa sia una tara soprattutto dei partiti comunisti “occidentali” (secondo la distinzione tra “marxismo occidentale” e “marxismo orientale” effettuata da Losurdo), i quali taccerebbero di “fascismo” la posizione sull’immigrazione ad del Partito Comunista della Federazione Russa o quella del Partito Comunista Francese, che, quand’era ancora un partito di massa si oppose, con Marchais all’immigrazione, individuando in essa un tentativo delle classi dominanti di minare le condizioni di vita delle classi popolari.

Se vogliamo fare i conti con la parte peggiore dell’eredità lasciataci dal defunto “comunismo storico” dobbiamo partire, a mio parere, dal globalismo del Manifesto. L’elogio ivi contenuto del ruolo rivoluzionario della “borghesia” che “trascina nella civiltà le nazioni più barbare” si trasformerà 5 anni più tardi in aperto sostegno all’espansionismo globale britannico: trasfigurato, in termini para-religiosi, come uno strumento con cui si compie il “destino dell’uomo” (in un articolo del 1853 dal significativo titolo La dominazione britannica in India [o l’Inghilterra rivoluzionaria malgrado se stessa].

Certo, Marx denunciò a più riprese la “barbarie e intrinseca ipocrisia della civiltà borghese” che si presentava senza veli nelle colonie (I risultati futuri della dominazione britannica in India), e per questo chi ha voluto fare di Marx un “anticolonialista” ha sempre trovato singole affermazioni nei suoi testi a sostegno di questa tesi, tuttavia, se consideriamo la posizione complessiva di Marx, l’espansionismo coloniale venne da lui giustificato come una forma di diffusione del modello europeo che apportava il progresso, seppur tra lacrime e sangue, con mezzi barbarici. Una difesa retoricamente più efficace rispetto ai puri e semplici cantori della missione civilizzatrice europea. Il “marxista” Anderson, citato all’inizio, parla per quanto riguarda gli articoli di Marx sull’India di “supporto qualificato per il colonialismo”. Supporto tanto più efficace perché Marx era sicuramente convinto di quello che scriveva e non fu mai un volgare propagandista. Ma se poteva apparire plausibile ai tempi di Marx la convinzione che alla fine l’espansionismo globale della borghesia potesse risultare in un salto in avanti complessivo dell’umanità, seppur bisognasse fare delle acrobazie logiche e mettere in campo degli artifizi dialettici per difenderlo, non lo è per chi oggi, alla luce dei fatti storici, continua a propagandare tale nozione di “progresso”, considerata la “esplosiva” eredità che questo espansionismo ci lascia. In tale “dialettica” dell’espansione coloniale la dialettica quale disciplina filosofica ritrova i suoi antichi legami con la sofistica. Marx ritenne complessivamente positivo il dominio inglese in India, condannò la rivolta dei Taiping (in un articolo Chinesisches per Die Presse del 7 luglio 1862, uno dei più testi più eurocentrici di Marx), una delle più imponenti rivolte anti-coloniali del 19° secolo, che le potenze europee contribuirono in modo decisivo a sedare, e se si aggiunge il suo odio antirusso, ne risulta un marcato eurocentricismo.

La prospettiva globalista di Marx è riassunta in una lettera ad Engels (8 ottobre 1858):

 

Non possiamo negare che la società borghese ha vissuto, per la seconda volta, il suo XVI secolo – un XVI secolo che spero suonerà a morte per lei come il primo che l’adulò in vita. Il vero compito della società borghese è la creazione del mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggia sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, mi sembra che, con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone, questo compito sia stato portato a termine.

Il globalismo del comunismo deriva dal rapporto oppositivo ma allo stesso tempo mimetico con l’espansione globale capitalistica. Il comunismo vuole essere rivoluzione globale così come globale è il capitalismo, da Marx fino a Lenin, il quale vide al rivoluzione russa come un preludio ad uno sconvolgimento mondiale. La storia sarebbe andata diversamente: è stata proprio la resistenza alla “unificazione del mondo” da parte delle identità culturali delle grandi civiltà storiche è stato il fattore principale di resistenza. La rivoluzione russa era il modo in cui la civiltà russa (come vide con grande lungimiranza Toynbee) faceva fronte alla minaccia costituita per lei dall’espansionismo europeo, una forma di modernizzazione imposta dal conflitto tra gli stati, come fu la rivoluzione francese (vedi in merito il mio Ripensare la rivoluzione francese).

In Marx il globalismo deriva dalla convinzione che alla portata globale del dominio del capitale bisognasse contrapporre una strategia altrettanto globale del movimento comunista rivoluzionario, in base alla realistica valutazione che un movimento comunista limitato ad un determinato paese sarebbe stato schiacciato dalla potenza del capitalismo dominante a livello globale, convinzione che viene conservata anche da Lenin nonostante con lui si faccia strada nel movimento comunista una posizione radicalmente diversa sulla questione della nazionalità. Il globalismo di Marx è diverso dall’inter-nazionalismo che si affermerà successivamente nel movimento comunista, seppur è la risposta ad un medesimo problema: il globalismo prevede una progressiva scomparsa degli stati mentre l’inter-nazionalismo, come dice la parola, è un’alleanza tra le nazioni soggette all’imperialismo.

Questo mio scritto non mira alla liquidazione dell’eredità del pensiero marxiano, ma, esattamente al contrario mira, a quell’esercizio critico che andrebbe fatto con ogni autore da cui ormai i secoli ci separano, valutando quanto il tempo ha mostrato valido nelle loro opere e quanto invece va abbandonato. Soltanto effettuando il necessario esercizio critico sul pensiero di Marx (il quale fu un deciso sostenitore dell’approccio critico, si ricordi il sottotitolo de Il Capitale) è possibile sottrarlo a chi lo considera un “cane morto”, oppure lo vorrebbe confinare all’ineffettualità del marxismo accademico, oppure peggio ancora vorrebbe farne solo un araldo delle meraviglie della globalizzazione (come nella biografia di Jacques Attali), e non una delle espressioni più acute della crisi della civiltà europea.

