Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori? di Davide Gionco

Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori?

di Davide Gionco
09.01.2023

 

 

Per quale motivo i politici eletti non riescono quasi mai a rispondere alle attese dei loro elettori?
E’ vero il teorema di Beppe Grillo, intorno al quale si formò il Movimento 5 Stelle?
Secondo questo teorema i politici sarebbero tutti corrotti e sarebbe sufficiente eleggere dei “normali cittadini” per avere finalmente dei parlamentari onesti e capaci di risolvere i problemi degli italiani.

La storia recente ci ha dimostrato che non è vero. Nelle ultime legislature gli italiani hanno eletto molte facce nuove le quali, una volta entrate in Parlamento, non hanno saputo risolvere i principali problemi degli italiani, in primis quelli economici.
Peraltro neppure i politici cresciuti nei partiti e neppure i politici “competenti” hanno dimostrato di saper fare meglio.

 

La storia recente italiana ci dimostra che esistono dei politici corrotti, così come esistono dei funzionari pubblici corrotti. Ma non è realistico che tutti i politici si corrompano non appena entrano in Parlamento o vanno al governo, diventando di colpo nemici del popolo.

Tuttavia è un dato di fatto che in Italia, anche quando i politici cambiano, i problemi principali del paese restano. E spesso peggiorano.
Possibile che tutti i politici si mettano ogni volta d’accordo per fare andare le cose di male in peggio?

E non sono solo luoghi comuni: i dati statistici sulla situazione economica italiana sono davvero impietosi.

La povertà è in aumento da molti anni.

Il reddito disponibile è sceso ai livelli del 1990, il PIL è in sostanziale decrescita da 15 anni, la capacità di risparmio è crollata.

Le stesse considerazioni le potremmo fare sul deterioramento dei servizi sanitari, sul peggioramento della scuola pubblica, sullo strapotere delle banche, sul malfunzionamento della giustizia, ecc.

Possibile che tutto questo sia dovuto ad una costante mala fede dei decisori politici degli ultimi 30 anni?
O ci sono altre ragioni che portano a queste conseguenze?

 

Ci sono indubbiamente dei vincoli esterni che impediscono ai politici eletti di fare ciò che vorrebbero.

L’adesione dell’Italia a trattati internazionali comprensivi di “clausole-capestro” non permette all’Italia di fare tutto quello che dovrebbe e le converrebbe nel confronto di soggetti esteri. Tuttavia è il caso di ricordare che l’adesione ai trattati internazionali è una decisione politica del passato, che può essere modificata, ovviamente tenendo conto delle conseguenze nelle relazioni internazionali. Inoltre i trattati internazionali non sono delle leggi. E’ possibile attuarli in modo integralista, come in genere fa l’Italia, o in modo parziale, secondo convenienza, come da sempre fanno i nostri vicini francesi e tedeschi.
Nei rapporti internazionali contano non solo i trattati scritti, ma anche i rapporti di forza. E l’Italia, quantomeno in Europa, è un paese di un certo peso, che potrebbe avere degli importanti spazi di manovra.

 

Un altro vincolo esterno all’azione dei politici eletti è posto dai funzionari pubblici “poco collaborativi”. E’ chiaro che difficilmente una decisione politica può essere eseguita se gli organi dello stato adibiti marciano in direzione opposta. O per ragioni di vicinanza ideologica ai partiti del precedente governo o per regioni di vicinanza ad altri gruppi di interesse.
Negli USA esiste la prassi dello spoiling system ovvero che quando cambia il governo vengono sostituiti i dirigenti dei vari dicasteri. In Italia la cosa viene annunciata dai giornali come quasi scandalosa, quasi che il nuovo governo volesse “vendicarsi dei nemici” sconfitti alle elezioni. Ma in realtà è la cosa più logica da fare, se dei politici eletti vengono ostacolati nelle loro decisioni da funzionari pubblici che, per qualsiasi motivo, non obbediscono al mandato popolare rappresentato dagli eletti.

 

Tuttavia, anche nei casi in cui gli eletti siano determinati a cambiare la linea politica, avviene che, all’atto dei fatti, i cambiamenti sostanziali non arrivano quasi mai.

Questo succede perché i decisori politici sono sottoposti alle fortissime pressioni delle tecniche di manipolazione messe in atto dai gruppi di potere che intendono piegare le decisioni dei politici ai propri interessi. Tali tecniche vengono utilizzate non sono, come noto, per far approvare dall’opinione pubblica decisioni politiche che di per sé non sarebbero accettabili, come una guerra o un aumento delle tasse, ma soprattutto per piegare la volontà degli stessi decisori politici verso l’approvazione di misure gradite al manipolatore di turno.

 

Gli studi sulle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica iniziarono con l’antropologo francese Gustave Le Bon che nel 1895 pubblicò il libro “Psicologia delle folle”. Fra i suoi successori più influenti ricordiamo il giornalista americano Walter Lippman, che nel 1922 pubblicò il libro “Opinione Pubblica” ed il fondatore delle pubbliche relazioni, Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che nel 1928 pubblicò il libro “Propaganda”.
Il primo governo ad attuare sistematicamente queste tecniche, spingendole fino agli estremi, fu quello tedesco di Adolf Hitler, grazie al ministro della propaganda Joseph Goebbels, il quale riuscì nel giro di pochi anni a convincere l’intero popolo tedesco (tranne poche eccezioni) del fatto che gli ebrei erano dei sub-umani, dei parassiti degni di essere sterminati, cosa che avvenne nei campi di concentramento.

 

Naturalmente dall’inizio del XX secolo ad oggi le tecniche si sono ulteriormente evolute.
Uno dei maggiori divulgatori dei nostri tempi su questi argomenti è lo psicologo americano Robert Cialdini, autore del libro “Le armi della persuasione”, edito nel1984, il quale riassume le tecniche in 6 “armi” a disposizione dei manipolatori:
1) Autorevolezza
2) Riprova sociale
3) Scarsità
4) Simpatia

5) Reciprocità
6) Coerenza

 

Le decisioni del politico vengono spesso influenzate dall’autorevolezza (o autorità) di persone che si presentano come tecnici, esperti della materia oggetto di decisione.
Questi personaggi possono essere consulenti assunti dalle istituzioni pubbliche, ma anche degli specialisti che prendono parola su tv e giornali.

Un politico non può essere competente di tutto, per cui alla fatica di formarsi preferisce fidarsi ciecamente dell’autorità proposta nel prendere le proprie decisioni.

In questo modo, però, il manipolatore di turno avrà gioco facile ad influenzare le decisioni del politico o corrompendo lo specialista (competente non significa necessariamente onesto) oppure facendo in modo che i politici incontrino solo tecnici che, nel pluralismo della discussione scientifica, sostengono posizioni utili agli interessi del manipolatore. Il manipolatore, corrompendo chi seleziona gli specialisti da proporre al politico, crea il pensiero unico in materia. “There is no alternative” (non c’è alternativa), come diceva Margareth Thatcher.
In questo modo il politico sarà portato, in totale buona fede, a prendere decisioni sbagliate per il popolo e giuste solo per gli interessi del manipolatore.

 

Un politico è sempre attento alla riprova sociale delle proprie decisioni. Il terrore di ogni politico è di non essere rieletto per il fatto di avere scontentato i propri elettori.

Tuttavia il politico ha poco tempo per incontrare direttamente i propri elettori, tendendo a interpretare come opinione pubblica quanto scrivono tv e giornali. Peraltro la contrarietà di tv e giornali alle posizioni del decisore politico porterà anche la gente a pensare che quel politico è inadeguato, dato che anche l’opinione pubblica è oggetto delle tecniche di manipolazione.
Un politico attento a ciò che dicono tv e giornali sarà portato a decidere cercando il loro consenso. Tuttavia se accadesse (e in Italia accade spesso) che i mezzi di informazione sono di proprietà di soggetti vicino ai manipolatori, il messaggio di tv e giornali sarebbe falsato per indurre in inganno i decisori politici, i quali prenderebbero decisioni sbagliate per cercare il consenso falsato dell’opinione pubblica.
Per chi non sapesse come funzionano oggi i mass media, invitiamo il lettore a conoscere la testimonianza del defunto giornalista tedesco Udo Ulfkotte o quella di Marcello Foa sugli “spin doctors”. Un politico accorto deve conoscere queste realtà e tenerne conto nelle sue decisioni.

 

Il principio di scarsità in genere viene usato dai venditori per convincere i clienti ad acquistare in fretta, senza riflettere: “è rimasta solo un’auto di quel tipo”, “lo sconto sarà valido sono fino a domani”. La fretta porterà il cliente a decidere in modo imponderato, a tutto vantaggio del venditore.

Nel caso del decisore politico succede spesso che una decisione importante debba essere presa entro una scadenza troppo ravvicinata, senza avere il tempo necessario per approfondire a sufficienza l’argomento.

Nei casi in cui il manipolatore abbia il potere di imporre delle tempistiche strette per le decisioni politiche, avrà gioco facile ad indurre in errore il politico che, non avendone il tempo, si dovrà fidare delle informazioni superficiali di cui dispone o dell’autorità tecnica di turno (combinazione del principio 1 con il principio 3).
Al manipolatore sarà sufficiente influenzare, in qualche modo, chi detta i tempi delle decisioni (ad esempio la Commissione Europea o chi stabilisce l’agenda del Parlamento) per indurre in errore molti decisori politici.

 

Il principio di simpatia viene utilizzato dai venditori per creare fiducia nei clienti, così come viene utilizzato dai manipolatori per carpire la fiducia di un politico. La persona “simpatica” che viene a contatto con il decisore politico utilizzerà questa fiducia, al di là dei meriti e delle capacità, per influenzare le sue scelte.
In altri casi l’innata simpatia viene utilizzata da qualcuno per portare consensi a se stesso ed al proprio partito politico, arrivando a guadagnare il ruolo di leader di partito.
Il politico eletto, per disciplina di partito, dovrà sottostare alle decisioni di quel leader.
I manipolatori hanno il potere di selezionare persone non capaci, ma “simpatiche” e fedeli al mandato del manipolatore, introducendole alla vita politica ed usandole per influenzare le decisioni dei politici.

 

La reciprocità è l’arma preferita dai manipolatori per influenzare le decisioni dei politici eletti. Umanamente ogni volta che riceviamo un favore ci sentiamo in obbligo di contraccambiare.
Il manipolatore offre dei favori “gratuiti” al politico: regali, occasioni di visibilità, incarichi di prestigio, di potere e remunerativi, incarichi presenti o futuri. Dopo di che il decisore politico si sentirà in obbligo di restituire il favore, accondiscendendo alle richieste del manipolatore. Questo anche senza arrivare a fenomeni di corruzione.
Il potere e la visibilità personale per un politico sono garanzie per il futuro. Difficile rinunciarvi. La decisione di restituire il favore, votando provvedimenti a vantaggio dei manipolatori, dei quali non ci si preoccupa neppure di conoscere le conseguenze, viene ritenuta una decisione “innocente”.

