27°-2 podcast_elezioni di medio termine, di Gianfranco Campa

Il 27° podcast di Gianfranco Campa è una autentica gemma; un pezzo di grande giornalismo degno di essere ospitato nelle più autorevoli riviste di analisi politica. Offre informazioni ed analisi introvabili nell’editoria più affermata. La grande stampa, però, è ormai schiava della peggiore e più ottusa partigianeria, condita da un livello di approssimazione sconcertante; offre rarissimi spazi ad analisi obbiettive ed approfondite. questo blog ha sottolineato più volte la crucialità della scadenza delle elezioni americane di medio termine sia per quella nazione che per le dinamiche geopolitiche. Sino ad ora si è soffermato soprattutto sulle vicende della Presidenza Trump, sul suo rapporto conflittuale, aspro con il Partito Repubblicano e con i settori maggioritari e più potenti dello Stato. A prezzo di pesanti cedimenti e compromessi del Presidente, ha tuttavia rivelato sì la forza di questi settori, ma anche la loro mancanza di una strategia coerente e di una prospettiva convincente tale da consentire il controllo accettabile della situazione e un recupero di credibilità. Una situazione che ha consentito l’acquisizione di un controllo accettabile del Partito Repubblicano da parte di Trump a costo però di una fronda disposta a tutto pur di affossarlo e ridurlo in minoranza rispetto ai democratici. La scadenza elettorale sta rivelando un accenno di strategia coerente del fronte di opposizione a Trump. Una strategia tesa a paralizzare il Presidente, presumibilmente, sino alla fine del suo mandato ma anche a controllare le possibili fratture che minacciano la tenuta anche del Partito Democratico americano. Si deve ricordare che la Clinton, in cambio del sostegno tiepido di Sanders, successivo alla vittoria fraudolenta alle primarie, ha dovuto cedere il controllo di ampi settori del partito in cambio della rinuncia all’astensione e ad una probabile scissione dei settori radicali di quel partito. La strada scelta è del tutto inedita e sorprendente; inquietante soprattutto. Si assiste, ormai, all’ingresso esplicito e massiccio nella scena politica di esponenti dello stato profondo. Una dimostrazione di forza e di debolezza allo stesso tempo. Per questo l’ascolto del podcast merita grande attenzione. La situazione in Italia e in Europa, del resto, dipende in gran parte dall’evolversi di questa situazione.

Qui sotto sono forniti i link ai quali fa riferimento Campa nel suo intervento e la lista parziale ma significativa dei candidati direttamente legati ai servizi di intelligence. Sono circa la metà del totale delle candidature alla Camera, al Senato e ai Governatorati. Se volete avete tutta la possibilità di approfondire e verificare l’attendibilità delle informazioni. 

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

CONSIGLIO AI ROSICONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONSIGLIO AI ROSICONI

Prima del 4 marzo l’establishment politico e culturale di sinistra stigmatizzava l’ “incultura, l’inesperienza e la rozzezza” dei populisti, in specie dei grillini.

Il tormentone è aumentato a dismisura con la vittoria elettorale e il varo del governo pentaleghista; anche la carriera accademica di un mite premier come Conte è stata passata al setaccio e così sono stati svelati alcuni peccatucci (veniali), ricorrenti in ogni percorso accademico. Allo stesso è stata poi addebitata l’inesperienza, considerato che, praticamente era rimasto sempre fuori dai giri che contano; e probabilmente questa è stata la principale ragione che ha indotto a nominarlo. Una compromissione plurilustre col potere, che è a giudizio dell’establishment capalbino, un titolo comporta, cosa di cui i suddetti non si rendono conto, anche quella con lo sfascio della seconda repubblica: pessima presentazione per l’elettorato pentaleghista. Tant’è. I rosiconi hanno forse rimosso, ma più probabilmente rimpiangono, i bei tempi in cui trovavano comode e confortevoli nicchie nei bilanci pubblici. E per gente che spesso ha fatto dell’interesse individuale (proprio) la regola dell’agire universale, il venir meno di queste, ovviamente addolora.