L’analisi di Marx della merce e della formazione del capitale è ancora fondamentale per comprendere la società odierna, ma se vogliamo recuperare la parte migliore del pensiero di Marx dobbiamo liberarla da quella che invece risulta più legata all’ideologia del suo tempo, in particolare al dominante globalismo dell’Inghilterra quale nazione uscita vincitrice dal secolare scontro interno delle nazioni europee che si avviava a diventare nazione dominante a livello globale. Consapevoli che tale impostazione si riflette in quella che è l’opera più importante e attuale di Marx, Il capitale, nell’idea secondo cui studiando la particolare formazione del capitalismo inglese si studiasse “il punto più alto dello sviluppo” che mostrava la strada a tutte le formazioni sociali. Prospettiva unilineare che lo stesso Marx mise in discussione alla fine della sua vita in favore di un approccio “multilineare” (un tema su cui si è molto discusso nel marxismo degli anni 60-70). Tuttavia se è sicuramente interessante il radicale ripensamento di Marx negli ultimi anni della sua vita (a questo è dedicato il lavoro di Anderson citato all’inizio), bisogna tenere conto però dell’influenza avuta dalle sue opere su generazioni di militanti in cui l’approccio unilineare risulta dominante. Se ci sarà nel prossimo futuro un ordine stabile sarà un ordine multipolare, per cui va superata ogni mentalità globalista.

Ancora oggi esistono sparuti gruppi o individui che giocano a chi è “il più marxista”, quello che voglio invece promuovere è un’analisi critica del pensiero di Marx, che non è “l’orizzonte insuperabile del nostro tempo” (come scrisse Sartre) perché fu, come ogni scrittore significativo, profondamente legato al suo tempo. Da Marx ci separa un arco di tempo in cui molti processi che alla sua epoca erano in fase di svolgimento si sono conclusi. Certo può sembrare facile, e anche in un certo senso ingiusto, giudicare con “il senno di poi”, tuttavia questo è esercizio è inevitabile di generazione in generazione.

Uno dei motivi per cui non si è indagata a fondo la visione che Marx aveva dei rapporti inter-nazionali è perché questi sono animati da un deciso odio contro la Russia. Le Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo, una delle poche opere pubblicate in vita, non fu neppure inclusa nell’edizione sovietica delle opere complete di Marx. In essa, scriveva che la storia aveva fatto della Russia una potenza reazionaria perché segnata dal secolare servaggio imposto dalla dominazione mongola, da cui aveva per giunta ereditato l’aspirazione al “dominio mondiale”. Ma siccome, per la consueta ironia della storia, proprio la Russia è diventata la prima potenza comunista si è preferito lasciare in secondo piano questi aspetti del pensiero di Marx. Non è un caso tuttavia che proprio il comunismo di Marx abbia fatto presa sulla Russia, perché esso è il prodotto finale del movimento rivoluzionario innescato in Europa dalla rivoluzione francese, l’ultimo prodotto di un movimento rivoluzionario che in Europa andava spegnendosi. È Marx stesso a descriverci come le élites intellettuali russe fossero in realtà le uniche realmente interessate al suo pensiero:

 

Qualche giorno fa un libraio di Pietroburgo mi ha sorpreso comunicandomi che “Il Capitale” sta per esser stampato in traduzione russa. Ha voluto una mia fotografia per l’illustrazione di copertina, ed io non ho potuto negare questa piccolezza “ai miei buoni amici” (i russi). È un’ironia della sorte che i russi, contro i quali ho combattuto per 25 anni ininterrottamente, e non solo in tedesco, ma anche in francese e in inglese, siano sempre stati i miei «protettori». Nel 1843-44 a Parigi gli aristocratici russi mi portavano in palma di mano. Il mio libro contro Proudhon (1847) [La miseria della filosofia], come anche quello edito da Duncker (1859) [Per la critica dell’economia politica], in nessun altro paese hanno trovato uno smercio maggiore che in Russia. E la prima nazione straniera che traduce “Il Capitale” è la Russia. Ma tutto ciò non dev’esser sopravvalutato. Gli aristocratici russi da giovani vengono istruiti nelle università tedesche e a Parigi. Essi vanno a caccia di quanto di più radicale viene prodotto in occidente. È un’autentica Gourmandise [leccornia], come quella che attirava una parte dell’aristocrazia francese nel XVIII secolo. Ce n’est pas pour les tailleurs et les bottiers [Non è per sarti e calzolai], diceva allora Voltaire delle sue idee illuministiche. Ciò non impedisce a questi stessi russi di diventare farabutti non appena entrano al servizio dello Stato.

(cit. in Ettore Cinnella, L’altro Marx)

 

Ho voluto riportare per intero questo passo perché è alquanto indicativo della diffidenza di Marx dovuta alla sua effettiva russofobia, che si traduceva in diffidenza personale verso i rivoluzionari russi, superata, secondo Cinnella, soltanto verso la fine della sua vita (che in questo concorda con Anderson), quando Marx sviluppò un intenso rapporto con i populismo russo attraverso cui effettuò una radicale revisione della sua visione stadiale e unilineare, insieme ad un superamento del suo eurocentrismo “Marx formulava adesso, sulla storia della dominazione inglese in India, un’interpretazione opposta a quella che ne aveva dato negli anni ’50 sulle pagine della New York Daily Tribune. Inappellabile era la condanna del rapace colonialismo britannico, reo di aver saccheggiato e distrutto un mondo economico-sociale ancora vitale. La nuova visione della storia dell’India, e dei rapporti tra il subcontinente indiano e la Gran Bretagna, era il frutto della lettura non solo del libro di Kovalevskij, ma di molte altre opere, studiate da Marx con passione a partire dalla fine degli anni ’70.” (Ettore Cinnella, L’altro Marx). In questi anni ipotizzò, in una famosa lettera a Vera Zasulic (8 marzo 1881), la possibilità per la Russia di “saltare” insieme alle delizie della “accumulazione primitiva” la fase dello sviluppo capitalismo per passare direttamente al socialismo.