 

Una volta che un politico abbia preso un impegno pubblico, farà di tutto per confermare agli elettori la sua coerenza rispetto all’impegno preso.
La coerenza è certamente un fattore di serietà e di credibilità quando una persona mantiene ciò che ha promesso. Ma diventa una trappola micidiale per il decisore politico ogni volta in cui si sia precedentemente sbagliato nelle proprie valutazioni. Ovvero ogni volta in cui sia stato tratto in inganno tramite uno degli altri 5 metodi sopra esposti.
Un decisore politico serio dovrebbe avere il coraggio di ammettere pubblicamente di essersi precedentemente sbagliato, perché mal consigliato o per non avere prima sufficientemente approfondito la questione. In questo modo avrebbe la libertà di correggersi e prendere le decisioni giuste in favore degli elettori. Ma molto spesso questo non succede, perché il meccanismo psicologico è fortissimo, sia nei confronti del politico eletto, sia nei confronti degli elettori.
Tu, cittadini, che leggi questo articolo, preferiresti votare per un politico che si presenta sempre coerente, senza mai riconoscere i propri errori anche quando si accorge di avere sbagliato o votare un politico che ammette pubblicamente di essersi sbagliato e di avere cambiato opinione?
In questo meccanismo noi elettori non siamo esenti da responsabilità.

 

Cosa potrà fare un politico accorto per evitare di cadere nelle dinamiche di condizionamento sopra illustrate?

Per evitare di sottomettersi alle false consulenze degli specialisti autorevoli la prima cosa da fare per un politico è di formarsi, per arrivare a disporre di competenze proprie di base sulle principali questioni, soprattutto su quelle che richiamano maggiori interessi economici e, quindi, maggiori pressioni dei manipolatori.

A tale scopo, per chi fosse interessato, la nostra associazione Confederazione Sovranità Popolare ha organizzato un corso di cultura politica, che inizierà il prossimo 25 gennaio 2023.
Per informazioni: https://sovranitapopolare.info/corso-politica/

 

In secondo luogo un politico sinceramente motivato a fare il bene del proprio paese approfondirà la conoscenza delle tecniche di manipolazione dell’opinione qui sopra citate ed eviterà, per quanto possibile, di cadere nei tranelli dei manipolatori.
Avrà quindi sempre un atteggiamento critico nei confronti degli specialisti tecnici, ricercando anche punti di vista alternativi, prima di prendere delle decisioni.

Il politico accorto deve sapere che oggi i mezzi di informazione sono fortemente condizionati dagli interessi dei poteri forti, per cui saprà che non sempre la voce di tv e giornali corrisponde alla verità ed all’opinione della gente. E saprà che gli stessi mezzi di informazione spesso operano manipolando l’opinione pubblica.
Il decisore politico cercherà, anche con coraggio, di non farsi mettere alle strette nelle proprie decisioni, prendendosi il tempo necessario per decidere bene, perché una decisione sbagliata costerà al popolo molto di più di una settimana di ritardo sui tempi imposti per l’approvazione.

Un politico serio cercherà sempre di valutare gli interlocutori sulla base della loro serietà e competenza e non sulla base della simpatia o di favori concessi.
L’umiltà, necessaria per fuggire la vanagloria dei posti di prestigio, e la sobrietà, intransigente, necessaria ad evitare che l’azione politica sia finalizzata al servizio del popolo e non all’arricchimento personale, sono delle qualità fondamentali. L’etica, in un decisore politico, è un fattore fondamentale. Non devono essere ammessi compromessi.

 

La risposta alla domanda iniziale, del perché i politici non riescono quasi mai a risolvere i problemi dei cittadini, sono quindi i seguenti 3 punti:
1) Fondamenti etici poco solidi;
2) Limitate competenze proprie di base, unite ad una eccessiva fiducia malriposta negli specialisti tecnici;
3) Ignoranza delle tecniche di manipolazione messe in atto da chi vuole asservire la politica ad interessi privati.

 

Per cambiare veramente il nostro paese abbiamo bisogno di una nuova generazione di politici attenti a questi aspetti e di elettori che sappiano apprezzare, quando vanno al voto, i politici con queste qualità.

 

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NOMINE E AIUTANTATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOMINE E AIUTANTATO

Nell’imminenza dello scadere del termine  entro il quale la vigente legislazione prescrive che debbano essere confermati o sostituiti i grands-commis statali dopo l’insediamento del governo post-elettorale, si è acceso il dibattito su conferma o ricambio dei suddetti servitori dello Stato.

Ovviamente il PD, il quale a dispetto del fatto di non aver mai ottenuto una maggioranza dei votanti è stato sempre al governo (o nell’area di governo) negli ultimi dieci anni – fatta eccezione per il Governo Conte 1 -, con relative nomine, accusa il governo di voler fare lo stesso: di ricoprire le caselle dei personaggi ossequienti alla nuova maggioranza quanto i loro predecessori a PD (e sodali). Condendo il tutto con l’usuale ricorso alla megliocrazia: che i loro nominati erano bravi, colti, esperti, educati, buoni, umanitari (ecc. ecc.). Mentre quelli nominandi dal governo Meloni sono mediocri, ignoranti, dilettanti, ecc. ecc. Argomento involontariamente comico: se l’Italia avesse avuto una tecno-burocrazia così eccellente non si capisce come – da trent’anni – sia ferma, anzi in decadenza. O meglio la spiegazione è meno confortante per il PD di quanto lo sia ritenerne corresponsabile la dirigenza burocratica.

Ma, a parte la propaganda, il rapporto tra potere burocratico, potere politico, ma soprattutto democrazia è uno dei principali dello Stato moderno. Già agli albori, durante la rivoluzione francese (cioè nello Stato allora “forse” il più burocratizzato del pianeta) i rivoluzionari lo avvertivano ampiamente. Sia nelle correnti (e soluzioni) più moderate; ma più chiaramente e decisamente alla Convenzione la tensione tra dirigenza eletta dal popolo e civils servants è percepita e “risolta” dai giacobini. Saint-Just diceva alla Convenzione “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti… e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano… gli uffici hanno preso il posto delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è  virtù, è mestiere… C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari

Del pari Robespierre riteneva “L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo”. Da ciò la necessità di controllarli.

È inutile continuare col ricordare tutti i pensatori che hanno giudicato come antitetiche burocrazia e democrazia. La soluzione – nelle varie applicazioni che ha avuto –  come osservava Max Weber, è stata di sottoporre gli apparati burocratici all’indirizzo, nomina e controllo di un vertice politico, responsabile verso il corpo elettorale e quindi “rimovibile” a scadenza fissa. Un vertice non necessariamente fornito delle caratteristiche fondamentali della burocrazia (sapere specializzato, durata del rapporto, selezione “dall’alto”, professionalità) proprio perché di designazione e conferma “dal basso”.

Se non fosse così, o si dovrebbe ricorrere alle istituzioni delle poleis democratiche, dove tutte – o quasi – le cariche erano elettive, ovvero se i burocrati apicali non fossero responsabili verso il vertice politico (e conservassero i propri connotati tipici) dire addio alla democrazia possibile.

Max Weber nel distinguere la figura del capo e del funzionario da un particolare valore alla “specie di responsabilità dell’uno e dell’altro”. Il funzionario ha come dovere di eseguire un ordine, anche se non lo condivide “come se esso corrispondesse alla sua intima convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale”; di converso, prosegue Weber «Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo… se egli non trova il modo di dire al suo superiore – sia esso il monarca o il demos – “o ricevo adesso questa istruzione o me ne vado”, vuol dire che è un “rammollito” come Bismarck ha battezzato il tipo». Questo se capo e funzionario seguono l’ethos del rispettivo ruolo.

Ma se non lo seguono la questione cambia; in Italia vige il nicodemismo ma soprattutto la sfrontatezza coniugata all’ambizione di voler occupare posizioni pubbliche pur riservandosi il diritto di sindacare o mal eseguire le direttive “dall’alto”. Delle quali la pretesa ad esercitare la funzione senza la fiducia del vertice politico è l’aspetto più eclatante. Che è poi un “capitolo” della mentalità consociativa tutt’altro che sminuita dalla “bipolarizzazione” la quale ha ispirato la legislazione elettorale dell’ultimo trentennio.

Cambiare i vertici amministrativi della pubblica amministrazione non è così una lesione alla democrazia, ma il rispetto della volontà popolare espressa nelle votazioni e della responsabilità che ne consegue. Anche perché il ruolo della dirigenza generale e del vertice politico è ordinato (tra l’altro) dall’art. 4 del D.lgs. 165/2000 il quale per il vertice dispone “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi ad attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano in particolare:… e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni”; mentre “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa… Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

Il fatto che diverse norme di legge dispongono la “conferma” (o la sostituzione) dell’apice della dirigenza burocratica al cambiamento del vertice politico risponde al “circuito” democratico: per il quale chi governa deve avere il consenso dei governati, attuarne la volontà e avere la responsabilità verso i medesimi. E quindi il potere di controllare, sostituire e confermare coloro che – non essendo “funzionari onorari” ma di carriera, non sono nominati né confermabili dal corpo elettorale. Verso il quale quello di nominare gli apici dirigenziali non è un diritto ma un dovere. Una responsabilità cui non ci si può sottrarre.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Queste cinque strategie per il 2023 rafforzeranno il nuovo ruolo globale dell’India, di Andrew Korybko

Le cinque strategie suggerite in questo pezzo sono fondamentali per accelerare ulteriormente la transizione sistemica globale verso la molteplicità che ha già raggiunto la sua ultima fase tripolare come risultato delle magistrali risposte dell’India agli eventi caotici dello scorso anno. Nell’arco di un solo anno, l’India è emersa come una grande potenza di importanza mondiale, le cui politiche hanno davvero cambiato il corso delle relazioni internazionali a causa del contesto storico in cui sono state promulgate.

Il 2022 ha visto la transizione sistemica globale accelerare senza precedenti a seguito delle conseguenze che cambiano il paradigma a tutto spettro catalizzate dall’operazione speciale della Russia in Ucraina. Mosca è stata costretta a difendere le sue linee rosse di sicurezza nazionale lì dopo che la NATO le ha attraversate, dopodiché il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha imposto sanzioni senza precedenti che hanno destabilizzato il mondo. Nonostante abbiano riaffermato con successo la loro egemonia unipolare in declino sull’UE , gli Stati Uniti non sono riusciti a fare lo stesso altrove.

Il Sud del mondo, guidato congiuntamente da BRICS SCO , ha rifiutato di soddisfare le richieste anti-russe dell’America poiché queste dozzine di stati erano già diventati abbastanza fiduciosi nell’affermare i loro oggettivi interessi nazionali nel corso degli anni al punto in cui non sarebbero stati costretti a entrare concedendo loro unilateralmente. Da nessuna parte questa sfida è stata più significativa dal punto di vista geostrategico di quando si è trattato dell’India, che gli Stati Uniti avevano precedentemente previsto sarebbe stata facilmente costretta a marciare di pari passo con i suoi diktat.

