La struttura economica e sociale dei territori e il voto populista in Francia_di Guillaume Bazot

La struttura economica e sociale dei territori e il voto populista in Francia

Il populismo non è mai stato così presente in Europa dal 1945. Dato il pericolo che rappresenta, è necessario comprendere meglio i suoi meccanismi. Molte delle spiegazioni avanzate evidenziano l’importanza delle disuguaglianze territoriali. La globalizzazione e la deindustrializzazione avrebbero polarizzato il Paese dal punto di vista economico e poi politico. Di conseguenza, alcune aree sono diventate isolate o addirittura trascurate, da cui il rifiuto dei partiti politici al potere dagli anni Ottanta.

Il primo obiettivo di questo studio è esaminare l’idea stessa di una periferia perdente alla luce delle trasformazioni economiche e sociali degli ultimi quarant’anni. Vedremo che tale aumento delle disuguaglianze territoriali è, contrariamente a tutte le aspettative, opinabile. I dati forniscono un quadro più complesso della realtà, poiché molti comuni periferici mostrano un aumento del tenore di vita medio maggiore rispetto ai grandi agglomerati urbani.

Ciò non significa, tuttavia, che le diverse aree non siano importanti. Infatti, il voto populista sembra concentrarsi maggiormente nei comuni meno privilegiati, al di fuori dei grandi agglomerati urbani. Tuttavia, la nostra analisi mostra anche che la variabile chiave non è tanto il reddito quanto il livello di istruzione. Il populismo è quindi radicato nel rifiuto di una certa globalizzazione istituzionale (Europa) e culturale (immigrazione, laicismo, consumismo) da parte di una popolazione urbana privilegiata e istruita, i cui valori sono visti come una sfida all’identità stessa delle classi lavoratrici che vivono al di fuori delle grandi metropoli.

Guillaume Bazot,

Economista, docente all’Università di Parigi 8, membro del Consiglio scientifico e di valutazione della Fondation pour l’innovation politique.

Introduzione

Note

2.

David Goodhart, I due clan, Parigi, Les Arènes, novembre 2019.

A partire dai Gilets jaunes, la Francia “periferica” è un tema di analisi ricorrente nelle scienze sociali e politiche. Questa Francia sarebbe caratterizzata dalla lontananza dai grandi centri urbani, dal minore dinamismo economico e dalla scomparsa dei posti di lavoro locali, in particolare quelli industriali1. La deindustrializzazione e l’abbandono politico delle popolazioni interessate sarebbero quindi responsabili dell’aumento delle disuguaglianze territoriali e del declassamento geografico e sociale. Questa sarebbe la causa principale dell’emergere di un voto populista di estrema destra e di estrema sinistra.

Tuttavia, stabilire un tale legame rimane difficile per diverse ragioni. Il primo è di tipo definitorio: come possiamo identificare questa Francia periferica e attribuirle l’emergere del populismo moderno quando il concetto rimane relativamente vago? Il secondo è come evidenziare questa relazione, poiché una semplice affermazione basata su casi tipici non può sostituire un’analisi esaustiva dei dati. Infine, anche se questi due punti venissero trattati in modo accettabile, l’interpretazione dei risultati e la loro proiezione nell’arena politica rimangono delicate. Così, come sostiene il libro di David Goodhart2il voto populista non è solo di origine materiale, ma ha una dimensione culturale e identitaria che merita di essere analizzata. Distinguere il voto populista a seconda che derivi dal risentimento popolare nei confronti di una “élite” o da difficoltà materiali stricto sensu rimane complicato e richiede ulteriori indagini3.

Questo studio è un modesto tentativo di affrontare queste difficoltà utilizzando dati comunali. Le serie territoriali sono a grana sufficientemente fine da permettere di incrociare i risultati elettorali con le diverse caratteristiche locali. Inoltre, le elezioni sono un potente indicatore delle preferenze dei cittadini e forniscono una base preziosa per analizzare il legame tra populismo e cambiamenti economici e sociali. Questo ci dà l’opportunità di testare varie ipotesi e di comprendere meglio le strutture che regolano le scelte degli elettori in diversi territori.

Questo studio è diviso in tre parti. La prima riguarda i dati grezzi e traccia un quadro delle caratteristiche economiche e sociali dei territori. Come vedremo, questo semplice esercizio permette di sfatare un gran numero di idee preconcette sulle disuguaglianze territoriali e sulla loro evoluzione. La seconda analizza il voto dei comuni in base all’area in cui si trovano. Vedremo in che misura i voti per l’estrema destra e l’estrema sinistra sono determinati territorialmente e socialmente. Il terzo propone di spiegare i voti sulla base delle variabili economiche, geografiche e sociali descritte in precedenza. Il livello di istruzione sarà studiato in particolare per il suo potere esplicativo.

Ma prima di entrare nel vivo dell’analisi, è necessario chiarire il concetto di territorio. Utilizzeremo qui il concetto di bacino d’utenza recentemente proposto dall’INSEE: “Il bacino d’utenza di una città è un insieme di comuni, in un unico insieme e senza enclave, che definisce l’entità dell’influenza di un centro di popolazione e di occupazione sui comuni circostanti, influenza misurata dall’intensità del pendolarismo”. I bacini di utenza possono essere distinti in base alle loro dimensioni e l’INSEE utilizza quattro gruppi a seconda che la popolazione totale dell’area sia inferiore o superiore a 50.000, 200.000 e 700.000 abitanti. In questo modo si ottengono nove tipi di comuni secondo la classificazione: quattro centri urbani, quattro anelli periurbani e aree al di fuori di qualsiasi bacino di utenza4. Va notato che questo concetto è recente e tende a sostituire quelli di conurbazione e area urbana, perché anche se le soglie possono sembrare arbitrarie, il concetto di area offre una maggiore finezza analitica, in particolare l’intensità del legame tra polo e anello.

Mappa dei bacini di utenza della Francia nel 2020

Fonte :

Insee

Da questo punto di vista, la Francia periferica sarebbe costituita da piccoli bacini di utenza (con meno di 200.000 abitanti) e da comuni esterni al bacino di utenza. Nel 2019, la popolazione interessata rappresenterebbe circa il 37% della popolazione totale, con un peso economico di circa il 33% del reddito totale (Tabella 1). Va notato che queste aree periferiche hanno visto la loro quota di popolazione e di reddito ridursi rispettivamente di 2,7pp e di 0,7pp dal 1980, il che è ancora piuttosto modesto. Al contrario, le aree spesso descritte come “globalizzate”, ossia le aree metropolitane con più di 700.000 abitanti e, possibilmente, i centri delle grandi città, rappresentano il 37% della popolazione e il 41% del reddito. In termini di cambiamenti dal 1980, queste aree hanno visto la loro quota di popolazione e di reddito diminuire rispettivamente di 2,7pp e 6pp. A questo proposito, va notato che il calo della quota di reddito non è solo significativo, ma anche sorprendente visto il discorso più in voga. Infine, va notato che le periferie interne delle grandi città e aree metropolitane rappresentano il 26% della popolazione e il 27% del reddito, con un aumento di 5,4pp e 6,8pp negli ultimi quarant’anni. Questo dato conferma l’ascesa di queste nuove aree di vita della classe media, al di fuori dei centri delle grandi città ma sufficientemente vicine per lavorarci.

Tabella 1: peso dei bacini di utenza per popolazione e reddito

Fonte :

Calcoli dell’autore basati sui dati INSEE per la Francia metropolitana.

Nota: statistiche ottenute aggregando i dati comunali.

Interpretazione: Nel 2019, i centri dei bacini di utenza con più di 700.000 abitanti (metropoli) rappresentano il 26,8% della popolazione e il 30,8% del reddito totale. Nel 1980, queste cifre erano rispettivamente il 27,7% e il 34,4%.

Interpretazione: Il peso dei grandi centri urbani, sia in termini di popolazione che di reddito, tende a diminuire dal 1980 a favore delle aree periferiche, in particolare le periferie dei bacini di utenza con più di 200.000 abitanti.

Note

5.

Guillaume Bazot, L’épouvantail néolibéral, un mal très français, PUF, gennaio 2022.

7.

David Goodhart, op.cit.

10.

Landier Augustin, David Thesmar, Il prezzo dei nostri valori, Flammarion, gennaio 2022.

Sulla base di queste categorie, i nostri risultati principali sono i seguenti. In primo luogo, l’idea che le aree remote siano in declino economico è estremamente fragile. L’analisi dei dati mostra, al contrario, che i comuni al di fuori dei grandi centri urbani sono quelli il cui reddito pro capite è aumentato maggiormente negli ultimi quarant’anni. Quindi, nella misura in cui queste aree appaiono meno eterogenee anche dal punto di vista socio-professionale, questo tende a dimostrare che le “élite” economiche delle grandi città globalizzate non hanno beneficiato maggiormente delle più recenti trasformazioni economiche e sociali. Inoltre, questo risultato coincide con la stagnazione delle disuguaglianze di reddito osservata a partire dagli anni ’905Tuttavia, sebbene in costante diminuzione, va sottolineato che le disuguaglianze territoriali continuano ad esistere, con le aree remote che rimangono meno privilegiate. Inoltre, l’analisi delle variazioni demografiche mostra che alcune aree remote hanno una popolazione che invecchia e che è sempre meno attiva6.

In secondo luogo, sulla base della costruzione di un indicatore che distingue i comuni in base alla natura più o meno privilegiata della popolazione (reddito, livello di istruzione, categorie socio-professionali, ricchezza), si osserva una convergenza dei comuni tra loro ma anche tra tipologie di territorio. In altre parole, i comuni sono sempre meno dissimili quando si tratta di questo insieme di criteri, anche nelle aree remote. Tuttavia, le differenze esistono ancora e sono a svantaggio delle aree rurali.

In terzo luogo, osservando i voti per le elezioni presidenziali del 2022 e per le elezioni legislative del 2024, vediamo che i voti per i partiti populisti di destra e di sinistra sono espressi nelle aree rurali per i primi e nelle grandi aree metropolitane per i secondi. È anche importante sottolineare che le popolazioni che vivono nei comuni meno privilegiati hanno votato di più per la destra populista e per il centro che per la sinistra radicale. In altre parole, Le Pen e Macron hanno ottenuto più voti dalle popolazioni appartenenti al 20% e al 40% inferiore della distribuzione del livello di privilegio comunale rispetto a Mélenchon. Quindi, oltre al fatto che Mélenchon ha ottenuto un punteggio inferiore a livello nazionale, questo risultato può essere spiegato anche dalla maggiore percentuale di voti ottenuti da quest’ultimo dal 40% superiore rispetto al 40% inferiore della distribuzione. L’ultimo punto singolare che questi confronti ci forniscono è che il candidato che ha ottenuto la quota maggiore di voti nei comuni privilegiati è Yannick Jadot. Ciò è tanto più interessante se si considera che il suo partito difende fermamente la decrescita come principio costitutivo nella lotta contro il riscaldamento globale e per la giustizia sociale. È come se solo i più privilegiati potessero davvero pensare di veder diminuire i redditi. A causa dell’importanza delle alleanze, i risultati delle elezioni legislative cancellano molti di questi fenomeni. Tuttavia, la destra populista è ancora molto avanti tra i meno privilegiati nel 2024.

In quarto luogo, il confronto con le elezioni presidenziali del 1981 ci fornisce alcune preziose indicazioni sull’evoluzione dei voti in base ai territori e alle categorie economiche e sociali. Da un lato, il voto a Marchais sembra essere il miglior predittore dei voti al primo turno del 2022, in particolare per Le Pen, rispetto al quale è correlato positivamente, soprattutto nelle città di medie dimensioni, e il voto a Macron, rispetto al quale è correlato negativamente. D’altra parte, il debole legame con il voto a Mélenchon suggerisce che il candidato di LFI non attrae la popolazione dei comuni che hanno votato per l’estrema sinistra nel 1981, al di fuori delle grandi metropoli. Tuttavia, la ragione di questa mancanza di sostegno non sembra essere legata a questioni economiche, dal momento che Roussel ha ottenuto i suoi migliori risultati in aree in cui Marchais era il più popolare. Le questioni culturali (come il ruolo dell’ecologia, le abitudini di consumo, l’immigrazione e la laicità) sono state senza dubbio responsabili di questo risultato. Infine, un’analisi dei voti al secondo turno di queste due elezioni mostra che i comuni che avevano votato per Mitterrand nel 1981 hanno votato in media più per Le Pen che per Macron nel 2022. C’è stato quindi effettivamente uno spostamento di una parte dei voti dai comuni di sinistra verso la destra populista e nazionalista, indipendentemente dal territorio considerato.

In quinto luogo, l’analisi dei dati mostra che le variabili economiche, sociali, demografiche e geografiche non hanno tutte lo stesso potere esplicativo dei voti. La variabile più convincente in questo senso rimane il dipartimento del comune, indipendentemente dal fatto che vengano prese in considerazione tutte le altre variabili. Questo dimostra quanto sia importante la dimensione culturale locale per le preferenze degli elettori. Se ci concentriamo sulle variabili economiche e sociali, il livello di istruzione è la variabile con il maggior potere esplicativo, molto più del reddito. Di conseguenza, le condizioni economiche spiegano solo una parte limitata dello spostamento dei voti verso il RN, altrimenti come possiamo spiegare l’effetto primordiale del livello di qualificazione rispetto al tenore di vita? Se aggiungiamo il fatto che il potere esplicativo del tipo di territorio sul punteggio dei candidati è direttamente legato al tasso di laureati, possiamo capire meglio cosa distingue il voto nelle metropoli e nelle periferie. Non è quindi tanto la disuguaglianza quanto il risentimento che sembra giocare i ruoli principali nella struttura del voto, dando così credito alle ipotesi di Goodhart7, Deaton8 e Algan et al.9 una certa eco: il rifiuto di una certa globalizzazione economica (il libero scambio), istituzionale (l’Europa) e culturale (l’immigrazione, la laicità, il tempo libero, il consumo) da parte di una popolazione laureata, universalista e privilegiata (gli ovunque o i fiduciosi) e mettendo in discussione l’identità stessa delle classi lavoratrici che vivono fuori dalle grandi metropoli (gli qualche posto o i diffidenti)..

La comprensione delle fonti di questo rifiuto non è oggetto di questo studio. Tuttavia, la ricerca mostra che le persone non sono sempre inclini a pensare in termini di efficienza economica. Gli individui sono persino disposti a pagare un prezzo elevato per preservare alcuni valori etici o identità che possono essere in contrasto con questa efficienza10. Di conseguenza, il rifiuto dei valori dell’apertura o del libero mercato deriva dall’alto prezzo che le persone attribuiscono alla loro identità, al loro status e alla loro sicurezza economica, elementi che sono imperfettamente compensati dalla percezione dei vantaggi economici offerti dalla globalizzazione e dalla concorrenza del mercato. Il populismo si è inserito in questa falla, esacerbando le percezioni di identità e disuguaglianza per promuovere alcuni valori manichei e anti-sistema.

IParte

La situazione economica e sociale delle regioni

In questa sede vorremmo soffermarci su alcuni aspetti spesso discussi ma poco analizzati. Il primo riguarda la crescita economica nelle varie regioni. Il secondo riguarda il livello di sviluppo e la sua distribuzione tra i bacini di utenza. Il terzo è legato all’eterogeneità della popolazione in termini di qualifiche o background socio-professionale nei comuni e alla sua evoluzione nel tempo a seconda della zona. Infine, proponiamo di combinare tutte queste informazioni costruendo un unico indicatore che tenga conto della natura più o meno privilegiata dei vari comuni francesi.

1

Crescita e sviluppo nei territori

Note

12.

Guillaume Bazot, op.cit.

Un concetto chiave, spesso citato (ma poco dimostrato) per spiegare le richieste locali o i modelli di voto, è quello dei “territori dimenticati”. In primo luogo, dopo il 1990 e la globalizzazione economica si è assistito a un aumento del divario tra i comuni; in secondo luogo, le aree “periferiche” sono state particolarmente colpite; in terzo luogo, le grandi metropoli globalizzate sono i grandi vincitori di questo nuovo ordine economico “neoliberista”. Queste ipotesi possono essere testate utilizzando dati locali. Basta osservare la crescita dal 1980 e confrontarla con il livello iniziale di sviluppo economico e con la geografia.

Per evitare di trarre risultati da piccoli comuni che contribuiscono solo in minima parte alla popolazione francese, concentreremo la nostra analisi sui comuni con più di 1.000 abitanti, ovvero il 27% dei comuni che rappresentano l’87% della popolazione totale11.

I dati sul reddito ci mostrano innanzitutto che il tasso di crescita del reddito medio dei comuni tra il 1980 e il 2019 è correlato negativamente al livello di sviluppo iniziale (Figura 1). C’è quindi un recupero dei comuni poveri rispetto a quelli ricchi nel periodo. La stima mostra che un comune impiega trentotto anni per dimezzare il proprio ritardo, il che è relativamente veloce. Quindi, piuttosto che un aumento delle disuguaglianze di sviluppo tra i comuni, è al contrario una diminuzione di questi divari che abbiamo osservato negli ultimi quarant’anni, nonostante la globalizzazione. Si noti che ciò che è vero a livello comunale è altrettanto vero a livello di dipartimento12.

Se osserviamo la crescita in base al bacino d’utenza, vediamo che i territori con i tassi di crescita più elevati sono proprio quelli che coincidono meglio con l’idea di periferia. Infatti, i tassi di crescita per le aree esterne ai bacini d’utenza e per i nuclei dei bacini con meno di 50.000 abitanti sono rispettivamente dell’80% e del 72%. Allo stesso tempo, il tasso di crescita delle aree metropolitane più grandi è del 31%. Inoltre, e in generale, le periferie sembrano aver beneficiato maggiormente della crescita degli ultimi quarant’anni rispetto ai centri urbani, grandi o piccoli che siano. Questi risultati tendono quindi a mettere in discussione l’idea di una periferia dimenticata, perdente della globalizzazione.

Figura 1: Convergenza del reddito per adulto tra i comuni

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé13.

Nota: reddito medio per adulto, comuni con più di 1.000 abitanti. L’equazione sottostante è la seguente: Crescita1980→2019= 4,88 – 0,46 × ln (reddito per adulto)1980; R2 = 0,14.

Lettura: quando il livello di sviluppo comunale nel 1980 aumenta del 10%, il tasso di crescita del reddito per adulto tra il 1980 e il 2019 è in media inferiore di 4,6pp.

Interpretazione: le disuguaglianze di reddito tra i comuni sono diminuite dal 1980; più un comune è povero, più alto è il suo tasso medio di crescita del reddito rispetto agli altri comuni.

Note

13.

Julia Cagé, Thomas Piketty, Une histoire du conflit politique, Seuil, settembre 2023.

Potremmo chiederci se questa crescita più forte nelle aree periferiche non sia troppo eterogenea. Ci sarebbero vincitori e vinti in periferia, e lo stesso varrebbe per i comuni appartenenti ai centri dei grandi bacini di utenza. Tuttavia, anche se la varianza all’interno dei bacini di utenza è piuttosto elevata, possiamo notare che i comuni rurali che si trovano nella soglia del 25%, in fondo alla distribuzione, mostrano un tasso di crescita più elevato rispetto al comune mediano nei poli delle città grandi o medie. In altre parole, anche se i tassi di crescita sono eterogenei, il recupero economico della periferia rimane pieno e completo.

Infine, la crescita del reddito pro capite non tiene conto della potenziale desertificazione di alcune aree. La sensazione di declino non sarebbe quindi necessariamente legata al tenore di vita della popolazione, ma al declino economico del comune stesso. In realtà, l’analisi dei dati demografici non conferma questo punto di vista, perché sebbene la popolazione cresca soprattutto nelle periferie delle grandi aree metropolitane, si può notare che la popolazione delle aree più periferiche cresce positivamente dal 1980, soprattutto fuori dai centri. Al contrario, i villaggi, le città e le cittadine di provincia mostrano tassi di crescita della popolazione positivi (quindi non c’è “desertificazione”) ma relativamente più bassi. Infatti, la crescita della popolazione nei bacini d’utenza è principalmente il risultato delle aree circostanti e non dei centri.

Figura 2: Tasso di crescita del reddito medio per adulto nei comuni per bacino di utenza.

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé14.

Nota: Crescita del reddito medio per adulto, comuni con più di 1.000 abitanti. Le aree rurali corrispondono ai comuni al di fuori del bacino di utenza. I comuni sono aree con meno di 50.000 abitanti, le città sono aree (polo e anello) con un numero di abitanti compreso tra 50.000 e 200.000, le grandi città sono aree con un numero di abitanti compreso tra 200.000 e 700.000 e le metropoli sono aree con più di 700.000 abitanti.

Interpretazione: il tasso di crescita mediano del reddito pro capite per le città situate nei centri dei bacini di utenza con meno di 50.000 abitanti è stato del 32% tra il 1980 e il 2019. Inoltre, il 25% dei comuni delle città mercato ha avuto un tasso di crescita superiore al 51%, mentre il 25% ha avuto un tasso di crescita inferiore al 16%.

Interpretazione: dal 1980, la crescita nei centri urbani è stata inferiore a quella delle periferie, e ciò non è dovuto a una forte eterogeneità dei tassi di crescita all’interno di ciascun tipo di area. In altre parole, anche se non tutte le regioni sono nella stessa barca, la periferia non sta mediamente perdendo dalle trasformazioni del sistema economico e sociale degli ultimi quarant’anni, in particolare dalla globalizzazione.

Figura 3: Tassi di crescita della popolazione per bacino d’utenza a partire dal 1980

Fonte :

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE.

Nota: Le città sono aree (centro + anello) con meno di 50.000 abitanti, le città sono aree con 50.000-200.000 abitanti, le grandi città sono aree con 200.000-700.000 abitanti, le metropoli sono aree con più di 700.000 abitanti.

Interpretazione: Il tasso medio di crescita della popolazione nelle periferie dei bacini di utenza con più di 700.000 abitanti (aree metropolitane) è stato del 66,5% dal 1980.

Interpretazione: la popolazione si è spostata nei sobborghi esterni dei bacini di utenza, lontano dai grandi centri urbani. Inoltre, la popolazione delle aree più remote è in crescita dal 1980, per cui non c’è una vera e propria desertificazione delle aree rurali.

Note

14.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Analizziamo ora lo sviluppo economico per regione. Anche se la crescita sembra essere stata più forte nei comuni più poveri, il fenomeno del recupero non dice nulla sulle differenze tra i comuni. Di conseguenza, le differenze possono rimanere significative. Questo è mostrato nella Figura 4. Tra i comuni con più di 1.000 abitanti vediamo che le aree rurali e le città mercato hanno redditi per adulto inferiori di quasi il 30%. Infatti, il reddito dei centri e dei sobborghi aumenta all’aumentare della dimensione dell’area. Va inoltre notato che l’eterogeneità dei redditi tra le aree non spiega queste differenze, poiché, ad esempio, il reddito per adulto nel secondo quartile delle aree metropolitane è superiore al reddito mediano per adulto nei comuni rurali.

Figura 4: Reddito per adulto nel 2019 per territorio

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé15.

Nota: reddito medio per adulto, comuni con più di 1.000 abitanti. Le aree rurali corrispondono ai comuni al di fuori del bacino di utenza. I comuni sono aree con meno di 50.000 abitanti, le città sono aree (polo e anello) con 50.000-200.000 abitanti, le grandi città sono aree con 200.000-700.000 abitanti e le metropoli sono aree con più di 700.000 abitanti.

Interpretazione: il comune mediano nei centri dei bacini d’utenza con meno di 50.000 abitanti (città mercato) aveva un reddito medio per adulto di 19.840 euro nel 2019. Inoltre, il 25% dei comuni dei centri ha un reddito medio per adulto inferiore a 19.992 euro, mentre il 25% ha un reddito medio per adulto superiore a 22.577 euro.

Interpretazione: anche se i divari tra le aree si sono ridotti negli ultimi quarant’anni, più le comunità sono ricche, più appartengono a un ampio bacino di utenza, sia all’interno di un cluster che in periferia.

2

Eterogeneità sociale

Note

15.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Per misurare l’eterogeneità sociale, possiamo basarci sulle categorie socio-professionali (CSP) e sul livello di qualificazione. A livello comunale esistono cinque tipi di categorie socio-professionali: dirigenti e professionisti, professioni intermedie, impiegati, operai e, infine, una categoria che raggruppa agricoltori, dirigenti d’azienda e artigiani. Per fare una distinzione più chiara tra le categorie benestanti, a medio reddito e operaie, abbiamo scelto di raggruppare operai e impiegati sotto la stessa voce.

Cosa possiamo dire delle differenze socio-professionali per area? Sulla base della percentuale di operai e impiegati nei comuni con più di 1.000 abitanti, la figura 5 ci mostra che più l’area è urbanizzata, più bassa è la percentuale di persone appartenenti alle categorie socio-professionali inferiori e più è diminuita nel periodo 1990-2019. Ad esempio, nel 2019, i comuni dei centri e dei sobborghi delle grandi aree metropolitane presentano un tasso medio del 42% di operai e impiegati (in calo di 9pp dal 1990), mentre i comuni delle aree rurali hanno un tasso stabile da trent’anni, vicino al 58%. In altre parole, il contrasto socio-professionale tra le diverse tipologie di aree sembra aumentare.

Figura 5: Quota di operai e impiegati per regione

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé16.

Nota: Questo grafico misura la quota di operai e impiegati sul totale della popolazione attiva dei comuni con più di 1.000 abitanti per tipo di territorio nel 1990 e nel 2019. La scala a destra misura il calo di questa quota in questo periodo.

Interpretazione: La quota media di operai e impiegati nei comuni appartenenti alla circonvallazione “città” è scesa dal 59,9% nel 1990 al 53,1% nel 2019, con un calo di 6,8pp.

Interpretazione: la quota di occupazioni meno qualificate è diminuita in tutte le aree dal 1990, ma maggiore è il bacino di utenza, maggiore è il calo. Il contrasto socio-professionale tra i diversi tipi di area sta diventando sempre più marcato.