Tuttavia prima di questo cambiamento che avvenne negli ultimi anni della sua vita, il contraltare del globalismo di Marx fu specialmente la russofobia, mentre si sostiene il predominio mondiale dell’Inghilterra, allo stesso tempo, secondo i meccanismi della proiezione, si attribuisce questa aspirazione alla Russia che in quel periodo attraversava una profonda crisi interna e non poteva certo aspirare al “dominio mondiale”. È un meccanismo caratteristico della propaganda del tempo, tuttavia in Marx acquisice un significato particolare. Non so se è vero che Marx sia stato “l’inventore della russofobia di sinistra” come scrive Guy Mettan in Russofobia. Mille anni di diffidenza, certo è che all’inizio sposa appieno la russofobia dominante in Inghilterra in quegli anni (e condivisa in tutti gli ambienti politici, dalla destra alla sinistra, per questo non credo che la progenitura sia da attribuire a Marx). La russofobia svolge una funzione particolare nel sistema di pensiero di Marx, e siccome essa è irrazionale, mentre di solito l’irrazionalità è assente dal pensiero marxiano (le Rivelazioni per la palese superficialità e per giudizi tagliati con l’accetta non sembrano neanche scritte da Marx), credo sia legittima una interpretazione di carattere psicologico.

Poco analizzata dai “marxologi” è stata la colloborazione con David Urquhart, un deputato politico conservatore russofobo e filoturco, che durò quasi dieci anni e si concretizzò in articoli scritti per i giornali degli “urquhartiti” e partecipazioni a incontri organizzati dagli stessi, tra cui le Rivelazioni e una raccolta di articoli su Palmerston pubblicati a puntate sulla Free Press di Urquhart (v. Lettera di Marx a Lassalle, 2 giugno 1860). David Urquhart aveva chiesto a Marx un incontro dopo aver letto alcuni suoi articoli per il New York Tribune (allora uno dei quotidiani con maggior lettori al mondo) , che denunciavano una presunta ambiguità di Palmerston nei confronti della Russia. Lo stesso Marx riconobbe, dopo averlo incontrato, che Urquhart era un “almost maniacal Russophobe” (Die Reform, 19 Decembre1853), e quindi bisognerebbe capire perché anch’egli cadde in questa stessa mania e scrisse un testo come Rivelazioni che oggi noi definiremmo “complottista”. La mia spiegazione, ipotetica come ogni spiegazione psicologica, sarebbe, la seguente. Marx aveva indicato nell’Inghilterra il nemico principale della Rivoluzione durante gli ultimi anni prima dell’esilio, ma cambiò parere (come vedremo) con il suo trasferimento in Inghilterra, la quale con il suo colonialismo diventa “rivoluzionaria suo malgrado” e quindi il carattere reazionario anti-rivoluzionario lo raccoglie la sola Russia, d’altra parte c’è un tentativo da parte di Marx di mutare la natura dell’Inghilterra, denunciando la politica “nascosta” di uno dei suoi principali esponenti politici, Palmerston, denunciandone gli accordi “segreti” con la Russia.

Il globalismo eurocentrico non è una tara del solo Marx e del solo comunismo. Che si tratti del liberalismo anglosassone che costruì un abnorme impero globale, che si tratti del comunismo, che intendeva sostituire al capitalismo globale la rivoluzione comunista mondiale, che si tratti del nazionalsocialismo che intendeva sostituirsi all’Inghilterra in declino quale potenza dominante globale, il problema principale della cultura politica europea è stato il globalismo, in merito al quale andrebbero concentrati gli sforzi per una diversa cultura politica oggi in cui l’Europa non è più al centro del mondo. Questo deriva dal fatto che per primo in Europa si è verificato quel pauroso balzo in avanti dal punto di tecnico e organizzativo delle società umane che chiamiamo modernità. Per lunghi secoli (a partire dal XV secolo fino al secolo scorso) l’Europa ha goduto di un vantaggio sia nell’organizzazione sociale (stato ed esercito moderni) sia sul piano tecnico che le ha garantito un vantaggio sulle altre società umane consentendole un espansionismo globale. Per tutti questi secoli l’Europa si è sentita al “centro del mondo”.

Marx, conformemente ai pregiudizi del suo tempo, vedeva l’Europa come il “mondo civile” per eccellenza, al di fuori si incontravano prevalentemente “popoli barbari” come scrive nel Manifesto.

“Popoli senza storia” che vegetavano come l’India (la filosofia della storia hegeliana influenzò pesantemente la visione che Marx aveva dei popoli extraeuropei) e attendevano l’Europa per essere “risvegliati”, mentre la Cina, della cui ricchissima civiltà già al tempo di Marx si sapeva abbastanza, è affetta da “stupidità ereditaria”. I prezzi bassi delle merci abbattevano le muraglie cinesi e costringevano “alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari” (sarà per questo che oggi la Cina ha adottato a sua volta le politica dei prezzi bassi per penetrare le economie occidentali? L’avranno imparato dal Manifesto?). La Storia era incarnata essenzialmente dall’Europa, essa “trascinava” nella civiltà gli altri popoli (secondo le parole del Manifesto) seppur mossa dai “più vili interessi” (come scriveva qualche anno più tardi nella New York Tribune).
Vista con il “senno di poi” l’espansione globale dell’Europa appare come un periodo particolare della storia già concluso, in cui l’Europa prende il volo, un’accellerazione dello sviluppo interno, ma a cui le altre maggiori civiltà si sono adeguate.

Decisivo è vedere il contesto in cui nacque l’utopia mondialista/universalista di Marx. Marx è un rivoluzionario tedesco, formatosi all’interno dei movimenti rivoluzionari sorti in seguito alla rivoluzione francese in tutti i paesi europei. Com’è noto la rivoluzione francese ebbe una forte componente nazionalistica (“amour sacrè de la patrie”), che fu compresente con l’universalismo dell’Illuminismo che fu uno dei fattori dell’egemonia ideologica della Francia nelle altri nazioni europee. Questi due elementi contraddittori non giunsero mai ad armonizzarsi, restarono separati, come ad esempio in Rousseau la “religione dell’umanità” e la “religione della patria” non riusciranno mai a darsi la mano. In Marx, il nazionalismo scompare fino a diventare “anti-nazionalismo” e viene sempre più in primo piano l’universalismo.