L’America ha dato per scontata la conformità dell’India alle sue richieste anti-russe poiché i suoi politici presumevano erroneamente che fosse già diventato il loro più grande stato vassallo. Questa falsa valutazione era dovuta al fatto che l’India era l’unico principale partner di difesa del loro paese, un membro del Quad, un partecipante al quadro economico indo-pacifico e un praticante della democrazia in stile occidentale. Ai loro occhi, tutto ciò significava che l’India si sarebbe sottomessa agli Stati Uniti molto tempo fa.

La realtà era completamente diversa, tuttavia, poiché le relazioni strategiche in rapido sviluppo dell’India con gli Stati Uniti erano in realtà guidate dal desiderio della sua leadership di trovare un equilibrio tra il Golden Billion e il Sud del mondo di cui il loro paese fa parte per emergere come kingmaker nel New Cold Guerra A tal fine, è diventata decisamente la valvola alternativa della Russia dalla pressione occidentale, in modo da scongiurare preventivamente lo scenario in cui il suo partner decennale diventasse sproporzionatamente dipendente dalla Cina.

Ciò a sua volta ha rivoluzionato le relazioni internazionali, rompendo l’ impasse bi-multipolare caratterizzata dall’enorme influenza del duopolio delle superpotenze sino-americane, che sarebbe stata rafforzata se la Cina fosse stata in grado di ottenere ciò che voleva dalla Russia nello scenario precedente. La transizione sistemica globale si sta ora muovendo irreversibilmente verso la tripolarità in vista della sua forma finale di multiplexity , ma questo processo può essere ulteriormente accelerato dall’India facendo quanto segue nel 2023:

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1. Raddoppia sul corridoio di trasporto nord-sud

I ripetuti riferimenti del presidente Putin al Corridoio di trasporto nord-sud (NSTC) questo mese dimostrano che lo considera un megaprogetto rivoluzionario a livello globale poiché al giorno d’oggi funge da nucleo fisico del terzo polo di influenza che Russia, India e Iran sono creare insieme. Raddoppiando l’NSTC proprio come la Russia ha segnalato che si sta preparando a fare, l’India può potenziare i propri sforzi collettivi per superare l’impasse bi-multipolare nelle relazioni internazionali molto prima del previsto.

2. Assemblare in modo tangibile un nuovo movimento non allineato

La neutralità di principio dell’India ha già raccolto il grande dividendo strategico di trasformarla nel kingmaker della Nuova Guerra Fredda, la cui posizione può essere cementata facendo leva sulla sua presidenza del G20 per assemblare un nuovo Movimento dei Non Allineati (” Neo-NAM “) ). In quanto voce del Sud del mondo suo aspirante leader , l’India è in una posizione unica per svolgere il ruolo di ispirare gli altri a emularne il successo in modo da scongiurare preventivamente la propria possibile dipendenza dal duopolio della superpotenza sino-americana.

3. Ricalibrare costantemente il multi-allineamento come richiesto

Il segreto del grande successo strategico dell’India finora è che la sua leadership si è dimostrata capace di adattarsi in modo flessibile a circostanze in rapido cambiamento al fine di ottimizzare il perseguimento di interessi nazionali oggettivi. Questo approccio richiede una ricalibrazione costante considerando la continua incertezza che si prevede si dispiegherà durante l'”Età della complessità” di questo decennio, che comporterà prevedibilmente l’India che intraprenderà mosse politiche più decisive come richiesto per mantenere il suo insostituibile ruolo di kingmaker.

4. Mantenere l’equidistanza tra le superpotenze

Sulla base di quanto sopra, l’imperativo guida dell’approccio di cui sopra è quello di mantenere l’equidistanza tra le superpotenze sino-americane, che preserverà l’ autonomia strategica duramente guadagnata dall’India insieme a non provocare inavvertitamente un dilemma di sicurezza con l’una o l’altra. Scongiurare preventivamente il secondo scenario è fondamentale poiché l’India può mal permettersi di stare dalla parte cattiva della Cina o degli Stati Uniti, il che potrebbe portare rispettivamente a minacce militari o economiche contro di essa se considerano l’India come il loro nemico.

5. Prepararsi allo scenario di una nuova distensione sino-americana

La raffica di diplomazia tra Cina e Stati Uniti da quando il presidente Xi ha incontrato le sue controparti occidentali durante il G20 di novembre dimostra che stanno effettivamente esplorando la possibilità di compromessi reciproci di vasta portata volti a ritardare indefinitamente la fine del bi-multipolarità guidata dall’India. Nel caso in cui l’anno prossimo venga raggiunta una nuova distensione, il che è tutt’altro che garantito ma non può ancora essere escluso, allora l’India deve essere preparata allo scenario peggiore di Cina e Stati Uniti che si alleano contro di essa.

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Le cinque strategie suddette sono fondamentali per accelerare ulteriormente la transizione sistemica globale verso la multiplexità che ha già raggiunto la sua ultima fase tripolare a seguito delle magistrali risposte dell’India agli eventi caotici dell’anno passato. Nell’arco di un solo anno, l’India è emersa come una grande potenza di importanza mondiale, le cui politiche hanno davvero cambiato il corso delle relazioni internazionali a causa del contesto storico in cui sono state promulgate.

Invece di sottomettersi agli Stati Uniti come il loro più grande stato vassallo come i politici di quest’ultimo presumevano erroneamente fosse già da anni, il che avrebbe portato la Russia a diventare il “partner minore” della Cina per necessità e quindi a radicare il bi-multipolarismo, l’India ha riaffermato il suo indipendenza. Ciò ha avuto l’effetto di far deragliare la grande traiettoria strategica di entrambe le superpotenze, ostacolando così la fase successiva della transizione sistemica globale, che ora è irreversibile.

Tuttavia, il duopolio di superpotenze sino-americane sta attualmente complottando per unire le forze per ritardare indefinitamente la fine guidata dagli indiani del sistema bi-multipolare che hanno pari interessi egoistici nel preservare, ergo le loro discussioni in corso su una nuova distensione. È con questo scenario in mente, che sarebbe importante se si avverasse, che i cinque suggerimenti sono stati formulati sopra al fine di facilitare i cambiamenti sistemici globali che sono stati catalizzati dall’India nell’ultimo anno.

Anche nel caso in cui la Cina e gli Stati Uniti accettino una serie di compromessi reciproci di vasta portata volti a consentire loro di respingere congiuntamente questi suddetti cambiamenti, i loro sforzi saranno vani poiché l’India continuerà a garantire l’irreversibilità di tutto ciò che si è svolto guidando dal fronte. Il raddoppio dell’NSTC renderà la tripolarità una realtà molto prima del previsto, mentre l’assemblaggio tangibile del Neo-NAM multilateralizzerà questo sistema includendo al suo interno l’intero Sud del mondo.

L’India è l’unico Paese in grado di guidare l’evoluzione tripolare nelle Relazioni Internazionali per la sua equidistanza tra le superpotenze e il ruolo di kingmaker che le ha conferito nella Nuova Guerra Fredda. Nessun altro può ispirare dozzine di altri stati a seguire il loro esempio e quindi sostenere i progressi che sono stati raggiunti finora nella transizione sistemica alla multiplexità. Senza esagerare, si può quindi concludere che il ritrovato ruolo globale dell’India è veramente storico.

Appendice

Il principale diplomatico indiano ha condiviso alcune verità “politicamente scomode” durante il suo viaggio in Europa, di

 

REALTA’ E MALINCONIA, di Pierluigi Fagan

REALTA’ E MALINCONIA. Prenderemo in esame le due fotografie su “lo stato d’animo del Paese” fatte dal 56° Rapporto CENSIS uscito ai primi dello scorso dicembre, i cui temi confermerebbe l’IPSOS con una indagine uscita sul Corsera. Chi scrive ha lavorato in passato con queste ricerche ed istituti, si possono criticare poiché in statistica nulla è esente da critiche, ma nella sostanza le ritiene affidabili o quantomeno indicative. Vediamo i temi principali che emergono da questa doppia fotografia.
Il primo e più importante sembra essere quello che CENSIS chiama “malinconia”. Da una parte emerge forte disagio nella somma degli effetti delle quattro crisi (economica, geopolitica, ambientale, sanitaria), dall’altra se tutto ciò infrange irreparabilmente il sogno-promessa della tarda modernità (in attesa ci si metta d’accordo a dar la modernità per terminata trovando nome alla nuova epoca in cui siamo capitati), tutto ciò non ha rappresentazione e forse valida interpretazione. Ne consegue un senso di privata e passiva tristezza.
Tra i tanti dati di cui poi accenneremo, quelli microsociologici mi sembrano i più interessanti. Dice CENSIS “Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé”. Si tratta della rottura della macchina delle promesse desideranti che traina ogni società dei consumi ovvero società basate sull’ordinatore economico. Nei dettagli: “Prevale piuttosto la voglia di essere sé stessi, con i propri limiti. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici: per mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, per vestirsi secondo i canoni della moda, per acquistare prodotti di prestigio, per sembrare più giovani, per sentirsi più belli. E (per molti ed in crescita) non si è più disposti a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più”. Questa macchina è in doppia crisi. Sia perché non più in grado di mantenere anche al minimo la sua promessa di avanzamento sociale, sia perché a fronte della gravità delle crisi reali non è di questo tipo di presunto “avanzamento sociale” che si sente il bisogno. Ogni “gioco sociale” è una convenzione, questo che ha innervato e strutturato le nostre società così a lungo, sembra a corto di convinzione ed una convenzione senza convinzione, implode lasciando dietro di sé il vuoto. Il vuoto si riempie di malinconia.
Poiché altrove nel Rapporto si conferma che le persone hanno tutte capito alla perfezione di esser capitate in una transizione ovvero un passaggio trasformativo profondo, storico e non occasionale, ne consegue che il crollo di una convenzione di cui quasi nessuno è più convinto, lascia il vuoto ed il vuoto si riempie di malinconia.
Sui dati sociologici più duri, le due ricerche confermano esserci un picco di problematicità acuta sull’aspetto economico-sociale. Questo è dato dai temi “economici, occupazionali, welfare ed assistenza”. Società basate sull’ordinatore economico soffrono particolarmente il non funzionamento del gioco economico, il crollo delle prospettive, l’esasperata precarietà (che non ha più neanche il traino dell’ipotetica promessa al potersi risolvere in prospettiva diventando così “sacrificio senza speranza”), l’inflazione, le forti diseguaglianze, dicono che stiamo giocando un gioco che non funziona, truccato, di falsa promessa. La distanza tra questi item ed altri quali la sicurezza, gli immigrati, l’ambiente, il controllo sociale, dice anche quanto alcune forze politiche o culturali parlino di cose che in realtà non corrispondono affatto allo stato d’animo diffuso. Questa mancanza di rappresentazione pubblica del sentimento personale crea una dissociazione, ognuno si ritira nel suo preoccupato sentimento privato, il che aumenta depressione e malinconia.
Chissà poi perché non solo l’area politica che è ovvio che in questa fase storica sia del tutto inadeguata, ma anche e soprattutto quella intellettuale non si sintonizzi su questo sentimento. Evidentemente, sfugge all’auto-analisi. O molti di questi “intellettuali” essendo pensionati o professori, non vivono appieno il problema o sono catturati in un mondo parallelo in cui la battaglia delle idee segue tutt’altra partizione, una forma esasperata di “scolastica critica” in cui ormai si gioca tutto all’interno di un mondo concettuale che ha perso ogni riferimento al reale. Un po’ come nella pandemia in cui pochi hanno notato lo stato pietoso ed inadeguato della sanità pubblica nel Paese con più anziani al mondo (assieme altri due o tre), librandosi ariosi dalle vette e dai picchi dell’analisi biopolitica, un po’ come ormai più di un decennio di retorica anti-neolibersita, anti-globalista, anti-eurista che non è mai atterrata lì dove i nodi che da ideologici diventano pratici, producono malessere individuale e sociale (le famose “contraddizioni”).
Eppure, queste stesse ricerche rilevano l’ovvio in una società sempre più anziana: severe preoccupazioni per il rischio di non autosufficienza e invalidità, di non poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Così per i più giovani che sappiamo ormai dimenticati e per lo più esclusi dalla coesione sociale. Sarà il caso di notare che gli anziani statistici (+64 ed in costante aumento) sono quasi il 25% della popolazione, aggiungendo giovani in stato di lunga precarietà ed attesa di futuro siamo ad una massa importante della società, quasi il 40%.
Ma nulla di tutto ciò sempre preoccupare molti dei nostri intellettuali critici che, negli ultimi giorni, si sono abbandonati a profluvi di analisi sulla grandezza mal compresa di Joseph Ratzinger. Molti sembrano presi da questa grande macchina di intrattenimento dei concetti e delle critiche che sembra voler evitare a tutti i costi i fondamentali reali. Chi parla più di lavoro, reddito, ridistribuzione, diseguaglianza concreta, protezione pubblica? Chi sente ed interpreta la malinconia e la depressione diffusa? Meglio l’euro, l’UE matrigna, il popolo, i vaccini, il non c’è più destra né sinistra. Ognuno felice di partecipare alla costruzione di questa nuova area neo-con dal confuso sapore libertariano, visto che non c’è più sinistra e siamo tutti di destra meglio cercare la propria interpretazione di cinquanta sfumature di destra. Poi magari si scrive un articolo sulla minaccia anestetizzante della virtualità senza accorgersi quanto si partecipa attivamente a costruire questa virtualità distraente, ognuno col suo commento del giorno dopo in cerca di pubblico riconoscimento secondo un indice dei temi e degli argomenti che è poi quello del fatidico mainstream.
Poi magari si fonda un partitino tre mesi prima delle elezioni, si fa una figuraccia ma non c’è problema, arriva sempre un nuovo tema su cui esibire pensiero critico e mettersi in mostra in nome di un “cambiamento” che in realtà nessuno sembra davvero volere mentre si cerca di sfuggire, ognun per sé, all’attrazione appiccicosa di questa vasta malinconia che non trova più il suo inchiostro per esser raccontata.