Note

16.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

E il livello di qualifica? La Figura 6 mostra risultati simili, basati sulla percentuale di laureati per comune. Si può notare che questa percentuale è aumentata di oltre 25 punti percentuali dal 1990 nelle aree metropolitane, raggiungendo oltre il 35% della popolazione. Di conseguenza, sebbene la percentuale di laureati sia in aumento nelle aree rurali e nelle città mercato (15 punti percentuali), le disparità tra i diversi tipi di area si stanno ampliando.

È quindi interessante mettere questi risultati in prospettiva con i dati sul reddito visti in precedenza. Anche se le tipologie di area appaiono sempre più diverse dal punto di vista sociale (pur avendo tutte al loro interno più laureati e manager rispetto al passato), allo stesso tempo, stiamo assistendo a una maggiore crescita del reddito dove la quota di operai e impiegati regge meglio e dove la quota di laureati cresce meno.

Figura 6: Quota di diplomati dell’istruzione superiore per area geografica

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé17.

Nota: Questo grafico misura la quota di laureati sul totale della popolazione dei comuni con più di 1.000 abitanti per tipo di territorio nel 1990 e nel 2022. La croce nera indica l’aumento di questa percentuale in questo periodo.

Interpretazione: La percentuale media di laureati nei comuni appartenenti al cluster “città” è passata dal 9,3% nel 1990 al 26,7% nel 2022, con un aumento di 17,4 punti percentuali.

Interpretazione: la percentuale di laureati è aumentata in tutte le aree dal 1990, ma l’incremento è maggiore quanto più grande è il bacino di utenza. Il contrasto tra i tipi di area in base al livello di qualifica sembra aumentare.

Note

17.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Infine, possiamo interrogarci sull’evoluzione dell’eterogeneità sociale nei comuni in relazione alla loro eterogeneità iniziale. A tal fine, possiamo osservare l’inverso dell’indice di Herfindahl-Hirschmann (HHI), che è di fatto un indicatore di concentrazione. Più alto è l’HHI, minore è l’eterogeneità sociale. Si noti che, poiché qui ci sono solo 4 categorie, l’HHI è compreso tra 0,25 (eterogeneità perfetta) e 1 (eterogeneità nulla).

La Figura 7 mostra che negli ultimi trent’anni si è verificata una convergenza verso livelli più bassi di concentrazione socio-professionale del comune. Più alta è la concentrazione socio-professionale di un comune nel 1990, più bassa sarà la concentrazione nel periodo 1990-2019. Quindi, contrariamente a quanto si crede, non solo i comuni sono sempre meno omogenei dal punto di vista socioprofessionale, ma questa maggiore eterogeneità tende anche a diventare sempre più la norma. Le categorie socioprofessionali si stanno sempre più incrociando e le differenze tra i comuni da questo punto di vista si dimostrano sempre più ridotte, nonostante le differenze territoriali che abbiamo appena documentato. A questo proposito, le due figure precedenti suggeriscono che la varianza dell’eterogeneità all’interno delle categorie territoriali è diminuita.

Figura 7: Convergenza sociale tra i comuni

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé18.

Nota: la concentrazione socio-professionale è misurata dall’indice di Herfindhal-Hirschmann (HHI), basato sulle categorie socio-professionali di operai e impiegati, occupazioni intermedie, quadri e una categoria che comprende agricoltori, imprenditori e artigiani. L’equazione di base è la seguente: ∆concentrazione1980→2019 = 0,10 – 0,33 × concentrazione1980; R2 = 0,16.

Lettura: Quando la concentrazione socio-professionale di un comune nel 1990 aumenta di 10pp, la variazione della concentrazione socio-professionale tra il 1990 e il 2019 è in media di -3,3pp.

Interpretazione: i comuni tendono a essere sempre meno dissimili in termini di eterogeneità socio-professionale. In altre parole, i comuni più omogenei dal punto di vista socioprofessionale hanno visto aumentare il loro livello di diversità socioprofessionale in media più rapidamente dal 1990.

Note

18.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Questi risultati sono importanti per diversi motivi. In primo luogo, mettono in discussione l’idea di una tendenza al ritiro sociale. Sebbene alcune aree possano essere inclini a questo fenomeno, non si tratta né di una generalità né di una tendenza fondamentale, anzi. Inoltre, se osserviamo l’aumento dell’eterogeneità dei comuni all’interno dei dipartimenti, vediamo che nessun dipartimento ha registrato un calo del livello medio di eterogeneità dei suoi comuni dal 1970. In secondo luogo, il calo particolarmente significativo del livello di concentrazione nei bacini di utenza delle grandi aree metropolitane suggerisce che la mancanza di diversità sociale è più un problema nelle aree rurali. Si potrebbe pensare, ad esempio, che il dipartimento di Seine-Saint-Denis sia soggetto a un aumento della concentrazione socio-professionale. In realtà, questo è uno dei dipartimenti con uno dei più alti aumenti di eterogeneità sociale, e questo non è dovuto solo ai comuni confinanti con la città di Parigi19. Infine, nonostante la relativa stagnazione della diversità sociale nelle campagne e nei piccoli bacini d’utenza, la concomitante convergenza dei redditi ci mostra che non è l’afflusso di manager nelle aree periferiche la causa del maggiore arricchimento di questi territori negli ultimi quarant’anni. I grandi trasferimenti monetari verso le aree periferiche sono in parte responsabili di questo risultato.

3

Evoluzione secondo l’indice di “privilegio” comunale

Un modo per riassumere questi risultati è creare un indicatore che tenga conto delle molteplici dimensioni della natura più o meno privilegiata dei comuni. In questo caso, considereremo privilegiato qualsiasi comune la cui popolazione abbia, in media: un titolo di studio superiore, un’occupazione manageriale, un reddito più elevato, un basso tasso di disoccupazione e un alto livello di ricchezza. Per evitare di assegnare un peso arbitrario a ciascuna variabile, e poiché queste variabili sono correlate tra loro (un dirigente laureato ha generalmente un reddito più elevato), proponiamo di generare questa variabile utilizzando un’analisi delle componenti principali. Questo metodo consente di “riassumere” tutte le informazioni contenute in tutte le variabili riducendole a una o più “componenti”. Nel nostro caso, raccoglieremo solo i dati relativi alla prima componente, poiché questa riassume la maggior parte delle informazioni contenute nei dati. Pertanto, i valori ottenuti per un determinato anno da questa componente ci danno un’indicazione della natura più o meno privilegiata di ogni comune a quella data.

Figura 8: Livello medio di privilegio comunale per zona

Fonte :

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Julia Cagé, Thomas Piketty20.

Nota: Il livello di privilegio in ogni comune è ottenuto da un’analisi delle componenti principali che include le seguenti variabili: reddito medio per adulto, ricchezza immobiliare per adulto, quota di ogni categoria socio-professionale, quota di ogni categoria di laurea, tasso di disoccupazione.

Interpretazione: Il punteggio medio di privilegio nelle periferie dei bacini di utenza con più di 700.000 abitanti (metropoli) era di 1,55 nel 1980 e di 1,52 nel 2019.

Interpretazione: i comuni situati in grandi bacini di utenza sono più privilegiati in base a una serie di criteri, tra cui il reddito, le qualifiche, il PSC e il tasso di disoccupazione, sia nel 1980 che nel 2019. Tuttavia, questo vantaggio tende a diminuire nel tempo, suggerendo una riduzione del divario di privilegi tra le aree.

Note

20.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Il vantaggio di utilizzare questo tipo di indicatore piuttosto che il solo reddito comunale è che il reddito medio non è un indicatore sufficiente. Innanzitutto, il reddito comunale può essere molto disperso e non tiene conto della diversità delle popolazioni all’interno dei comuni, soprattutto di quelli più grandi. In secondo luogo, lo status sociale e le qualifiche sono particolarmente influenti nel plasmare la percezione che le persone hanno dei loro concittadini. Infine, dal punto di vista della comprensione dei voti, il reddito non può essere l’unico criterio gerarchico. Infatti, il titolo di studio e lo status sociale spesso riflettono meglio del reddito il capitale sociale e culturale. Per questo motivo, questo indicatore vuole essere una migliore approssimazione della strutturazione sociale. Questo punto sarà approfondito in particolare nella terza parte di questo studio.

Per rendere i valori confrontabili, teniamo presente che il livello medio di privilegio dei comuni è pari a zero. La figura 8 ci mostra che le aree rurali sono meno privilegiate di qualsiasi altro territorio, e questo è vero sia che si guardi al 1980 che al 2019. Al contrario, i comuni dei nuclei e degli hub metropolitani sembrano essere mediamente più privilegiati rispetto ai comuni di tutti gli altri bacini di utenza. Possiamo notare, tuttavia, che i divari tra i diversi tipi di area si stanno riducendo, il che implica una minore concentrazione di popolazioni “privilegiate” nei principali bacini di utenza. Inoltre, le città mercato sembrano essere le aree che hanno beneficiato meno del periodo 1980-2019. Mentre nel 1980 il loro punteggio era superiore alla media dei comuni, nel 2019 era inferiore.

Figura 9: Convergenza dei livelli di privilegio

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé21.

Nota: L’equazione che regola la relazione tra la variazione del livello di privilegio e il suo livello del 1980 è ∆privilegio1980→2019 = 0,61 – 0,26 × privilegio1980; R2 = 0,19

Interpretazione: un aumento di 10 punti del livello di privilegio porta a una diminuzione di 2,6 punti dello stesso livello tra il 1980 e il 2019.

Interpretazione: più un comune era privilegiato nel 1980, meno il suo punteggio in quest’area è aumentato in media negli ultimi quarant’anni. Vi è quindi una convergenza tra i comuni su questo criterio composito, che comprende reddito, qualifiche, CSP e tasso di disoccupazione.

Note

21.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Per completare questi risultati territoriali possiamo anche osservare la variazione del punteggio del privilegio comunale e confrontarlo con il livello di privilegio del 1980. Esiste un legame negativo significativo tra queste due variabili, che suggerisce, come nel caso del reddito, una convergenza dei livelli di privilegio comunali. In altre parole, i comuni meno privilegiati in termini di istruzione, reddito, ricchezza o status socio-professionale tendono a raggiungere i comuni più privilegiati nel corso del periodo. Questi risultati sono importanti perché ci mostrano che i vincitori e i vinti della globalizzazione nei territori non sono necessariamente quelli che pensiamo. Non solo i divari si stanno riducendo, ma questa tendenza sembra andare a vantaggio dei territori remoti e a scapito delle città. In ogni caso, i dati recenti suggeriscono una riduzione delle disuguaglianze comunali e territoriali.

IIParte

Chi vota per chi nei territori?

Dopo aver fatto il punto sulle caratteristiche economiche e sociali degli enti locali in termini di bacini di utenza, possiamo rivolgere la nostra attenzione alla questione del voto locale. Questa sezione vuole essere principalmente descrittiva, cercando di stabilire i modelli di voto piuttosto che spiegarli (un punto su cui ci soffermeremo nella terza sezione). Poiché stiamo analizzando il presente, ci concentreremo principalmente sulle elezioni presidenziali del 2022. Tuttavia, prenderemo in considerazione anche le elezioni del 1980 per fare un confronto e capire il voto attuale.

Proponiamo qui di integrare la metodologia di Cagé e Piketty estendendo l’analisi ai bacini di utenza e facendo attenzione a considerare variabili diverse dal solo reddito. Piuttosto che classificare i comuni a seconda che siano “classe media” o “classe operaia”, preferiamo classificarli a seconda che siano più o meno “privilegiati”. Sarebbe stato senza dubbio preferibile avere a disposizione dati su base individuale, ma in assenza di un campione sufficientemente ampio e perfettamente rappresentativo della struttura economica e sociale per consentire una classificazione per decile, i dati comunali rappresentano un’alternativa interessante. È semplicemente importante non saltare alle conclusioni e tenere presente la possibilità di una serie di trappole. La più importante di queste è la distorsione da aggregazione. Questo consiste nel non tenere sufficientemente conto dell’eterogeneità delle popolazioni all’interno di ciascun comune. Ad esempio, il fatto che un comune ricco abbia votato di più per il candidato X non significa che i ricchi abbiano votato per quel candidato. Infatti, un comune ricco può avere anche un gran numero di non ricchi che hanno votato massicciamente per quel candidato. L’aggregation bias compare allora se i non ricchi in questione hanno votato più fortemente per X nei comuni ricchi che negli altri comuni. In altre parole, maggiore è l’eterogeneità comunale, maggiore è il rischio di un’interpretazione errata. Tuttavia, nella misura in cui si ragiona al livello sufficientemente fine del comune, questo rischio rimane relativamente limitato. Inoltre, questo presuppone che le preferenze di voto di individui appartenenti alle stesse categorie (di reddito, socio-professionali o di istruzione) varino molto a seconda del comune in cui vivono.

1

Panoramica basata sui dati individuali

Note

I dati individuali ricavati dai sondaggi post-elettorali ci permettono innanzitutto di avere un’idea chiara di alcuni fatti relativi ai modelli di voto delle diverse categorie. In primo luogo, i dati mostrano chiaramente che gli impiegati (31%) e soprattutto gli operai (42%) hanno votato maggiormente per Le Pen. Al contrario, il candidato della RN ha ottenuto risultati inferiori in tutte le altre categorie. Macron, da parte sua, attrae la maggior parte dei voti dei dirigenti (34%). Infine, Mélenchon ha ottenuto il punteggio più basso tra i colletti blu (20%). D’altra parte, si è avvicinato al suo punteggio nazionale in tutte le altre categorie, compresi i dirigenti. In termini di reddito, le famiglie che guadagnano meno di 1.000 euro hanno votato tanto per Le Pen (32%) quanto per Mélenchon (33%). Al contrario, le famiglie con un reddito superiore a 3.500 euro hanno votato principalmente per Macron (39%). Infine, va notato che i giovani (18-34 anni) hanno votato soprattutto per Mélenchon (33%) e Le Pen (32%) e relativamente poco per Macron (17%). Al contrario, gli anziani hanno votato maggiormente per Macron (39%) e relativamente poco per Mélenchon (16%) o Le Pen (13%).

I risultati del 1° turno delle elezioni legislative sono stati simili, anche se le alleanze possono offuscare alcune osservazioni22. Ad esempio, il voto di RN e alleati (34% a livello nazionale) si concentra in larga misura tra i meno abbienti (54% dei voti espressi) e le classi lavoratrici (38% dei voti espressi). Allo stesso modo, gli operai (57%) e gli impiegati (44%) avevano maggiori probabilità di votare per la RN e per candidati simili. Tuttavia, il RN è risultato in testa per tutte le categorie di reddito studiate, comprese le famiglie che guadagnano più di 3.000 euro netti al mese23. Al contrario, il livello di qualificazione rimane una variabile chiave, con solo il 22% di coloro che hanno 3 o più anni di istruzione post-secondaria che votano per la RN, rispetto al 49% di coloro che hanno meno di un diploma di maturità. In altre parole, lo status e l’estrazione sociale sembrano essere più determinanti del reddito per spiegare il voto dei populisti di destra.

Osserviamo ora il voto per il Nouveau Front Populaire (28,1% a livello nazionale). Questo può essere visto come la controparte del voto per il RN. La sinistra è più popolare tra le persone più istruite (37%), i dirigenti (34%) e le professioni intermedie (35%), in particolare nella funzione pubblica. Inoltre, il PNF appare particolarmente attraente tra i giovani (48% tra i giovani sotto i 25 anni e 38% tra i 25-34enni), anche se la RN non è molto lontana da questo punto di vista (rispettivamente 33% e 32%). In realtà, a parte quest’ultimo punto, molte delle caratteristiche sociologiche specifiche del voto a Macron si ritrovano nel voto al PNF alle elezioni legislative, senza dubbio grazie al ritorno di alcuni elettori di centro-sinistra (come dimostra il voto a favore di Raphaël Glucksman alle elezioni europee).

Infine, il voto di Ensemble (20,3% a livello nazionale) completa il quadro. Possiamo notare che il partito del Presidente della Repubblica è sostenuto soprattutto dai pensionati (29%), anche se questi ultimi hanno votato maggiormente per la RN (31%) e per i dirigenti (26%) dopo il PNF.

Queste informazioni ci mostrano che tra i tre candidati principali, il centro attrae una popolazione piuttosto anziana e privilegiata; la sinistra sembra essere particolarmente attraente per i giovani, soprattutto studenti, e per i più istruiti; infine, il RN attrae i meno privilegiati, soprattutto operai e impiegati e i meno istruiti. Potremmo quindi esagerare dicendo che il voto al RN è soprattutto un voto di status e non un voto legato al reddito. Svilupperemo questo punto più avanti.

Questi dati individuali sono essenziali e non possono essere contraddetti dai dati locali. Tuttavia, come già accennato, le informazioni per comune possono permetterci di completare questo inventario, tenendo conto, in particolare, della dimensione geografica, ma anche classificando le popolazioni dei comuni per percentili secondo vari criteri.

2

Risultati dei dati comunali

a. Voti per bacino d’utenza

Iniziamo a vedere come hanno votato i vari candidati in base all’area di attrazione. Per evitare una moltiplicazione dei grafici, ci concentreremo qui sulle tre figure principali delle elezioni, ovvero Macron, Le Pen e Mélenchon.

I dati mostrano diversi fatti importanti (Figure 10.1 e 10.2). In primo luogo, Le Pen alle elezioni presidenziali e il RN alle elezioni legislative hanno ottenuto buoni risultati nelle aree rurali, ma meno nelle aree metropolitane. Mélenchon e il PNF, invece, hanno ottenuto i migliori risultati nei centri delle grandi città e nelle aree metropolitane, ma hanno ottenuto scarsi risultati nelle aree rurali e nelle periferie. In altre parole, a differenza del RN, la sinistra è stata più popolare nelle aree cosiddette “globalizzate”, ma ampiamente respinta nelle aree cosiddette “periferiche”. Infine, il voto di Macron e Ensemble sembra essere abbastanza stabile tra i vari bacini di utenza. Il partito presidenziale appare quindi meno divisivo dal punto di vista geografico di quanto spesso affermato. Infine, va notato che Macron è arrivato primo in cinque dei nove tipi di territorio e rimane molto vicino a Mélenchon nella Francia metropolitana. Questo risultato si è invertito nelle elezioni legislative, con il RN in testa ovunque tranne che nelle aree metropolitane, dove è arrivato terzo.

Figura 10.1: Quota di voti alle elezioni presidenziali del 2022 per bacino di utenza

Fonte :

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE.

Nota: Quota media dei voti ottenuti da ciascun candidato nei comuni con più di 1.000 abitanti.

Interpretazione: Nelle periferie dei bacini d’utenza con meno di 50.000 abitanti (città mercato), Le Pen ha ottenuto il 29% dei voti, contro il 26% di Macron e il 16% di Mélenchon.

Più grande è l’agglomerato urbano, più basso è il voto di Le Pen/RN, mentre il contrario è vero per Mélenchon/NFP. Il voto di Macron/Ensemble è relativamente stabile in tutti i bacini di utenza.

Figura 10.2 Quota di voti alle presidenziali del 2022 per bacino di utenza delle elezioni generali del 2024

b. Voti del Comune per categoria sociale

Vediamo ora come vengono distribuiti i voti in base allo status sociale. Qui sono possibili diverse opzioni. Da un lato, possiamo esaminare il legame tra le variabili sociali e la quota di voti ricevuta da ciascun candidato nei comuni. In secondo luogo, possiamo concentrarci sulla quota relativa di voti per ciascun candidato in base alla distribuzione dei livelli di privilegio nei comuni. Ciò equivale a dire se il voto a favore del candidato X nei comuni è più o meno dovuto al voto proveniente da comuni privilegiati o non privilegiati. Quindi, più voti un candidato riceve nei comuni privilegiati rispetto agli altri comuni, più “privilegiato” sarà il suo elettorato. Infine, è possibile suddividere i voti di ciascun candidato per quintile di livello di privilegio. Questo ci permette di vedere quale parte della distribuzione è favorevole a ciascun candidato.

Cominciamo ad analizzare i legami tra il voto comunale e il criterio sociale. A tal fine, calcoliamo la correlazione tra la quota di voti per ciascun candidato e il livello di privilegio comunale calcolato in precedenza. Per evitare che la correlazione sia guidata dai piccoli comuni, abbiamo scelto di concentrare la nostra attenzione sui comuni con più di 1.000 abitanti. Vediamo quindi che Jadot, Macron, Pécresse e Zemmour ottengono punteggi tanto più alti quanto maggiore è il livello di privilegio comunale (Figure 11.1 e 11.2). L’inverso è vero per Le Pen, Arthaud, Roussel e Poutou. Infine, il legame tra privilegio e punteggio comunale è prossimo allo zero per Mélenchon, Hidalgo, Lassalle e Dupont-Aignan. In altre parole, il punteggio di questi candidati non sembra dipendere dal livello di privilegio dei comuni.

I risultati delle elezioni legislative dipingono un quadro simile, con una netta divisione tra la RN da un lato e Ensemble dall’altro. Forse la sorpresa più grande è la mancanza di correlazione tra il voto della LR e il livello di privilegio comunale.

Figura 11.1: Correlazione tra livello di privilegio e quota di voto alle elezioni presidenziali del 2022

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé24.

Nota: la correlazione misura il legame tra il livello di privilegio e la quota di voti ottenuti da ciascun candidato. I dati escludono i comuni con meno di 1.000 abitanti. Il livello di privilegio viene misurato come descritto nella sezione 1.3.

Interpretazione: il coefficiente di correlazione tra il livello di privilegio e il punteggio ottenuto da Yannick Jadot nei vari comuni del campione è di 0,63.

Interpretazione: il voto Le Pen/RN è legato ai comuni meno privilegiati. Non è così per il voto di Macron/Ensemble. Il voto di Mélenchon/NFP sembra essere indipendente dal livello di privilegio dei comuni.

Figura 11.2: Correlazione tra livello di privilegio e quota di voti alle elezioni generali del 2024

Note

24.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Il problema dell’analisi di correlazione è proprio che non tiene conto delle dimensioni dei comuni. Un comune di 1.000 abitanti conta qui quanto un comune di 100.000 abitanti. Per completare la nostra analisi, può essere interessante classificare i comuni in base al livello di privilegio e vedere così se i comuni in cima o in fondo alla distribuzione votano di più o di meno per un determinato candidato. Seguiamo quindi il metodo proposto da Cagé e Piketty, con l’unica differenza che non ci concentriamo solo sui livelli di reddito.

Cominciamo a vedere quali candidati hanno ottenuto la maggior parte dei voti presidenziali da comuni privilegiati. A tal fine, osserviamo la quota di voti del 10% della popolazione appartenente ai comuni con il punteggio di privilegio più alto e confrontiamo questa quota con il punteggio nazionale ottenuto. La figura 12.1 mostra che i candidati più “borghesi”, per usare il lessico di Cagé e Piketty, sono Pécresse, Jadot, Macron e Zemmour. In effetti, troviamo gli stessi risultati ottenuti dalle correlazioni. I risultati delle elezioni legislative confermano questa tabella, poiché il RN ha ottenuto un punteggio inferiore (-32%) nei comuni privilegiati, a differenza di Ensemble (+34%) o LR (+47%). Si noti che il PNF ha ottenuto lo stesso punteggio nei comuni privilegiati che nel resto della Francia.

Figura 12.1: Punteggio relativo del 10% della popolazione che vive in comuni privilegiati nelle elezioni presidenziali del 2022.

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati dell’INSEE e di Piketty e Cagé25.

Nota: Il punteggio relativo corrisponde alla quota di voti ottenuti dal 10% della popolazione residente nei comuni più privilegiati diviso per il punteggio nazionale del candidato. Se è maggiore di 1, il candidato è più popolare nel 10% dei comuni più privilegiati rispetto agli altri comuni.

Interpretazione: il punteggio relativo di Valérie Pécresse è 1,59; quindi, il suo punteggio è superiore del 59% tra la popolazione che vive nei comuni appartenenti al 10% superiore della distribuzione del livello di privilegio comunale.

Interpretazione: Le Pen (2022) e la RN (2024) ricevono meno voti dai comuni appartenenti al 10% superiore. Al contrario, Macron (2022) e Ensemble (2024) dipendono maggiormente da questo elettorato. Si noti che i punteggi di Mélenchon (2022) e del PNF (2024) sono vicini a 1, in altre parole, i loro punteggi sono gli stessi in questi comuni come nel resto della Francia.

Figura 12.2: Punteggio relativo del 10% della popolazione residente in comuni privilegiati alle elezioni generali del 2024

Note

25.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Possiamo anche dividere la popolazione per misurare la quota di ciascun quintile di privilegio sul totale dei voti ottenuti da un candidato (Figure 13.1 e 13.2). Possiamo notare che Yannick Jadot è il candidato il cui 20% e 40% della popolazione dei comuni più privilegiati rappresenta la quota maggiore dei voti totali. È seguito da Pécresse, Macron, Zemmour e Mélenchon. Al contrario, Le Pen e Arthaud sono i candidati che raccolgono la quota maggiore di voti tra il 20% e il 40% della popolazione dei comuni meno privilegiati.

Figura 13.1: Distribuzione dei voti per quintile di privilegi comunali nelle elezioni presidenziali del 2022

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati dell’INSEE e di Piketty e Cagé26.

Nota: quota di voti per ciascun candidato in base al livello di privilegio dei comuni.

Interpretazione: il 28% dei voti ottenuti da Nathalie Arthaud proviene dal 20% della popolazione che vive nei comuni meno privilegiati; il 49% dei voti ottenuti da Le Pen proviene dal 40% della popolazione che vive nei comuni meno privilegiati.

Interpretazione: la maggior parte dell’elettorato di Le Pen/RN vive nei comuni meno privilegiati. L’opposto è vero per Macron/Ensemble. Mélenchon/NFP ottiene punteggi abbastanza omogenei tra i quintili, anche se ottiene meno voti dal 40% inferiore della distribuzione. Si noti che il candidato con il maggior numero di voti provenienti da comuni privilegiati è Y. Jadot.