Per comprendere questo passaggio è necessario far riferimento al contesto storico. Tra Marx e la rivoluzione francese vi fu la sconfitta di Napoleone, dopo la quale la secolare disputa tra Inghilterra e Francia si trasformò in un alleanza (con ruolo subordinato della Francia), e, successivamente, il colonialismo francese si svilupperà in modo collaterale e subordinato a quello inglese, occupando gli spazi vuoti lasciati da questi (vedi in merito Boris Kagarliski, From Empires to Imperialism: The State and the Rise of Bourgeois Civilisation). La “borghesia” ovvero le classi dominanti francesi , aveva promosso quelle trasformazioni rivoluzionarie dell’esercito, dello stato e dell’organizzazione complessiva della società dirette ad un accrescimento di potenza, in breve tutte quelle trasformazioni interne anche radicali, spinta dal conflitto con l’Inghilterra (una dinamica messa in luce da una delle correnti di ricerca storiche più interessanti del dopoguerra, vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Con la sconfitta storica di Napoleone le classi dominanti francesi (anzi, complessivamente l’intera società francese) perdono la “spinta rivoluzionaria” e mirano allo status quo al fine di un’entente con l’Inghilterra. Questo comporta una frattura con le classi popolari che le classi dominanti si erano tirate dietro nel tentativo di vincere il conflitto con l’Inghilterra. Inizia così la frattura tra nazionalismo rivoluzionario e socialismo rivoluzionario messa in luce da James H. Billington. Negli stessi anni il movimento rivoluzionario democratico tedesco, sulla scia dei movimenti rivoluzionari innescati in tutta Europa dalla Rivoluzione francese, che era la spinta ad adeguarsi al modello dello stato francese, e che aveva prodotto, con Kant, Fichte, Hegel, una versione tedesca dell’Illuminismo, spinge per la modernizzazione della Germania, ma è troppo debole per conseguire degli obiettivi senza l’appoggio dei movimenti rivoluzionari francesi, questo già basta per far capire che il movimento tedesco non poteva essere solo “nazionale”.

Ecco come Marx riassumeva il contesto politico nel 1849 quando si era già consumata la sconfitta del movimento rivoluzionario sia in Francia che in Germania:

 

Il paese che trasforma intere nazioni in suoi proletari, che tiene stretto tra le sue braccia gigantesche tutto il mondo, che col suo denaro ha già una volta fatto fronte alle spese della restaurazione europea, in seno al quale gli antagonismi di classe si sono spinti alla forma più marcata e più sfrontata, l’Inghilterra insomma, sembra lo scoglio contro cui s’infrangono le onde della rivoluzione, fa morir di fame la nuova società già nel grembo materno. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un sovvertimento della situazione politico-economica in ogni paese del continente europeo, su tutto il continente euro­peo, senza l’Inghilterra, è una tempesta in un bicchier d’acqua. La situazione dell’industria e del commercio all’interno di ogni nazione sono dominate dal commercio con le altre nazioni, sono condizionate dal loro rapporto col mercato mondiale Ma l’Inghilterra domina il mercato mondiale, e la borghesia domina l’Inghilterra

E la vecchia Inghilterra verrà abbattuta solo da una guerra mondiale, l’unico evento che può offrire al movimento inglese organizzato dei lavoratori l’occasione per riuscire a ribellarsi vittoriosamente contro suoi giganteschi oppressori…Ogni guerra europea in cui si trova ad essere coinvolta l’Inghilterra, è una guerra mondiale…La guerra europea è la prima conseguenza della vittoriosa rivoluzione operaia in Francia. Come ai tempi di Napoleone, l’Inghilterra sarà alla testa delle armate controrivoluzionarie, ma la stessa guerra la spingerà alla guida del movimento rivoluzionario, e così pagherà le sue colpe contro la rivoluzione del XVIII secolo. Insurrezione rivoluzionaria della classe lavoratrice francese, guerra mondiale: questa è la dichiarazione dell’anno 1849. (K. Marx, Il movimento rivoluzionario, Neue Rheinische Zeitung, 31 dicembre 1848)

Questo passo è assolutamente cruciale per comprendere la nascita del comunismo marxiano. Con la sconfitta di Napoleone che segna la vittoria definitiva dell’Inghilterra nel secolare conflitto con la Francia, diventa impossibile la vittoria di ogni movimento rivoluzionario in Europa che non sia in grado di affrontare la sfida della potenza globale inglese. Quale poteva essere la soluzione? In realtà, ad una sconfitta epocale come quella della Francia napoleonica non c’è soluzione che possa invertire il significato della sconfitta storica. Oppure la soluzione può essere utopica, come il comunismo marxiano che riteneva di aver individuato nel movimento operaio la soluzione al cul-de-sac in cui era finita l’Europa. Il movimento operaio avrebbe ridato slancio al movimento rivoluzionario e avrebbe risolto “dall’interno”, grazie al cartismo (che si rivelerà agli occhi di Marx già dopo qualche anno ben poco rivoluzionario), il problema costituito dallo stra-potere dell’Inghilterra. Il movimento operaio avrebbe messo fine a quei conflitti nazionali che oramai avevano assunto una forma regressiva. Il comunismo, in analogia con il cristianesimo, è stato un’ideologia universalistica di fine impero, soltanto che, a differenza dell’impero romano, di un impero che non c’è mai stato che è morto sul nascere, finito prima di cominciare.