Così il movimento cinque stelle appare, nell’immaginario di Capalbio – ed in parte lo è – come un’armata Brancaleone: un insieme disordinato di emarginati dal potere e dalla cultura, rozzi, ignoranti (e opportunisti), guidati da un comico.Inadatti a governare, come a discutere e brillare nei salotti.

Come detto qualcosa di vero c’è, ma occorre non trascurare come, in primo luogo, il livello della classe dirigente negli ultimi trent’anni ha avuto uno scadimento geometrico (nel senso della radice quadrata): un Di Maio steward, è stato preceduto da una Fedeli, ministro dell’istruzione, la quale in comune con Benedetto Croce, aveva di non essere laureata. Purtroppo per lei, i connotati comuni col filosofo si riducevano a quello. Quanto poi abbia contribuito al declino di qualità dei parlamentari, il tentativo ricorrente (e “vincente”) delle diverse leggi elettorali, di farli nominare dai vertici dei partiti più che scegliere dalla base elettorale è sicuramente influente e da valutare nel senso che non sempre è il popolo a sbagliare.

Ma quel che più importa è notare come sia in politica che in quel mezzo della politica che è la guerra, è la qualità del nemico a determinare quella del combattente.

Facciamo un esempio.

Pareto ironizzava su Napoleone III°, perché incerto e (addirittura) ingenuo, tuttavia all’immagine dell’Imperatore (per i postumi) ha contribuito d’esser stato sconfitto – ed aver perso il trono – da un genio della politica come Bismarck e da una perfetta macchina da guerra come l’esercito prussiano. Che giudizio avrebbero formulato i posteri se a sconfiggerlo e detronizzarlo fosse stato un politico di mezza tacca alla guida dell’esercito del Lussemburgo? Anche a Francesco Giuseppe che perse quasi tutti i domini italiani dell’Impero in pochi anni, contribuì non poco di aver avuto come avversario un altro genio come Cavour: e morì circondato dall’affetto e dalla considerazione dei sudditi. Lo stesso avviene per la guerra: il nome di Scipione è noto a tutti perché sconfisse Annibale – il più grande condottiero dell’antichità – a Zama; nessun ricorda il nome dei consoli (Salinatore e Nerone) che qualche anno prima avevano vinto Asdrubale (il fratello meno dotato di Annibale) al Metauro, battaglia non meno decisiva di Zama. Sconosciuti come i consoli suddetti sono i nomi di quei generali delle potenze europee che nel XIX secolo conquistarono tutta l’Africa, debellando le orde tribali autoctone.

Pertanto la spocchia della sinistra conferma, non volendo, due circostanze.

La prima che se l’armata Brancaleone dei grillini  (oltretutto poco “aiutata” e dotata di mezzi) ha vinto la “gioiosa macchina da guerra”, ciò significa che gli italiani ne avevano così piene le scatole di questa da preferire un insieme di ….sfigati a tanto brillante accademia. Chi è ridotto male spera nei salvatori meno probabili, che preferisce a coloro in gran parte responsabili di averlo rovinato.

La seconda che se tale armata Brancaleone, povera di mezzi e appoggi, li ha ridotti così a mal partito vuol dire che non erano poi così bravi, intelligenti ed efficienti. Non sono Bismarck né Scipioni, ma dei Dumford o Baratieri (sconfitti il primo dagli Zulu, il secondo dagli abissini). E per la loro immagine sarebbe bene ne tenessero conto.