Lo smarrimento del sindacalismo compassionevole, di Giuseppe Germinario

Con l’avvento del Governo Meloni sarà importante tenere d’occhio il comportamento delle tre confederazioni sindacali. Saranno importanti nel determinare i destini di un governo che si dovrà barcamenare tra l’appiattimento acritico e diligente alle scelte geopolitiche dell’attuale amministrazione statunitense, al momento concentrate sul fronte orientale della NATO, l’afflato di orgoglio nazionale di cui si nutre continuamente la sua narrazione e le conseguenze sempre più evidenti di tali scelte, delle dinamiche geopolitiche più generali e degli indirizzi economici della UE sulla precaria condizione socio-economica dell’Italia.

Di queste scelte geopolitiche statunitensi, come della logica che informa l’indirizzo economico, quello ambientalista ed energetico della UE abbiamo già parlato con dovizia. Il dato più evidente della istigazione e della reazione della NATO all’intervento russo in Ucraina è stato il rapporto causale diretto delle sanzioni alla Russia con l’ulteriore drammatico dissesto dell’economia dell’intera Europa piuttosto che di singoli paesi, come avvenuto con quelle sulla Siria, l’Iran e la Libia. Anche su questo argomento proseguiremo nella discussione.

Quanto al Governo Meloni è una forzatura eccessiva presentarlo come un mero appiattimento ed una mera clonazione del precedente governo retto da un funzionario plenipotenziario. Sull’onda di una politica americana che non vede più nella UE un pilastro fondamentale della propria egemonia quanto piuttosto una mera appendice sempre più ridondante delle funzioni sempre più estese della NATO; di una politica per altro che tende a delegare ai propri alleati l’esecuzione sul posto di parti significative delle proprie strategie è probabile che il Governo Meloni, dovesse durare e riuscire ad affrontare la complessità del bailamme europeo, possa nutrire la propria narrazione nazionalista, quantomeno su alcuni temi a corollario degli interessi fondamentali dell’amministrazione statunitense. Di questo ne parleremo in futuro man mano che matureranno i tempi e si presenteranno le diverse opzioni.

Da tempo le tre confederazioni sindacali non sono più tra le protagoniste principali dello scenario politico italiano; sono però le realtà politiche più costrette in una camicia di forza dalla quale appare impossibile uscire. Una gabbia in gran parte costruita con le proprie stesse mani che rende impossibile una azione coerente ed efficace di difesa degli interessi popolari e del lavoro dipendente.

I due congressi di CISL e UIL appena tenuti e le tesi del prossimo congresso della CGIL, che si terrà a marzo 2023, con varie sfumature hanno confermato questa incapacità di uscire da una narrazione così costrittiva ed invalidante. La prima con un ostentato, totale e acritico appiattimento all’orientamento atlantista ed europeista; la seconda allineata, ma con qualche punzecchiatura puntuale, ma incoerente con il contesto adottato; la terza con un allineamento evasivo, condito da un generico pacifismo e da una superficialità di analisi disarmante. Non a caso è proprio Landini la figura più motivata a confessare apertamente e candidamente il proprio smarrimento rispetto alla complessità e drammaticità del contesto geopolitico ed economico.

Come si evincerà dall’economia del testo le ragioni di esistenza e persistenza di questa gabbia non sono solo soggettive, legate agli evidenti limiti di comprensione e di formazione politica dei gruppi dirigenti sindacali; riguardano anche la ragione d’essere stessa dei sindacati combattuta da due contraddizioni non risolvibili, quanto piuttosto da gestire in corso d’opera. Nella fattispecie la strutturazione nazionale del sindacato teso a difendere universalmente o nella modalità più estesa possibile la condizione universale del salariato o del lavoratore dipendente; l’assunzione del lavoro salariato, quindi, più o meno esplicitamente, del rapporto capitalistico di produzione come chiave di volta in grado di spiegare e determinare le dinamiche sociali e le decisioni politiche delle classi dirigenti della o delle formazioni sociali. Una assunzione, quest’ultima, che nella sua connotazione più radicale, espressa nelle tesi alternative della CGIL, non va, direi non può andare, oltre e piuttosto non fa che riproporre di fatto a suo modo, comunque, la regolazione e la riproduzione, sia pure nella forma conflittuale estrema, del rapporto capitalistico.

Con tutte le difficoltà dovute al fatto che, ormai da qualche decennio, il contesto geopolitico ed internazionale viene analizzato sempre più occasionalmente e con superficialità, il punto comune di partenza è la constatazione del processo di globalizzazione come fonte degli squilibri economici e della precarietà e impoverimento nel mondo del lavoro.

Qui è opportuna una nota a margine sul fatto che gran parte dei narratori, pur dichiarandosi paladini della generale condizione lavorativa, rimangono abbagliati dal degrado di una parte di essa, quella dei paesi occidentali, compresa l’Italia, omettendo di conseguenza i progressi di condizione che parallelamente si verificano in gran parte dei paesi emergenti. Una condizione negletta, quindi, di nuovi squilibri e riequilibri, piuttosto che di un catastrofico degrado generale.

Il dato dirimente, però, è un altro e risale ai fondamenti teorici di queste affermazioni. Il processo di globalizzazione, frutto della contrapposizione capitale/lavoro, sarebbe opera di una cupola di capitalisti cosmopoliti, in particolare soprattutto magnati della finanza pura e semplice, in grado di spostare indifferentemente i propri capitali, ormai nella loro espressione più liquida.

Da qui la necessità di contrapporre a questa sorta di Associazione degli Industriali planetaria una vasta gamma di organismi sovranazionali che spaziano secondo il livello richiesto e la fuga verso aspettative utopiche e fuorvianti. Dal Governo Mondiale alla creazione di un sindacato mondiale realmente operativo, alla attribuzione fuorviante di competenze sovrane, proprie di uno Stato, ad organismi sovranazionali di altra natura e funzione, quali il FMI, l’OCSE, l’Unione Europea.

Potrebbero sembrare considerazioni troppo astratte e distanti; ininfluenti sull’azione concreta dei soggetti politici in generale, delle dirigenze sindacali in particolare.

Non è così, almeno a parere di chi scrive.

Cercherò di chiarirlo, ma prima è necessaria qualche considerazione aggiuntiva sulle dinamiche della globalizzazione, sulla funzione esplicativa del rapporto capitale/lavoro, sul rapporto tra l’agire politico e le dinamiche economiche e all’interno di esse, sulla gerarchia tra il politico (azione politica) e l’economico.

  • Sino a pochi mesi fa globalizzazione è stato il termine taumaturgico adottato per spiegare le più disparate dinamiche che attraversano l’azione umana sul pianeta; ultimamente, con il riemergere del peso delle decisioni politiche e del conflitto geopolitico aperto sembra caduto in disgrazia in una specie di ritorno al passato alimentato dalle pulsioni “sovraniste” dei centri decisori dei paesi avversi ai principi costitutivi del mondo occidentale. Nella sua definizione riferita alla condizione oggettiva, il termine indica la riduzione drastica, se non il pratico azzeramento, come nel caso delle comunicazioni e degli impulsi digitali, dei tempi una volta necessari a connettere i vari punti del globo terrestre, parte di un complesso sistema reticolare; siano essi luoghi di produzione ed economici, che commerciali, che finanziari, che di trasmissione, controllo e comunicazione. Sulla base di questa dinamica alimentata dalle economie di scala e dallo sviluppo di alcune tecnologie, ma in realtà resa possibile da una condizione politica ben determinata di cui si parlerà in seguito, si è formata una rappresentazione ideologica definibile con il termine “globalismo”, comprensivo sia della accezione positivistica-progressista che di quella populistica-movimentista. Delle due la prima ci offre una rappresentazione reticolare di connessioni puntuali di fatto prive di gerarchie che trovano il loro punto di equilibrio spontaneo e soddisfacente attraverso la compensazione dei flussi sempre più svincolati da limitazioni e sempre più intensi. Il multilateralismo può essere la traduzione politica ottimale di questa dinamica; l’equilibrio spontaneo del libero mercato il modello di riferimento di questa rappresentazione sistemica.