Per comprendere l’avversione ai conflitti nazionali di Marx, che nasceva da un contesto in di una già avvertita decadenza della civiltà europea che cominciava a mostare le prime vistose crepe, prima di andare in frantumi un secolo dopo, leggiamo questo famosi versi iniziali di una poesia di Goethe del 1827 dedicata “Agli Stati Uniti”:

 

America, tu hai una sorte migliore di questo nostro vecchio continente. Tu non hai rovine di castelli né basalti, tu non sei turbata nell’intimo, quando è il momento di vivere da inutili ricordi e futili contese

 

È già presente in Goethe la consapevolezza che la civiltà europea dopo il fallimento del progetto imperiale napoleonico era entrata in crisi ed era in pericolo. (vedi in merito Dominic Eggel, A civilisation at peril: Goethe’s representation of Europe during the Sattelzeit). Le futili contese sono i conflitti tra gli stati europei che non riescono più a stabilire un ordine, ma invece configurano un disordine crescente. Marx ritiene di aver scorto nel conflitto di classe, generato da motivazioni economiche, lo strumento con cui superare questi conflitti, una volta eliminate le motivazioni economiche. È questa una parte del pensiero marxista che è entrata nel senso comune: la guerra è dovuta a motivi economici. In realtà, si potrebbe dire altrettanto unilateralmente che “l’economia è dovuta motivi guerreschi”, oppure che l’economia sia la “continuazione della guerra con altri mezzi” e che l’acquisizione di ricchezza, potenza industriale e finanziaria, sia funzionale e allo stesso prodotto del conflitto tra gli stati. La penetrazione finanziaria e commerciale è uno dei modi con cui sottomettono le nazioni, tuttavia la penetrazione economica non potrà mai andare da sola. “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15.” (Thomas Friedman)

Una studiosa americana, nativa di Hong Kong, Victoria Tinbor Hui ha scritto un interessantissimo libro, War and state formation in ancient China and early modern Europe, basato sulla comparazione tra la Cina antica e l’Europa moderna, in particolare per quanto riguarda il processo (IV-II secolo a.C,) che dagli “stati combattenti” porta alla nascita della prima dinastia dell’Impero cinese. La comparazione, per quanta possa sembrare ardita, si basa sul fatto che lo stato moderno che oggi noi consideriamo la normalità, prima della storia moderna è stato presente solo in Europa e in Cina, la storia ha visto la prevalenza di imperi e città-stato. Naturalmente, il paragone è da prendere cum grano salis, non necessariamente il “sistema di stati europei (Charles Tilly) avrebbe dovuto sfociare in qualcosa di simile all’Impero cinese o all’Impero romano. Senza attribuire un telos interno alla storia europea, certo è che la conflittualità interna richiedeva una qualche forma di soluzione, che conferisse una maggiore unità alla civiltà europea, ad es. una qualche forma di federazione tra gli stati europei, più adeguata al radicamento che avevano le identità nazionali. La mancata soluzione della conflittualità interna ha avuto come risultato due guerre mondiali e il crollo della civiltà europea.

Su un punto non sono d’accordo con Victoria Tin-bor Hui, tra i motivi per cui Napoleone fallì nel suo obiettivo di creare un “Impero europeo” non vi fu la riluttanza ad utilizzare gli spietati stratagemmi suggeriti da Machiavelli, a somiglianza di Sun Tzu, a causa degli ostacoli morali posti dalla sentita appartenenza ad una comune umanità europea (Sun Tzu sottolinea l’autrice non è il Machiavelli cinese, piuttosto Machiavelli è il Sun Tzu europeo, data la precedenza temporale di quest’ultimo). Napoleone, ricorda l’autrice, affermava di portare sempre con sé Il principe di Machiavelli, tuttavia avrebbe dovuto leggere ugualmente e con attenzione i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (in particolare il capitolo Le repubbliche hanno tenuto tre modi circa lo ampliare), dove è descritta l’astuta politica di alleanze dei Romani in Italia, grazie al quale gli alleati italiani di Roma si trovano intrappolati quando Roma iniziò ad espandere il suo “Imperio”. Questo fu il principale “stratagemma” dei romani dettato dalla loro astuzia e sagacia politica, supportata ovviamente dalla potenza militare, piuttosto che la sola spietatezza. L’impero romano si sviluppò in modo territoriale, nei territori conquistati venivano costruite città e strade, le popolazioni soggiogate venivano incluse, seppur in forma subordinata nella civiltà romana. Il cosiddetto Impero britannico si sviluppò in modo opposti agli imperi classici, in modo non territoriale, nelle terre conquistate in tutto il mondo l’obiettivo non era quelle di includerle in un ordine, quanto piuttosto sfruttarne le risorse. L’imperialismo inglese fu diverso, anzi opposto agli imperi classici. Questa differenza è colta, in una certa misura, anche da Marx, quando osserva che in India, gli inglesi ereditarono dai loro predecessori [invasori] i dipartimenti delle finanze e della guerra, ma trascurarono completamente i lavori pubblici” (La dominazione britannica in India), quei lavori idraulici necessari per un’agricoltura che dipendeva dall’irrigazione.

Napoleone fu un grande stratega militare, ma non uno stratega politico, incline a cercare, e in sintonia anche con “l’accelerazione dei tempi”, la soluzione rapida attraverso il colpo di mano militare, piuttosto che con un’abile e paziente politica di alleanze volta a creare uno stabile blocco politico europeo contro l’Inghilterra, alienandosi in questo modo la simpatia che inizialmente aveva suscitato in tutta Europa il suo tentativo di trasformare l’Europa stessa.

Ecco perché la sconfitta di Napoleone è un turning point nella storia europea, colto, a suo modo, dallo stesso Marx. Nel nuovo contesto i movimenti nazionali cominciano a divergere, da quella che all’inizio voleva essere una comune liberazione dei popoli europei, allo stesso tempo, mentre in un rivoluzionario come Filippo Buonarroti “questione nazionale” e “questione sociale” restano strettamente intrecciate, in seguito il nazionalismo perde il riferimento universalistico verso l’esterno, diventando riferimento esclusivo alla propria nazione, e all’interno diventa sempre più inegualitario perdendo il rapporto con la questione dell’eguaglianza sociale, diventando ciò che intendiamo oggi in termini negativi: il nazionalismo. Fino a quella forma di aberrazione costituita dalla teoria razziale, una forma di degenerazione del nazionalismo, in cui il riferimento esclusivo alla propria nazione viene fissato in termini biologici. Tant’è che si è voluta fare una distinzione tra nazionalismo e patriottismo, nonostante che semanticamente i due termini indichino la stessa cosa, anzi patriottismo conserva un riferimento ai legami di sangue che invece il termine “nazionalismo” non ha.