Figura 13.2: Distribuzione dei voti per quintile di privilegio comunale alle elezioni generali del 2024

Note

26.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Va ricordato, tuttavia, che per il momento stiamo analizzando le quote relative. Questo non dice nulla sul punteggio assoluto ottenuto da ciascun candidato in ogni quintile. Vediamo quindi quest’ultimo punto in modo più dettagliato, sommando i voti di ciascun candidato nei diversi quintili di privilegio (Figure 14.1 e 14.2). Vediamo così che Le Pen è il candidato che riceve il maggior numero di voti se consideriamo rispettivamente il 20%, il 40% e il 60% della distribuzione. Sono quindi i suoi punteggi tra il 40% superiore che permettono a Macron di uscire in testa al primo turno. Va inoltre notato che Mélenchon raggiunge Le Pen grazie al 20% superiore della distribuzione. Anche se rimane difficile commentare ulteriormente a monte senza rischiare di fare troppe ipotesi, questi risultati confermano i dati individuali che suggeriscono che le classi popolari hanno votato Le Pen più ampiamente di Mélenchon. Allo stesso modo, il buon risultato di Mélenchon nei comuni privilegiati coincide con i buoni risultati ottenuti dal candidato di LFI nella Francia metropolitana, in particolare tra i dirigenti, le professioni intermedie, gli studenti e i laureati. In effetti, anche Macron ottiene punteggi migliori in termini assoluti rispetto a Mélenchon tra il 20% e il 40% della distribuzione, il che mette fortemente in discussione il fatto che Mélenchon sarebbe il candidato delle classi lavoratrici. Va inoltre notato che questa constatazione non può essere dovuta a una divisione della sinistra, con Poutou, Arthaud, Roussel e Hidalgo che ottengono punteggi troppo bassi, mentre Jadot ottiene i suoi tassi migliori tra il 20% superiore della distribuzione. In realtà, le classi lavoratrici hanno abbandonato la sinistra in queste elezioni, ovunque al di fuori delle grandi metropoli, come vedremo.

Figura 14.1: Numero cumulativo di voti per quintile di privilegio comunale nelle elezioni presidenziali del 2022.

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé27.

Nota: Il voto per ogni candidato corrisponde alla somma dei voti dei comuni classificati per quintile di privilegio. Il livello di privilegio è misurato aggregando un insieme di variabili (reddito, titoli di studio, CSP, ecc.) mediante un’analisi delle componenti principali (cfr. sezione I.3).

Interpretazione: Mélenchon ha ottenuto 1.269.808 voti tra il 20% della popolazione che vive nei comuni meno privilegiati, ha ottenuto 1.559.781 voti tra il 20% della popolazione che vive nei comuni più privilegiati.

Figura 14.2: Numero cumulativo di voti per quintile di privilegio comunale alle elezioni generali del 2024

Note

27.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

c. Voti per categoria sociale e bacino d’utenza

Vediamo ora la ripartizione dei voti per bacino di utenza, in base al livello di privilegio di ciascun comune. A tal fine, abbiamo esaminato i voti dei tre candidati principali in base all’appartenenza del comune al 50% più o meno privilegiato della popolazione.

Figura 15.1: Punteggio medio comunale per la metà della popolazione che vive nei comuni più “privilegiati” nelle elezioni presidenziali del 2022

Figura 15.2: Punteggio medio comunale per la metà della popolazione che vive nei comuni più “privilegiati” alle elezioni generali del 2024

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé28.

Nota: Il livello di privilegio è misurato dall’aggregazione di un insieme di variabili (reddito, diploma, CSP, ecc.) a seguito di un’analisi delle componenti principali (cfr. sezione I.3).

Interpretazione: tra i comuni con più di 1.000 abitanti, Macron ha ottenuto il 32% dei voti nei comuni appartenenti al cluster delle grandi città la cui popolazione si colloca nel primo 50% della distribuzione del livello di privilegio comunale.

Interpretazione: Macron sembra essere il candidato delle popolazioni urbane privilegiate. Tuttavia, Ensemble ha subito un calo durante le elezioni legislative. Le Pen e il RN sono stati più popolari nei comuni rurali, ma il RN ha primeggiato ovunque, tranne che nei centri delle grandi città. Mélenchon e il PNF sono respinti in questi comuni, tranne che nei centri delle grandi città, il che coincide con l’appeal che la sinistra radicale o classica può aver avuto tra i manager e le professioni intellettuali.

Note

28.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Sono diversi i dati che spiccano (si vedano le figure 15.1 e 15.2 e 16.1 e 16.2). In primo luogo, il voto per Macron rimane il più stabile tra i diversi bacini di utenza, indipendentemente dal campione selezionato. Tuttavia, l’appeal di Macron è stato particolarmente forte nelle aree più ricche, anche se questa tendenza è scomparsa alle elezioni legislative con il trasferimento dei voti al RN nelle città e al PNF nelle aree metropolitane. Al contrario, il peggior risultato di Macron è stato ottenuto nei comuni meno privilegiati nei centri delle grandi aree metropolitane. Questa scarsa performance è stata confermata alle elezioni legislative, in quanto il divario tra i voti di Macron e quelli di Ensemble è stato maggiore nei centri dei comuni, delle città e delle aree metropolitane meno privilegiate. In altre parole, Ensemble ha perso il maggior numero di voti nei centri dei bacini di utenza tra il 2022 e il 2024, in particolare nei comuni meno privilegiati. Quest’ultimo punto va visto nel contesto dei punteggi particolarmente alti di Mélenchon e del PNF nei comuni che concentrano gran parte delle periferie povere di Parigi e delle altre grandi metropoli. Va notato, tuttavia, che Mélenchon e il PNF ottengono ottimi risultati anche nei comuni privilegiati delle grandi metropoli, un punteggio che appare più alto che in qualsiasi altro bacino di utenza. Anche in questo caso, ciò coincide con i dati dei sondaggi post-elettorali che mostrano una propensione abbastanza elevata dei dirigenti e delle professioni intermedie a votare per la sinistra, con una maggiore probabilità di trovarsi nei centri, in particolare nelle professioni intellettuali. Infine, Mélenchon e il PNF sembrano essere abbastanza stabili nei comuni rurali e periferici, indipendentemente dal livello di privilegio studiato. Di conseguenza, rimangono sistematicamente dietro alla destra populista in questi bacini di utenza, soprattutto quando i comuni in questione non sono privilegiati. In altre parole, ma questo è noto, il voto di sinistra è soprattutto un voto per la metropoli e in particolare per le sue periferie povere. Come corollario, le classi lavoratrici delle aree rurali e delle piccole città sembrano aver abbandonato la sinistra a favore dell’estrema destra.

Figura 16.1: Punteggio medio per la metà della popolazione che vive nei comuni meno privilegiati nelle elezioni presidenziali del 2022

Figura 16.2: Punteggio medio per la metà della popolazione che vive nei quartieri meno privilegiati alle elezioni generali del 2024.

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé29.

Nota: il livello di privilegio è misurato dall’aggregazione di un insieme di variabili (reddito, diploma, CSP, ecc.) a seguito di un’analisi delle componenti principali (cfr. sezione I.3).

Interpretazione: tra i comuni con più di 1.000 abitanti, Macron ha ottenuto il 24% dei voti nei comuni appartenenti al cluster delle grandi città la cui popolazione si trova nel 50% inferiore della distribuzione del livello di privilegio comunale.

Interpretazione: la popolazione dei comuni meno privilegiati ha votato principalmente per Le Pen e il RN, tranne che nei centri delle grandi città, a causa del voto delle periferie. Al contrario, Mélenchon e il PNF hanno ottenuto risultati relativamente bassi in tutti i tipi di comuni, tranne che nelle grandi aree metropolitane, a causa del voto delle periferie. Infine, Macron e Ensemble hanno ottenuto risultati inferiori nei comuni meno privilegiati, indipendentemente dal loro status geografico.

Note

29.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Infine, concentriamoci sul voto per Le Pen e la RN. Vediamo che questo si concentra nelle periferie e nei comuni rurali, in particolare tra i comuni meno privilegiati, ma non solo. Infatti, il loro punteggio appare superiore a quello di Macron e Ensemble nei comuni privilegiati appartenenti a queste categorie. Un altro aspetto importante è che Le Pen e il RN sono in testa in tutti i bacini di utenza quando ci si concentra sui comuni meno privilegiati, con l’unica eccezione dei centri delle grandi metropoli. Nelle elezioni legislative, questo dato si estende anche ai comuni più privilegiati, anche se le differenze sono meno evidenti. Se si escludono le periferie povere dei maggiori agglomerati urbani francesi, i meno privilegiati votano di più per il RN in tutti i tipi di aree. Tuttavia, questo dato tende a diminuire con l’aumentare delle dimensioni dei centri. La Le Pen sembra quindi essere la candidata per le aree periferiche ma anche, e soprattutto, per i comuni meno privilegiati al di fuori delle grandi aree metropolitane.

3

Alcuni confronti con le elezioni del 1981

Prima di tentare di spiegare i voti nei territori, riteniamo utile confrontare i risultati del 2022 con quelli del 1981. Abbiamo scelto questo confronto perché il 1981 ha il vantaggio di risalire abbastanza indietro nel tempo, in modo che la situazione attuale non sia troppo determinata da una vicinanza temporale fittizia. Inoltre, questa elezione ci permette di concentrarci sul legame tra il voto per i tre principali candidati del 2022 e un candidato particolarmente interessante del 1981: Georges Marchais. Per molti versi, il candidato del PCF di allora rappresentava molti dei valori difesi da Mélenchon e Le Pen, quindi osservare questo legame su base regionale può essere particolarmente illuminante. Ma prima diamo una rapida occhiata alle correlazioni tra il voto comunale dei quattro principali candidati nel 1981 e i tre principali candidati nel 2022. Per evitare che i risultati siano tratti dai villaggi, includiamo solo i comuni con più di 1.000 abitanti nel 2022.

Si notano diversi fatti. In primo luogo, le correlazioni sono piuttosto basse, il che suggerisce che i modelli di voto nei comuni e il clima politico tra le due elezioni non sono equivalenti. In secondo luogo, possiamo notare che il segno delle correlazioni per Macron e Mélenchon è quello atteso. D’altra parte, il voto di Le Pen è sorprendente per alcuni aspetti, poiché appare correlato positivamente con il voto di Marchais e negativamente con il voto di Chirac. Infine, il voto di Marchais sembra essere il più divisivo ma anche il miglior predittore di voti. Si può notare chiaramente che il voto a Le Pen viene a fare da guastafeste nella divisione tra destra e sinistra. In base a queste correlazioni, la candidata della RN appare più vicina alla sinistra che alla destra in quel momento, in particolare se notiamo che il voto di Marchais è più vicino a lei di quello di Mélenchon.

Figura 17: Correlazione tra i candidati alle elezioni del 1981 e del 2022

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé30.

Nota: La correlazione semplice misura il legame tra il voto per i quattro candidati principali nelle elezioni del 1981 e i tre candidati principali nelle elezioni del 2022.

Interpretazione: il coefficiente di correlazione tra il punteggio ottenuto da Le Pen e Georges Marchais nei comuni con più di 1.000 abitanti è pari a 0,37. È di -0,61 tra Macron e Marchais e di 0,29 tra Mélenchon e Marchais.

Interpretazione: i voti di Macron e Mélenchon riecheggiano la divisione tra destra e sinistra del 1981, anche se le correlazioni sono piuttosto deboli (soprattutto per Mélenchon). Il voto di Le Pen, invece, sembra essere al di fuori di questa divisione, in particolare a causa del suo legame con il voto di Marchais.

Note

30.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Concentriamoci più specificamente sul voto di Marchais. Prima di tutto, analizziamo il suo punteggio per tipo di comune. Si notano due fatti importanti. In primo luogo, c’è poca differenza tra i punteggi della metà superiore e inferiore del livello di privilegio comunale nelle periferie esterne dei bacini di utenza. In altre parole, il punteggio di Marchais dipende relativamente poco dal criterio del privilegio nelle aree periferiche. In secondo luogo, il punteggio del candidato del PCF è stato particolarmente alto nei comuni meno privilegiati, nei centri dei bacini di utenza con una popolazione superiore a 50.000 abitanti. Ciò corrisponde alle popolazioni operaie di agglomerati urbani di medie e grandi dimensioni.

Figura 18: Punteggio medio di Georges Marchais nel 1981 per tipo di comune

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé31.

Nota: il livello di privilegio è misurato dall’aggregazione di un insieme di variabili (reddito, diploma, CSP, ecc.) a seguito di un’analisi delle componenti principali (cfr. sezione I.3).

Interpretazione: Il voto di Marchais ha rappresentato il 28% dei voti al 1° turno delle elezioni presidenziali del 1981 nei comuni appartenenti ai centri urbani meno privilegiati.

Interpretazione: Il voto di Marchais è un voto popolare particolarmente concentrato nelle aree urbane della classe operaia.

Note

31.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

La domanda chiave è dove sia andato il surplus di voti per Marchais nei centri delle “città” operaie e delle “grandi città”, al di fuori delle “metropoli”. Per rispondere a questa domanda, abbiamo analizzato la correlazione tra il voto a Marchais e il voto a ciascuno dei tre principali candidati nel 2022. Cosa ci dicono i dati? In primo luogo, il voto a Marchais è fortemente e positivamente correlato con quello a Le Pen nei bacini di utenza compresi tra 50.000 e 700.000 abitanti. Ciò coincide con il forte spostamento del voto della classe operaia verso la candidata della RN. In secondo luogo, vi è una correlazione particolarmente forte tra il voto di Marchais e quello di Mélenchon nelle aree metropolitane. In altre parole, il voto delle periferie, che è composto in misura maggiore da elettori provenienti da contesti di immigrazione, si orienta naturalmente più verso il candidato dell’IFL che verso quello dell’RN. Infine, il voto di Marchais è fortemente e negativamente correlato al voto di Macron in tutti i poli. Quest’ultimo risultato sembra quindi confermare che i valori sposati da Macron sono l’antitesi dei valori storici di questo elettorato comunista, in particolare per quanto riguarda il liberismo economico, la globalizzazione ma anche l’immigrazione. Quest’ultimo punto è importante perché aiuta a spiegare le diverse correlazioni ottenute tra le grandi metropoli e le altre città. Il candidato naturale per l’elettorato di Marchais dovrebbe a priori essere Mélenchon, eppure sembra essere stato rifiutato da gran parte di questa popolazione. In effetti, i valori che oppongono Marchais a Mélenchon sono, oltre all’immigrazione, quelli che sono stati ampiamente criticati dalla sinistra nei confronti di Fabien Roussel durante le elezioni presidenziali, come il laicismo, il produttivismo o la difesa di alcune attività del tempo libero o modalità di consumo. Tuttavia, il candidato il cui voto sembra essere più positivamente correlato a quello di Marchais rimane il candidato dell’attuale PCF. In altre parole, i valori non materiali sembrano essere in parte responsabili del differenziale nel riporto dei voti del PCF dai comuni nel 1981.

Figura 19: Correlazione con il voto di Georges Marchais per comune.

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé32.

Nota: la correlazione semplice mostra il legame tra il voto per Marchais nel 1981 e il voto per uno dei quattro candidati nel 2022.

Lettura: nelle grandi città, il voto per Le Pen nel 2022 nei comuni con più di 1.000 abitanti è correlato positivamente con il voto per Marchais nel 1981. Tuttavia, questa correlazione è più debole di quella tra i voti di Marchais e Roussel.

Interpretazione: il voto di Marchais è correlato positivamente con i voti di Le Pen e Roussel e negativamente con il voto di Macron. D’altro canto, il voto di Mélenchon appare debolmente correlato a quello di Marchais al di fuori delle periferie delle grandi città. Si è verificato uno spostamento nella composizione del voto a favore della sinistra radicale, con il voto di Mélenchon che appare debolmente correlato al voto popolare storico, in particolare tra i colletti blu, che preferiscono Le Pen.

Figura 20: Correlazione Le Pen/Mitterrand o Macron/Giscard d’Estaing, secondo turno 2022/1981

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé33.

Nota: la correlazione semplice fornisce il legame tra il voto a Mitterrand o Giscard d’Estaing da un lato e il voto a Le Pen o Macron dall’altro.

Lettura: nelle aree rurali, il voto per Le Pen nel 2022 nei comuni con più di 1.000 abitanti è correlato positivamente con il voto per Mitterrand nel 2022. Tuttavia, questa correlazione è più debole rispetto alle città mercato.

Interpretazione: il voto a Macron è associato positivamente al voto a Giscard d’Estaing, mentre il voto a Le Pen è correlato positivamente al voto a Mitterrand, indipendentemente dall’area considerata. Il legame sembra essere particolarmente forte nei centri delle città al di fuori delle grandi aree metropolitane, ovvero dove storicamente si concentra la classe operaia.

Note

32.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

33.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

A seguito di questi risultati, può essere interessante confrontare i punteggi al secondo turno delle elezioni del 2022 e del 1981 per territorio. Si noti che, poiché il secondo turno è un testa a testa, la conoscenza della correlazione tra un candidato del 2022 e uno del 1981 ci informa su tutte le correlazioni, cambiando solo il segno. Ad esempio, vediamo che per tutti i comuni con più di 1.000 abitanti nel 1980, la correlazione tra il voto di Le Pen e il voto di Mitterrand da un lato, o il voto di Macron e il voto di Giscard d’Estaing dall’altro, è positiva (0,28). Come corollario, la correlazione tra il voto di Macron e il voto di Mitterrand da un lato e il voto di Le Pen e il voto di Giscard d’Estaing dall’altro è negativa (-0,28). Anche se la correlazione non è particolarmente forte (spiega solo l’8% della varianza), ciò dimostra che i comuni che hanno votato Mitterrand al secondo turno nel 1981 hanno mediamente votato di più per Le Pen al secondo turno del 2022. Nel dettaglio vediamo che questa correlazione è particolarmente alta per le città mercato, le città, le grandi città, così come, ma in misura minore, per i rispettivi nuclei. Questo coincide di fatto con il “trasferimento” di voti dai comuni operai all’estrema destra.
Questa spiegazione non esaurisce tuttavia l’argomento, poiché la correlazione tra i voti di Le Pen e Mitterrand rimane positiva (0,23) anche dopo aver controllato per la quota di operai in ogni comune nel 1980. Esistono quindi altre spiegazioni non economiche e sociali, senza dubbio legate alla nostra interpretazione del “riporto” del voto di Marchais a favore di Le Pen.

IIIParte

Spiegare i voti

Dopo aver trattato le variabili chiave relative alle questioni economiche e sociali, da un lato, e ai modelli di voto, dall’altro, vediamo come le prime spiegano i secondi, tenendo presente la questione geografica. Tre cose ci sembrano importanti. In primo luogo, quali variabili hanno il maggior potere predittivo per i voti? In secondo luogo, le variabili chiave sopra descritte svolgono il ruolo che viene loro più spesso attribuito e, se sì, in che misura? In terzo luogo, quanta parte del voto può essere spiegata da fattori economici, sociali, geografici e culturali?

1

Correlazione e potere esplicativo delle variabili chiave

Cominciamo a vedere le correlazioni tra il punteggio nelle elezioni presidenziali e legislative e le diverse variabili chiave. Dalle figure 21.1 e 21.2 si può notare che alcune variabili hanno un potere predittivo migliore di altre: è il caso in particolare del reddito pro capite, della quota di popolazione con istruzione terziaria o della quota di manager nella popolazione. Infatti, queste variabili sembrano avere il maggiore impatto sul voto per Macron e Ensemble e per Le Pen e il RN, mentre sembrano essere abbastanza neutrali sul voto per Mélenchon e il PNF. Ciò coincide con i nostri calcoli precedenti che mostrano la natura equivoca del voto per la sinistra. Infine, va notato che la crescita del reddito mostra solo una correlazione marginale, il che dimostra che i comuni che hanno perso a causa della globalizzazione e delle politiche presumibilmente “neoliberiste” degli ultimi quarant’anni non hanno votato di più per un candidato o per l’altro. In altre parole, l’idea che le aree che hanno beneficiato meno dei cambiamenti economici siano responsabili dell’aumento del populismo non è confermata dai fatti.

Sebbene le correlazioni ci forniscano informazioni sul legame tra il voto e le variabili di nostro interesse, queste variabili esplicative sono correlate tra loro, quindi la correlazione non ci fornisce il potere esplicativo delle variabili in questione. Se, ad esempio, il reddito è fortemente correlato con il livello di istruzione, quanto di ciascuna di queste due variabili spiegherebbe il voto? In altre parole, per ottenere il potere esplicativo di una variabile dobbiamo chiederci quanto di ogni variabile spiega il punteggio dei candidati una volta che abbiamo tenuto conto dell’effetto di tutte le altre variabili su quello stesso punteggio. A tal fine, è necessario esaminare le cosiddette correlazioni “parziali”. Le figure 21.1 e 21.2 mostrano che relativamente poche variabili spiegano effettivamente il voto per i tre principali candidati/partiti. Infatti, se assumiamo che una variabile debba spiegare almeno il 2% della varianza totale del voto per almeno uno dei tre candidati per essere significativa, solo sei variabili appaiono legittime: il tasso di crescita del reddito pro capite dal 1980, il reddito pro capite nel 2019, la percentuale di pensionati nel comune, la percentuale di diplomati, il dipartimento in cui si trova il comune e il tipo di bacino di utenza.

Figura 21.1: Correlazione tra quota di voti e variabili economiche e sociali nelle elezioni presidenziali del 2022

Figura 21.2: Correlazione tra quota di voti e variabili economiche e sociali nelle elezioni legislative del 2024

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé34.

Nota: la correlazione semplice misura il legame tra ciascuna variabile e il voto per ciascun candidato.

Interpretazione: il voto per Le Pen e la RN e il voto per Macron di Ensemble sono opposti su due dimensioni.

Interpretazione: il voto per Le Pen e RN e il voto per Macron di Ensemble sono opposti sulle varie dimensioni qui utilizzate (reddito, SPC, titoli di studio). Al contrario, i voti di Mélenchon e del PNF sono debolmente correlati con ciascuna delle variabili, suggerendo una maggiore eterogeneità nel voto di sinistra, anche se la popolazione dei comuni sembra essere influente a causa dell’importanza del voto di cluster.

Note

34.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

Da ciò si possono trarre due insegnamenti. In primo luogo, il dipartimento è di gran lunga la variabile con il maggior potere esplicativo. Questo punto è piuttosto inquietante perché suggerisce che siamo in gran parte all’oscuro dei meccanismi alla base del voto nei comuni. Perché i cittadini dei comuni della Vandea adottano comportamenti di voto specifici e radicalmente diversi da quelli del Loiret? Quali sono le variabili omesse che spiegano questa influenza del localismo? Oltre alle specificità locali come il turismo, l’accesso alla natura, il mare, la montagna, i trasporti, ecc. ci sono culture locali che hanno un’influenza sulle preferenze delle persone che il dipartimento di appartenenza coglie piuttosto bene.

In secondo luogo, una volta prese in considerazione le variabili geografiche (dipartimento, bacino d’utenza), le variabili economiche e sociali (reddito, qualifiche, PSC) spiegano solo una parte limitata del voto nei tre blocchi. Nel caso di Macron/Ensemble, tutte le variabili economiche e sociali spiegano il 33% (Macron) e il 21% (Ensemble) della varianza totale. Per Mélenchon/NFP i punteggi sono pari al 34% (Mélenchon) e al 14% (NFP) della varianza totale. Infine, nel caso di Le Pen/RN, queste variabili spiegano il 33% (Le Pen) e il 24% (RN) della varianza totale. Questi valori appaiono particolarmente bassi se confrontati con la sola variabile esplicativa del dipartimento.

Figura 22.1: Potere esplicativo delle variabili sul voto ai candidati alle elezioni presidenziali del 2022.

Fonte :

Fonte: calcoli dell’autore basati sui dati dell’INSEE e di Piketty e Cagé35.

Nota: Il potere esplicativo di una variabile sul voto per un candidato è misurato dalla correlazione parziale dopo aver preso in considerazione tutte le variabili rilevanti.

Interpretazione: La percentuale di popolazione con almeno un diploma di maturità+3 nei comuni con più di 1.000 abitanti spiega il 19% della varianza del punteggio di Le Pen una volta tenuto conto dell’effetto delle altre variabili su questo punteggio.

Interpretazione: Le uniche variabili con potere esplicativo sul voto per i tre principali candidati/partiti sono il dipartimento di residenza, il reddito medio, la percentuale di pensionati e il livello di istruzione. Il livello di istruzione sembra essere la variabile che meglio spiega il voto dei populisti di destra, mascherando così qualsiasi effetto del reddito o dello status socio-professionale.

Figura 22.2: Potere esplicativo delle variabili sul voto per i candidati alle elezioni generali del 2024.

Note

35.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

38.

David Goodhart, op. cit.

42.

Yann Algan, Clément Malgouyres, Claudia Senik, op.cit.

In terzo luogo, la sinistra e la destra populista presentano ciascuna una variabile sociale decisiva. Nel caso della sinistra, si tratta del reddito, con una correlazione parziale del 10% nelle elezioni presidenziali e del 6% nelle elezioni legislative. Tuttavia, il potere esplicativo di questa variabile isolata rimane molto debole, per cui l’effetto del reddito diventa evidente solo dopo aver preso in considerazione le altre variabili sociali. In altre parole, all’interno di ogni categoria (dirigenti, operai, laureati, ecc.), i meno abbienti tendono a votare più a sinistra senza che il reddito abbia un effetto significativo su tutte le categorie. Nel caso della destra populista, la variabile chiave è il livello di istruzione. A differenza del reddito nel caso della sinistra populista, il potere esplicativo di questa variabile presa isolatamente è molto elevato. Pertanto, l’effetto negativo del livello di istruzione sul voto della destra populista è indipendente dalla categoria socio-professionale o dal reddito.