Teodoro Klitsche de la Grange

27°-1 podcast_elezioni di medio termine, di Gianfranco Campa

Raramente, nei settant’anni di vita politica della Repubblica Italiana, le incertezze del conflitto politico negli Stati Uniti si sono riflesse in maniera così diretta nel nostro contesto nazionale come oggi. Gran parte delle fortune presenti e future del Governo Conte, pur tra tanti errori e difetti di impostazioni spesso grossolani, dipendono dalla sopravvivenza se non dall’affermazione dell’attuale leadership americana. Le elezioni di medio termine della Camera e del Senato statunitensi segneranno probabilmente un punto di svolta in un senso o nell’altro. Solitamente rappresentano una scadenza enfatizzata mediaticamente, ma dalle conseguenze poco rilevanti nella concretezza del confronto politico. Questa volta è diverso. Non a caso l’avvicinarsi dell’appuntamento è accompagnato da una serie di atti intimidatori di estrema gravità nei confronti di singoli esponenti politici della compagine conservatrice prossima al Presidente apparsi nella stampa nazionale americana e del tutto ignorati in quella europea. L’atteggiamento tattico adottato dalla compagine democratica e neocon teso a sopire lo spirito di militanza dello schieramento avverso non deve trarre in inganno. Di questo il blog renderà conto prossimamente. Sta di fatto che, per tornare a casa nostra, tutte le vecchie classi dirigenti europee sembrano in attesa di un evento salvifico che consenta loro di tornare rapidamente in sella. Gianfranco Campa, da par suo, nel frattempo ci illustra le varie possibilità che si potranno verificare in base all’esito di queste votazioni e, soprattutto, nella seconda parte ci svelerà alcuni risvolti inquietanti delle scelte di parte democratica riguardanti le candidature. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-27-1

Giuseppe Conte, Avvocato degli Italiani? Badi a Vincere a Genova_ di Piero Laporta

tratto da http://www.pierolaporta.it/giuseppe-conte-avvocato-degli-italiani-badi-a-vincere-a-genova/

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio stanno compiendo errori strategici gravi, tuttavia ancora rimediabili, a patto di dare un’immediata sterzata al modo di fronteggiare il crollo del ponte di Genova.

La politica e il potere si reggono su due pilastri: le risorse e il consenso. Quest’ultimo è più fragile del ponte genovese e, come si sa,  mutevole di suo. Esiste tuttavia un elemento che – ben più d’ogni altro – determina repentini mutamenti del consenso: il sangue, la morte di innocenti. Tutte le rivoluzioni cominciarono a causa di guerre con spargimento di sangue innocente, per stragi  di popolazioni inermi o altre analoghe sconcezze.

Da mezzogiorno del 14 agosto, quando crollò il ponte Benetton a Genova, il sangue di 43 innocenti, schiacciati dal calcestruzzo malato è stato come un cannoneggiamento di gente inerme: chiunque sia in buona fede s’è reso conto che negli ultimi venti anni sono state svendute non solo le ricchezze dell’Italia ma anche le vite dei cittadini. Quel crollo è tuttora in grado di scatenare uno tsunami da travolgere e distruggere definitivamente, cancellarli dalla scena politica, il Partito Democratico e Forza Italia, primi responsabili dello sfascio e del crollo dell’Italia. Ebbene, questo governo è stato deviato, frenato prima che lo tsunami si scatenasse.

Mercoledì 15 agosto – il giorno successivo alla catastrofe genovese – 170 migranti erano nelle acque maltesi. Alle 3.40 della notte qualcuno – senza consultare il governo – ha dato uno strano ordine a due unità della Guardia Costiera italiana, affinché intervenisse a 17 miglia nautiche da Lampedusa per caricare i migranti. Circa cinque ore dopo, alle 8.20, è intervenuta nave Diciotti che ha imbarcato 177 migranti, all’insaputa del governo.