L’anti-nazionalismo di Marx è da situare e valutare in tale contesto. Marx ritiene di aver individuato nel conflitto di classe la chiave che permetteva di oltrepassare i conflitti nazionali, in quanto “con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse” (Il Manifesto). Qual è la relazione tra conflitto di classe e conflitto inter-nazionale non è chiarito. Anche nell’ipotesi di società senza classi, cosa impedirebbe a due diversi raggruppamenti umani “senza classi” di essere antagonisti riguardo al possesso di determinati territori con un clima migliore, più fertili, più ricchi di risorse ecc.? Per quale motivo la fine dell’antagonismo di classe significherebbe la fine dell’antagonismo fra le nazioni? Si tratta di un atto di fede nel carattere risolutivo del “conflitto di classe”, con cui si realizza un’uscita utopica dai conflitti interni alle nazioni europee che avevano assunto già al suo tempo un carattere regressivo.

Dopo la sconfitta definitiva della Francia, con Napoleone, nel secolare conflitto con l’Inghilterra, il nazionalismo perse il suo carattere progressivo di generale movimento dei popoli europei per diventare movimento di un popolo contro un altro popolo, diventando così uno strumento del balancing of power della potenza inglese. L’inghilterra non temeva i singoli movimenti nazionali quanto una potenza egemone che realizzasse un blocco continentale di stati contro di lei. Londra diventa il collettore dei movimenti nazional-rivoluzionari europei, mentre invece in precedenza lo era Parigi. “Il centro delle aspettative rivoluzionarie in Europa era Londra, dove lo stesso Kossuth rientrò quanto prima. In questa città Mazzini e altri rivoluzionari nazionali fondarono nel 1850 un Comitato centrale democratico europeo. Le sue pubblicazioni erano in francese, ma aveva sotto-comitati di italiani, polacchi, tedeschi, austriaci, ungheresi, e olandesi. Dopo il colpo di stato napoleonico del 1851, gli esuli rivoluzionari dalle aspettative messianiche affluirono in maggior copia ancora a Londra. (J. H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria)

Marx alla fine fu espulso sia dalla Germania che dalla Francia e trovò riparo solo in quell’Inghilterra che aveva individuato quale principale nemico della rivoluzione. In questo contesto che non poteva non determinare una forte contraddizione anche sul piano esistenziale, va compresa la russofobia di Marx. Mentre la politica imperialistica dell’Inghilterra diventava “rivoluzionaria suo malgrado”, tutta il peso della reazione si spostava dalla parte della Russia zarista. Tutta la campagna di Marx contro Palmerston è tesa ad “adeguare la realtà al suo concetto”, cioè al concetto di come la realtà avrebbe dovuto essere: l’Inghilterra non doveva essere più una potenza reazionaria, qual era stata nel confronto con la Francia rivoluzionaria, ma doveva assumersi quel compito che i rivoluzionari tedeschi non erano riusciti a portare a termine, la “guerra rivoluzionaria” contro la Russia che Marx voleva introdurre nel programma dei rivoluzionari tedeschi, in cui svolse un ruolo di primo piano, prima dell’esilio in Inghilterra.

Il fatto che il marxismo sia diventato l’ideologia ufficiale delle due grandi potenze che hanno guidato la rivoluzione anti-imperialista del XX secolo ha fatto sì che non ci fosse interesse a fare chiarezza sulla visione eurocentrica che Marx aveva della Russia e della Cina. Inoltre, Lenin volle presentare il suo anti-imperialismo come in linea con il pensiero di Marx, ma non a caso riportava l’affermazione di Marx che sosteneva di aver “cambiato radicalmente idea sulla questione irlandese” (ritenuta affine alla questione coloniale), la liberazione dell’Irlanda non sarebbe venuta dalla liberazione della classe operaia inglese ma dall’Irlanda stessa. Un radicale cambiamento che non riguardava la sola Irlanda, cambia radicalmente in questi anni la visione complessivamente positiva che Marx aveva avuto della colonizzazione inglese dell’India, come visto in precedenza. Tuttavia se è vero che negli ultimi anni modificò il suo pensiero è difficile trarre dalle sue opere una prospettiva antimperialista o anticolonialista.

La distinzione leniniana di una fase imperialista, diversa rispetto al colonialismo, dovuta alla fase della concentrazione monopolistica del capitale che porta alla scontro mondiale dei capitali che controllano gli stati, ritengo sia finalizzata ad una spiegazione principalmente economica del conflitto mondiale, funzionale alla concezione secondo cui eliminando le cause economiche si sarebbero eliminati anche i conflitti, che fu un’illusione tipica del comunismo storico, da cui non fu esente nemmeno Stalin che non mancava certo di realismo. Già prima della “fase imperialistica” vi fu un conflitto di estensione mondiale, la “guerra dei sette anni” fra Francia e Inghilterra (1756-1763) ebbe portata globale, definita da Churchill la prima guerra mondiale vera e propria. Il “marxismo” non aveva trovato la chiave per la risoluzione dei conflitti. Non è il solo capitalismo che genera i conflitti armati, essi sono stati presenti in tutte le epoche e in tutte le latitudini. La possibilità del conflitto è insito nell’esistenza stessa di individui e gruppi umani distinti. L’unica possibile soluzione è politica, attraverso un accordo politico che evita la degenerazione del conflitto in conflitto armato.