    La seconda delle accezioni spiega all’opposto la dinamica e il funzionamento del sistema con il controllo progressivo totalitario di una cupola ristretta di veri decisori, per lo più ricondotta ai detentori del capitale, via via sintetizzata e ridotta a quella dei detentori di capitale finanziario ed ancora a quella di detentori di quel capitale finanziario liquido del tutto separato dalle attività produttive. Le figure, quindi, in grado di controllare e determinare con la loro mobilità ed immediatezza il controllo con profitto dei processi di globalizzazione sempre meno frenati da vincoli temporali e spaziali.

  • Quanto alla funzione fondativa e pervasiva delle formazioni sociali e delle loro espressioni politico-istituzionali affidata al capitalismo, quindi al rapporto capitalistico di produzione ed ancora, in ultima istanza, al rapporto fondamentale tra detentori dei mezzi di produzione e salariati detentori della semplice forza lavoro, la permanenza della sua rappresentazione teorica è resa possibile, sia nella sua residua rappresentazione conflittuale che in quella prevalentemente “collaborativa”, solo dalla regressione schmitiana e ricardiana a lavoro/capitale della potente contrapposizione marxiana tra forza lavoro/detentori del capitale.

    La distinzione tra lavoro e forza lavoro salariata rimane importante per individuare la particolare realizzazione del pluslavoro attraverso il plusvalore come pure per individuare la particolare dinamica di produzione di risorse che consente lo svolgimento competitivo e conflittuale del mercato capitalistico con annesso corollario, però, di una “caduta tendenziale del saggio di profitto” ormai sempre di là da venire. È una rappresentazione duale di rapporto sociale che per di più non riesce a spiegare compiutamente sia la complessità delle stratificazioni sociali attraverso l’individuazione delle due classi fondamentali antagoniste, sia il contenuto antagonistico di quelle stesse due classi, giacché sia lo “sfruttato” che lo “sfruttatore” vivono la condizione di salariato. Da qui la ricorrente tentazione di tornare alla dialettica del rapporto capitale/lavoro, laddove il capitalista assume progressivamente la veste del percettore di rendite, dello speculatore indifferente, separato, avulso dalla produzione e dal produttore.

Le implicazioni di questo particolare ritorno al passato, specie quando progressivamente intrecciato, così come si sta verificando, con le tesi globaliste, sono particolarmente notevoli nelle rappresentazioni ideologiche e nelle condotte politiche di determinati centri decisori e di specifiche élites; tra questi, in particolare i centri dirigenziali sindacali, per quanto costoro sempre meno consapevoli e coscienti del proprio bagaglio e retaggio culturale e per quanto comunque richiamati al peso della realtà più prosaica e pragmatica dal carattere “mercantilizio” del loro impegno professionale.

Il globalismo, nella sua prima accezione di cui sopra, nel suo lirismo armonico autoregolatorio impedisce e vieta di individuare le gerarchie sottese, necessarie ed indispensabili a garantire il funzionamento e la fluidità del meccanismo; tende al contrario a dissolverle. Uno strabismo che impedisce di individuare il necessario ruolo egemonico e regolatore, quindi prettamente politico, assolto in qualche maniera dalle leadership statunitensi, specie negli ultimi cinquanta anni, e che dovrà essere perseguito in futuro, tutt’al più in coabitazione cooperativa/conflittuale bipolare sbilanciata, se si vorrà mantenere e sviluppare in qualche maniera l’attuale sistema globale di relazioni e connessioni. Si tratta, in pratica, di ciò che viene definito con il termine “multilateralismo” nel sistema di relazioni internazionali. È però una accezione non particolarmente radicata negli ambienti sindacali, in particolare italiani, se non in alcune componenti, nella fattispecie della CISL, non a caso, a suo tempo negli anni ‘50, di diretta emanazione vaticana e statunitense. Una osticità comprensibile in ambienti in cui prevale la funzione contrattuale e il cui gioco conflittuale/cooperativo con le controparti assume una valenza esistenziale.

È la seconda accezione di “globalismo” ad essere più congeniale alla rappresentazione, alle funzioni e agli schemi operativi di questi centri sindacali, pur essendo molto più vasta la platea attratta e mobilitata da questi schemi.

In questo compendio la liquidità, sempre più indifferente ai limiti posti dal territorio, dallo spazio, dal tempo e dal valore d’uso, tipici della tradizionale imprenditoria, è il connotato fondamentale del capitalismo; la sempre più ristretta congrega di capitalisti finanziari, dediti al movimento vorticoso dei flussi di liquidità, diviene la figura chiave e dominante del sistema in grado di determinare le sorti dell’economia, le prerogative di fatto progressivamente decrescenti e asservite degli stati, nonché gli enormi squilibri e le abissali ineguaglianze presenti sul pianeta forieri di conflitti e disastri. Una cupola tanto determinante delle sorti politiche, quanto sterile nella sua funzione parassitaria. Ad un gradino appena inferiore agiscono, secondo la rappresentazione, le multinazionali, queste ultime più legate alla realizzazione produttiva dei profitti, alle rigidità imposte dal capitale fisso (impianti), alle caratteristiche dei mercati, ma con la possibilità di giostrare allegramente nella competizione territoriale e di allentare questi legami e accrescere enormemente le possibilità di controllo con l’avvento di nuovi ambiti operativi, quali l’acquisizione e la manipolazione dei dati.

Una rappresentazione dalla enorme capacità attrattiva, il cui fascino dipende soprattutto dalla estrema facilità di individuazione dell’artefice delle cose del mondo e dell’avversario da additare ed esorcizzare. Una rappresentazione in grado di mobilitare da oltre quaranta anni masse e gruppi contestatori peregrinanti per il mondo in una sorta di rituale defatigante, quanto sterile; di spingere i centri politici contestatori o presunti tali, anche nelle loro espressioni più pragmatiche, ad inseguire le chimere del governo mondiale, dell’attribuzione di poteri effettivi ad organizzazioni sovranazionali che sono in realtà espressioni del potere reale di particolari centri decisori annidati negli stati egemonici piuttosto che di queste cupole, sino a cercare di adeguare le proprie strutture organizzative alla dialettica di queste chimere.

Alla capacità di suggestione di questa tesi, non corrisponde una analoga profondità di analisi sufficiente a fornire strumenti adeguati all’azione politica, tutt’altro.

  • Intanto bisognerebbe prendere atto che il capitalismo è ormai da tempo presente e dominante in tutte le formazioni sociali, comprese quelle definentesi ancora socialiste; continua ad essere privo di reali alternative credibili proprio per le sue capacità dinamiche e di adattamento ed anche di prospettive che riesce ancora ad offrire. Ha poco senso individuare nella contrapposizione tra formazioni capitalistiche e quelle di altra natura il motivo fondante dell’attuale conflitto politico e geopolitico; ancora meno lo si può fondare realisticamente sulla lotta di classe, sarebbe già meglio definirle di classi, quando in realtà sarebbe molto più esplicativo il conflitto e la competizione tra capitalisti e gruppi di essi gerarchicamente costituiti.

  • Restringere il focus e additare i magnati della finanza come i deus ex-machina in grado di manipolare i destini del mondo in funzione del loro profitto e della preservazione del ruolo parassitario serve ancor meno a circoscrivere efficacemente il bersaglio. Non è del resto un approccio inedito. Anche se l’ambito della finanza tende comunque ad assumere un ruolo particolare nelle fasi regressive di un attore egemone, attribuire una postura autocratica e dominante a queste componenti porta ad ignorarne la complessità ed articolazione, nonché la funzione positiva e propositiva all’interno del processo di accumulazione capitalistica e nel più ampio spazio di esercizio del potere politico. Intanto il settore finanziario è molto diversificato nei compiti e nelle funzioni; anche nei suoi nuclei più speculativi, assolvono comunque ad una funzione di drenaggio verso il centro e di condizionamento e penetrazione nelle periferie dei centri egemonici consolidati e in formazione. Basterebbe dare una occhiata poco più che distratta ai flussi verso il centro egemonico statunitense e al ruolo di tramite in queste dinamiche di paesi come la Germania, ampiamente sopravvalutate per la loro potenza effettiva. Si tratta, in realtà, anche in questo caso di coaguli di potere ben radicati nei centri egemonici, con strettissimi legami simbiotici con essi, dipendenti dalla regolazione e dalle normative e in aperta competizione tra di essi. La loro conclamata onnipotenza e la loro liquidità indifferente alle limitazioni di tempo e spazio subisce ancora dei limiti fisici pesanti, pur se con dinamiche e dimensioni storicamente mutate.

Se è vero, quindi, che la natura del modo di produzione capitalistico riesce a realizzare la propria azione cooperativa, più o meno forzata, nelle imprese attraverso soprattutto la competizione ed il conflitto nel mercato, è altrettanto verosimile che questa competizione delinea la formazione di centri decisori plurimi; che più aumenta la centralizzazione e la concentrazione, più l’azione e le decisioni di questi soggetti si allontanano dalla pura logica economica o politico-economica. In realtà quelli più importanti sono integrati a pieno titolo nei centri decisori politici, influiscono ovviamente a vario titolo ed intensità, ma devono sottostare a quelle logiche ed adattare la loro azione a quei perimetri.

Il modo capitalistico, del resto, plasma nel tempo le formazioni sociali e riesce anche a modificarne la forma mentis. Deve altresì adattarsi alle caratteristiche storiche, territoriali, politiche e culturali di queste, dimostrando una flessibilità e capacità di adattamento inedite nella storia. La stessa competizione economica, diventa essa stessa una competizione ed una imposizione di modelli.

Il capitalista, l’imprenditore, il manager, il finanziere, in quanto figure sociali e professionali dotate, per altro, di poteri di comando, tendono a formarsi una propria rappresentazione e a plasmare con essa l’ambiente. Devono fare i conti con altre rappresentazioni, specie quelle prodotte da decisori di diversa emanazione e trovare con essi punti di equilibrio e di sintesi. Riescono paradossalmente ad avere maggiore influenza nelle formazioni semiperiferiche, prive o carenti di protagonismo politico o di potere o nelle fasi, rare e temporanee, di egemonia incontrastata; la loro pervasività è deleteria nelle fasi di competizione e di conflitto egemonico sino a diventare un fattore drammatico di decadenza. Questo ovviamente al netto di manipolazioni ideologiche strumentali, così ben delineate ad esempio da analisti sagaci come Mearsheimer che conoscono benissimo i protagonisti e il modus operandi dei centri decisori statunitensi.

Per concludere il modo capitalistico di produzione fa parte e si inserisce pienamente nelle dinamiche più estese di conflitto e cooperazione politica, pur se con logiche in parte proprie. La sua conformazione e dinamica di riproduzione dipendono altresì da altre logiche e dalla particolare simbiosi di esse.

A mero titolo di esempio l’affermazione del modo capitalistico statunitense come il fallimento di quello sovietico sono dipesi dalle scelte politiche e geopolitiche; la loro capacità di innovazione tecnologica è dipesa dalla capacità di integrazione della ricerca scientifica ed applicazione tecnologica, in prevalenza militare, con le piattaforme industriali capaci di operare nella società civile. Fattore che ha reso economicamente e socialmente sostenibili le ambizioni politiche e geopolitiche, ma solo laddove l’integrazione e la sinergia è riuscita. L’agenzia DARPA statunitense, come quelle sorte in Cina, sono l’esempio più evidente della dialettica esistente tra i vari ambiti e nei centri decisori politici.