I dati del secondo turno mostrano che le variabili economiche e sociali hanno giocato un ruolo maggiore nell’esito delle elezioni, spiegando il 27% della varianza dopo aver tenuto conto dell’effetto delle variabili geografiche36. Questo tasso è significativo perché, a differenza del voto al primo turno, è superiore a quello del dipartimento (15%). In confronto, il potere esplicativo di queste variabili nelle elezioni del 1981 era solo del 13%. In un certo senso, il divario Macron-Le Pen sembra essere più determinato dallo status economico e sociale rispetto al divario Mitterrand-Giscard. Ma è davvero per le stesse ragioni?

Anche in questo caso l’analisi delle correlazioni parziali è istruttiva. Mentre nel secondo turno elettorale del 1981 le variabili con il maggior potere esplicativo rispetto alle altre erano la percentuale di operai (12%) e di impiegati (5%) nel comune, nel 2022 le variabili determinanti sono la percentuale di laureati con diploma di maturità+3 (23%) e la percentuale di pensionati (4%). Se nel 1981 lo status sociale sembrava essere il fattore strutturante, nel 2022 non sembra più avere alcun ruolo. In effetti, l’istruzione (e in misura minore la demografia) sembra ora essere il fattore principale, soprattutto perché i più istruiti rifiutano massicciamente le idee proposte dal RN, specialmente su questioni culturali relative all’immigrazione, alla sicurezza o all’Europa37. Si può scommettere che il voto per Mitterrand nel 1981 fosse un voto di sostegno legato a questioni di distribuzione. Il voto per Le Pen sembra essere guidato più da una certa sfiducia nei confronti di un’élite laureata che rappresenta valori percepiti come incompatibili con un certo stile di vita o addirittura con una certa “cultura” locale. Piuttosto che una classica divisione capitalista/lavoratore, troviamo qui la divisione ovunque/qualche luogo teorizzata da David Goodhart38 o fiducia/diffidenza proposta da Algan et al.39. A sostegno di questa ipotesi, aggiungiamo che il potere esplicativo del bacino d’utenza è del 6% nella seconda tornata del 2022, ovvero nella media. Tuttavia, questo potere esplicativo sale al 13% una volta eliminate le variabili legate all’istruzione. Questo mostra chiaramente i legami tra regione, livello di istruzione e voto populista di destra.

Una possibile critica a questi risultati è che i territori sono troppo eterogenei. Per fare un po’ di chiarezza, possiamo anche concentrarci sulle correlazioni che prevalgono nelle aree periferiche, intermedie e globalizzate. Poiché il voto alla Le Pen sembra essere il più determinato socialmente, concentriamoci su di esso. Dopo l’aggiustamento per il dipartimento di residenza, i dati mostrano che il livello di qualifica rimane di gran lunga la variabile più strutturante, indipendentemente dall’area studiata. Spiega il 28% del voto nelle aree periferiche, il 32% nelle aree intermedie e ancora il 23% nei centri globalizzati. Va notato che nessun’altra variabile spiega più del 5% del voto di Le Pen in ciascuno dei tre tipi di area.

Un altro elemento importante sarebbe la presenza di servizi pubblici e negozi locali40. Per tenere conto di ciò, abbiamo esaminato anche la presenza di un ufficio postale, di un minimarket e di un medico nelle città rurali. I nostri risultati mostrano che queste variabili spiegano solo una minima parte della varianza del voto per il candidato della RN. In altre parole, sebbene queste variabili possano aver motivato il voto alla Le Pen, non spiegano le differenze tra comuni simili41. In realtà, queste variabili testimoniano maggiormente l’importanza del tessuto locale e l’importanza del localismo. Ad esempio, se la chiusura di un minimarket sembra aver giocato un ruolo decisivo nel tasso di partecipazione al movimento dei Gilet Gialli42, è forse anche perché riflette la paura di veder scomparire una certa socialità e identità locale.

2

Qual è il modello esplicativo giusto?

Note

43.

I lettori interessati possono fare riferimento al Bayesian Model Averaging (BMA).

Una volta presi in considerazione questi diversi risultati, sorge inevitabilmente una domanda: qual è l’effetto di ciascuna variabile sul voto? In altre parole, se la variabile x aumenta dell’1% o di 1pp, di quanto aumenta il voto? Il fatto che una variabile abbia un forte potere esplicativo non significa che l’effetto sottostante sia significativo. Ecco perché questi due aspetti sono complementari. Per rispondere a questa domanda, abbiamo bisogno del modello “giusto”, il che è difficile. A tal fine, utilizzeremo un modello di selezione delle variabili. L’idea è quella di tenere conto della nostra incertezza sul modello “giusto” e quindi di misurare la probabilità che ciascuna delle variabili preselezionate vi compaia. Una volta nota questa probabilità, è possibile misurare l’effetto della variabile x ponderando l’effetto per la sua probabilità di comparire nel modello “buono”43.

Per comodità di presentazione, ci concentreremo qui solo sulle variabili che mostrano un effetto significativo. Si noti inoltre che ogni modello include nel calcolo il dipartimento e il tipo di territorio. La tabella 2 ci mostra due punti chiave. In primo luogo, il tasso di pensionati e il tasso di laureati con 3 anni di istruzione superiore (o più) hanno un effetto significativo in tutti i casi. Ad esempio, un aumento di 10 punti percentuali del tasso di laureati con 3 anni di istruzione superiore in un determinato comune aumenta i punteggi di Macron e Mélenchon rispettivamente di 2,7 e 1,8 punti percentuali. Al contrario, lo stesso aumento riduce il punteggio di Le Pen di 6pp. Al secondo turno, l’effetto è particolarmente ampio, pari a 7,6 punti. Va ricordato che questo effetto tiene conto di altre variabili, come il reddito medio, nel modello. In altre parole, costante il reddito, il CPS o il luogo di residenza, il livello di diploma tende ad aumentare i voti di Macron e Mélenchon, ma riduce fortemente quelli di Le Pen. La quota di pensionati, invece, sembra favorire Macron, poiché un suo aumento di 10 punti percentuali porta a un aumento di 0,9 punti percentuali dei voti per l’attuale Presidente al primo turno e di 1,7 punti percentuali al secondo turno.

Tabella 2: Misurazione dell’effetto delle variabili chiave sul voto dei candidati

Fonte:

Calcoli dell’autore basati su dati INSEE e Piketty e Cagé44.

Nota: i coefficienti qui stimati si basano su un modello di selezione bayesiano (Bayesian Model Averaging). Sono state prese in considerazione solo le variabili più rilevanti.

Interpretazione: Quando il reddito aumenta dell’1%, il voto per Mélenchon diminuisce di 0,14pp.

Interpretazione: il reddito è la variabile con il maggiore effetto sul voto di Mélenchon/NFP. Il livello di qualificazione è la variabile con il maggiore effetto sul voto a Le Pen/RN. Anche se il voto alla Le Pen/RN è più comune tra i meno abbienti, il reddito non sembra essere il fattore più decisivo. Infatti, i meno abbienti hanno votato Le Pen/RN soprattutto perché hanno anche meno qualifiche.

Note

44.

Julia Cagé, Thomas Piketty, op. cit.

In secondo luogo, il reddito non gioca sistematicamente un ruolo decisivo, poiché influenza il voto solo al primo turno per Macron e Mélenchon. Possiamo notare che un aumento del 10% del reddito di un comune aumenta la quota del primo di 0,94pp e riduce quella del secondo di 1,4pp. Ricordiamo che il 50% dei comuni nella parte centrale della distribuzione ha un reddito medio per adulto compreso tra 20.005 e 26.733 euro. Pertanto, passare dalla soglia del 25% inferiore a quella del 25% superiore aumenta i voti di Macron di 3,2 punti percentuali e riduce quelli di Mélenchon di 4,8 punti percentuali, il che è significativo. D’altra parte, il reddito non sembra essere stato una variabile caratteristica del voto di Le Pen o del voto al secondo turno. Infine, si noti che mentre Mélenchon non è il candidato che ha ricevuto più voti dai comuni più poveri, è il candidato per il quale il reddito è la variabile più decisiva nel punteggio ottenuto. In altre parole, se i più poveri hanno votato di più per Le Pen, la nostra analisi mostra che ciò non è dovuto direttamente al loro reddito, ma piuttosto a variabili correlate al reddito, in particolare il livello di istruzione o il luogo di residenza.

Infine, è importante sottolineare che i livelli stimati possono variare a seconda dei bacini di utenza, ma gli effetti citati rimangono sistematicamente significativi. Ad esempio, anche se l’effetto della variabile istruzione sul voto a Le Pen sembra essere inferiore del 40% nei centri globalizzati rispetto alle aree periferiche, l’effetto stimato è molto alto in entrambi i casi. In altre parole, il livello di istruzione è di gran lunga la variabile con la maggiore influenza sul voto alla Le Pen, a prescindere dall’area studiata.

Tutti questi risultati sono piuttosto confermati dalle elezioni legislative, con la differenza che il voto RN sembra influenzato positivamente dal reddito. Così, tenendo conto del livello di istruzione, del dipartimento di residenza o della categoria socio-professionale, un aumento del reddito medio di un comune tende ad aumentare il voto del RN. Tuttavia, l’effetto rimane 2,5 volte più debole rispetto al voto al PN. Un altro aspetto da sottolineare è che l’effetto della quota di popolazione con un diploma di maturità+3 è aumentato tra il 2022 e il 2024, il che significa che il divario giocato dal livello di diploma – e da ciò che vi è collegato – si è acuito dopo le elezioni presidenziali.

Conclusione

In questo studio abbiamo visto l’importanza dei territori e delle categorie sociali nella struttura dei voti. Nel corso di questa dimostrazione, una serie di fatti ha messo in prospettiva molti dei luoghi comuni e delle scorciatoie spesso proposti nell’arena pubblica. In primo luogo, le disuguaglianze tra le regioni non stanno aumentando. Al contrario, i dati sembrano suggerire che i comuni meno privilegiati stanno recuperando terreno.

In secondo luogo, il voto per gli estremi non è legato alla minore crescita delle aree periferiche. In effetti, la crescita del reddito comunale gioca solo un ruolo marginale nella spiegazione dei modelli di voto. Lo stesso vale per la crescita della popolazione, che sembra avere un effetto limitato rispetto alle altre variabili.

In terzo luogo, la questione culturale e il risentimento delle classi lavoratrici locali (i “qualche posto” per usare la tipologia di David Goodhart, o i “diffidenti” per usare il termine di Algan45vis-à-vis con una società globalizzata.nei confronti di una “élite” metropolitana globalizzata e universalista (il “Dappertutto“) coincide con il voto populista di destra. In particolare, questo è ciò che ci insegna il confronto con il voto del 1981, ma anche l’importanza fondamentale del livello di istruzione nella struttura del voto.

Il voto di estrema sinistra, invece, sembra essere più strettamente legato alle periferie delle grandi città, piuttosto che a una dicotomia tra operai e impiegati da un lato, e manager e capitalisti dall’altro. In effetti, sembra che la questione dell’identità sia diventata centrale nelle scelte degli elettori.

In quarto luogo, la geografia non deve essere sottovalutata quando si tratta di capire il voto a livello locale. Il dipartimento a cui appartiene un comune sembra essere un fattore chiave nella scelta del candidato. Sembra quindi che le preferenze locali giochino un ruolo fondamentale nella struttura dei voti, alcuni dei quali sono più adatti a una certa visione populista del mondo. Ciò coincide con una certa “arcipelizzazione” delle preferenze46, anche se le scelte degli elettori sono sempre state sensibili alle diverse culture regionali.

In definitiva, è la nozione stessa di periferia che deve essere ridisegnata, perché la dimensione strettamente materiale non può più rendere conto delle paure e delle preferenze delle persone, a prescindere dall’area.

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POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA, di Pierluigi Fagan

POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA. (Post pensante, quindi pesante) Il “populismo” era una espressione politica manifestatasi a cavallo tra XIX e XX secolo in Russia, negli Stati Uniti d’America e in periodi relativamente più recenti in Sud America. Le prime due manifestazioni politiche fotografavano una opposizione tra una vasta porzione di popolo, agricolo, contro i poteri dominanti del tempo, tempi in cu la composizione sociale era molto semplificata. Leggermente diversa la composizione sociale in Sud America, figlia del diverso corso storico di quel continente. Papa Francesco (che è argentino), ebbe a ricordare che secondo lui, populismo era anche quello di Hitler e del suo partito-movimento che s’impose durante le convulsioni finali della Repubblica di Weimar.
Ho sempre nutrito una infastidita diffidenza verso l’utilizzo recente di questa categoria, in quanto democratico radicale non ho mai capito la differenza tra populismo e demagogia, stante che un democratico sa molto bene cos’è la demagogia in quanto storica malattia degenerativa proprio della democrazia. Non solo la categoria è incerta ma la sua applicazione mi è sembrata molto a casaccio. AfD, FN, Vox, FdI, ad esempio, mi sembrano legittimi partiti di destra, non vedo cosa c’entri il populismo. Avranno la loro percentuale di inclinazione demagogica, ma in comune a molte altre forze politiche in questi tempi di “democrazia spettatoriale”. Non ho neanche mai capito cosa c’entrasse la Brexit col populismo. E’ stata una etichetta intrisa di giudizio negativo, applicata appunto un po’ a casaccio per delegittimare posizione politiche avversarie. Forse se ne può accettare l’utilizzo descrittivo nel caso polacco, ungherese e di Trump, in buona parte per la forma di qualche tempo fa nel caso M5S e Lega, ma sono tutti casi da meglio precisare.
Non è un caso che questa categoria politica nasca come fenomeno politico concreto tra fine XIX ed inizi XX secolo, assieme al suo riflesso teorico. Questa è la “Teoria delle élite” di Mosca-Pareto-Michels. Ma la teoria era descrittiva, il suo utilizzo in chiave prescrittiva che cioè preveda politicamente che possa esistere una possibile contrapposizione secca tra élite e popolo inteso come il 99% di Occupy Wall Street (non a caso fenomeno americano), è un passaggio non compreso in quella teoria. Forse compresa da Michels quando da socialdemocratico tedesco diventò simpatizzante del fascismo italiano della prima ora, ma il caso individuale non è riflesso nella teoria in quanto tale.
Se la contrapposizione élite vs popolo esiste in descrizione, vale anche in prescrizione? Cioè esiste una via politica concreta che opponga le élite al popolo? Direi proprio di no, tranne in un caso. Il caso che prevede questa contrapposizione è quello vagamente oppositivo, ma una opposizione che non sviluppa una sua visione alternativa del potere, solo di interpreti, è movimento di opinione non movimento politico. Quando da movimento di vaga opinione diventa movimento concretamente politico, rischia solo di sostituire una élite ad un’altra, una élite sfidante “buona” fintanto che si contrappone a quella cattiva, ma destinata a trasformarsi inevitabilmente in “cattiva” quando prenderà il ruolo di élite dominante a sua volta. Come faccia una intenzione populista a riportare il potere al popolo, non è mai detto perché diventerebbe una teoria della democrazia che nessuno si sogna minimamente di promuovere davvero.
Sono cinque i fattori che hanno favorito l’affermarsi di questa partizione “popolo vs élite”. Il primo è la torsione globalista-finanziaria del modo economico occidentale, un nuovo modo che di sua natura intrinseca premia moltissimo pochissimi e pochissimo moltissimi. Il secondo è il fondo di impotenza che questa partizione induce, chi sa oggi come contrastare e riformulare il sistema in modo che non produca questa asimmetria di poteri? Il terzo è il collasso del pensiero politico di sinistra occorso all’indomani del ’91. Questo ha lasciato il campo a due fazioni di destra, populiste si sono manifestate le destre conservatrici finalmente in grado di assurgere al ruolo di difendenti il “popolo” considerato un omogeneo post-classista (il concetto di classe, a destra, fa l’effetto che l’aglio fa ai vampiri), in opposizione a quelle liberal-globaliste tacciate di progressismo-elitista, ma non meno di destra anch’esse. Anche parti una volta di sinistra si sono accodate a questa “furia del dileguare” della dicotomia destra-sinistra propagandata dalle destre. Del resto quando il cervello va in pappa l’indistinto della “notte in cui tutte le vacche sono nere” diventa l’unico modo di far funzionare l’apparato interpretativo. Il quarto fattore è la sempre più pronunciata divergenza tra complessità obiettiva del mondo e nostre facoltà di interpretarla. Sintomo di questa divergenza è la fioritura di teorie del complotto che antropomorfizzano e semplificano processi impersonali complessi. Il quinto e più importante, è la crisi ormai decennale della democrazia rappresentativa occidentale. Se in origine la democrazia altro non è che l’assemblea decisionale di individui facenti parte della forma di vita associata, la democrazia rappresentativa ha aggruppato questi individui in partiti e la degenerazione populista ha ulteriormente aggruppato i comunque plurali partiti in una massa indistinta, il popolo. Quest’ultimo passaggio, oltre per la coazione degli altri quattro fattori, si è creato per degenerazione democratica decennale in favore della democrazia spettatoriale. Da spettatori a consumatori il passo è stato breve, la politica diventa una faccenda di marketing, il politico è diventato il prodotto, il voto l’atto d’acquisto. Questo filone degenerativo origina delle specifiche teorie elitiste attive sulla “maggioranza silenziosa” nate in America negli anni ’60.
Il tutto prospera oltreché sui fenomeni nel mondo, da un totale abbandono della teoria politica democratica. Una forma detta “democrazia” ce la siamo trovata fatta quando siamo nati, ormai la generazione che ha vissuto la non democrazia sta scomparendo fisicamente e con lei almeno il ricordo del prima. Se quella forma meritasse o meno il titolo di democrazia non l’abbiamo mai discusso davvero e fino in fondo, perché poco chiaro cosa s’intendesse per “democrazia” in quanto tale. In teoria politica occidentale abbiamo Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, il “popolo” sotto forma di Terzo Stato di Sieyès, Tocqueville, vari conservatori à la Burke, Marx, Lenin, a parte Rousseau e pur coi suoi limiti, nessuno era democratico. Le origini del sistema parlamentare sono elitiste, dalla Gloriosa rivoluzione inglese di fine XVII secolo che affonda le sue radici nelle assemblee baronali dei tempi della Magna Charta (inizio XIII secolo). Un sistema nato elitista non diventa democratico solo perché si amplia la base elettorale, è un problema strutturale. C’è anche chi con somma impudenza epistemica usa con nonchalance l’ossimoro della “democrazia di mercato” come fosse un concetto. Da quando un ossimoro può diventare un concetto? qui siamo alla bancarotta logica. Quel sistema è stato usato di malavoglia dai seguici del marxismo-leninismo, tacciato di “democrazia borghese” è stato usato in attesa di fare un qualche salto rivoluzionario. Dove il fatto rivoluzionario s’è compiuto come in Russia, la fase dei soviet è durata lo spazio di un mattino, la fretta rivoluzionaria e le pressioni anti-rivoluzionarie, hanno portato a forme oligarchiche teorizzate già nel concetto di avanguardia del popolo (autonominata tale come tutte le élite).
Insomma, ci siamo dichiarati democratici senza sapere bene cosa significasse, quindi abbiamo accettato il lungo e costante processo di degenerazione attiva della democrazia condotto da élite sapienti, ci siamo ritrovati in assetti sociali descrivibili come élite vs popolo, abbiamo preso una descrizione e l’abbiamo fatta diventare una prescrizione stabilendo che è il popolo a dover dominare e non l’élite, abbiamo aspiranti nuove élite che in nome del popolo vogliono soppiantare quelle vigenti come già successe dalla Rivoluzione francese in poi.
Noi non siamo mai stati democratici, inutile piangere ciò che non c’è mai stato, piangiamo una vaga e romantica intenzione mai diventata pratica politica.

Molto interessante, grazie

Pierluigi

. Noterella brevissima: il potere (qualsiasi potere) è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente. Il potere ugualmente distribuito tra tutti non esiste né può esistere, e l “uno vale uno” del M5* ne è la dimostrazione empirica. Sintesi, le élites ci sono sempre state e ci saranno sempre. Di qui sorgono le questioni a) legittimazione delle – b) ampiezza delle – c) ricambio delle – d) inclusività delle – e) efficacia nella leadership/capacità di competere con altre – f) coesione valoriale tra – e popolo eccetera.

Roberto Buffagni

Dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, le élite ci sono sempre state. Che da ciò tu tragga certezza che sempre ci saranno è un “non sequitur”.

Pierluigi Fagan

E’ una argomentazione probabilistica + una di logica formale che si basa sul fatto che il potere è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente

Roberto Buffagni

L’induzione è sempre probabilistica. Ma le probabilità lasciano spazio a possibilità contrarie

Pierluigi Fagan

Infatti non dico che sia impossibile, mai dire mai. Mi sembra molto, molto improbabile, ma io sono un reazionario

Roberto Buffagni

A me interessava solo fa notare che una cosa storicamente rarissima e legata a condizioni molto speciali, non diventa probabile se nessuno si applica a pensarla per poi provarla a farla diventare possibile.

NB_Tratto da facebook

 

I tre momenti del populismo, di Pascal Gauchon

I tre momenti del populismo

Non c’è bisogno di tornare ai Gracchi o all’antica Roma: si rischierebbe l’anacronismo. Affinché il termine “populismo” emerga, dobbiamo aspettare la rivoluzione francese, il popolo deve diventare sovrano. Pertanto, la definizione di populismo sta interamente nella radice della parola: si tratta di difendere gli interessi del Popolo, ancor più di assicurarsi che sia davvero il sovrano, che detenga effettivamente il potere e che ‘nessuna forza può sostituirlo.

 

Immediatamente si fecero le domande: contro chi difendere il Popolo? E come dovrebbe essere definito? I greci distinguevano il Laos , la massa di soldati nell’Iliade, ethnos , uomini discendenti dalla stessa origine e che condividono costumi comuni, e demos , un gruppo di uomini soggetti alle stesse leggi. Il secondo termine si riferisce all’idea di nazione che, in una Michelet, è associata a quella di Popolo. Ci riporta alla Rivoluzione francese . Da allora il populismo si è svolto in tre fasi.

 

Il momento russo e americano

 

Gli esperti concordano sul fatto che le culle del populismo sono i grandi spazi della Russia zarista e dell’Occidente americano. In Russia, i narodnik (da narod , persone); negli Stati Uniti, il People’s Party, fondato nel 1891 (vedi pagina 44). Qui i populisti mettono radici nel mondo contadino. Questo ha fatto guadagnare loro la reputazione di retroguardia, persino movimento reazionario. In Russia, i marxisti dell’RSDLP (1) rifiutano l’idea che i moujikspossono formare una classe rivoluzionaria, hanno occhi solo per il proletariato. Negli Stati Uniti, il fallimento elettorale di Bryan associato ai populisti portò all’emergere di una corrente qualificata come progressista, di cui lo storico Richard Hofstadter fece l’esatto opposto del populismo; accusa quest’ultimo di essere provinciale, complottista, nativista, anti-intellettuale. Una rivolta reazionaria.

Tuttavia Lenin trattenne dai socialisti rivoluzionari, eredi dei populisti , l’idea che, per vincere, fosse necessario mobilitare i contadini poveri. Per quanto riguarda gli Stati Uniti , altri analisti (2) vedono nel populismo l’erede di Jefferson, difensore dei “diritti umani” contro il progresso capitalista e incarnazione della sfiducia di Washington e del potere centrale. Possiamo vedere cosa conteneva questo “vecchio” populismo nella modernità e persino nella preveggenza.

 

Leggi anche:  Gli yoyo del populismo

Il momento del periodo tra le due guerre

 

Dopo il 1919 il populismo assume un nuovo volto. Dovremmo qualificare i fascismi europei come “populisti”? Dopo aver lasciato il Partito socialista, Mussolini aveva lanciato il Popolo d’Italia e si potevano trovare nel “Movimento fascista (3)  ”, il fascismo prima della presa del potere, punti in comune con il populismo. Ma la marcia su Roma (1922) fu possibile solo grazie a un compromesso con le élite in atto che portò al mantenimento della monarchia. Non appena è al posto di guida, il fascismo ha poco a che fare con il populismo, comunque tu lo definisca.

È il latinoamericano che è diventato il suo terreno preferito. Nel periodo tra le due guerre, ha assunto forme di sinistra (Messico di Cardenas) o di destra (Brasile di Vargas, ispirato all’Italia di Mussolini). In Argentina, la giornalista Eva Duarte mobilita la folla dei “sans-shirts” ( descamisados ) a favore del generale Peron, eletto presidente nel 1945 e diventato suo marito alla fine dell’anno. Peron chiede una terza via tra comunismo e capitalismo liberale, il giustizialismo; adottò molte misure sociali, praticò il patriottismo economico e mantenne rapporti burrascosi con gli yankee . In preda a crescenti difficoltà economiche, fu rovesciato da un colpo di stato nel 1955.

Cosa ci insegna l’America Latina sul populismo? Innanzitutto è necessario, come tutti i populismi, contro le élite ritenute incapaci, qui i grandi proprietari di terre e miniere. In particolare, questi proprietari e i politici che portano al potere sono accusati di servire interessi stranieri. Il simbolo era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Argentina, Spruille Braden, preso la mano nella borsa finanziando gli avversari di Peron che appare costantemente a Hitler. Tanto che la campagna elettorale del 1945 è stata effettuata al suono dello slogan Braden no, Per n SI .

Il populismo assume quindi l’aspetto di un nazionalismo che combatte le élite acquisite all’estero, egli ritiene. Allo stesso tempo ha portato al potere nuove élite, classi medie urbane, sindacalisti, funzionari pubblici e, naturalmente, i militari che hanno svolto un ruolo essenziale in tutti i movimenti del tempo. Il subcontinente dimostra la complessa relazione tra le nozioni di populismo e di élite.