Se le due motovedette si fossero dirette – come è stato sempre fatto in casi analoghi – verso Lampedusa in condizioni di sicurezza, si poteva accendere il solito contenzioso con Malta e attendere la composizione da parte dell’Unione Europea. È arrivato invece l’ordine di trasferire i migranti sulla Diciotti e questa, portandosi a Catania, si è messa sotto l’occhio delle telecamere del mondo. È giunta a Catania, senza entrare nei porti di Pozzallo e Augusta, sui quali vige la competenza delle procure di Ragusa e Siracusa, note in passato per posizioni tolleranti verso l’immigrazione. Chi ha consigliato di andare a Catania sapeva che Luigi Patronaggio, procuratore capo di Agrigento, aveva pianificato di recarsi nel capoluogo etneo, per un’ispezione a bordo della Diciotti? All’ispezione è conseguita l’indagine per sequestro di persona, sostenibile proprio dalla procura di Agrigento.

In altri termini, dal giorno successivo al disastro di Genova, le prime pagine, invece di concentrarsi sui 43 morti ammazzati dal ponte crollato, sono state condivise con la Diciotti e Patronaggio. A  partire dal 18 agosto, dopo quattro giorni dal crollo, sfumate le cronache dei funerali, la Diciotti ha cancellato il crollo di Genova.

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, questo è dilettantismo grottesco, neppure scusabile con l’inesperienza di governo.

Si dirà che il governo non vuole esporsi ad accuse di sciacallaggio. Le accuse di sciacallaggio sono arrivate comunque, intanto però il governo – mettendo in ombra il disastro genovese, a vantaggio della Diciotti – trascura l’interesse dello Stato, trascura l’interesse delle 700 famiglie di sfollati, trascura l’interesse delle famiglie dei 43 morti ammazzati.

Il governo, smetta di autocompiacersi per gli applausi ai funerali. Il governo smetta di lamentarsi per l’indagine a carico d’un suo ministro, mentre nessun indagato risulta dopo il crollo del ponte. Vogliamo scoprire oggi che certa magistratura fa politica? Questo non toglie che si debba agire con la risolutezza imposta dalla situazione e consentita dal potere governativo e politico, più vasto di quanto sia stato dispiegato sinora. Se Patronaggio prevale è solo responsabilità dell’autorità politica, in quanto controparte inerte. Il governo smetta di porre in cima alla sua agenda vicende artefatte come quelle della Diciotti; vicende artefatte a dodici ore dal crollo, facendosi prendere per i fondelli in modo elementare. Il governo proceda piuttosto e senza indugio a nominare un collegio di difensori, costituendosi parte civile e invitando ad associarsi come parti civili le famiglie degli sfollati, quelle dei morti, il comune di Genova e tutti i cittadini e le imprese in qualche modo coinvolti nel disastro.

Solo un gruppo di pressione siffatto può ottenere il risultato di controllare l’operato della magistratura genovese, risalendo alle responsabilità, per esigere risarcimenti non solo da Autostrade, ma da tutti i ministri delle infrastrutture, dai capi di governo e dalle burocrazie corresponsabili del disastro.

La concessione ad Autostrade è uno degli aspetti del problema, ma non è “il problema” nella fase di indagine sulle responsabilità. Alla magistratura genovese l’onere di stabilire se il disastro sia colposo o doloso. Il disastro tuttavia rimane: è un dato di fatto incancellabile, qualunque cosa dicano e facciano i ministri delle Infrastrutture da Antonio Di Pietro a Graziano Del Rio. Il governo ha il dovere verso se stesso, verso lo Stato e verso tutte le vittime, sopravvissute e non, di fare tutto il possibile perché, sotto l’occhio d’un collegio di esperti difensori, il diritto e la giustizia coincidano e siano salvaguardati. Di certo tale salvaguardia non ci sarà se si rimane inerti mentre si fanno affiorare documenti come la lettera – pubblicata da L’Espresso e sequestrata(!) dalla procura – datata 28 febbraio 2018, con la quale la Autostrade avvertiva il ministero delle Infrastrutture e il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova sullo stato critico del viadotto. Deve essere chiaro che tale documento non alleggerisce la posizione di alcuna delle parti in causa, tutt’altro.