Questa lunga digressione può sembrare leziosa e ridondante rispetto al merito della produzione politica, programmatica e rivendicativa dei centri dirigenti sindacali, ormai sempre più asfittica ed incoerente; soprattutto se comparata con quella ben più ambiziosa ed incisiva, spesso per altro velleitaria e fumosa, di diversi decenni fa. Un giudizio confortato dalla frequentazione e conoscenza diretta, ai più alti livelli, di quegli ambienti di allora. Le cui tracce, però, permangono tuttora.

La lettura delle tesi e l’ascolto degli interventi congressuali delle tre confederazioni, per quanto tediosi, offrono ancora diversi spunti di riflessione inseribili nel contesto su specificato.

In ordine di grandezza e generalità dei problemi:

  • il tema della globalizzazione rappresenta la cornice fondamentale entro cui va inquadrata l’azione sindacale. Il paradigma adottato che il processo è determinato sia dalle dimensioni delle economie di scala, che dalle innovazioni tecnologiche legate ai flussi, che dalle dimensioni delle imprese e dei centri finanziari in una sorta di inerzia espansiva della velocità e del raggio di azione dei flussi e di capacità di intervento e governo di centri ed entità sovranazionali, per lo più mossi da interessi privati. La contromisura consisterebbe nella costruzione di entità politiche adeguate a coprire e regolare la dimensione e lo spazio dell’economia globalizzata. La dimensione ottimale ipotizzata sarebbe quella del governo mondiale cui far corrispondere organizzazioni sociali, nella fattispecie sindacali, di pari livello capaci di confrontarsi sia con le entità politiche che economiche di quella dimensione in una riedizione edulcorata e contrattualistica del vecchio internazionalismo

  • Nelle more il raggio ed il livello di azione ed organizzazione dovrebbe corrispondere alla dimensione degli organismi sovranazionali esistenti o in formazione. Il presupposto implicito di queste considerazioni tocca la presunta inadeguatezza della dimensione statale ad affrontare e cogliere la dimensione dei problemi. La realtà ci rivela sempre più che la globalizzazione non rivela altro che la dimensione e la gamma allargata dei campi di azione degli stati nazionali comunque destinati a rimanere gli attori principali e gli arbitri le cui prerogative hanno bisogno, piuttosto, di essere allargate e rese più incisive. Il corollario di questa presunzione è l’attribuzione a questi organi sovranazionali di poteri e prerogative che in realtà rimangono saldamente in mano agli stati e ai centri decisori in buona parte annidati in essi in grado di manovrarli ed orientarli pesantemente. Questo vale per l’ONU, per il FMI, per tutta la pletora presente nell’agone internazionale, ma anche per l’Unione Europea.

Le conseguenze derivanti dall’adozione di questo paradigma in termini di condotta politica sono enormi sia nella postura sulle politiche nazionali sia nell’atteggiamento e nelle condotte adottate nei confronti degli organismi sovranazionali.

  • Nella fattispecie della Unione Europea l’insieme del gruppo dirigente sindacale è affetto visibilmente dalla sindrome del lirismo europeista che impedisce di vedere la sua funzione precisa di subordinazione degli stati europei all’atlantismo e all’egemonismo statunitense, essendone in realtà fautori più o meno accesi ed entusiasti. Non si tratta solo di una postura di politica generale che impedisce di vedere la realtà delle politiche aggressive della NATO, di debilitazione delle politiche estere dei paesi europei, della genesi dei conflitti in particolare l’ultimo in Ucraina e il precedente contro la Serbia. Si tratta anche della particolarità delle modalità di creazione del mercato comune, della inibizione delle possibilità di sviluppo industriale ed economico dei paesi europei specie nei settori strategici, della permeabilità delle strutture finanziarie europee alle scorribande di quelle statunitensi. Ma aspettarsi da questi gruppi dirigenti una posizione appena critica ed autonoma su quest’ordine di problemi sarebbe troppo.

    Colpisce, piuttosto, la mancanza di analisi seria sulla funzione dei fondi strutturali, compresi quelli inseriti nel PNRR, e sulle forme di regolazione delle politiche di ricerca scientifica e tecnologica. Argomenti più congeniali e politicamente “accessibili” dei quali abbiamo già ampiamente trattato su questo sito. Nessuna lettura delle dinamiche innescate da queste politiche; nessuna analisi sulle conseguenze dei processi di polarizzazione e squilibrio interno creati da questi nei paesi europei. Niente che non cadesse nella mera rivendicazione quantitativa di maggiori investimenti. Pieno conformismo se non in timici accenni apparsi, ad esempio, nelle pagine più interne delle tesi congressuali della UIL ma con scarso seguito nelle conseguenze da trarne.

    Le critiche che vengono mosse sono, quindi, soprattutto di ordine quantitativo e di ulteriore spinta ed integrazione delle dinamiche già in atto.

    È la stessa qualificazione degli effettivi poteri attribuita a queste istituzioni a sviare le energie. L’azione essenziale della dirigenza sindacale dovrebbe quindi rivolgersi verso il governo nazionale ed investire i temi della sua incisività nel determinare le politiche europee, della sua presenza adeguata e attiva negli apparati burocratici, nella capacità di pressione, di contrattazione e di codecisione; tanto più che la stessa struttura produttiva del paese, fondata su piccole e medie aziende, è ancora meno in grado di influire per proprio conto sugli indirizzi di politica europea e più prosaicamente nelle pratiche lobbiste imperanti in quegli apparati.

  • La sudditanza politica ed ideologica non limita a questo gli aspetti deleteri dei comportamenti sindacali. Tutta l’impotenza e l’accondiscendenza manifestata nelle disastrose politiche di privatizzazione e cessione delle attività; tutta la sottovalutazione della necessità del mantenimento in Italia del controllo di indirizzo e gestionale delle aziende non hanno fatto che alimentare quella gestione disastrosa ed esterofila e il fenomeno, impressionante nelle dimensioni, della cessione o del trasferimento all’estero del controllo di gran parte delle stesse aziende private. Nei casi più paradossali, come quello della FIAT, con i peana di approvazione delle stesse vittime o presunte tali. La costante intangibile degli incontri rituali tra Governo e dirigenza sindacale si riduce stancamente al solito “di più” di investimenti ad integrazione dei fondi europei, piuttosto che a compensazione degli squilibri da questi creati con la conseguenza di accentuare ulteriormente le dinamiche innescate.

La conseguenza principale di questa impronta politico/ideologica è stata il decadimento progressivo ed inarrestabile della visione confederale delle politiche sindacali; probabilmente l’acquisizione più importante, pur con la sua buona dose di velleitarismo, della stagione sindacale degli anni 60/70. Il tentativo più o meno consapevole di costruire non solo la coesione politica interna al movimento operaio e sindacale, ma di legarla ad un progetto di costruzione nazionale comprensivo degli interessi e dei punti di vista di categorie diverse dal lavoro dipendente.

A questa involuzione ha fatto seguito, parallelamente e con un nesso causale stretto, il lento mutamento della postura sindacale nei suoi luoghi stessi di elezione: i posti di lavoro e le fabbriche. Da sindacato che aveva acquisito nei settori professionalizzati i propri punti di forza e di riferimento si è trasformato in sindacato dei “deboli” dalla postura vagamente tribunizia; con esso si sono impoverite le politiche salariali, sempre più orientate all’appiattimento legato al recupero del potere di acquisto dei settori più precari; è pressoché scomparsa una contrattazione seria sugli inquadramenti, mirata sulla loro corrispondenza con l’organizzazione del lavoro e sulla crescita professionale.

L’esatto presupposto per corporativizzare, laddove possibile, la difesa della propria condizione di lavoro e per ridurre la regolazione del mercato del lavoro ad una rivendicazione sterile di norme, non corroborate da politiche economiche favorevoli, ridotte sempre più a slogan impotenti.

L’elenco delle derive politiche potrebbe allungarsi a dismisura, a cominciare dall’approccio alle tematiche fiscali tutte incentrate su una visione manichea e moralistica del fenomeno dell’evasione fiscale piuttosto che del carattere vessatorio di un sistema che colpisce con diverse modalità sia il lavoro dipendente che quello autonomo.

Porterebbe però a rincorrere le tematiche ed i problemi.

Il nodo di fondo è che se i soggetti principali del confronto politico e geopolitico sono i centri decisori politici, di cui fanno parte anche gli agenti capitalisti e se gli stati sono destinati a mantenere, se non ad accrescere il loro ruolo nel confronto, anche le politiche sindacali devono essere ricondotte all’interno di un progetto serio di ricostruzione nazionale ed identitario. Quello deve essere il posto dove trovare lo spazio della difesa degli interessi popolari.

Le fughe in avanti, comprese quelle dal sapore vagamente internazionalista, per meglio dire cosmopolite, rischiano di trasformarsi drammaticamente nel loro opposto nel momenti di crisi aperta. Nella prima guerra mondiale abbiamo già conosciuto la trasformazione inopinata di quel fervore nel sostegno senza colpo ferire al bellicismo dei singoli contendenti.

La tradizione e la formazione politico-culturale di questi gruppi dirigenti, del tutto assimilabile a quella del nostro ceto politico partitico, certamente non li rende indenni da questo clamoroso trasformismo dettato dallo smarrimento rispetto agli eventi. Dal pragmatismo, attitudine notoria di questi ambienti, al bieco trasformismo il passaggio dei momenti critici è breve e repentino.

https://www.cisl.it/wp-content/uploads/2022/06/Mozione-Finale.pdf

https://terzomillennio.uil.it/wp-content/uploads/2022/10/Relazione-del-Segretario-generale-Pierpaolo-Bombardieri-2.pdf

https://www.facebook.com/100086492414055/videos/652967926339972

https://www.cgil.it/la-cgil/democrazia-e-partecipazione/xix-congresso-il-lavoro-crea-il-futuro/2022/06/22/news/materiali_congressuali-2195017/

UIL TESI-ESTESE-DEF-v.2

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE

Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.

A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.

Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.

Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).

L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).

Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.

Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.

C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si  vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).

Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).

È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello  all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.

Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.

C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.

L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

Teodoro Klitsche de la Grange

EUROTARTUFO II, di Teodoro Klitsche de la Grange

Tra i tanti commenti, rivelazioni, dichiarazioni (e anche confessioni) in relazione al Qatargate, mi ha colpito l’intervista ad un giovane eurodeputato del PD. Ciò perché sosteneva che gli esponenti del PD  (“campo largo”, cioè anche i passati ad articolo 1) erano stati finanziati dal paese arabo, in quanto erano i più decisi difensori dei “diritti umani”. Dove la necessità, per gli emiri, che fossero tali paladini ad asseverare la maturità liberale del Qatar.