La Guerra Fredda mette fine al movimento populista. Castro poteva essere assimilato ai populisti quando salì al potere, ma si mosse verso il comunismo e si pose sotto la protezione sovietica, come se si potesse sfuggire alla tutela americana solo ponendosi sotto un’altra tutela. Con l’anticomunismo, i soldati latinoamericani che avevano costituito la spina dorsale dei regimi populisti istituirono dittature filoamericane, spesso si unirono al liberalismo economico (Cile), che non si poteva qualificare come populista.

 

Il ritorno del populismo

 

Populismo negli anni dal 1960 al 1990 non c’è quasi più dubbio, almeno nei paesi sviluppati che si arricchiscono, anche dopo la crisi del 1973, dove le disuguaglianze regrediscono, almeno fino alla fine degli anni 1960, dove le élite sono difficilmente contestate. In Francia, “l’elitarismo repubblicano” consente l’ascesa di tecnocrati che sono visti come efficienti e disinteressati. Nel mondo dominano le ideologie comuniste o capitalista-liberali, che non lasciano spazio a una “terza via”.

Il movimento ha ripreso vigore negli anni 90. Lo spiegano tre fenomeni, peraltro collegati: la globalizzazione, l’aumento delle disuguaglianze e la scomparsa dell’URSS. La minaccia comunista aveva portato la classe dominante a sviluppare lo stato sociale per evitare la rivoluzione. La paura è scomparsa e le élite non sono più pronte a fare le stesse concessioni. Ancora una volta sono in cattedra, accusati di formare “una iperclasse mondiale” e di monopolizzare gran parte della crescita a scapito dei più poveri. La crisi finanziaria del 2008 ne completa il discredito. Conosciamo il resto, dalla Brexit alle elezioni americane.

Da questa breve storia si possono trarre alcune conclusioni.

Innanzitutto dimostra l’estrema diversità del populismo, di sinistra o di destra, tradizionalista o rivoluzionario, che mobilita i contadini, gli operai o le classi medie, arriva al potere con la forza o con le urne ed è cacciato dalle urne. o con la forza. Questa varietà potrebbe aver messo in dubbio l’esistenza del populismo: ciò che è rimasto alla fine, un termine vago, quasi nulla, un insulto …

Tuttavia, ci sono punti in comune tra tutti i movimenti populisti: la presenza di un leader carismatico; la contestazione delle élite accusate di non preoccuparsi più del popolo-nazione; la capacità di fare affidamento sugli ambienti più svantaggiati mentre attrae ampie porzioni della classe media e persino nuove élite, in una logica transclassista estranea al marxismo; la critica del capitalismo liberale; dubbi sul funzionamento della democrazia che si sospetta sia stata confiscata da funzionari eletti.

Il rapporto con la democrazia è uno degli aspetti più originali del populismo. Potrebbe anche essere definito come estremismo democratico, pretende di essere una democrazia ideale contro la democrazia reale che è generalmente rappresentativa (vedi pagine 44-45). Ecco perché ci sono momenti populisti: si verificano quando la democrazia è in crisi, quando le disuguaglianze sociali peggiorano, quando le élite preferiscono i loro beni al bene comune e ostentano la loro ricchezza e il loro senso di superiorità. Tale era il caso nell’ultimo terzo del XIX °  secolo, nel periodo tra le due guerre e di oggi.

Per tre volte il populismo ha coinciso con tre grandi depressioni che il mondo occidentale ha attraversato dal 1873, e reflusso accompagna ripresa economica della fine del XIX °  secolo e dopo la seconda guerra mondiale. Finché la crescita economica, il progresso sociale e la solidarietà nazionale non riprenderanno, il populismo avrà un futuro luminoso nonostante i fallimenti subiti nel 2017.

 

  1. Partito Socialdemocratico dei Lavoratori della Russia fondato nel 1898 e diviso tra bolscevichi e menscevichi.
  2. Gene Clanton, Charles Postel.
  3. Secondo la formula di Renzo De Felice.

NOTA SU ‘POPULISMO’ E DINTORNI, di Andrea Zhok

Manca la formazione pubblica, ma mancano per altro i formatori e scarseggiano i luoghi di formazione_Giuseppe Germinario

NOTA SU ‘POPULISMO’ E DINTORNI

1) Un capovolgimento dello status quo per via politica esige un livello diffuso di consapevolezza, non solo del proprio disagio, ma delle ragioni del disagio e delle opzioni per risolverlo.

2) Per essere operativo questo livello di consapevolezza deve essere diffuso in fasce estese della popolazione, in ultima istanza maggioritarie. Questo per una ragione di fondo: lo status quo premia già una minoranza che detiene il potere economico, e l’unico modo per superare le resistenze di questa minoranza è opporvi la consapevolezza di una maggioranza. L’élite economica non cederà spontaneamente nulla, mai. Può esservi indotta solo da una volontà comune della maggioranza.

3) La consapevolezza diffusa nella maggioranza è dunque l’estensione di un bene peculiare (che possiamo nominare, con approssimazione, come ‘conoscenza’). La differenza tra la ‘conoscenza’ e i beni economici è che la conoscenza può essere condivisa senza perdere di valore al numero delle persone che vi partecipano, al contrario la condivisione dei beni economici ne riduce l’ammontare nelle mani di alcuni.

4) La diffusione della ‘conoscenza’ (la cui natura varia da epoca in epoca) è l’unica cosa che può: a) opporsi alla concentrazione di potere delle élite economiche; b) diffondersi in forme non coincidenti con la concentrazione economica.

5) La ‘conoscenza’ naturalmente non è qualcosa di garantita né da titoli di studio, né dal numero dei libri letti.
Ma questo non significa neanche per un momento che essa sia un bene ‘democratico’ nel senso di essere facilmente accessibile a tutti.
Non lo è.
Richiede sempre tempo e fatica, e senza guide (come un’efficiente formazione pubblica) è raggiungibile solo sporadicamente.
(NB: Tale ‘conoscenza’ non deve avere necessariamente carattere ‘scientifico’: sono esempi storici di tale ‘conoscenza’ anche la comunanza di una ‘gnosi’, o di una ‘coscienza religiosa’. L’essenziale è la comunanza di un codice comunicativo ed etico. Tuttavia nel mondo occidentale, per come ha costituito i suoi paradigmi comunicativi e operativi, ciò non può fare a meno di passare attraverso una certa competenza ‘scientifica’.)

6) Lo spazio delle battaglie emancipative dalla Rivoluzione francese in poi sono definite da questa linea di confronto: consapevolezza pubblica (maturata intorno ad una ‘conoscenza’) versus privilegio economico.
Il secondo è strutturalmente elitario, la prima non è necessariamente elitaria, anche se quasi sempre lo è.
Lo spazio per movimenti popolari democratici capaci di rovesciare lo status quo e migliorare le forme di vita sta tutto in quel pertugio definito dalla natura NON NECESSARIAMENTE elitaria della consapevolezza (e della ‘conoscenza’).

7) Se con ‘populismo’ intendiamo un movimento che
a) ritiene che un rovesciamento migliorativo dello status quo possa essere prodotto con successo dal popolo, e
b) ritiene che il ‘popolo’ (o la ‘massa’, o varianti) detenga NATURALMENTE consapevolezza pubblica di problemi e soluzioni, allora il populismo è un vicolo cieco in politica.
Tale consapevolezza può esserci abbastanza facilmente per la rilevazione dei problemi, ma quasi mai per l’analisi delle cause e la proposta di soluzioni.

Conclusioni:

I) Il tema della formazione pubblica è il tema politico rivoluzionario per eccellenza: l’unico tema realmente rivoluzionario. Solo una diffusa consapevolezza pubblica consente infatti di concepire e implementare un processo di rivolgimento democratico costruttivo (una ‘rivoluzione’, non una mera ‘rivolta’).

II) In assenza di tale consapevolezza ogni rivolgimento democratico può essere solo distruttivo: per abbattere un muro non hai bisogno di sapere come era costruito, ma per edificarne uno migliore invece quella conoscenza è indispensabile. Rivolgimenti democratici distruttivi sono regolarmente preda di demagoghi di passaggio.

III) Perciò il destino dei processi distruttivi provvisoriamente guidati da un demagogo è sempre, senza eccezioni, un ritorno nelle braccia dei vecchi detentori di potere ed in ultima istanza un rafforzamento dello status quo.

IV) La formazione pubblica è un processo che non ha i tempi dell’agire politico. E’ un processo normalmente generazionale, che può essere occasionalmente accelerato, ma non di molto.

V) Né in Italia, né il alcun paese occidentale odierno esiste una formazione pubblica pregressa e diffusa che permetta di avviare un processo rivoluzionario: mancano tutte le premesse ‘conoscitive’ di cui sopra, manca un linguaggio comune, una cornice etica condivisa, un riconoscimento di minimi paradigmi ‘scientifici’, ecc.).
Le condizioni storiche correnti promuoveranno perciò senza dubbio moti di rivolta.
Le possibilità che tali moti di rivolta abbiano esiti migliorativi per la condizione dei più sono le stesse che un televisore guasto riprenda a funzionare con qualche martellata.

P.S.: Riconoscere queste condizioni non può naturalmente che produrre frustrazione e dunque ripulsa, disgusto, rabbia in chiunque ambisca ad un cambiamento radicale dello status quo. Purtroppo non sono né la frustrazione, né il disgusto, né la rabbia che ci fanno difetto. E quello che ci manca non si può recuperare in un pomeriggio, o comprare in un supermercato.

Nadia Urbinati, Io, il popolo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 339, € 24,00

 

Nella messe di libri pubblicati sul populismo, spesso esorcizzanti – per conto delle élite – i nuovi soggetti politici, questo lavoro si distingue perché, secondo l’autrice “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico, Questo lo rende rischioso e difficile da contrastare e, soprattutto, ne fa un fattore di successo molto remunerativo nell’età della politica dell’audience”; così “Questo libro prende sul serio tale concettualizzazione e cerca di capire che tipo di democrazia è la democrazia populista. Unire le più diverse rivendicazioni, anche quelle trasversali alle ideologie della destra e della sinistra, comporta superare la rappresentanza per mezzo dei partiti e creare un’unica frontiera: quella che separa chi esercita il potere e chi non lo esercita, l’establishment e tutti gli altri”. Il che non è altro che ricondurre al “criterio del politico” la lotta tra popolo ed establishment. Il populismo è contro i partiti (e soprattutto contro la partitocrazia), ma non è antidemocratico: “è lo specchio della democrazia rappresentativa”. Anche in tal senso, ma soprattutto perché i populisti stanno progressivamente conquistando il governo di molti Stati, non lo si può identificare con movimenti di pura protesta (di opposizione), giacché lì sono al governo. La Urbinati scrive che quella che critica è una debolezza concettuale: “La mia idea è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza… prendo in seria considerazione la capacità che i movimenti populisti hanno di costruire un particolare loro regime dall’interno della democrazia costituzionale. Il populismo è rappresentativo: ma una forma sfigurata, che si situa entro la categoria della deformazione”.

Al contrario della narrazione prevalente nei media “di regime” Urbinati ritiene che il populismo è “incompatibile con i regimi politici non democratici” e tuttavia, sfigura la democrazia rappresentativa.

L’autrice ritiene che la democrazia rappresentativa è diarchica: “La diarchia sta a significare che le elezioni e il forum delle opinioni fanno delle istituzioni al contempo il luogo del potere legittimo e però anche un oggetto di discussione, di controllo e di contestazione. Una costituzione democratica deve regolare e proteggere entrambi i poteri”; il populismo tende a svalutare/ridurre il momento del formarsi dell’opinione rispetto all’esercizio della volontà pubblica; con ciò sono anche svalutati gli “intermediari” d’opinione (partiti e mezzi di comunicazione), rispetto al rapporto tra capo e popolo. Scrive “Il cardine della mia analisi del populismo è la relazione diretta con il popolo che il leader stabilisce e mantiene. È questa la dinamica che sfuoca i confini della diarchia democratica. Tale dinamica consiste nell’accentuare il dualismo tra «i molti» e «i pochi» e nell’espandere il potere del pubblico fino a mettere in discussione la democrazia costituzionale”.

Così il populismo col suo insistere sul momento della decisione, sul principio maggioritario e sulla contrapposizione tra il popolo (in effetti la “sua” parte di popolo) e l’establishment “non è il compimento, né la norma, del principio di maggioranza e della democrazia, ma il suo sfiguramento… le cui «conseguenze illiberali non sono necessariamente conseguenti a una crisi del liberalismo in uno stato democratico», ma si possono sviluppare dalla pratica stessa della democrazia, dall’uso della libertà”.

Il populismo è pericoloso, ma non anti-democratico tuttavia, come scrive l’autrice è anti-liberale e ne individua quattro inevitabili tendenze: 1) è refrattario alle tradizionali divisioni partigiane e contempla solo il dualismo di base tra la gente comune e l’establishment; è insofferente del pluralismo 2) Il populismo conquista il potere attraverso la competizione elettorale, ma usa le elezioni come plebisciti per dimostrare la forza del vincitore; il voto serve a confermare l’esistenza del “popolo vero” 3) Il populismo opera questa trasformazione dopo aver respinto l’idea della rappresentanza come articolazione elettorale di rivendicazioni e interpretazioni 4) Il populismo interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale… L’esito finale è un radicale fazionalismo, un’ammissione senza infingimenti del fatto che la politica è una guerra più che un gioco… Rappresenta la vittoria di una visione iperrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità (v. p. 302-303).

Il saggio, pur così articolato, presente due punti dolenti. Da un lato accomuna sotto il concetto e il termine “populismo” fenomeni che, sviluppandosi in contesti assai differenti, hanno caratteristiche comuni poco rilevanti se non marginali. L’Argentina di Peron a poco a che fare con l’Ungheria di Orban, la Gran Bretagna della Brexit o l’Italia del XX secolo.

La seconda è che a restringere l’esame al populismo contemporaneo, il carattere “illiberale” emerge poco o nulla, se si passa da una valutazione basata su impressioni, esternazioni, proclami polemici a quella sulle realizzazioni, sul piano istituzionale soprattutto.

Esame omesso. Perché, se si va a guardare gli USA di Trump, la Gran Bretagna post-Brexit o l’Ungheria di Orban, tutti gli istituti dello Stato di diritto non sono stati toccati. Non risulta, tra le realizzazioni dei leaders populisti qualcosa  che somigli, neanche lontanamente, alla legge sui pieni poteri votata dal Reichstag nel marzo 1933 (in sostanza l’abolizione della costituzione di Weimar), né alcuna significativa riduzione dei principi di separazione dei poteri o di tutela dei diritti fondamentali che sono, dalla solenne enunciazione nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 i principi del costituzionalismo liberale.

Anzi in taluni casi le garanzie sono state se non rafforzate, almeno estese.

Lo stesso parlamento europeo nell’approvare l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria nel 2018, non ha saputo trovare altro (di rilevante) che “violazioni” analoghe a quanto regolato analogamente in altri Stati dell’UE (ad esempio l’assenza di azione popolare alla Corte Costituzionale, come anche in Italia), e/o praticato come le attitudini “manesche” della polizia – anche qui condanne all’Ungheria e all’Italia da parte della CEDU – ed altro che i limiti di una recensione non consentono di ricordare. Gli è che, malgrado lo sforzo dell’autrice di non cadere negli esorcismi anti-populisti, le lesioni alla diarchia opinione-volontà appaiono poco non solo per considerarli attentati allo Stato di diritto ed ai suoi istituti, ma anche cambiamenti di qualche sostanza, perché si limitano alle modalità di propaganda ad aspetti marginali della formazione dell’opinione pubblica. Per fortuna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Marco Revelli, “Turbopopulismo”, a cura di Alessandro visalli

Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.

Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.

Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].

Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.

Ma mentre il geografo francese sta con i rivoltosi, sperando possano divenire rivoluzionari, il politologo piemontese sta senza alcun dubbio con il centro assediato. La cosa non potrebbe essere più chiara. E non potrebbe essere più interessante. Come nel caso del Censis e della Treccani, qui è in corso il principio di uno scontro civile totale, occorre prendere posizione[10].

Come si prende posizione? Avvicinandosi ai simili. È quel che fa Revelli, in effetti, ed è quel che tutte le élite, con la loro ampia corona di organizzazioni, media, ed ambienti sociali, fanno. Si tratta di alzare le bandiere della ‘civiltà’, del ‘buon senso’, della buona educazione, della ‘competenza’ contro i barbari, incivili, incomprensibili, plebei, incompetenti, rozzi e ineducati, e quindi anche pieni di ri-sentimento, di rancore. Gente lontana, cattiva, la cui attitudine è distruttiva, l’opposto di ogni buon ordine. Questa “fibrillazione dei margini”, che il nostro professore osserva con distacco da entomologo, come fosse un brulicante mondo di insetti, è infatti pieno, al suo sguardo lontano, di “rancoroso distacco e ostilità nei confronti delle élite governanti” (p.68). Di rancore che “i secondi” portano ai “primi”, tra i quali, è evidente, si annovera per una sorta di diritto di nascita[11].

I “secondi”, vivono in quelli che descrive con precisa immagine spazi a “scorrimento più lento”, in sé quindi portatori dello stigma della lontananza dal principio della modernità e della civiltà. Questi “lenti” e per questo lontani (ed inferiori) vivono in spazi marginali, nella “province, le zone rurali, le periferie dei poveri”. Si tratta di spazi nei quali, l’immagine è di potentissima ed indicativa evocazione, “domina il buio, la luce privata costa, quella pubblica è magari fulminata o intermittente”.

Se domina il buio insorgerà il maligno. Non tarderà a palesarsi.

Il sociologo qui introduce alcune spiegazioni, in epoca di risorse pubbliche calanti e di dominio dello spirito del mercato i servizi sono andati dove potevano essere sostenuti, ed hanno abbandonato le periferie, incoraggiando un circolo vizioso discendente nel quale molti, e molti territori, sono affondati. Naturalmente chi è vicino a chi affonda, anche se sta per ora un poco meglio, ha paura. Ha paura di raggiungere chi sta scendendo (p.76). Del resto ormai mancano tutti quei corpi intermedi, come i vecchi partiti di massa (quelli socialisti e la democrazia cristiana) che sostenevano una relazione interna con i ceti marginali. Questa relazione, ormai persa, è descritta come disciplinante; attraverso l’egemonia culturale che il mondo allargato della sinistra, nella quale svolgevano ruolo centrale e strutturante i ‘chierici’ dei quali l’autore è esponente, lo spirito del buio era tenuto a freno. Oggi il freno è venuto meno.

Tramite gli effetti di questo venire meno è interpretato da Revelli il dispositivo centrale del populismo. L’uomo che si sente ‘perduto’, perché si rende conto di essere periferico, catturato nella lentezza e nel buio, abita spesso in una piccola città, assiste alla proletarizzazione diffusa e alla conseguente perdita di status ne è il protagonista. Si tratta di quello che moltissimi sociologi ed economisti identificano come l’arretramento della classe media.

Il populismo è, in altre parole, l’effetto di una disattivazione. La disattivazione del dispositivo della cetomedizzazione che era sviluppato dall’insieme di politiche e dei corpi sociali che le trasmettevano (sindacati, centri dopolavoristici, circoli sportivi, associazioni, volontariato, partiti). Dispositivo che, sottolineo ancora, sotto la guida degli intellettuali ‘organici’, disciplinava i ‘subalterni’, spingendoli ad accettare il loro posto nel mondo. Questa è una delle possibili declinazioni del concetto di “riformismo” nel quale la cultura azionista e quella ex socialista in particolare di matrice comunista (e della ‘nuova sinistra’) si è ritirata dopo gli anni ottanta.

In realtà è sempre stata la declinazione principale del termine.

Revelli la tocca davvero forte. Con un richiamo prima a Kracauer[12], poi a Bloch[13], peraltro entrambi datati e quindi fuori spazio, lancia un anatema sui ribelli che si rifiutano a farsi ancora guidare. Sarebbero niente di meno che inumani.

Con la stessa mossa del Censis e della Treccani, ma molto più violento, riduce ogni opposizione al disciplinamento che il riformismo diretto dall’alto produceva sulle masse, e che è ormai del tutto screditato, con la tecnica dell’evocazione del male assoluto. Nel 1933, quando sale al potere Hitler, Ernst Bloch scrisse: “non è solo l’uomo mite a scomparire: scompare tutto quanto reca il nome di uomo”. Ciò che accadde, secondo lo scrittore tedesco, alla insorgenza del primo nazismo è quindi una metamorfosi degli uomini in demoni[14].

Seriamente, per decine di pagine, procede a paragonare, fino ad identificare, il male del nazismo con la rivolta degli elettori contemporanea[15]. L’insorgenza di Hitler con l’eventuale, aborrita, vittoria democratica del più vecchio partito italiano, pur criticabile[16].

Richiama una presunta “tara antropologica”, il male nell’uomo, una “cattiveria”, un “compiacimento nell’inumano”, il gusto di “mostrarsi crudeli”, o “indifferenti al male altrui” (cosa che sarebbe, da notare, per lui equivalente). Certo l’indifferenza al male altrui è, in effetti, quella che lui stesso esercita, in quanto nomina ma non comprende il senso di essere abbandonati e traditi dalle politiche che la sinistra, in primis, ha portato avanti. Politiche che ha lui stesso avallato qaundo non mancò di dare il proprio pensoso appoggio a Monti[17] (dato che scacciava l’altro male assoluto, all’epoca rappresentato da Berlusconi).

Ovviamente il punto di massimo esercizio di questo paradigma interpretativo, che segnala in modo davvero plastico l’abbandono dello spirito popolare da parte delle sinistre rifugiatesi da decenni nelle loro cittadelle (siano esse sociali, universitarie o variamente baronali), è l’immigrazione. Una ventina di pagine di autentici deliri. In cui le “vere vittime” sono gli immigrati (lo sono, naturalmente[18], ma non per questo le plebi abbandonate a se stesse dall’assetto neoliberale non lo sono, non per questo sono “false”). Tutte le politiche di respingimento sarebbero allora semplicemente “disumanizzazione” (dal che si deduce che sono inumani in pratica tutti i popoli del mondo, e lo sono da sempre[19]). Per respingere sarebbe necessaria una sorta di “neutralizzazione morale” ed il “rovesciamento del rapporto vittimario” (p.101). Questo rovesciamento poggerebbe sulla “percezione di una concorrenza sleale”, che viene vissuta da chi si sente assediato dalle bollette da pagare, non riesce più a stare dietro alle scadenze e a pagare la scuola ai figli, o a vestirli, soffre la deprivazione corrispondente, non si può pagare le cure mediche, e via dicendo. Si tratta di “un grande serbatoio di disagio materiale” che, però, essendo solo un “disagio” (e non una disperazione, che evidentemente il professore, non avendola mai vissuta, non è in grado di capire e neppure di com-patire) non basta a spiegare quel che Revelli identifica come, niente di meno che “uno spaventoso svuotamento del sé dall’umano”. Una frase pomposa, come se il sé possa essere svuotato dall’essenza umana, quasi come si toglie un liquido da un recipiente. Una frase che alluderebbe a “qualcosa di mentale”, un vedersi fuori del “racconto collettivo”, invisibili.

C’è qualcosa del genere, accade, ma resta il fatto che per il nostro professore torinese il ‘mentale’ implica immediatamente una “regressione nel disumano” che nessun dolore subito può giustificare; implica una “metamorfosi in demoni” di gente comune che, se poteva essere magari sostenuta da Bloch (se pur nel 1933 e non nel 1943), suona strana, stridula applicata oggi a persone che, in fondo, protestano contro la perdita di senso e di democrazia.

Suona ancora più strana nel momento in cui l’autore si mostra consapevole che c’è una connessione con il fatto della globalizzazione. Un evento che era stato indicato dalla sinistra come la “premessa per un nuovo, più universalistico, umanesimo”, mentre ne è nemico. Ma questa relazione è ricondotta a sua volta ad una “sindrome”, ovvero è ancora medicalizzata. La sindrome non elaborata del melting pot in cui si sciolgono (e devono farlo perché è un destino storico) le identità collettive e “nessuno riesce più ad avere un proprio ruolo e un proprio status corrispondente, garantito”. Qui compare, scritto da un garantito ovviamente, un gioco di prestigio dialettico:

“cosicchè si crede – falsamente – che segregando e sigillando ‘fuori’ quell’umanità eccedente, che preme oltre i confini e che si vorrebbe escludere rafforzando quei confini (peraltro sempre più precari), si possa ritornare ad ‘essere’ – come prima – qualcosa, senza accorgersi che così, sciaguratamente, si finisce per estinguere anche quel residuo di umanità che si conservava dentro, e che ci salvava. Come individui e come ‘popolo’. Ci si riduce, appunto, a niente” (p.108).

Sarò sincero, è un esercizio di stile, ma non significa assolutamente nulla. Intanto non c’è qualcosa come una “umanità eccedente”, questo è esercizio di pura astrazione liberale del tipo peggiore[20], esistono invece sempre esseri umani situati, che sono ‘nati da donna’ e che sono stati cresciuti in una cultura, connessi a degli obblighi e portatori dei diritti reciprocamente riconosciuti in comunità umane specifiche. E questi esseri umani possono essere talvolta ‘eccedenti’, quindi indotti o costretti ad emigrare, ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’essere qualcosa (ovvero dotati di risorse e diritti, ordinati nel mondo) o con il non esserlo. Comprendo molto bene che la generazione dei chierici alla quale appartiene Revelli abbia fatto dell’abbandono del popolo al suo destino un segno morale, un elemento di distinzione e marcatore di superiorità, l’identificatore di una appartenenza e di una promozione[21], ma la questione di essere qualcosa, usando gli stessi termini, si pone, e non è affatto vana. Avere, come ovviamente si ha, un confine ed affermare in esso una sovranità è una precondizione per poter lottare (certo contro le élite che l’autore così ben rappresenta), per tornare ad essere. Non è questione di avere “residui di umanità” che “salvano”, idea che solo un borghese con tutto l’essenziale al sicuro può accarezzare. È questione di avere di nuovo il materiale necessario.