Il consenso, come s’è detto, può essere cancellato repentinamente dal sangue, dalla morte di innocenti. Questo può accadere, anzi accadrà senz’altro, per quanti abdichino al dovere di difendere efficacemente quel sangue e quegli innocenti. L’unica vittoria efficace sarà l’individuazione dei responsabili e il risarcimento a loro carico di tutte le vittime del viadotto di Genova. Altro che profughi, Diciotti e Patronaggio. Se ne ricordi chi entrò a palazzo Chigi autonominandosi “avvocato degli italiani”. www.pierolaporta.it

L’ANNO CHE VERRA’ E’ UN DEJA VU, di Antonio de Martini

Qui sotto un frizzante testo di Antonio de Martini. Alcune domande. Il quadro prospettato è del tutto verosimile; la trama tessuta dalla vecchia classe dirigente, sconfitta elettoralmente, ma predominante negli apparati istituzionali è adeguata al nuovo contesto politico?_Giuseppe Germinario

L’ANNO CHE VERRA’ E’ UN DEJA VU

Ispirato dalla atmosfera campagnola in cui vivo, mi sono chiesto quali siano o saranno i frutti di questo strambo governo.

I soli risultati certi sono la distruzione sicura di ogni ipotesi di un governo moderato di centro destra in grado di vincere le elezion e la contemporanea nascita di un forte partito di destra estrema.

In questo disegno c’è un elemento di bene e uno di male. Il bene è la distruzione di Berlusconi come personaggio politico e di conseguenza di “Forza Italia” che tornerà ad essere uno slogan sportivo.

Il male è che i governi moderati orientati a una politica di destra moderata saranno impossibili per lungo tempo. A destra si sta sostanziando l’ipotesi di un robusto partito di destra estrema cui il buon senso degli italiani non affiderà mai le redini del governo. A sinistra si sta predicando una ” strategia dell’attenzione” verso i 5 stelle.

Si tratta , a mio avviso, di un disegno preordinato cui sono tutti attivamente coinvolti, interessati e consapevoli.

I SEGNALI

a) Il movimento 5 stelle e la Lega stanno lasciando tranquillo il PD che sta riprendendo alla mano i suoi iscritti e simpatizzanti, così come la lamentela opposta che ” l’opposizione non esiste” significa che il PD – che sappiamo tutti esistere eccome- non attacca il governo, ma il solo Salvini, fortificando così la sua immagine di estremista di destra. ( si noti che nella Lega giovanile aveva creato il “gruppo comunista”). Da destra, al massimo si attacca il LEU, un piccolo lebrosario creato in laboratorio. La sinistra ha appaltato l’opposizione al venerando Cassese che mostra un attivismo notevole per l’età.

b) Di Maio, sta compiendo una serie di gesti ” di sinistra” come l’essersi scusato com Mattarella, aver privilegiato ” i lavoratori”, e aver reintrodotto il discorso “nazionalizzazioni”, aver scavalcato i sindacati sulla vicenda ILVA ecc. Tutti temi che ” suscitano l’attenzione della sinistra”. Si stanno creando le premesse di un connubio tra i 5 stelle e il PD.?

c) nessuno si è mai chiesto come mai la Lega si sia trasformata da movimento secessionista in movimento nazionalista senza nemmeno un dibattito sulla Padania o altro fogliaccio e senza un commento nemmeno dei giubilati interni.

d) nessuno si è mai posto il quesito di come mai Lusetti ( tesoriere della Margherita) si è appropriato di 50 milioni e ha transato per una ventina , mentre la magistratura ha posto una ipoteca di 50 milioni sulla Lega intera. Gli sceneggiatori non si fidano e hanno trasformato un reato individuale in reato di partito a garanzia del rispetto degli accordi?