Il ragionamento che ha una qualche consistenza (chi chiederebbe a Cicciolina di certificare l’illibatezza della figlia da maritare?) ha però tanti altri punti deboli. Ci aiuta a capirli il personaggio di Fra Timoteo nella “Mandragola”. Machiavelli descrive alla perfezione il “tipo” dell’:a) ipocrita b) in vendita. In primo luogo il frate è scelto per convincere Lucrezia all’adulterio perché è il confessore della donna e della madre: le quali hanno pertanto fiducia nella di esso santità e dottrina. E in effetti il primo requisito per essere corrotti è proprio quello di ottenere fiducia: un sant’uomo (o che pare tale) è quindi il prescelto per… far peccare Lucrezia.

Il secondo è che Ligurio e Callimaco sanno che è un corrotto, disposto a sostenere qualsiasi tesi, purché a pagamento. Per cui santità e dottrina sono strumenti  dell’arricchimento del frate. Il quale tra se e se meditando sull’incarico – accettato – di persuadere Lucrezia, dice “Messer Nicia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno, per diversi rispetti, sono per trarre assai” e proseguendo “perché madonna Lucrezia è savia e buona: ma io la giugnerò (convincerò) in sulla bontà”. Abusare della fiducia e ingenuità dell’interlocutore è la risorsa di frate Timoteo. Nel caso del Qatargate, e del carattere pubblico delle attività  da ingannare e l’opinione pubblica, presentando come opere di bene quelle che sono opere di soldi. Va da se che in tempo di secolarizzazione si ridimensiona (ma non del tutto) la giustificazione di fra Timoteo di usare il compenso della corruzione per fare “limosine”. Giustificazione che ricorre in tanti altri casi (attuali). E non è escluso che parte di quei soldi vadano alle ong messe su dal (principale) accusato. Anzi dal Sudafrica sono in arrivo novità sul punto. Aspettiamo, fiduciosi nell’intuito di Machiavelli.

Teodoro Klitsche de la Grange

Corte incostituzionale o incompetente?_ di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo. Giuseppe Germinario

640 giorni prima di pronunciarsi
Lo scorso 1° dicembre 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata
in merito alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale e della sospensione dal lavoro e dallo stipendio per gli operatori sanitari inadempienti all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19. Responso: “Le scelte del legislatore sull’obbligo vaccinale del personale sanitario sono non irragionevoli, né sproporzionate”.

Non intendo entrare nel merito dell’imparzialità politica della Corte . I meccanismi di nomina dei membri sono noti e ciascuno è in grado di giudicare se le nomine vengano fatte per garantire i cittadini o altri interessi di parte del mondo della politica.

La Corte si è dovuta pronunciare a seguito del ricorso fatto da uno dei soggetti aventi diritto. Lo aveva fatto il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, in una ordinanza del 22.03.2022, contro il Decreto Legge 44/2021 del 01.03.2021, successivamente convertito in legge il 28.05.2021, dopo che già il Consiglio di Stato si era pronunciato favorevolmente al provvedimento con la sentenza n. 7045 del 20.10.2021.
Per chi non ne fosse al corrente, il D.L. 44/2021 prevedeva la sospensione dal lavoro e dallo stipendio degli operatori del settore sanitario (compresi gli amministrativi), i docenti ed il personale della scuola, i militari e le forze di polizia.

Ora non vogliamo entrare nel merito della correttezza formale della sentenza, in quanto il sottoscritto non ha le competenze.
Come cittadino, per quel poco che ho studiato di educazione civica, so che la Corte Costituzionale è il massimo organo di garanzia a tutela dei cittadini contro eventuali violazioni della Costituzione da parte del legislatore.
Ovvero è un organismo che dovrebbe evitare che i cittadini subiscano a motivo di leggi non conformi alla Costituzione delle gravi privazioni dei loro diritti fondamentali sanciti nella prima parte della Carta, in primis il diritto al lavoro (art. 1), il diritto alla solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), eccetera.
Tutti diritti che, obiettivamente, sono stati limitati e ridotti dal D.L. 44/2021 e da moltissimi altri provvedimenti elaborati dal parlamento o dal governo durante il periodo della pandemia del covid-19. E questo fatto ha riguardato milioni di persone, che in questi 2 anni hanno subito danni economici molto rilevanti per la sospensione dal lavoro, nonché gravi danni alla salute per gli effetti avversi da vaccino. Al di là del merito della decisione, possiamo oggettivamente dire che si tratti di una questione molto rilevante.

Come cittadino constato che la Corte Costituzionale non solo non si è preoccupata di intervenire con urgenza per verificare la costituzionalità o meno di tutti i provvedimenti anti-covid, ma addirittura ha atteso ben 254 giorni per pronunciarsi, solo dopo il ricorso della Regione Sicilia, su alcuni di questi provvedimenti e ben 640 giorni dopo la pubblicazione del decreto legge.

Gli esperti di diritto mi risponderanno che è normale, che l’intervento della Corte Costituzionale può avvenire solo dietro richiesta di certi organismi della repubblica, che la Corte ha un calendario molto fitto di impegni, per cui le richieste che le pervengono hanno bisogno di tempi lunghi per essere trattate.
Io, da cittadino, rispondo che non è normale che dei provvedimenti legislativi così rilevanti, che:
– riducono per milioni di persone, e pesantemente, il diritto al lavoro
– che privano milioni di persone del diritto a potersi sostenere economicamente
– che obbligano di fatto milioni di persone a subire un trattamento sanitario contro la propria volontà
– che portano per mesi centinaia di migliaia di persone in piazza a protestare
Non è normale che il massimo organo di garanzia non intervenga con urgenza per verificare la costituzionalità o meno di tali provvedimenti.
Anzi, non è neppure normale che il Governo e il Parlamento, prima di emanare un decreto e votare una legge con tali gravi ricadute, non si siano neppure preoccupati di verificare se fosse costituzionale o meno e che la Corte Costituzionale non sia disponibile, in tempi ragionevolmente rapidi, a fare da supporto agli organi legislativi nel verificare la costituzionalità di un provvedimento rilevante.

Non stiamo parlando di provvedimenti che impongono di modificare (ad esempio) l’etichettatura dei salumi, ma di provvedimenti che hanno oggettivamente creato degli enormi problemi a milioni di cittadini, privandoli di diritti fondamentali riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Se anche quanto avvenuto è formalmente legittimo, non possiamo dire che sia “normale”.
Se il 1° dicembre la Corte Costituzionale avesse dichiarato la sostanziale incostituzionalità del D.L. 44/2021, milioni di persone si sarebbero ritrovate per ben 640 giorni “ufficialmente” private di diritti costituzionali fondamentali, senza essere state tutelate dal supremo organo di garanzia.
Se domani il governo di Giorgia Meloni emanasse un decreto incostituzionale che leda i diritti umani fondamentali di altri milioni di italiani, dovremmo ancora attendere altri 640 giorni prima che gli organi di garanzia dello stato dichiarino che è incostituzionale?

I tempi e le modalità di intervento della Corte Costituzionale a garanzia dei cittadini sono costituzionali o incostituzionali? Garantiscono i diritti fondamentali dei cittadini?
Non è sufficiente che i diritti siano garantiti formalmente, ma che lo siano fattivamente. Quindi i modi e i tempi dei pronunci

Legittimo e ragionevole non significa “scientificamente fondato”
La sentenza della Corte del 1° dicembre 2022 non ha rilevato degli estremi di incostituzionalità dei provvedimenti esaminati, né una loro “irragionevolezza“.
Secondo la Corte il supposto fine di tutelare la salute pubblica ha costituzionalmente giustificato i provvedimenti che hanno causato a milioni di persone la sospensione dal lavoro, la perdita dello stipendio ed il sostanziale obbligo di “vaccinarsi” con un farmaco per le persone che volessero evitare quelle conseguenze, anche se quelle persone lo ritenevano un farmaco non sicuro per la propria salute
La Corte si è pronunciata sia sulla legittimità costituzionale, sia sulla ragionevolezza.

Il requisito fondamentale di costituzionalità che avrebbe giustificato i provvedimenti è la “tutela della salute pubblica” (art. 32) La Corte ha stabilito che le supposte esigenze di salute pubblica devono prevalere sul diritto di una parte rilevante della popolazione a poter lavorare e mantenersi con il reddito del proprio lavoro, nonché la legittimità del trattamento obbligatorio, in quanto “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (seconda parte dell’art. 32).

Effettivamente, se in Italia ci fosse realmente una grave epidemia di peste bubbonica, con il rischio concreto della morte di 1/3 della popolazione, come avvenne alla metà del XIV secolo, e se davvero esistesse un farmaco in grado di evitare tutte queste morti, senza causare effetti avversi rilevanti, nessuno avrebbe dubbi sulla legittimità costituzionale e sulla ragionevolezza di provvedimenti legislativi che obblighino la popolazione ad assumere quel farmaco, pena la sospensione dal lavoro, dallo stipendio e magari anche dal diritto di circolare liberamente.

Viceversa, se in Italia non vi fosse alcuna pandemia, senza rischio alcuno di morte né di malattia grave per nessuno, sarebbe con ogni evidenza del tutto incostituzionale e irragionevole imporre a chicchessia l’assunzione di un farmaco per curarsi da una malattia che non costituisce un pericolo o sospendere milioni di persone dal lavoro per inesistenti ragioni di salute pubblica.
Lo stesso potremmo dire, persino in caso di epidemia conclamata di peste bubbonica, se il legislatore volesse imporre alla popolazione di curarsi assumendo cianuro di potassio, un noto veleno. Sarebbe a tutti evidente, anche ai membri della Corte, la contrarietà al diritto alla salute e l’irragionevolezza del provvedimento.

Ma…
Se arrivassero dei medici in televisione a sostenere che non esistono cure alla peste bubbonica, tranne che il cianuro di potassio, da assumersi in piccole dosi, secondo modalità approvate dall’autorità sanitaria, ripetendoci ogni giorno su TV e giornali che si tratta dell’unica cura possibile alla pandemia di peste bubbonica in corso…
Che cosa crederebbe la gente? Che cosa crederebbero i legislatori? Che cosa crederebbero i giudici costituzionali?
La paura di morire e la mancanza di cure efficaci, di fronte all’autorevolezza dei medici su TV e giornali potrebbero portare molte persone, compresi i membri della Corte, a ritenere “ragionevole” la proposta.
Questo anche se, scientificamente parlando, il cianuro di potassio continuerebbe a restare un pericoloso veleno.

Finalmente abbiamo centrato i termini della questione su cui i giudici costituzionali si sono pronunciati.
La legittimità costituzionale e la ragionevolezza dei provvedimenti legislativi esaminati non si fondano su questioni giuridiche, sulle quali la Corte è certamente esperta, ma su questioni che hanno a che fare con i fondamenti scientifici delle decisioni del legislatore e, se vogliamo, con la credibilità dei mezzi di informazione, che hanno il potere di far credere come vero qualcosa che potrebbe in realtà essere scientificamente falso.

La Corte Costituzionale ha emesso la sua sentenza del 1° dicembre 2022 dando per certo che la situazione sanitaria del paese, al momento dell’emanazione del D.L. 44/2021, fosse realmente della gravità dichiarata dal governo e che la soluzione proposta fosse realmente adeguata alla supposta gravità della situazione, ovvero che l’assunzione obbligatoria del “vaccino” per poter lavorare, fosse scientificamente l’unica soluzione possibile ed una soluzione priva di rischi di gravi effetti avversi per la salute.