Per nascondere questa semplice posta, keynesiana si potrebbe dire, della redistribuzione necessaria per rimettere in questione i rapporti di forza, ci si sposta sulla Repubblica di Weimar, la Turchia del 1916, la Roma del tardo impero, addirittura Sodoma e Gomorra… per sostenere la tesi piuttosto astorica ed astratta che la pietà sarebbe “sostanza indivisibile”, o si ha per tutti e sempre o non c’è, o la si prova o se ne è privi. Se ne deduce che Revelli ne è privo, dato che prova un evidente disprezzo di classe, con assoluta incapacità di comprensione, delle sofferenze di almeno dieci milioni di italiani, cinquanta milioni di statunitensi, un’altra trentina di milioni di europei, che magari talvolta si fanno tentare a votare populista (qualunque cosa significhi), ma certo vivono la disperazione di sentirsi scendere ed arretrare giorno dopo giorno da anni. Come sia, al netto di qualche altra ridicolaggine, come il sacro dovere di ospitalità (che è sempre stato altamente selettivo) o l’abuso di Cicerone e Seneca, il tono resta questo.

Ovviamente i politici che hanno interpretato questo sentimento di dolore ed abbandono dei propri concittadini sono dichiarati “psicopatici” (anche se “di successo”), colpevoli di “sdoganare il male” e di un comportamento mimetico che compie la mossa del “assorbimento mediante abbassamento” (p.126). Colpevoli di utilizzare ed esercitare un linguaggio semplificato e di cercare di passare dal principio di legittimazione nel quale le élite “positive” sono esperte, il “paradigma della superiorità”, a quello nel quale eccellono quelle populiste, il “paradigma del rispecchiamento”.

In altre parole, invece di mostrarsi “migliori” (ovvero aristoi) questi nuovi politici si mostrano schietti, talvolta volgari, praticano “l’abbassamento” verso un popolo che è “un aggregato linguistico maleodorante di termini fallici e in genere sessuali, di posteriori e promiscuità, da frequentatori di angiporti e di trivii; un popolo, appunto ridotto ai propri attributi corporeo-materiali, capace di recepire con particolare rilievo i richiami elementari della riproduzione genitale o gastro-intestinali”.

In questi passaggi lo scontro tra estetiche e quindi tra classi non potrebbe essere più chiaro. Si tratta di una profonda frattura, incomunicabile, una matrice di reciproco disprezzo e finanche di odio. Ma non sono solo i “populisti” che odiano gli aristocratici alla Revelli, è, evidentemente, anche che lui odia loro.

Revelli sente emanare da questo popolo frammentato quello che chiama “un acre odore di zolfo”, una società regredita ad una condizione asociale. Una regressione alla “forma informe del vuoto” (p.163). Una forma che “farà il suo giro” e nella sua ambiguità costitutiva sta prendendo la forma di una sorta di “populismo 3.0”, più espressamente “di destra” che lavora con la vecchia tecnica del “capro espiatorio”.

Scrivevamo all’inizio che è il principio di uno scontro civile totale.

Gli allineamenti sono abbastanza evidenti, anche formazioni intermedie, sensibili al “momento populista”[22] sentono il richiamo della foresta, i tam tam della tribù che battono. Oppure è evidente nella mobilitazione semispontanea delle “Sardine”[23] che appare sempre più come un movimento vasto e reattivo, trascinato dalla paura esistenziale. Se quel che si muove dal fondo e dalla periferia della società occidentale è una ‘rivolta degli elettori’ alla loro designazione come vittime (della storia, secondo la lettura di aristoi come Revelli), quel che dall’altro lato si allinea è una contro-rivolta, un singolare movimento pro-establishment composto da ceti e frazioni di classe non solo protetti e garantiti, ma accumunati da un desiderio di status. Sostiene Guilluy che la frazione dominante della società occidentale ha abbandonato i segmenti popolari e si è distaccata (una tesi che a suo tempo avanzò anche Lasch ed altri), e che l’egemonia sta passando al basso.

Di fronte a questo movimento ‘polanyiano’[24] è in corso una sorta di contro-contro-movimento. Si tratta di un allineamento che in altri termini avremmo definito “sovrastrutturale”. Una spaccatura che nasce dalla paura di alcuni mondi vitali di essere travolti, dalla “rivolta degli elettori” che si sentono messi a margine e scacciati nell’irrilevanza.

Il mondo vitale plurimo che si mobilita contro la rivolta, e che si esercita in una singolare contro-rivolta pro-establishment, è aggregato da un certo tono libertario, da un’estetica liberale e da un afflato ancora competitivo, dal desiderio se non altro di essere cooptato di accedere alle aree dense e veloci. Spesso si assommano anche i militanti di movimenti non distributivi, come l’ambientalismo, le lotte per i diritti civili, il pacifismo, il femminismo. Movimenti che hanno, e da sempre, una chiara egemonia piccolo-borghese e metropolitana. In questo campo c’è maggiore densità degli urbani, di coloro che hanno una formazione media o alta, che condividono quindi le narrazioni e le strutture cognitive dominanti, sono stati formati in esse. In termini di stratificazione sociale (ma ricordo che l’adesione ai ceti medi è questione di status percepito molto più che di mera condizione materiale), troviamo in questo campo allineato con la contro-reazione impiegati, giovani precari ad alto sfruttamento (ma “provvisorio”), insegnanti, studenti, quadri pubblici, piccolo borghesi anche autonomi, professionisti, pensionati a reddito alto, imprenditori di imprese rivolte ai mercati esteri. Insomma, coloro che sono nel centro o aspirano ad accedervi.

Nello scontro civile l’altra parte, i barbari e gli inumani, i demoni, sono molto più operai, ancora giovani precari, ma con poche speranze di riscattarsi, certo anche alcuni sottoproletari, alcuni dipendenti pubblici e privati, ancora segmenti di piccola borghesia e di lavoro autonomo, molti professionisti, anche imprenditori che lavorano verso il mercato interno e ne percepiscono la sofferenza. Coloro che sono al margine sanno di esservi.

Le contraddizioni attraversano entrambi i campi ed i confini sono tutt’altro che impermeabili, soprattutto i meri interessi economici non spiegano tutto. Se la prima Italia, quella alta e centrale, è per il mercato, di cui apprezza le virtù salvifiche, lo spirito libero e competitivo, il vitalismo, la seconda Italia, quella bassa e periferica, normalmente avversa lo Stato, la sua imposizione fiscale. Contraddittoriamente la prima si trincera in esso, la seconda ne richiede la protezione, sociale e lavoristica.

Lo scontro civile totale, al quale il libro di Revelli porta armi, nasce dall’incapacità di entrambe le Italie, della rivolta come della contro-rivolta, di comprendere se stesse e di venire a patti con la propria estetica. Non si riconoscono vicendevolmente l’appartenenza al campo dell’umano, e parlano lingue diverse.

Si riconoscono al primo sguardo, al movimento, al vestiario, alla prima parola, e si odiano.

[1] – Il neologismo compare a questa voce: “sovranismo psichico s. m. Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale. ♦ Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del «populismo» al potere. L’espressione ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». (Roberto Ciccarelli, Manifesto.it, 8 dicembre 2018, Italia) • Non accettiamo la realtà del nostro futuro che sarà nella globalizzazione dei mercati e in una società multietnica e multirazziale? Noi italiani che corrispondiamo a meno dell’1% della popolazione mondiale vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi? Naturalmente, in questo modello di pensiero, se gli altri popoli non si adeguano ci sentiamo incompresi e accerchiati per cui costruiamo dei nemici mentali che in questo momento storico sono i migranti e le istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, i mercati, il Fondo monetario, etc. Ringrazio il Censis e il Dr. De Rita per aver chiarito, inventando il termine sovranismo psichico, questo modello di pensiero e perché poi, inevitabilmente, sfoci in rabbia e cattiveria verso gli altri. (Luciano Casolari, Fatto Quotidiano.it, 18 dicembre 2018, Blog) • È vero: sondaggi alla mano, questo grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani, rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del “sovranismo psichico” (per restare alla formula Censis). (Massimo Giannini, Repubblica.it, 2 gennaio 2018, Commento).”

[2] – 52° Rapporto Censis, che attribuisce ad un sentimento, come il rancore e quindi la cattiveria, che è normalmente pensata come una attitudine ad offendere, a far del male, e quindi la radice di azioni riprovevoli, dannosi, il sovranismo. Cito: “Al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒ quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani. Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo verso un altrove incognito. Una disponibilità resa in maniera pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall’esito incerto, non importa se si rende necessario forzare – fino a romperli – i canonici schemi politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche, a cominciare dalla messa in stato d’accusa di Bruxelles. L’Europa non è più un ponte verso il mondo, né la zattera della salvezza delle regole rispetto al nostro antico eccesso di adattismo: è una faglia incrinata che rischia di spezzarsi. Così come il Mediterraneo non è più la culla delle civiltà e la nostra piattaforma relazionale, bensì ritorna come limes, limite, linea di demarcazione dall’altro, se non proprio cimitero di tombe. Gli italiani sono ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo. È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale”.

[3] – Scrive, ad esempio, Andrea Zhok: “Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di ‘sovranismo psichico’ ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario. Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale. Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica. Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’. Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale. Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data: ‘Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale’.

La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti, la ‘difesa identitaria del proprio spazio vitale’ è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.

Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ ‘atteggiamento mentale’ una forma di delirio, di allucinazione malata. Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.

La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità. Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.

E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.”

[4] – Si veda, Marco Revelli, “Finale di partito”, 2013; “Dentro e contro”, 2015; “Populismo 2.0”, 2016.

[5] – Marco Revelli, figlio di un partigiano e poeta come Nuto Revelli, si è laureato in giurisprudenza sotto la guida di Norberto Bobbio all’avvio degli anni settanta, insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale dalla fondazione fino allo scioglimento aderisce a Lotta Continua e poi aderisce al gruppo di Primo Maggio. La sua biografia è perfettamente rappresentativa di un’intera epoca della cultura italiana.

[6] – Per questa distinzione tra le tradizioni della “sinistra” e del “socialismo” si veda Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”, che pone in chiave di ricostruzione filosofica della storia delle idee al centro il semplice fatto, noto a tutti ma da tutti dimenticato, che il socialismo non è il liberalesimo. Sono stati alleati, nella lotta contro la reazione, ma non coincidono. E neppure si può dire che il socialismo sia il superamento dialettico del liberalesimo, in quanto si tratta di tradizioni di pensiero che da quasi duecento anni procedono in parallelo, anche se hanno alcuni costrutti comuni. Tra i più profondi e problematici quello di “progresso”, che entrambe le tradizioni tendono a leggere, in una sorta di residuo illuminista e positivista, sotto la forma della crescita economica illimitata e auto programmata. In questo modo la dimensione “sociale” e comunitaria della tradizione socialista viene oscurata in favore della fascinazione per il continuo sradicare e rendere flessibili, mobili, della modernità contemporanea. La pratica della costante rivoluzione culturale della modernità discioglie nelle gelide acque del calcolo egoista tutte le costituzioni e le eredità, smontando ciò che permane. E’ chiaro che questa ideologia, e sin dall’inizio, trova senso e scopo nell’ineguaglianza e guarda il mondo dal punto di vista dei possidenti. A chi giova la libertà desiderante dai vincoli sociali ed il trionfo dell’individuo, a chi ha le risorse economiche per goderne e non vuole limiti a questo, o a chi lotta giorno per giorno per avere l’essenziale? Nascondendo questo fatto la metafisica del progresso è “lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo” (Michéa), e con esso l’idea che le forme produttive dominanti siano anche, e sempre, delle forme della ragione (una sorta di hegelismo pervertito) e dunque “tappe storicamente necessarie” per la liberazione e la parusia. La versione liberale di questa è la “pace perpetua” nel contesto di una futura governance mondiale a-politica e della totale mobilità di ogni fattore (con la dissoluzione di ogni identità, in quanto ostacolo al dispiegarsi della logica del valore e della sua appropriazione individuale). La versione socialista sfuma in quella. Ma nella tradizione socialista è presente anche un altro sistema di idee, radicalmente indisponibile alla dissoluzione nelle gelide acque del calcolo, la critica alla reificazione che ricorda come non necessariamente ogni passo “avanti” è per definizione nella “giusta” direzione. La direzione della storia, in particolare quando procede verso la dissoluzione delle forme sociali esistenti sotto la spinta dell’automovimento della tecnologia e dell’economico, non è sempre apprendimento ed emancipazione. Secondo quanto sintetizza Michéa, “nessun liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p.31). I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti. Ma essere ‘conservatori’ non è sempre identico all’essere di destra, a volte significa essere realmente socialisti. La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del populismo.

[7] – Si veda in proposito Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014

[8] – Christophe Guilluy, “La società non esiste”, 2018.

[9] – Si veda la diagnosi dello stesso Revelli in “Dentro e contro”, 2015.

[10] – Da una parte la visione dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario. In quella che Honneth in “Il diritto della libertà”, caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso (da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco che un’emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze.

[11] – Ciò che accade nel secondo dopoguerra è, in particolare in alcuni ambienti semicentrali come la Torino degli anni dai cinquanta ai settanta e ottanta l’effetto di un mito fondativo imperniato sulla resistenza e sull’azionismo. Chi scrive condivide l’alta valutazione della resistenza ma bisogna avere il coraggio di dire il vero. Intorno a questa si sono formate delle vere e proprie aristocrazie che fondano il proprio potere, radicato in alcuni ambienti densi come l’università e alcune amministrazioni e soprattutto corpi intermedi essenziali per il funzionamento democratico, ma anche viatico di cooptazioni che assicurano la continuità, sulla presunta e rivendicata superiorità morale. Questo tono inconfondibile è la tecnica attraverso la quale si sceglie ex ante chi è “primo” e chi “secondo”, chi sta al centro, perché ha il buon diritto che deriva dalla riconosciuta cultura e dalla indubitabile integrità, e chi è, perché lo deve, periferico.

[12] – Siegfried Kracauer, “Gli impiegati”, Einaudi, 1980

[13] – Ernst Bloch, “Il mito della Germania e le potenze mediche”, 1933

[14] – Ricordiamo qualche antefatto: Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar. A Monaco, invece, venne proclamata una Repubblica Sovietica che fu repressa dall’esercito. Quindi ci furono sollevazioni in Polonia e tre distinte sollevazioni slesiane. Nel frattempo la Germania firmò il Trattato di Versailles accettando condizioni che umilieranno il paese e porranno le condizioni (come previse un giovane Keynes), della rivalsa successiva. Tale fu l’odio per il Trattato che due dei firmatari per parte tedesca saranno successivamente assassinati. Il nuovo Stato è sotto la pressione di opposti estremismi. Mentre altre sollevazioni comuniste si susseguivano (nella Ruhr, in Sassonia ed a Amburgo) dal 1923 la Repubblica è insolvente verso le riparazioni di guerra e le truppe francesi occuparono la Ruhr; seguirono scioperi massicci e stampa di ulteriore moneta per pagare comunque gli operai. Partì quindi una breve ma impressionante fiammata di iperinflazione (causata dalla totale mancanza di fiducia nella moneta e nel governo che questa rappresentava). Nel 1923, a Monaco di Baviera, Adolf Hitler con il neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP) diede seguito al Putsch della birreria; dal 1921 si formarono le SA (sturmabteilung). Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere, ma dopo uno fu rilasciato. Dal 1923 si formò un governo di coalizione che sembrò tranquillizzare un poco la situazione, per stabilizzare l’economia avviò però una brutale politica restrittiva (ridusse le spese e alzò le tasse). Purtroppo nel 1930 Heinrich Bruning venne nominato cancelliere, ma il governo era debole e cadde quasi subito. Il 14 settembre 1930 alle elezioni il NSDAP ottenne il 18% dei voti. Mentre la nazione scivolava verso la guerra civile Bruning sulla base di Decreti Presidenziali di emergenza, non avendo la maggioranza, tentò di risanare lo Stato su inflessibili linee di stretta austerità liberale. Ridusse quindi drasticamente la spesa pubblica, creando milioni di disoccupati in un paese in cui l’iperinflazione di pochi anni prima aveva distrutto i risparmi di moltissimi, ed eliminò anche i sussidi per la disoccupazione introdotti nel 1927. La disoccupazione arrivò al 40%. Le elezioni del 3i luglio 1932 portarono la NSDAP al 37,2%, e poi al 33% nelle immediatamente successive nuove elezioni. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler fu nominato Reichskanzler.

Ma anche nel resto del mondo nei cruciali anni venti si era nel pieno di quelle reazioni difensive a catena imperniate sotto molti profili nella difesa ostinata della “base aurea” e quindi delle politiche deflattive che questa imponeva. Negli anni venti l’Italia cade nel fascismo, nei trenta tocca alla Germania e, al termine del decennio, alla Spagna. Il sistema internazionale che aveva retto il mondo nel settantennio di pace sotto l’imperialismo inglese e “il concerto” delle nazioni termina quindi definitivamente; fallisce cioè il tentativo di ripristinarlo dopo la grande guerra. In tutti i paesi europei, Inghilterra nel 1931, Austria nel 1923, Francia nel 1926, Germania nel 1931, i partiti della sinistra, dopo aver sostenuto politiche di austerità perdendo parte del loro consenso, furono allontanati quando si trattò di “salvare la moneta”. Come Karl Polanyi fisserà nel suo capolavoro “La grande trasformazione” furono accusati delle difficili condizioni i salari inflazionati e i disavanzi di bilancio per cui si perseverò nella scelta di ulteriore austerità nel mezzo di una devastante crisi. Come dice Polanyi, quindi: “il tempo divenne maturo per la soluzione fascista”. Nel 1932 molti intellettuali si rivolsero verso la ricerca di soluzioni forti, Werner Sombart pronunciò un indicativo discorso su “L’avvenire del capitalismo”.

[15] – Formula richiamata in un fortunato libro di Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori”, del 2017.

[16] – Si veda, ad esempio, “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega

[17] – Si veda, Marco Revelli, “Bacio il rospo Monti, ma…”. E’ interessante che dichiari di fare il tifo per Monti per una questione estetica (ed etica), di pelle. Lo strepitio, la volgarità al potere, il caravanserraglio, … del governo di Berlusconi offendevano il suo senso dell’appropriato. Si tratta di uno schieramento che si manifesta su linee prerazionali (anche se non mancano anche le ragioni razionali, il solito Tina), ovvero per allineamenti identitari. E quale è l’identità che è qui così bene manifestata? Ovviamente si tratta di un richiamo ai tradizionali valori di sobrietà, buon senso, educazione ed ordine della buona borghesia. Anche un poco noiosa, un poco conservatrice, ma certamente capace di sapere come si sta a tavola. Si potrebbe dire molto altro, e di interessante, su questo articolo, ma non è la sede.

[18] – Sono vittime sia per il viaggio, sia per il selvaggio sfruttamento, la vera e propria schiavitù cui sono sottoposte da parte dei ceti imprenditoriali e borghesi italiani. In un sistema di sfruttamento paraschiavistico che coinvolge milioni di persone (questa è l’unica parte valida del recente libro di Luca Ricolfi “La società signorile”, 2019.

[19] – Difficile non vedere, se non dagli spessi occhiali della ideologia, che in pratica tutti i paesi del mondo praticano, tanto più quanto più sono sovrani, la regolazione dell’immigrazione. Come difficile non sapere che le politiche di welfare sono cresciute sempre in condizione di regolazione forte degli spiriti animali del capitalismo e di rafforzamento della coalizione sociale del lavoro, e quindi dell’immigrazione (che tende ad alimentare gli uni e depotenziare l’altra). Si veda, ad esempio, Kiran Klaus Patel, “Il New deal”, ma si veda anche per un quadro allargato “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.

[20] – Si veda, ad esempio la polemica tra liberali e comunitari degli anni ottanta. Ad esempio il grande classico di Michael Sandel “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.

[21] – La promozione a classe dirigente del paese e a parte essenziale della sua borghesia. Proprio mentre si disprezza il paese reale e si dichiara l’indispensabilità del vincolo esterno.

[22] – Mi riferisco a Patria e Costituzione, che qualche giorno fa ha pubblicato il post “Perché il fascismo è una patologia dell’anima”, nel quale con argomenti piuttosto leggeri riprende la tesi di una sorta di radice antropologica del fascismo e con l’artificio retorico dell’abuso del termine “negazionalista” (riferito non a chi neghi l’olocausto, ma a chi dubiti della natura fascista dei populisti) accusa indifferentemente di “tentare di difendere i fascisti”. Con questo cortocircuito, ed il richiamo del libro più liberale della fase più liberale di un autore come Umberto Eco (“Il fascismo eterno”, nel quale in sostanza si bollava come fascismo tutto quello che non è liberale), e la dimostrazione dell’esistenza di qualche sparuto gruppuscolo di autentici fascisti, la redazione prende posizione, disumanuzzando gli avversari. Si tratta di un allineamento estetico, in effetti. Un allineamento di classe.

[23] – Si veda, “Sardine”. Per un intervento di Marco Revelli si veda, “Il neo-qualunquismo della sinistra radicale che attacca le sardine”.

[24] – Si veda Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944. nel quale descrive appunto il crollo subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.

È per reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).

Per Polanyi la popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del danno ai territori).

https://tempofertile.blogspot.com/2019/11/marco-revelli-turbopopulismo.html

Gianmarco Ottaviano Geografia economica dell’Europa sovranista, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Gianmarco Ottaviano Geografia economica dell’Europa sovranista, Laterza, Bari 2019, pp. 164, € 16,00.

Il montare della marea sovran-popul-identitaria comincia a far scrivere libri – come questo che non si limitano ad affrontare il crescente populismo con anatemi e scomuniche, ma cercano di capire il perché di un successo così rapido e diffuso; in specie rilevano che (almeno) una delle cause ne è stata (l’improponibilità) e gli errori delle élite in sostituzione. Mentre fino a qualche mese fa il taglio degli scritti antisovranisti ondeggiava dalla somiglianza ai trattati di demonologia (applicata preferibilmente a Salvini) fino a quella dei manuali di bon-ton del politicamente corretto (relativamente ai pentastellati).

L’autore analizza in particolare il rapporto tra successo populista e situazione economico-sociale di certi territori, ad esempio nel referendum sulla Brexit “ Il Leave tende a prevalere nelle circoscrizioni con: minori livelli di istruzione e qualificazione; maggiore tradizione di industria manifatturiera; minori salari e maggiore disoccupazione; maggiore crescita dell’immigrazione” onde “anche senza sapere che cosa abbia votato esattamente una circoscrizione, le sue caratteristiche socioeconomiche permettono di indovinare con molta precisione la popolarità dei voti Leave e Remain”, anche se non bisogna trascurare, a livello di con-causa, altri fattori. E il voto della Brexit è stato più anti-globalizzazione che anti-immigrazione “se si valutano direttamente gli impatti specifici di immigrazione e globalizzazione sul voto Leave, si trova che la seconda è molto più importante: quello in favore della Brexit è principalmente un voto di protesta contro la globalizzazione”. La cosa su cui insiste l’autore è che l’Unione Europea, rifiutata dai britannici, ha relativamente poco a che fare con gli effetti negativi della globalizzazione.

Peraltro sono proprio le zone più dipendenti dell’integrazione  europea ad aver votato Leave, al contrario sono quelli più indifferenti a aver sostenuto il Remain “Le aree con maggiore dipendenza della UE sono quelle in cui la proporzione di voto Leave è stata maggiore. Al contrario, le aree in cui il voto Remain è stato in proporzione più elevato sono proprio quelle la cui dipendenza dall’Unione Europea è minore”. Insomma il voto sulla Brexit secondo Ottaviano è frutto di errata percezione degli interessi reali. Dopo un’articolata considerazione di diversi aspetti del problema nell’ultimo capitolo l’autore tira le somme. Al contrario dei globalisti d.o.c. ritiene poco utile la distinzione destra/sinistra. Scrive riguardo alle elezioni presidenziali francesi del 2017 “se la tradizionale distinzione tra destra e sinistra in termini di libertà individuali e solidarietà sociale è ancora utile per distinguere fra di loro gli sconfitti del primo turno Fillon e Mélenchon, non sembra altrettanto efficace se si vogliono invece capire le differenze tra i vincitori Macron e Le Pen”. Inoltre “la tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra sembra essere poco utile anche per spiegare le recenti vicende elettorali italiane”. Quanto al nemico “il populismo continua ad avere un unico nemico dichiarato, con un nome preciso ma un’identità sfuggente: la cosiddetta «élite», intesa come minoranza ingiustamente privilegiata rispetto alla «massa»”. Questo è caratterizzato dall’essere un “elitismo amorale”: “Elitismo perché, una volta al potere, i cittadini più autorevoli perseguono solo gli interessi dei gruppi esclusivi di cui fanno parte a scapito di quelli del popolo che li ha selezionati aspettandosi cooperazione… Un esempio eclatante di doppiopesismo da parte delle élite riguarda i cosiddetti «paradisi fiscali», cioè quei paesi che si distinguono dagli altri per il fatto di attirare capitali dall’estero con la promessa di far pagare meno tasse ai loro proprietari e di chiudere un occhio sull’origine eventualmente illegale dei capitali stessi”.

Durante tutta la crisi dal 2008, i capitali parcheggiati nei “paradisi fiscali” sono ulteriormente aumentati: “Nessuna logica di libero scambio giustifica questa specie di «spoliazione legalizzata» a vantaggio di ristrette élite transnazionali”. Peraltro l’ “ascensore sociale” è fermo, con le conseguenze sottolineate già un secolo fa da Pareto.

Nel complesso un libro da leggere.

Teodoro Klitsche de la Grange

Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo, di Alessandro Visalli

Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2019/04/appunti-sulla-questione-del-partito.html?fbclid=IwAR07TrpeP3k750yCZHyy_fZ52yTThBfEFBR-xJRM8PsWK-bglH1YmhzKDc4

In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25 minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale: quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta funzionali.

Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo, strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.

Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano (per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse, mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’, coesione, responsabilità e mutuo sostegno.