Lenin con il suo anti-imperialismo aveva effettuato nell’ambito del marxismo un cambiamento di paradigma che reintroduceva la “questione nazionale” volendo però sempre restare nel solco dell’”ortodossia marxista” e lasciando quindi molti problemi irrisolti, in particolare riguardo al rapporto tra stato e questione nazionale. L’eredità anarchica del comunismo che mirava all’“estinzione dello stato” (che Lenin riprende, è una mia interpretazione perché funzionale alla necessità di demolire lo stato zarista) fu uno dei motivi per cui in Unione Sovietica non si ebbe mai una vera e proprio teoria che guidasse la creazione di un proprio stato per cui non si uscì mai dallo “stato di eccezione” seguito alla rivoluzione sovietica (in merito Domenico Losurdo ha scritto delle pagine molto interessanti).

Quella di Lenin fu una soluzione solo a metà della “questione nazionale” essa si applicava solo ai movimenti di liberazione nazionale nei paesi sottoposti all’imperialismo, tuttavia delle questioni nazionali continuavano a porsi anche nei paesi imperialisti (o aspiranti tali) e non potevano essere liquidati come nulle perché toccavano la stessa vita quotidiana delle classi inferiori, come fu il caso della Germania dopo la prima guerra mondiale, con la questione delle sanzioni punitive imposte dalle potenze vincitrici che avevano effetti devastanti sulla vita delle classi popolari.

Heinrich Laufenberg fu un importante leader del movimento operaio tedesco a cavallo della prima guerra mondiale. Prima nella Spd e successivamente nel Kpd, fu un oppositore della guerra, e leader della “rivoluzione di Amburgo” negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Fu criticato duramente da Lenin in Estremismo, malattia infantile del comunismo, che attaccava le “madornali assurdità del ‘bolscevismo nazionale’ (Laufenberg e altri), che nell’attuale situazione della rivoluzione proletaria internazionale si è spinto fino al blocco con la borghesia tedesca per una guerra contro l’Intesa”. La critica di Lenin è stata generalmente considerata nel movimento comunista come prova inconfutabile: la posizione di Laufenberg era sbagliata. Ma questo vuol dire considerare Lenin come un capo infallibile, mentalità propria dei movimenti religiosi, e vuol dire incapacità di imparare dai propri errori. Anche i più grandi soccombono all’illusione storica: Lenin riteneva inizialmente la rivoluzione sovietica il preludio ad una “rivoluzione comunista mondiale” e il blocco proposto da Laufenberg andava in direzione opposto ad una rivoluzione simil-sovietica in Germania. Certo, questo vuol dire giudicare con il senno di poi, ma rinunciarvi vuol dire rinunciare ad impare dall’esperienza storica. Quando i comunisti si avvidero che così non era, cambiarono posizione. Radek segretario per un breve periodo, esecutore per conto del Comintern dell’espulsione dal Kpd di Laufenberg adottò le stesse posizioni di Laufenberg, fu successivamente rimosso da segretario del Comintern. Radek arrestato a Berlino nel 1919, ricevette un trattamento di favore, gli fu assegnato in carcere un ampia camera e addirittura un segretario, e gli fu consentito di mantenere le relazioni con il governo sovietico. Il che testimonia che c’era la volontà da parte delle classi dominanti tedesche a un’alleanza con l’Unione Sovietica contro il Trattato di Versailles.
A ragion veduta la posizione di Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim duramente criticata da Lenin era quella giusta. Ancora una volta un tragico errore dei comunisti riguardante la questione nazionale. Alle classi popolari, per l’opposizione alle sanzioni, che per loro significava letteralmente la fame, non restava che rivolgersi ai nazisti. Da qui l'”enigma del consenso” al nazismo che andò ben oltre la classe media se si pensa alla composizione sociale delle Sa (successivamente liquidate dalle Ss). Consenso che diviene meno enigmatico se si ha il coraggio di guardare in faccia ai propri errori.

Ugualmente in Italia, il giusto rifiuto della partecipazione alla prima guerra mondiale (il primo atto del crollo della civiltà europea) si trasformò in un pacifismo e in un anti-nazionalismo astratti, incapaci di differenziare le posizioni e di capire laddove si pone una schietta questione nazionale, rispetto al nazionalismo aggressivo, astrattezza che non poteva non essere vista come anti-nazionale e quindi contro anche gli interessi delle classi popolari che appartengono ad una determinata nazione. Cito qui da un articolo di Domenico Moro, tra i pochi marxisti ad avere conservato il raziocinio, che invita a esaminare agli errori storici con l’auspicio che ciò possa essere di aiuto a non commettere sempre gli stessi errori. “Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo, anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: ‘Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi’. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale.” (Gli ex combattenti della Grande guerra e l’”orrido” sovranismo piccolo-borghese).

Veniamo all’oggi, dopo il crollo definitivo della civiltà europea con la seconda guerra mondiale, gli stati europei avevano trovato una forma di pseudo-unità sotto l’egemonia statunitense, ma con il crollo dell’Unione Sovietica, dopo l’intermezzo del ritorno del globalismo, e con il ritorno in scena della Russia, e la progressione verso un mondo multipolare, i problemi irrisolti dell’Europa stanno ritornando. Si è già svelato cos’è l’Unione Europea, ovvero l’egemonia tedesca che si appropria delle economie delle altre nazioni europee; si è iniziato con la Grecia, ora si mira all’Italia, che ha già subito una pesante devastazione economica indotta dalle “politiche economiche europee”, poi sarà la volta di altre nazioni, magari della stessa Francia che in questo momento tiene bordone alla Germania. Ci si trova di fronte ad un dilemma: da una parte sarebbe necessaria una politica di alleanze tra le nazioni europee necessaria per affrontare i conflitti che caratterizzeranno il mondo multipolare, dall’altra è necessario difendere l’Italia da un attacco economico che potrebbe essere devastante e ridurla in panne per i decenni a venire, e sconfiggere questa Unione Europea che non è tale, ma è la Germania che devasta economicamente le altre nazioni. L’unica è sconfiggere queste classi dominanti europee nella speranza che rinasca domani un progetto di integrazione europea degno di questo nome. Nell’evitare che l’Italia faccia “la fine della Grecia” che ha dovuto vendere persino gli aeroporti ai “fratelli europei tedeschi”, subendo una devastazione economica che potrebbe metterla in panne per chissà quanto a venire, si pone anche questa volta una schietta “questione nazionale”.