La Corte non poteva avere le competenze (e probabilmente neanche la volontà, per evitare lo scontro con il potere politico) per pronunciarsi sui fondamenti scientifici dei provvedimenti legislativi esaminati. Si sono “fidati ciecamente” dei fondamenti di verità in base ai quali il legislatore ha deciso. Hanno giudicato “legittimo” e “ragionevole” il fatto che il legislatore si sia fidato dei propri consulenti scientifici, con la conferma di credibilità garantita dai mezzi di informazione.

Per diventare giudici costituzionali non è necessario conoscere il metodo scientifico, né l’epistemologia della Scienza di Karl Popper.
Né è necessario avere competenze sui metodi stabiliti a livello internazionale per la validazione dei farmaci e dei vaccini e sul rischio per la salute di milioni di persone se sottoposti a rischi di effetti avversi sconosciuti, causati da farmaci non sufficientemente testati.
Per essere nominato membro della Corte Costituzionale non è neppure necessario conoscere le tecniche della propaganda mediatica, anche se conoscibili da tutti leggendo i libri dei vari Edward Bernays e Walter Lippmann, per cui è altamente probabile che i membri della Corte vengano ingannati da chi manipola i mezzi di informazione di massa esattamente come succede alla maggior parte degli altri cittadini.
E’ solo il caso di evidenziare come il sostenere a priori che la propaganda non esista non è un approccio scientifico alla questione, ma fideistico (non ci credo, perché non potrebbero arrivare a tanto). L’approccio scientifico è verificare con il metodo scientifico ciò che TV e giornali scrivono.
I giudici costituzionali non sono neppure chiamati a conoscere i fondamenti della logica aristotelica e di un ragionamento rigoroso, il che potrebbero evitare loro di arrivare a conclusioni “ragionevoli” sbagliate, per vizio di ragione.
Allo stesso modo tutte queste competenze non sono richieste a coloro che fanno i legislatori, i quali, a loro volta, si fidano dei loro consulenti scientifici e dei mass media.

La brutta notizia per noi non è solo che la Corte Costituzionale non abbia saputo tutelare in questa occasione (come in diverse altre, peraltro) i diritti fondamentali di milioni di cittadini a poter lavorare, guadagnarsi uno stipendio per vivere e non doversi forzatamente inoculare un farmaco non sufficientemente testato, nonostante tutte le evidenze ed i dubbi provenienti dai dati scientifici reali (senza limitarci a quelli ritenuti dalle autorità pubbliche), come ben evidenziato nei dossier presentati dai vari avvocati come i benemeriti Mauro Sandri o Augusto Sinagra.

La brutta notizia è che i cittadini italiani, compresi i legislatori, non dispongono di alcun organo di garanzia che li tuteli dal fatto che i consulenti tecnici del legislatore forniscano informazioni scientificamente non fondate.
E non dispongono di alcun organo di garanzia che li tuteli dall’azione manipolatoria dei mass media che usano le tecniche della propaganda per diffondere informazioni false.
Se gli italiani disponessero di tali organi di garanzia, attualmente non previsti dalla “costituzione più bella del mondo”, i loro diritti fondamentali potrebbero certamente essere garantiti un po’ di più.
Nel frattempo, ogni volta che i consulenti tecnici del legislatore ed i mezzi di informazione, per una qualche ragione, offriranno informazioni oggettivamente (scientificamente) false, nessuno potrà tutelare i cittadini da violazioni, anche gravi, dei diritti costituzionali fondamentali.

Questa non è purtroppo solo una ipotesi teorica o un fatto raro, ma è probabilmente la ragione principale per cui in Italia i diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione sono, nella sostanza, sempre meno garantiti.

Rivolgo quindi un invito agli studiosi costituzionalisti affinché elaborino delle soluzioni di riforma migliorativa della Costituzione da proporre al Parlamento, introducendo nell’ordinamento istituzionale dei nuovi organi di garanzia indipendenti (come lo dovrebbe essere la Corte Costituzionale) e che non siano limitati alle sole competenze giuridiche, perché gli attacchi ai nostri diritti fondamentali non arrivano solo da violazioni formali dal punto di vista del diritto, ma anche e soprattutto da violazioni sostanziali, derivanti da falsi fondamenti tecnico-scientifici.
A poco possono servire organismi tecnici come il famoso CTS (Comitato Tecnico Scientifico) di nomina politica, senza che nessuno a nome dei cittadini abbia avuto modo di verificare le competenze e l’assenza di conflitti di interessi dei consulenti tecnici nominati.
Si tratta quindi di elaborare anche dei meccanismi di nomina che consentano di evitare questi problemi.

E se non sarà possibile riformare le attuali istituzioni, vorrà dire che, per tutelare i nostri diritti fondamentali, saremo obbligati a rifiutare le attuali istituzioni, per costituircene delle altre, scrivendo una nostra costituzione.
Perché, ricordiamocelo, la sovranità appartiene al popolo. Se lo vogliamo, abbiamo sempre la libertà di accettare o di rifiutare il sistema che ci governa, costituendone uno alternativo.

COLPA DI LETTA?_di Teodoro Klitsche de la Grange

COLPA DI LETTA?

È diventato un esercizio normale già da alcuni mesi prima delle elezioni politiche, prendersela con il segretario Letta, per il loro prevedibilissimo esito, disastroso per il PD, puntualmente verificatosi.

Intendiamoci: Letta ci ha messo del suo. Dalla proposta di aumento dell’imposta di successione per la “dote” ai giovani, al campo largo, che invece era, come prevedibile, stretto, ecc. ecc. Tuttavia farne carico al segretario appare viziato da un errore di valutazione sul quale è opportuno spendere qualche riga.

Partiamo da una considerazione: vi sono due modi estremi e opposti di valutare gli eventi storici: il primo è farne una conseguenza di fattori non individuali né dipendenti da scelte soggettive. Un esempio classico è la filosofia della Storia di Hegel per il quale questa è l’attuazione del piano della provvidenza. Lo spirito del mondo genera la storia; il ruolo dell’azione umana è così secondario, i protagonisti hanno successo in quanto attuano il piano della provvidenza. In questo senso il pensiero di Hegel è il tipo ideale della concezione “determinista”. L’altro è rapportare gli eventi a cause per lo più consistenti in attività (e passioni) umane. Così è stato interpretato come causa principale della caduta dell’Impero romano d’occidente il contrasto tra Ezio e Bonifacio e la conseguente perdita dell’Africa romana. In termini mediani, come nel pensiero di Machiavelli, si può pensare che se da una parte c’è l’influenza della fortuna, (quindi non riconducibile a una volontà di coloro che la subiscono) dall’altra c’è la virtù con la quale si limitano e s’indirizzano (almeno in parte) gli eventi causati dalla fortuna. E proprio quando la fortuna è avversa, occorre che i governanti siano più dotati di virtù.

A servirsi di tali strumenti interpretativi la tesi della scarsa fortuna del PD come dipendente dalla “colpa” di Letta non regge o regge come concausa limitata: un po’ perché tutti i suoi recenti predecessori quali Segretari hanno fatto altrettanti buchi nell’acqua; un po’ perché anche da questo, è confortata l’opinione opposta che sia la proposta politica del PD (ed i relativi mezzi) ad essere inadeguati e contrari alla “corrente” della storia contemporanea.

Come mi è capitato di scrivere più volte, con il crollo del comunismo è venuta meno la contrapposizione borghesia/proletariato con i relativi sentimenti politici.

La cui conseguenza è stata l’eclissarsi del senso politico (cioè dell’opposizione amico-nemico) e della funzione politica delle conseguenti istituzioni anche economiche e sociali. Come i partiti comunisti i quali o scompaiono e/o si mimetizzano o cambiano radicalmente (come quello cinese); od anche di istituzioni come la NATO e il Patto di Varsavia (logicamente sciolto) delle quali si capisce che ci stiano a fare: sicuramente a comunismo imploso non hanno la funzione di prima.

Tuttavia il sentimento politico cioè in primo luogo la percezione del nemico (anche come differenza etica) è elemento necessario non solo della guerra (Clausewitz) ma anche della politica (Schmitt). Senza di quello la politica (e il rapporto tra vertice e base) perde di tensione. Ed è progressivamente sostituito da un’altra contrapposizione amico-nemico: quella vecchia viene neutralizzata e ne diminuisce così la capacità di suscitare opposizioni decisive e primarie; tutt’al più conserva quella di suscitare conflitti relativi e secondari. E chi lo interpreta ne subisce la sorte: dal ruolo di protagonista decade a quello di comparsa.

La risposta del PD (e antecedenti) a questa cesura storica è stata quella di cambiare nome (anzi nomi): escamotage poco remunerativo perché da una parte i dirigenti erano gli stessi (quindi poco credibili) dall’altra elementi della vecchia opposizione erano conservati – soprattutto i più utili a tenersi il potere.

Dato però che un nemico era necessario e così delle idee da sventolare in sostituzione delle vecchie, o almeno di alcune (l’antifascismo ha resistito alla rottamazione) il nemico è diventato chi si oppone all’ideologia gender, alla famiglia nouvelle vague, chi è convinto delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, ecc. ecc. Rispetto al vecchio nemico, cioè l’imperialismo capitalistico, il minimo che si possa dire è che è un po’ poco: più che mettere paura, spesso fa ridere. Ovvero, come l’antifascismo – e l’anticomunismo – è depotenziato in se.

Tale situazione dipende dalla storia e gli uomini, in particolare i dirigenti italiani di sinistra, l’hanno subita e non causata. In relazione alla quale poco si può fare. Anche se il PD fosse stato guidato non da Fassino, Letta o Bersani ma da Cavour o da Bismarck (o come scriveva Hegel da Cesare o da Napoleone) l’esito difficilmente sarebbe stato diverso. Perché, come sostiene il filosofo, carattere distintivo degli individui cosmico-storici è di attuare lo spirito del mondo: è questo a renderli differenti dagli altri e capaci di padroneggiare i cambiamenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Stati Uniti, il dopo elezioni_Con Gianfranco Campa

Nella prima parte di questa conversazione abbiamo esaminato il voto, accennato ad una analisi sociologica, stigmatizzato le troppe manipolazioni che hanno alterato significativamente i risultati e contraddetto le previsioni. https://italiaeilmondo.com/2022/11/18/… E’ il momento di trarre alcune valutazioni sulle conseguenze di questo voto, partendo dalla incomparabile capacità organizzativa messa in campo dai democratici nel bene e, soprattutto, nel male per finire con le dinamiche che si innescheranno da questo esito. Mani sapienti agiscono intorno al bersaglio grosso da neutralizzare. Il bersaglio a sua volta non sembra attraversare un momento di particolare lucidità. Potrebbe costare caro ad un movimento molto più maturo e disincantato, altrimenti in grado di ostacolare l’avventurismo dell’attuale leadership statunitense. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1vwu6k-stati-uniti-il-dopo-elezioni-con-gianfranco-campa.html

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