Del resto nello spazio aperto dallo Shock del 4 marzo, nel quale la lunga sostituzione della “base sociale” tra sinistra e destra, si è allineata con la corrispondente sostituzione della “base di massa” (facendo della sinistra tradizionale minoranza sociale e politica), tutte le sinistre sono spiazzate inesorabilmente. Lo sono quelle ‘di governo’, ma anche quelle ‘radicali’ e per certi versi sembra esserlo anche parte del populismo (anche se questo giudizio, nel caso italiano è soggetto a molte distinzioni).

Questo snodo lo leggeremo alla luce di quello che chiamo “il dilemma Kuzmanovic-Autain”, tra l’aspirazione alla riconquista e la difesa delle aree residue di consenso in un insediamento che si restringe.

Lo scopo del testo è di provare a dissodare un poco il terreno, e indicare cosa occorre ad una prospettiva neo-socialista per liberarsi della lunga ipnosi e riprendere una certa dimenticata durezza. Lavorare per rendere di nuovo leggibile il mondo, e la parte subalterna a politicizzarsi e rappresentarsi, a simbolizzare il potere collettivo, individuando una diversa costituente sociale capace di riorientare una nova politica di ‘classe’.

Pensiamo che per riuscirsi bisogna oltrepassare il populismo di sinistra di prima generazione ed avviare un movimento che la faccia finita con cosmopolitismo, retorica dei diritti solo civili e suprematismo morale. Ma anche rifuggire la passione per l’agilità, la semplificazione, il governismo. Attraversare quindi, con pazienza e determinazione, il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, per produrre rottura ed indicare le questioni dirimenti.

Stiamo, infatti, passando oltre quell’assetto post-moderno che rendeva efficaci i vari tipi e travestimenti di partiti che saltano il sociale, e disintermediano. Che cercano di produrre una ‘base di massa’ senza più avere una ‘base sociale’ realmente tale, ma, al più, una network funzionale di poteri e domande.

In altre parole, la tesi è che serve ora un “partito-comunità”, che trova nelle discussioni molecolari sulle piattaforme e nelle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali la calda pesantezza di una nuova ‘base sociale’ quanto più larga possibile. Facendo leva e mobilitando la capacità meno esercitata dall’ambiente neoliberale: la capacità di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e di condivisione di obiettivi. La radice stessa del socialismo.

Perché il socialismo è principalmente una nuova antropologia più umana.

Resta il problema principale: come farlo. Ma questo va oltre le parole, per saperlo bisogna farlo.

Il partito, cenni storici

Si tratta di un tema obiettivamente difficilissimo per la vastità e la dispersione dei temi che evoca. Il principale organo della democrazia è sempre stato soggetto a cambiamenti[1] in concomitanza ai mutamenti della società e della forma che ha preso di volta in volta il modo di produzione e la piattaforma tecnologica[2] ad esso connessa.

A grandi linee il “partito” (da “parte”), dopo secoli nei quali è stato visto come una degenerazione che distruggeva l’armonia e l’ordine, trova uno spazio sistematico a partire dall’emergere, con il suffragio universale, della democrazia di massa al principio del novecento. Quindi si consolida quella ‘democrazia dei partiti’ (in primis i partiti cattolici e socialisti di massa), ancorati ad organizzazioni sociali intermedie fidelizzate, che hanno costituito il nerbo della dinamica politica del secondo dopoguerra. Questo sistema è alla fine entrato in crisi al passaggio dal modo di produzione ‘fordista’ a quello ‘flessibile’, con l’indebolimento delle predette organizzazioni e la mutazione antropologica in senso individualista ed edonista nota come “consumismo”. Nella lunga fase di degenerazione, che è quella che per lo più abbiamo vissuto biograficamente, questi partiti hanno occupato lo Stato, “incistandosi” in esso, e sono diventati sempre più chiusi ed autoreferenti, fino ad essere dissolti in Italia dalla vicenda di “Mani pulite” a cui fa seguito l’avventura del “Partito Piattaforma” populista di Berlusconi e che segue alla firma del Trattato di Maastricht, da molteplici punti di vista vero punto di svolta continentale.

Ma questo processo non è solo italiano, bensì almeno occidentale, in quanto ancorato al mutamento di fase del capitalismo e del suo modo di produzione, ma anche dei nuovi media che lo accompagnano. Ad esempio Manin[3], con riferimento prevalente alla situazione americana, parla di “democrazia del pubblico”, quando gli elettori, per una varietà di motivi, prendono a votare le persone candidate più che i partiti o i loro programmi, che quindi perdono importanza. Nelle elezioni locali, ad esempio, questa tendenza induce il fenomeno delle “liste civiche”, con le deviazioni, il familismo, e le distorsioni che ne seguono. Quel che accade è in sintesi che si rovescia il rapporto: i partiti tendono a mettersi a servizio dei leader e ne vengono svuotati. Il Partito, con la sua inerzia culturale, le sue regole non scritte, la densità delle norme sociali che ne individuano i confini, comincia ad essere visto come un ostacolo alla necessaria flessibilità e nascono i “partiti personali”.

Ci sono almeno due potenti cause:

  • i media generalisti (televisione in primis) che consentono di saltare l’intermediazione della struttura ed in qualche modo di farne a meno, per cui appare che, come scrive appunto Manin, “l’epoca degli attivisti e degli uomini di partito è finita”.
  • La maggiore complessità delle scelte, ed i maggiori vincoli cui sono sottoposte (basti pensare alla situazione europea) che induce a privilegiare programmi più vaghi e a rendere necessario il frequente tradimento di questi nella fase di implementazione. Sembra tornare il potere “prerogativo” teorizzato da Locke.

Ma c’è anche altro, ed è una parte del punto di Laclau[4]: l’elevata frammentazione della struttura sociale, e la sua perdita di coesione, fa sì che a priori non sia più possibile individuare una divisione socioeconomica dominante. Il corpo sociale è attraversato da linee di divisione che sono numerose, trasversali e in continuo mutamento a secondo di quale sia attivata come principale. Allora bisogna decidere quale divisione si propone come centrale, e l’elettorato assomiglia ad un “pubblico” del quale catturare l’attenzione.

In Italia è abbastanza ovvio a quale modello questa descrizione faccia riferimento: si tratta dell’irruzione nel 1994 del “Partito Piattaforma” per eccellenza, Forza Italia di Silvio Berlusconi, costruita in pochi mesi a partire da un piccolo, ma molto professionale, nucleo di venditori di “Pubblitalia” uniti ad alcuni esperti professionisti cooptati tra i partiti storicamente avversari al Partito Comunista e suoi successori (nel caso di specie PdS).

La “controdemocrazia”: il primo populismo

Ma tutto è sempre in movimento, e già negli anni precedenti la rottura del 2008 emerge una potente controcorrente, che Rosanvallon chiama[5]Controdemocrazia” (mentre Colin Crouch chiama “Post-democrazia[6]), ovvero il prendere il centro della scena di una serie di pratiche di sorveglianza, interdizione e giudizio del politico che un sociale che si sente ormai compiutamente decentrato esercita verso il potere formalizzato in organi rappresentativi e di governo. Questa è quindi la fase di una “contro-rappresentanza”, imperniata fortemente in gruppi autorganizzati che Crouch chiama di “self-help”, che non vogliono sostituirsi alle decisioni, ma contrastarle da fuori in una sorta di “rivoluzione permanente” senza presa del Palazzo di Inverno. Questo mutamento è in qualche modo l’effetto di una dissociazione tra “legittimità” e “fiducia” determinata dalla perdita di speranza, ed è strettamente connesso ad una nuova centralità tecnologica nel campo della comunicazione: quella di internet.

Ci troviamo davanti una “democrazia della sorveglianza”, insomma, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, ma anche dal lato istituzionale (neoliberale) le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità riconosciute sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e da “imparzialità”.

Come scrive Rosanvallon, la “perdita di fiducia” attiva in questo contesto una ricerca di forme di contropotere, che si manifestano tramite tre modalità principali:

  • la vigilanza, il cui scopo è “mettere alla prova la reputazione del potere”; una “reputazione” che in effetti ormai è la vera istituzione invisibile del nostro tempo.
  • l’interdizione, il cui scopo è bloccare il potere, non lasciarlo esprimere, revocarne i singoli atti ed azioni. Si formano a questo scopo mobili “coalizioni negative” che sono estremamente più facili e sono capaci di adattarsi molto bene alle loro contraddizioni. Sono tenute insieme, infatti da ciò che rifiutano, non da ciò che vogliono. Tramite la prevalenza di queste “coalizioni negative” la nuova democrazia del rifiuto si sovrappone e prevale alla democrazia del programma. Senza il quadro generale, ci si concentra sulle figure.
  • Il giudizio, emerge una figura accigliata e censoria, il “popolo giudice”, il cui scopo è additare ed accusare i fallimenti del potere, esporli al pubblico disprezzo.

Al popolo-elettore del contratto sociale si sono così sostituite in modo sempre più attivo le figure del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice (R, p. 24).

Questa evoluzione è spiegata da Rosanvallon come effetto del terminale logoramento dell’idea della politica come scelta tra modelli diversi (in ultimo “venuta giù” insieme al muro per molti). In conseguenza ora i cittadini si organizzano in modo reattivo, cosa che –in termini di modulo organizzativo- ha anche un vantaggio strutturale. Non si tratta, però, di una passività: è più che altro una democrazia diretta regressiva, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.

Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici, ed abbondano nella sinistra “radicale” e nella postura del “politicamente corretto” che spesso prende.

Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, una paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura, che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi contro movimenti non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo.

Esempi di questa impostazione e cultura sono il primo Movimento 5 Stelle e ora gran parte delle formazioni della sinistra radicale.

Ma ne è esempio in qualche modo anche la prima insorgenza del “populismo di sinistra”, ovvero le esperienze di Podemos in Spagna, di France Insoumise in Francia, mentre è abbastanza diversa la costruzione federale di Skyriza in Grecia (anche se ha elementi in comune).

La crisi: mutamenti intorno alla piattaforma tecnologica

Ma da più indizi si intravede la crisi di questa prima generazione di populismo di nuovo conio, essenzialmente oppositivo, all’urto con la necessità di stabilizzare l’attività (caso francese) o del governo (spagnolo ed italiano). Del resto era molto ben espresso già nel 2016 in un piccolo libro di Calise[7]: chi cavalca la tigre della politica della sorveglianza fatica a mantenere coerenza e aspettative. La stessa logica “contro-democratica” della sorveglianza, veto e giudizio, si rivolta contro le sue proprie strutture, e, le cattura con sospetto di inautenticità, condannandole incessantemente “a spiegarsi e a giustificare la sua azione, mettendolo alla prova, giocando il ruolo di testimone attento e scrupoloso, arrivando ad avvallare o a contestare le decisioni prese” (Rosanvallon “La legittimità democratica”, p.274). Il ruolo decisivo, allora, nei confronti di un brulicante mondo di associazioni, individui, new media, piccoli gruppi di discussione e condivisione, lo riveste la giustificazione. Anzi la “battaglia quotidiana per la giustificazione”.

La “direttezza” di cui parla Nadia Urbinati in un bellissimo libro[8] mostra qui il suo rovescio.

Del resto rispetto al modello del “populismo” alla Laclau, imperniato sulla narrativa e la costruzione di messaggi operanti sulle linee di faglia plurime, unificandole, intorno al carisma di un leader e facendo uso del minimo possibile di struttura di trasmissione, la cui più espressiva applicazione italiana, come abbiamo detto, è Forza Italia di Berlusconi, negli ultimi anni è intervenuta un’ulteriore variazione tecnologica.

Da dove si orienta l’elettore

Le elezioni del 2018 si sono tenute in un ambiente in cui ormai il 65% degli italiani accede alla rete e tramite questa sempre più anche (spesso via smartphone) ai media generalisti sui quali era concettualmente imperniato il populismo di primo tipo. Nelle elezioni in oggetto risulta[9] che il 60% degli elettori si sia informato prevalentemente su internet, con una prevalenza per i siti di informazione e un 20% circa dai social, meno della metà ha indicato invece la televisione come prima fonte di informazione. Tra i contenuti incontrati un terzo ha indicato post di contatti e il 44% notizie di stampa. Più in dettaglio si informano prevalentemente in rete gli elettori del Movimento 5 stelle e quelli della sinistra non PD, ovvero gli elettori di forze sottorappresentate nei media generalisti. Solo un terzo degli elettori orientati al M5* ed alla Sinistra non PD si è informato su media generalisti.

Insomma, è cambiato e sta cambiando il modo in cui si formano le opinioni politiche. Il flusso non arriva più dall’alto al basso, veicolato con le tecniche gestite per anni in modo efficace e raffinato da Berlusconi e poi in modo assai meno competente ed efficace (ed effimero) da Renzi[10], e da uno-a-tutti, ma peer-to-peer, tra pari, e quindi dal basso, o orizzontalmente. Ed inoltre internet, oltre a produrre autonomamente informazione, grazie ad una rete decentrata di ‘influencer’, definisce i frame nei quali viene anche interpretata l’informazione ‘mainstream’ veicolata dai media generalisti. L’effetto si dà nella discussione, nel commento, la rilettura e la reintepretazione.

 

Fonte dell’influenza sulle opinioni politiche

Non sembra neppure confermata la diffusa impressione che sui social si tendano a creare in particolar modo delle ‘bolle ideologiche’, dalle interviste: risulta che quasi quattro quinti degli utenti è solita incontrare sui social idee diverse dalle proprie con cui confrontarsi.

 

Il punto è che questo diverso ambiente, che ha la potenzialità di attrarre/interessare anche una parte di coloro i quali non si interessano di politica (60%) e quindi non seguono le relative trasmissioni e/o giornali (in quanto le discussioni via social tendono a scivolare tra i temi), è ormai la principale arena da contendere. Quella nella quale si definisce la vittoria o sconfitta delle forze politiche.

Ma questa arena non si presta molto alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano e/o di prima generazione.

In un certo senso rende invece di nuovo necessaria l’attivazione di “influencer”, mobilitazioni politiche, reti di comunicazione diffuse, quel che potrebbe somigliare nuovamente alla rete delle “sezioni” dei vecchi partiti, ma immaterializzata (o distribuita).

Rispetto alle tipologie di partito che, a grandissimi linee si sono sin qui viste, dal “Partito dei notabili” di fine ottocento e primo novecento, spazzato via dal “Partito – massa” (o ‘reclutatore’) del dopoguerra, e poi degenerato nel corso del mutamento dal fordismo all’accumulazione flessibile in Partito “stratarchico” (o dei cacicchi) e, contemporaneamente, in Partito del leader, o “piattaforma” (o Partito populista prima maniera) che esasperano la verticalità la nuova orizzontalità determinata dall’iperframmentazione contemporanea, unita alle ubique tecnologie di messa in contatto farebbe ipotizzare l’insorgenza di una possibile alternativa.

Ma prima di parlarne due parole sulla situazione, a partire dallo shock del 4 marzo:

  • Ha preso il centro della scena l’insostenibilità tendenziale di un fenomeno migratorio (sia in ingresso, sia in uscita) che ridefinisce la struttura del lavoro e preme sulle risorse scarse disponibili;
  • Quindi la rabbia, molto ben giustificata, di una parte assolutamente maggioritaria della società italiana che si sente ignorata, marginalizzata e posta a rischio dalla trasformazione del sistema economico e dalla più che evidente disgregazione in essere (una radicalizzazione della “piattaforma tecnologica” post-moderna[11]);
  • l’impossibilità, stante l’attuale divisione del lavoro istituzionale imposta dalla meccanica del progetto europeo realmente esistente, e progettato in anni ormai lontani ed in una fase di accecamento del quale oggi paghiamo tutto il prezzo, di mobilitare le risorse del paese che, anzi, continuano a defluire tramite plurimi meccanismi non solo finanziari;
  • questo è il contesto nel quale l’impatto delle trasformazioni del modo di produzione, sulla spinta di una crescente meccanizzazione, interconnessione e dematerializzazione, che come è sempre avvenuto in passato spiazza parte importante delle persone biograficamente fondate nel vecchio modello in via obsolescenza crescente e quindi richiederebbe un maggiore impegno di risorse collettive, e di adattamento alle specifiche esigenze nazionali, inibite dalla struttura di governance multilivello nel frattempo creata;
  • infine aggrava l’obsolescenza di sistema anche la fragilità ecologica, che è a sua volta spia della frattura tra produzione e riproduzione e che richiede un’analisi strutturale che non si attardi in spiegazioni neo-malthusiane, romantiche o in illusioni di gestione tecnocratica[12], quando invece si tratta di un effetto della natura di classe del modello di sviluppo e della tendenza del capitalismo a consumare senza alcun senso del limite lo spazio nel quale cresce, determinando la sua crisi.

Di fronte a questi temi, ormai non aggirabili, la cultura di tutte le sinistre, da quelle che hanno fatto del ‘riformismo’ ormai un altro nome per l’adattamento ad un assetto del mondo pensato erroneamente come inevitabile e moderno ad un tempo, a quelle che, definendosi come ‘antagoniste’ purtuttavia hanno incorporato profondamente il rifiuto dell’azione collettiva (ovvero la politica della sorveglianza che abbiamo precedentemente descritto) che è l’arma principale dell’eterno presente nel quale prosperano sempre e solo i più forti, ha abbandonato di fatto il campo. Si è dunque rifugiata nella critica morale e nella coltivazione della propria pretesa, ed autoattribuita, superiorità.

Il campo è dunque interamente occupato da altri e dobbiamo tornarci.

 

Il “Dilemma Kuzmanovic-Autain[13]

Ma per tornarci è necessario assumere qualche decisione e confrontarsi con un profondo dilemma: quello tra l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra sul campo largo, ed ormai maggioritario[14], delle classi marginali, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali[15] e scelte difficili.

Il populismo di sinistra di prima generazione, fortemente connesso con il narrativismo post-moderno, e fondato su una logica “intersezionale” e di aggregazione di minoranze sembra alla fine trovarsi senza terreno sociale sotto i suoi piedi. La sua genetica vaghezza sui temi dirimenti, e la incapacità di scegliere un livello strutturale di scontro, lo rende poco adatto alla durezza estrema della polarizzazione in atto.

Gli esempi sono diversi: Podemos, naturalmente, giunto al governo ma, secondo alcuni suoi rilevanti esponenti[16], anche al termine della sua spinta propulsiva; quindi France Insoumise, dimostratasi incerta tra la linea rivolta alle periferie ed alle masse popolari e quella tradizionale delle alleanze con le espressioni della base sociale in via di restrizione, ma ancora forte, dei ceti riflessivi metropolitani. Difficoltà ne incontra anche, nel determinare una linea politica coerente, di fronte alla turbolenza indotta dal lacerante dibattito della Brexit, il Labour di Jeremy Corbyn, che pure si trova in una situazione diversa.

Tuttavia negli ultimi mesi di questo anno sono emersi nel cuore dell’Europa nuove ipotesi di lavoro per una sinistra che vorrebbe riprendere la strada abbandonata nel ’89 e non rassegnarsi all’ineluttabilità della ritirata ed alla gestione della liquidazione. Sono ancora variamente deboli, sfocate, incerte, ma credo abbiano il seme di una speranza: Ausfehen[17] di Sahra Wagenknecht, capace da settembre ad oggi di radunare quasi 200.000 adesioni (oltre dieci volte i vari partitini della sinistra radicale italiana); molto lontani Republique-Souveraine[18] di Djiordie Kuzmanovic, appena uscito da France Insoumise perché in disaccordo con la linea di sinistra tradizionale e “intersezionale”.

È, ovviamente, presto per comprendere se questi nuovi spunti potranno agire per liberare dalla sua lunga ipnosi una prospettiva socialista rinnovata, ma è abbastanza chiaro che per riuscirvi occorre riprendere una certa dimenticata durezza, ed escludere:

  • la “sorveglianza”, il restare fuori (Rosanvallon) a fare l’eterno assedio (morale) al castello;
  • il partito identitario che si separa dalla società, verso la quale assume il tono da maestro;
  • gli svariati movimenti a ‘mezzaluna’[19], lo stare fuori e dentro[20];
  • di ‘restare nel vuoto’[21], il partito-élite, aristocratico.

Invece si deve cercare di compiere un lavoro rivolto:

  • a produrre un mondo leggibile, operando una dimensione fondamentalmente cognitiva del politico, aiutando la parte subalterna della società a rappresentarsi, costituendosi. Ma anche, con lo stesso gesto, a mettere la parte dominante di fronte alle proprie responsabilità.
  • A simbolizzare il potere collettivo, trasformando un “popolo introvabile” in una comunità viva.

Bisogna in sostanza individuare con nettezza una diversa costituente sociale, ben distinta da quella della sinistra contemporanea che ha abbandonato quella della sinistra storica, e capace di riorientare una nuova politica di classe (come noto un costrutto).

Questo lavoro, avendo in mente il “dilemma Kuzmanovic-Autain”, si può tentare in alcuni luoghi strategici:

  1. il lavoro, la centralità della cultura, della civiltà e della prassi del lavoro,
  2. la Protezione Sociale come primo, ed essenziale, prodotto delle Istituzioni e della Democrazia che le deve fondare,
  3. la riqualificazione dello Stato come luogo della democrazia e la Programmazione come pratica necessaria per orientare le risorse al bene comune,
  4. l’Economia Mista come orizzonte,
  5. la declinazione del concetto di Sovranità nazionale in senso Socialista e Costituzionale,
  6. Una nuova idea di Europa come confederazione di Stati sovrani e realmente democratici,
  7. La regolazione della immigrazione, come ineludibile conseguenza della regolazione del lavoro e dell’espansione universalista dello Stato Sociale e della protezione, sul quale dovrà necessariamente emergere una nostra posizione realmente autonoma e non reattiva, ovvero antagonista sia ai nazionalisti della destra italiana ed europea, sia ai “no border” inconsapevolmente borghesi.

Considerando la completa inversione della “base sociale”[22] tra destra e sinistra, poi seguita il 4 marzo dalla “base di massa”[23], è necessario che sia oltrepassato anche il “populismo di sinistra di prima generazione”, incapace di proporre autentica discontinuità nelle condizioni europee, e sia avviato un movimento politico che non guardi più principalmente a sinistra (ovviamente intendendo con ciò i totem identitari che nel tempo hanno svolto l’essenziale funzione di nascondere agli stessi occhi dei militanti ed elettori gli interessi perseguiti, e quindi il rovesciamento avvenuto: il cosmopolitismo, la liberazione individuale del desiderio e quindi la retorica dei diritti avulsa dalle condizioni della loro effettività, il suprematismo morale e quindi il “politicamente corretto”, autentico marcatore di classe, anche se inconsapevole).

Occorre anche premiare il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, e rifuggire alla passione per l’agilità, la rapidità, la semplificazione, che è un ulteriore e chiaro segno dell’egemonia neoliberale “governista”. Il punto cruciale è produrre una rottura, leggere il tempo, le sue fratture e indicare le questioni dirimenti, quelle che hanno una loro resistente permanenza.

 

La forma-partito adatta ad essere lievito e strumento di una ricomposizione che è processo molto più largo non può chiaramente più essere il partito-massa novecentesco, per il quale non ci sono le condizioni sociali (e non ci saranno a lungo), non ultimo per il drastico cambiamento della “piattaforma tecnologica” contemporanea. Ma non può essere neppure il “partito piattaforma” e/o “populista di prima generazione” (leaderistico e disattivante, incapace di produrre una coerente visione di futuro, tendente al nominalismo e all’adattamento mimetico), che rispondeva alla “piattaforma tecnologica” Post-moderna, in via di tramonto.

Bisogna superare quindi le varie forme di “partito snello”, incluso quelle populiste, che cercano fondamentalmente di saltare il sociale dandolo per perso nella trasformazione neoliberale delle soggettività, in particolare borghesi, e si sforzano di disintermediarlo. In altri termini, forme che cercano di aggregare nei momenti elettorali una “base di massa” (necessaria per vincere) senza avere realmente una “base sociale”, ma al più disponendo di un suo sostituto funzionale in network di poteri e domande.

E’ stata a lungo la formula vincente, ma stiamo ormai passando oltre.

Ciò che serve è ben altro: un “partito-comunità”, capace di larghe discussioni molecolari (e qui la “piattaforma tecnologica” in via di affermazione aiuta), condotte facendo largo uso della capacità reticolare dei social -nei quali si forma buona parte dell’opinione politica- e di mobilitazione anche plurale e federale (qui alcuni difetti[24] di France Insoumise devono avvertire).

Il punto cruciale è ritornare ad avere una “base sociale”, con tutta la sua calda pesantezza, e cercare di mobilitare la capacità dell’uomo di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Come scrive Axel Honneth, in un bel libro sul socialismo[25], è infatti solo nello scontro tra gruppi sociali che portano interamente se stessi in campo, dunque impegnano le proprie visioni, esigenze e storie diverse, la propria situatività e intera personalità, ovvero si potrebbe dire la propria concreta materialità, che si può dare una forma di “progresso normativo” fatto concretamente nella storia e non metafisicamente presupposto in essa dall’alto di una teoria.

Del resto il socialismo, scrive Honneth, “rimanda fin dalle sue origini a un movimento di critica immanente del moderno ordinamento sociale di tipo capitalistico. Di quest’ultimo vengono sì accettati i fondamenti normativi ancorati ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità che lo legittimano, ma viene messo in dubbio che essi possano essere realizzati in modo non contraddittorio se la libertà non viene ripensata in senso meno individualistico, e dunque insistendo con maggior decisione in direzione di una sua applicazione di taglio intersoggettivo” (H. p.27). questo è il fulcro e caposaldo dell’intero movimento. Nell’unico punto in cui, nel lavoro di questi autori seminali, la cosa è enunciata da Proudhon (1849) viene affermato che la “libertà di ciascuno” non deve essere intesa come “limite”, ma come “ausilio” di quella degli altri.