Questi settori globalisti delle classi dominanti sono pericolosi per un altro motivo. Oggi l’Europa non è più in grado di scatenare una guerra mondiale, tuttavia gli “europeisti” sono i principali alleati di quel globalismo che gli Usa hanno ereditato dall’eurocentrismo. Il progetto del dominio mondiale dell’Europa si è spostato negli Stati Uniti. Fortunatamente negli Usa è nata una corrente più pragmatica, un orientamento strategico che ha trovato espressione in Trump, attorno al quale si sta consumando una dura lotta all’interno delle classi dominati statunitensi, che pur volendo conservare il predominio Usa intende farlo tenendo conto della realtà, del fatto che nel mondo esistono altre potenze nucleari, mentre i settori globalisti con la folle Clinton non escludevano un attacco diretto alla Russia.

Per questi motivi è necessario sconfiggere il globalismo. Purtroppo le forze eredi del partito comunista sono state subordinate e funzionali a questo globalismo, con rare eccezioni individuali provenienti dai settori più “leninisti” che pur vogliono rimanere all’interno di un “marxismo” che Marx stesso aveva sconfessato quando affermò, “sorprendentemente”, di “non essere marxista”. Poiché oggi si sente più che mai la mancanza di forze che difendano gli interessi popolari, mentre le vecchie forze politiche e sindacali hanno avuto una fine ignominiosa, e dato il crollo del comunismo storico si impone un nuovo inizio che passa da un’attenta riflessione sulla storia passata.

Venezuela! Apparenze e realtà_intervista a Giuseppe Angiuli

Le informazioni che ci arrivano dal Venezuela devono attraversare un filtro molto selettivo costituito dai partigiani del regime di Maduro e dai suoi più feroci avversari. Comprensibile nel clima di scontro aperto ormai generatosi per la contrapposizione durissima all’interno del paese e per il gioco geopolitico cruciale in atto in una area, l’America Meridionale, sino a poco tempo fa considerata il cortile di casa esclusivo degli Stati Uniti. Quel continente ha conosciuto innumerevoli tentativi di emancipazione quasi tutti naufragati, con l’eccezione di Cuba, in pochi anni. Il Venezuela proseguirà su questa falsariga? Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Giuseppe Angiuli aderisce al  Centro Studi per la promozione del Patriottismo Costituzionale. E’ una associazione politica che si pone quale obiettivo fondante il recupero della piena sovranità per l’Italia nell’auspicabile contesto di un nuovo mondo a carattere multipolare. 

Il Centro Studi organizza e promuove dibattiti, convegni e riflessioni prevalentemente sulle seguenti tematiche: critica al modello di  finanz-capitalismo globalista, liberazione dell’Italia dai Trattati ultra-liberisti dell’€urozona, adozione di misure ed interventi di tipo keynesiano in economia, rilancio del ruolo dirigista dello Stato nel campo della programmazione economica, rafforzamento di un sistema di welfare moderno ed inclusivo, ripristino di un modello solidale e garantista delle relazioni di lavoro.

29° podcast_Stati Uniti 2020; il prossimo firmamento democratico, di Gianfranco Campa

I prossimi due anni si prospettano incerti ed avvincenti, decisivi. Sia nello scenario geopolitico mondiale che nell’agone interno agli Stati Uniti. A prescindere dall’esito delle elezioni presidenziali americane del 2020, ogni velleità meramente restauratrice dello status quo ante è destinata a rivelarsi una pura suggestione. Peggio! Se dovesse avere successo non farebbe che accelerare il processo di decomposizione e frammentazione sociale e politica di quel paese sino a trascinarlo inesorabilmente verso un distruttivo ed imprevedibile conflitto interno o ad una implosione. Trump è il rappresentante di una versione originale di una componente “isolazionista” da sempre presente negli Stati Uniti, molto militante, ma costantemente minoritaria. Lo è ancora adesso; nel suo momento di massimo fulgore, l’attuale, non riesce a superare un 20/25% dell’elettorato; uno zoccolo duro autenticamente sostenitore del Presidente ma scarsamente radicato negli apparati di potere. Da qui la tattica di infiltrazione all’interno del Partito Repubblicano e i continui compromessi al ribasso di Trump, sino al sacrificio dei suoi uomini migliori e più fedeli. L’indole e la propensione di “the Donald” è rimasta e riaffiora comunque, estemporanea, come un sussulto, ogni qualvolta appare un qualche margine di autonomia nelle proprie scelte. Più o meno consapevolmente Trump con la sua azione ha comunque eroso ogni residuo spazio effettivo di conduzione unipolare del gioco geopolitico e sancito l’esistenza politica di forze avverse e concorrenti pur con le sue azioni più dure e apparentemente discriminatorie. Ha determinato la crisi e lo stallo delle élite politiche europee globaliste ed europeiste, ha ridicolizzato e privato di autorevolezza la quasi totalità del ceto politico americano a lui avverso o apparentemente amico. Le primarie del Partito Democratico annunciano un rinnovamento radicale della leadership e il tramonto definitivo, con l’eccezione di Obama, dei vecchi santoni. Molto più precaria e incerta la situazione nel Partito Repubblicano. Una fase di transizione che sembra offrire margini di azioni a personalità più o meno “indipendenti” esterni agli schieramenti classici. Gianfranco Campa, da par suo, ci offrirà un affresco esauriente e documentato di queste dinamiche così influenti anche in casa nostra. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://tribwtic.files.wordpress.com/2019/01/190116183033-lead-panel-3-2020-women-live-jake-tapper-00034425-live-video.jpg?quality=85&strip=all

 

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-29

 

1 149 150 151 152 153 176