Il passo decisivo per la messa a fuoco di questo concetto (che Honneth chiama hegelianamente “libertà sociale”) lo compie il giovane Marx, come noto vicino sia a Proudhon, che conobbe in Francia, sia alle letture di Hegel. Data la sua posizione esterna all’ambiente francese, impregnato dello sforzo di fare i conti con la sua tradizione, il giovane filosofo lascia sullo sfondo i concetti di “libertà” e “fraternità” e, già negli anni quaranta ragiona principalmente su cosa possa essere una “comunità integra”. In essa principalmente gli attori non si riferiscono gli uni agli altri come “commercianti” (in ironica polemica con la formula di Adam Smith), ma sono uniti dal riconoscimento reciproco non del rispettivo privato egoismo, ma dei rispettivi bisogni. In un’associazione di liberi produttori quindi si agisce, attraverso una certa divisione del lavoro non coatta, l’uno-per-l’altro (H. p.32). Dunque in essa i rispettivi piani di vita non si intrecciano solo per mezzo di un’anonima intersezione di scopi, ma per un’effettiva condivisione della preoccupazione che tutti possano giungere all’autorealizzazione.

La “libertà” non è quindi più realizzabile dai singoli, “ma solo da una formazione collettiva adeguata”. Il medium della libertà è il gruppo sociale in quanto totalità che, però, si costituisce a partire dall’orientamento comportamentale dei suoi membri. La questione è rilevante, la libertà sociale non cade dall’alto, ma sorge per impulso degli stessi membri; si tratta di sviluppare una capacità di orientarsi spontaneamente gli uni verso gli altri, realizzando contemporaneamente i tre ideali di “libertà”, “eguaglianza” e “fraternità”. Un sistema distributivo più giusto è quindi da concepire insieme e per effetto di una nuova forma di vita comunitaria[26].

Dunque, dopo questa piccola divagazione, torniamo all’ipotesi proposta:

  • è necessaria una nuova capacità di costituire “parte”, ma questa volta “parte-comunità”, ancorandosi:
    • sia alla capacità reticolare dei social (e quindi investendo nuovamente sulla militanza, l’adesione), per vivere in larghe discussioni molecolari ed orizzontali (pensandosi a partire dalla “piattaforma tecnologica” in via di affermazione e non sulla base di una che tramonta),
    • sia, e contemporaneamente, alla mobilitazione anche plurale e federale faccia-a-faccia e nei luoghi.
  • Le due vie convergono nello sforzo di ricostruire la socialità, oltrepassando l’individualismo liberale e il suo non-umano, ritrovando la capacità di essere umano nell’essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Bisogna ricordare che il socialismo è principalmente una nuova antropologia, più umana.

Come farlo è domanda completamente aperta e certamente non facile.

 

[1]Ma quale è la legittimità che i Partiti Politici stanno perdendo? Quale era la sua origine e dinamica? Il Partito Politico non ha mai avuto buona fama, molti degli argomenti che risuonano nella nostra sfera pubblica sono stati formulati nel corso della lunga storia politica del continente. La caratteristica preminente del Partito è stata spesso vista come l’azione di separare, parzializzare, e dunque come fonte di scontri, divisione e odio distruttivo. Il clima cambia solo dopo la fine delle guerre di religione, e cominciano ad essere sdoganati nel pensiero politico continentale con David Hume e Edmund Burke, che ammettono la possibilità che i Partiti possano fondarsi anche su “principi” e non solo su interessi divisivi. Ma, appunto, per loro solo il Partito orientato al “bene comune” è accettabile, solo se va oltre gli interessi particolari “connessi allo spirito di fazione”. Dunque in qualche modo i Partiti non sono ammessi e saranno legittimati pienamente solo dalle rivoluzione (francese ed americana), come corollario dell’impulso di libertà. Nella voce dell’Enciclopedie di Rousseau sono citati senza critiche e anche in Voltaire. Ma quando la rivoluzione prende piede ricompaiono le esitazioni. I rivoluzionari temono “i corpi intermedi”, scriverà l’abate Seyes: “l’assemblea di una nazione deve essere sempre costituita in modo da isolare gli interessi particolari e rendere conforme al bene generale le decisioni della maggioranza” (S. p.9). In altre parole, la fazione è un attacco alla sovranità. Malgrado questi dubbi nel 1790 sono autorizzate le “libere società”, e già un anno dopo, grazie ad un intelligente modulo organizzativo, il “club dei giacobini” vede mille organizzazioni sul territorio francese.

Sarà successivamente la controrivoluzione a vedere la cosa in modo totalmente negativo: per essa la buona società è organica e gerarchica, ognuno ha il suo posto, desunto dalla tradizione, ed è la tradizione che ‘interpreta’ il volere divino e informa di sé la società. Alla fine quindi il pluralismo è il male sia per chi difende il contratto sociale sia per chi vuole un ordine teocratico.

Dall’altra parte dell’oceano i Partiti sono accettati, ma cercando di contenerne la “violenza devastatrice” (come dirà Madison).

Una sintesi è tentata nell’ottocento da Alexis de Tocqueville, che propone di distinguere tra “grandi” e “piccoli” Partiti. I primi sono diretti al bene comune e vanno considerati legittimi, i secondi vanno assimilati alle “fazioni” e da combattere.

Man mano che il secolo va avanti, però, i Partiti Politici prendono il centro della scena, questo avviene con due percorsi paralleli: nei Parlamenti gli eletti, che inizialmente sono “notabili” dotati di un potere locale nella società che traducono in potere politico, costituiscono Partiti con un basso livello di coesione interna, fuori si addensano movimenti di massa più identitari che premono per essere rappresentati e far sentire la propria voce organizzandosi in Partiti.

Tra “Partito dei notabili” (liberale) e “Partiti di massa” (cattolici, socialisti e poi fascisti) precipita la crisi degli anni venti. Il concetto e la prassi di Partito pluralista si trova schiacciato tra l’esaltazione della Nazione (in Francia) e dello Stato (in Germania ed Italia). Ciò che hanno in comune entrambe le nuove soluzioni è l’essere incentrate su entità superiori e la natura sia monista che organicista. Si tratta di un’aspirazione all’armonia ed alla totalità che identifica come nemico il pluralismo e quindi la divisione. In conseguenza viene negata la legittimità dei Partiti.

Si entra per questa via nell’età dei totalitarismi, in cui “i” Partiti mutano “nel” Partito, che sussume in sé la Nazione e si affianca (nel caso italiano e tedesco) o sostituisce (nel caso russo) allo Stato. Si passa per una brevissima stagione di Partiti confessionali di massa (socialisti per lo più) che trovano nel suffragio universale l’arma per affermarsi. Ma si sbocca, quasi subito, nella creazione di un solo Partito che prende tutto, è il caso ovviamente del Partito Nazionale Fascista. Nel 1942, al termine della fase espansiva dei totalitarismi, sono rimasti solo quattro paesi pluripartitici (Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Svizzera), ovunque nel continente ci sono Partiti Unici totalitari. Dirà Roberto Michels “ogni partito cerca, inevitabilmente, di imbrigliare lo Stato, di assorbirlo, di fagocitarlo e di adattarlo agli obiettivi e alle idealità del partito stesso”

Dunque sorgono, al posto dei vecchi “Partiti dei notabili” dei “Partiti di massa” che si considerano interpreti dell’interesse generale e non di interessi settoriali e limitati. Questa nuova forma cresce insieme ai vasti movimenti connessi con il processo di industrializzazione ed alla formazione collaterale di leghe, associazioni, movimenti cooperativi, sindacati, …

Ora, tuttavia, questo modello che ha informato di sé buona parte del novecento, “è morto”.

Ci sono fondamentalmente tre cause:

–        la società è diventata post-industriale;

–        in parte prevalente è diventata “opulenta” (termine di Galbraight);

–        si sono diffusi, ed hanno raggiunto diffusione capillare, nuovi media potentissimi.

Sotto la pressione di questi tre fattori tutti i partiti (ed in particolare quelli confessionali e socialisti) si secolarizzano gradualmente a partire dagli anni sessanta fino agli ottanta. Dopo questa data tentano di diventare “pigliatutto” (schema sul quale si dilunga in particolare Colin  Crouch) e in certi casi (in particolare francese) si leaderizzano. In Italia il processo è frenato dalla grande forza del PCI, fino alla “catarsi” del 1989 dopo la quale anche la sinistra affronta una “grande trasformazione”.

Gli effetti sono che l’iscritto perde la sua capacità (attraverso le gerarchie del partito e nei congressi) di influenzare e condizionare l’azione e diventa centrale il media televisivo. Un altro, nell’allontanamento dalla base e dai territori, non più necessari, è che inizia il “Partito cartellizzato” o “Stato-centrico”. Finiscono le grandi concentrazioni omogeneizzanti, connesse con la produzione, e inizia l’invasione capillare dei new-media, l’atomizzazione della vita quotidiana ed il declino delle appartenenze collettive. È il trionfo dell’individualismo “con tinte di narcisismo” (Ignazi, p.38). Spinge in questa direzione anche il movimento ecologista-libertario, figlio delle rivoluzioni sociali del 1968, che sposta l’attenzione sulla sicurezza fisica e il sostegno a valori “postmaterialisti” (come proporrà di considerare la cosa sia Giddens sia Inglehart). Nel frattempo anche le socialdemocrazie si sclerotizzano e i Partiti tornano quindi entro il campo di attrazione dello Stato. Man mano che perdono il contatto con la società, e riescono a “saltare” il livello locale nella costruzione del consenso grazie ai media, questi si riportano nella posizione che avevano guadagnato in passato (ovviamente in modo meno cruento ed anche massivo) occupando i ruoli ed i posti dell’amministrazione statale per sfruttarne le risorse. Ci sono molte conseguenze strutturali: la unità centrale di direzione dei maggiori partiti diventa più indipendente e isolata (anche finanziariamente), mentre le strutture locali si autonomizzano (andando in qualche modo verso un nuovo notabilato).

E, come nell’altro passaggio storico ricordato, ci sono rischi connessi strettamente con la sfiducia ed il discredito della rappresentanza e del pluralismo: la delega diretta ed individuale, “affidata ad un capo, un leader, un duce” (I. p.127). Si tratta di un esito insieme logico e ricorrente, che malgrado gli esiti disastrosi (incluso la guerra) “continua ad esercitare un certo fascino”. Il motivo è che ha il pregio della semplicità, della riduzione dei costi di decisione.

[2] – Chiamo “Piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per i diversi gruppi e ceti sociali, determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi coinvolti nella affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).

[3] – Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, 1997

[4] – Si veda, Ernesto Laclau, “La ragione populista

[5] – Pierre Rosanvallon “La politica nell’età della sfiducia”,

[6] – Colin Crouch, “Post-democrazia

[7] – Mauro Calise, “La democrazia dei leader

[8] – Nadia Urbinati “La democrazia in diretta

[9] – “Vox populi”, Il Mulino 2019.

[10] – Si veda, Marco Revelli, “Dentro e contro

[11] – Qualche spunto nel post “Appunti sul mutamento della piattaforma tecnologica”.

[12] – Si veda su questo punto, “Greta Thunberg la posta egemonica

[13] – Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra, e la linea intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale residuale della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle medie borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area socialista (il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo, i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è, e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità di ridurre l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati dalle immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche. Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di vista identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito per doversi dimettere.

[14] – La base di tutto che si fatica davvero ad assumere è che lo slittamento dalla “piattaforma tecnologica” fordista a quella post-fordista, e la sua radicalizzazione determinata dalla ristrutturazione capitalista del 2007-18 ha determinato una dualizzazione pronunciata e la divaricazione tra una minoranza sempre più tale di abbienti, soddisfatti e chiusi nelle torri d’avorio della propria presunzione ed una maggioranza, sempre più larga, di periferici o di spaventati.

[15] – Il riferimento è al giudizio da parte di Karl Marx di parte del programma della sinistra socialista francese di Guesde.

[16] – Ovvero Manolo Monereo, conversazione privata.

[17] – Si veda “Aufstehen

[18] – Si veda “Circa le dimissioni di Djiordie Kuzmanovic

[19] – Metafora calcistica, riferita al movimento di un attaccante che entra ed esce dalla linea dei difensori.

[20] – Un esempio, forse sgradevole, è il Renzi di lotta e di governo che monta, sulle orme dell’esempio berlusconiano un “populismo di governo” (cfr, Marco Revelli, “Dentro e contro. Quando il populismo è di governo”)

[21] – Per la metafora del “vuoto”, si veda Peter Mair, “Governare il vuoto, la fine della democrazia dei partiti

[22] – Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.

[23] – Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.

[24] – Per questo aspetto segnalo l’intervento di Lenny Benbara “La France Insoumise, dal partito al movimento”.

[25] – Axel Honneth, “L’idea di socialismo”.

[26] – La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) nel quadro di unità anonime.

Stefano Feltri, Populismo sovrano_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Stefano Feltri, Populismo sovrano, Torino 2018, pp. 138, € 12,00.

In un saggio dove si tiene conto di varie cause dell’ascesa dei partiti sovran-populi-identitari, il vice direttore del “Fatto quotidiano” scrive che elettori e politici (citiamo dalla quarta di copertina) “Spaventati dai fantasmi di una sovranità che sembra svanire, stiano così distruggendo proprio quegli strumenti che consentirebbero di ricostruirla in un mondo che non è più quello dominato dagli Stati nazionali”.

L’autore prende in esame le diverse ragioni del fenomeno, per lo più parzialmente trascurate dai molti che, recentemente, se ne sono occupati: la ribellione delle élite, la sfiducia delle masse (e quindi la crisi di legittimità) il tradimento dei sovrani, l’illusione di una ritrovata sovranità.

Questo esame “a tutto campo” evita all’autore i paternostri delle deprecazioni (molti) e i gloria delle adulazioni (meno per ora) al nuovo potere, spesso originati da considerazioni ideologiche e non fattuali.

Non mancano però un paio di punti che occorre ricordare, anche leggendo un libro esauriente come questo.

Il primo, meno rilevante per gli altri sovranismi, ma assai per quello italiano, è di aver trascurato l’importanza nelle vicende politiche, e ancor di più nelle democrazie, della virtù delle classi dirigenti. Virtù da intendersi nel senso di Machiavelli (e in altro aspetto di Montesquieu), che non è sicuramente quello di S. Maria Goretti.

Secondo il Segretario fiorentino la virtù è in primo luogo la capacità di attingere a uno scopo (anche e) nonostante, i mezzi; in secondo luogo, attraverso quella, di ridurre spazi e danni della fortuna cioè delle vicende e situazioni indipendenti dalla (propria) volontà. A tal fine adeguandosi agli eventi, cambiando anche il proprio modo di agire.

Quanto ai “mezzi” della virtù si tratta d’impiegare bene le astuzie della volpe e la forza del leone. Se manca (nei governanti) la virtù, la capacità di (creare) e mantenere l’essere, l’ordine e il benessere della comunità, non si realizza l’obbligazione politica, della scambio tra protezione ed obbedienza (Hobbes) ed è la stessa legittimità del potere di governo a venire meno.

Feltri ricorda il concetto hobbesiano del potere legittimo che da protezione e cui, pertanto si deve obbedienza, e che il welfare State è stato ridimensionato. Ma con ciò, nel contesto di uno Stato sociale che considera propria funzione primaria assicurare il benessere economico, legittimità e consenso verso le élite “globaliste” si sono drasticamente ridotte, avendo imposto sacrifici senza alcun beneficio. Qualche settimana fa m’interrogavo sulla differenza tra Quintino Sella e il governo Monti, data una certa somiglianza dell’azione da svolgere (ridurre il disavanzo nel primo caso, il debito pubblico nel secondo). Mentre quando cadde la Destra storica il disavanzo non c’era più, quando Monti se ne andò, il debito pubblico era notevolmente aumentato. Nel primo caso l’odiosa tassa sul macinato aveva almeno contribuito al raggiungimento dell’obiettivo, nel secondo l’IMU non era servita ad alcun risultato, anzi aveva aggravato il male. Conclusione populista, ma logica: farsi governare da certe élite non è solo inutile, è dannoso. Forse, con altre, la musica può cambiare: in ogni caso è difficile facciano peggio delle precedenti. Probabilmente è per questo che il primo governo sovran-populista dell’Europa occidentale è quello italiano.

Quindi più che crisi di idee delle vecchie élite (che c’è, ma è concausa) c’è una crisi di azioni e risultati, una carenza di virtù machiavellica.

Scrive l’autore, quanto alla sovranità, riprendendo la concezione hobbesiana del protego ergo obligo , che sta scemando – per difetto di protezione, la contropartita dell’obbedienza “se la legittimità del Leviatano deriva dalla sua capacità di proteggere le membra che compongono il suo corpo artificiale dai pericoli dello Stato di natura, se fallisce in questa missione allora perde anche la legittimità a esercitare il suo potere e a pretendere obbedienza”; onde “le élite non possono più garantire protezione  e benessere, i cittadini reclamano indietro la loro sovranità, quel potere non ha più legittimità”.

In questa situazione i movimenti populisti invitano “a riprendersi quella sovranità di cui le élite non riescono più a fare un uso efficace. Questo è ciò che sta succedendo. ma che uso fare di questa sovranità che viene reclamata indietro?”. E qui l’autore individua l’illusione fondamentale dei populisti che pensano di ricondurre la sovranità allo Stato-Nazione: “Ma che sia il livello più efficace, da cui i cittadini possono sperare di ottenere davvero rassicurazioni e protezione dalle incertezze globali, i populisti non provano neppure a dimostrarlo”. Secondo Feltri non è credibile “offrire soluzioni nazionali a problemi globali”.

Gli è che alternative più credibili non se ne vedono, perché presuppongono solidarietà e cooperazione, cioè accordo tra boni pater familias che spesso tali non sono (né debbono esserlo), onde quello non si trova, mentre sono sempre presenti (e operanti) le “regolarità della politica”: lotta per il potere, interessi degli Stati, dominio e timore del dominio. Che si realizzino le condizioni per uno spirito di cooperazione nella storia è successo, anche se per lo più accompagnato da un (misurato) uso della forza. Uno degli esempi nella storia dell’Europa moderna è stata l’unità tedesca compiuta da Bismarck, in cui l’esistenza e la volontà del Reich coesisteva con quella dei länder nella costituzione federale.

Ma purtroppo di Bismarck in giro non se ne vedono, anche volgendo lo sguardo oltre le Alpi.

Così come non si vedono quegli statisti (De Gasperi, Adenauer, Martino, Monnet) i quali, al fine (principale) di evitare altri conflitti come le guerre mondiali del XX secolo, edificarono l’Europa, proprio per una scelta, razionale e ragionevole, verso la cooperazione. La quale tuttavia implica che tra comunità vi sia solidarietà, spesso, di converso, carente.

E il problema si complica ancor più, ove dalla dimensione federale regionale (come, nel caso, europea) si passi ad una ancora superiore.

In conclusione e ragionando in base all’hobbesiano protego ergo obligo (soprattutto) e alle regolarità del politico, la soluzione dei sovranisti di assicurare la protezione attraverso lo Stato sovrano ha il pregio di essere stata collaudata dalla Storia; peraltro è l’unica che permette di avere una sovranità del popolo cioè democratica. In cui il demos prende delle decisioni efficaci. In altri tipi di sintesi politica, specie le più grandi, non sarebbero possibili. Di imperi nella storia ce ne sono stati tanti, ma nessuno democratico, perché a divenire tali avrebbero cessato di essere imperi.

Ultima conferma ne è stato il crollo dell’Unione sovietica, impero totalitario succeduto a quello zarista (autoritario) ma non sopravvissuto alla trasformazione in democrazia.

E perciò, malgrado tutto, al sovranismo occorre riconoscere una realistica ragionevolezza – in funzione della scelta politica democratica – superiore all’alternativa globalista, la quale di quello è stata la levatrice.

Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO

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L’Italia è tornata ad essere laboratorio politico. Media, giornalisti, insegnanti d’università e di liceo, blogger, filosofi, banchieri, scienziati ed altri s’interrogano sul populismo e sul perché il nostro sia il primo paese europeo occidentale ad essere governato da un bicolore popul-sovran-identitario. Certezze scosse e novità impreviste rendono inutili strumenti (ed autori) usuali fino a pochi anni fa. Dato il carattere di svolta e novità epocale, abbiamo provato a chiedere lumi a Niccolò Machiavelli. Il quale ci ha gentilmente concesso questo colloquio.

Qual è la principale causa del successo populista?

Gli è che tutti i reggimenti politici sono come gli uomini: nascono, crescono, decadono e muoiono.

Il vostro reggimento, nato da una sconfitta militare, e con una classe divenuta dirigente “per grazia di chi lo concede” (il potere) è durato tanto: segno che quei governanti, divenuti tali per fortuna, non erano scarsi d’ “ingegno e virtù”. Ma col passare dei decenni l’uno e l’altro si sono consunti. I nipoti di quei vecchi, ossia i governanti di quella che chiamate la seconda repubblica, non potevano ereditare “ingegno e virtù” né comprarli al mercato.

Quindi i populisti vincono per demerito degli altri?

Non so se quanto per demerito o per il decorso del ciclo politico (nascita, crescita, decadenza, fine). Sicuramente un po’ per assenza di ingegno e virtù, un po’ per tale “regolarità” politica.

E perché nessuno ne parla?

Non sia ingenuo. Parlare della propria assenza di virtù è come ammettere di essere inadatto a governare da una parte; dall’altra sminuire i propri meriti di vincitori. Quanto al ciclo politico, tale idea è contraria a quella di progresso sulla quale le vecchie elite avevano costruito la propria fortuna. Ammettere che non avevano la ricetta per realizzarle le “magnifiche sorti e progressive”, è confessarsi dei Dulcamara, ricchi di parole e poveri d’ingegno. Per gli altri vale sempre il discorso sui loro meriti; che non sono gli stessi se dipendono da quella regolarità. Seneca scriveva volentem ducunt fata, nolentem trahunt: ma se è il fato a decidere, loro di che possono vantarsi?

Gli sfrattati dal governo dicono che quello populista durerà poco. Che ci può dire?

Che questi ragazzi (Salvini, Di Maio) non sono grulli! Forse non mi hanno letto ma hanno capito. Come ho scritto, quando qualcuno conquista il potere “con il favore degli altri suoi cittadini” e questi quel favore ce l’hanno perché hanno vinto le elezioni, l’essenziale è non inimicarsi il popolo: non hanno ottenuto il potere col “favore dei grandi” ma con quello del popolo e “debbe pertanto uno che diventi principe”, “mantenerselo amico”.

Ciò è facile, perché gli basta non opprimerlo. E così sarà sostenuto dal popolo anche nelle avversità, come quelle in cui vi trovate. Avendolo i loro predecessori oppresso, caricato di tasse e privato di risorse, non gli è difficile, con poco, far capire che la musica è cambiata.

Che ne pensa a proposito delle tasse degli italiani?

I predecessori non avevano capito che i cittadini possono perdonare o meglio sopportare governanti che gli hanno ammazzato il padre o il fratello, ma non perdonano né dimenticano chi gli ha tolto la roba. Quelli credevano di imbrogliarli con discorsi commoventi, ma alla lunga non hanno retto.

Ma i vecchi governanti distribuivano quanto prelevato. Non è così?

Se anche lo fosse – e non lo è o non lo è del tutto – hanno trascurato che un principe può essere liberale quando spende denaro d’altri, ma non quando distribuisce quello proprio o dei propri sudditi. Chi lo vota non lo dimentica. E c’è altro.

Che cosa?

I vecchi governanti contavano troppo di tenersi su col favore dei grandi più che del popolo. Grandi che sono alemani, francesi ed altro. Hanno persino dato la fiducia – loro eletti dal popolo – ad un governo di persone mai elette neanche in un condominio, ma graditi ai grandi. I quali hanno governato di guisa da non scontentare quelli (dal cui favore dipendevano), ma dispiacendo il popolo. Hanno dimenticato che quando si governa con i grandi, che sono – almeno – pari a loro, questi non si possono “comandare né maneggiare a suo modo”. E infatti, i grandi li hanno aiutati poco o punto, quando ne avevano necessità.

Non è che i vecchi pensavano di poter persuadere il popolo della bontà della loro politica?

Si può governare con due mezzi: la forza del leone o l’astuzia della volpe. Ma non si può credere che, ripetendo le stesse cose per anni, e con risultati coì modesti tutti potessero essere abbindolati per sempre credendo a quei ritornelli. A volte capita, come a Messer Nicia “Quanto felice sia ciascun sel vede/chi nasce sciocco ed ogni cosa crede”. Ma si trattava di uno e non di tutti. E lo stesso Messer Nicia era vittima dei raggiri di Ligurio in quell’occasione specifica. Questi pretendevano di andare avanti per sempre e con tutti, con le loro azioni buoniste.

E se le cose fossero andate bene, forse queste astuzie sarebbero state utili. Orazioni e cerimonie lo sono, quando c’è tempo buono “ma non sia alcun dì sì poco cervello/ che creda, se la cosa sua ruina che Dio lo salvi senz’altro puntello/ perché morrà sotto quella ruina”. Cosa, per l’appunto, loro capitato con la crisi.

In definitiva cosa consiglia ai nuovi governanti?

Di tenersi stretto il popolo, perché non possono contare – o possono poco – sul favore dei grandi.

Non pensa che alemani ed altri possono profittare della divisione degli italiani? E far cadere il governo?

Di sicuro: e dividere i nemici è la prima regola per il successo della lotta. Ma attenzione: “la cagione della disunione delle repubbliche … è l’ozio o la pace, la cagione della unione è la paura e la guerra”. A minacciare sempre spread, sanzioni ed altro, il consenso del popolo al governo viene ad essere rafforzato. Come capitato nella guerra tra Roma e Veio.

La ringrazio. Mi concederà un’altra intervista?

Certo. Sa qui sto bene come a S. Casciano tra una briscola e una scopetta con i beati. Ma son tutti così buoni! E io mi annoio un po’. Meglio così tornare di quando in quando con i viventi, tutti intenti a sporcarsi le mani con la politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

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