Considererei io stesso questo post una farneticazione dietrologica se non avessi visto coi miei occhi la lettera , firmata dal generale de Lorenzo attestante che , per ordine dell’on Taviani, ministro dell’interno, aveva consegnato 250 milioni di lire all’on Almirante per consentire a lui di fare la parte dell’ “uomo nero” e agli altri di unirsi contro il “pericolo fascista”.

i meriti del Governo Conte_ In appendice le implicazioni della tragedia del crollo del Ponte Morandi a Genova, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/20/costruttori-di-ponti-di-giuseppe-germinario/

Siamo a poco più di due mesi dal varo inaspettato del Governo Conte. Inaspettato almeno per gran parte dei collaboratori di Italia e il Mondo, compreso chi scrive. Una sorpresa dettata dal diverso punto di vista da cui siamo partiti noi nel tentativo di individuare le tendenze culturali e politiche di fondo che stanno portando ad una destrutturazione e ad una ricomposizione delle forze politiche rispetto a quello adottato dai protagonisti in campo sulla base di esigenze tattiche immediate suggerite dalla contingenza delle scelte e dei comportamenti. Una discrasia ben illustrata da Roberto Buffagni nella sua ultima cristallomanzia. L’epilogo sorprendente è stato certamente assecondato se non proprio indotto da una particolare congiunzione astrale che ha ispirato le mosse partigiane e suicide del Presidente della Repubblica e riesumato il residuo spirito di sopravvivenza di un ceto politico, sconfitto elettoralmente e in drammatico debito di credibilità, fermatosi appena in tempo sul precipizio del peggior trasformismo. Tanto più che un eventuale accordo del PD piuttosto che di Forza Italia con il M5S avrebbe richiesto il sacrificio plateale di Berlusconi e di Renzi, le anime e le colonne portanti dei due partiti.

L’istinto di sopravvivenza e il predominio del punto di vista tattico dei personaggi in campo non sono però sufficienti a giustificare e determinare l’epilogo.

Un orizzonte più definito e più profondo può essere senz’altro offerto partendo dall’alto, puntualizzando il grande e inedito attivismo e l’inusuale impegno mediatico profuso dai promotori delle due internazionali o presunte tali, quella globalista guidata da George Soros già ampiamente consolidata e quella sovranista impersonata da Steve Bannon, entrambi americani. Un punto di osservazione che meriterà una apposita riflessione.

In questo articolo si partirà piuttosto dal punto di vista degli attori nazionali e dalle dinamiche più o meno calcolate innescate dai loro atti.

Il grande gioco geopolitico è certamente al di fuori della portata del nuovo governo, come del resto dei precedenti ormai da parecchi decenni a questa parte.

Non è un caso che il Segretario di Stato americano Pompeo, nel suo viaggio preparatorio del recente incontro con Putin in Finlandia, oltre alla Gran Bretagna abbia toccato solo Roma; nel suo incontro capitolino ha incontrato Conte, Di Maio e Salvini, dedicando a quest’ultimo le maggiori attenzioni e sottolineando con reiterata fermezza che l’intero ambito dei rapporti con la Russia, comprese le sanzioni, deve essere gestito in prima persona dalla presidenza americana.

Ciò non ostante il Governo si avvia a fungere da vera e propria cartina di tornasole in grado di mettere quantomeno a nudo l’ipocrisia, la precarietà e le debolezze del contesto nazionale e di quello euromediterraneo.

Su alcuni temi secondari, rispetto agli interessi ed indirizzi strategici, ma molto importanti rispetto ai processi di formazione dell’opinione pubblica e della coesione sociale, è già possibile verificare l’impronta e l’impatto iniziale dell’azione politica. Appunto perché secondari, sono ambiti nella cui azione si possono acquisire maggiori margini di autonomia.

 

IMMIGRAZIONE

Il primo banco di prova scelto dal Governo si è rivelato un pieno successo. Gli sbarchi sono crollati drasticamente. Si vedrà per quanto tempo. Attualmente le organizzazioni sono impegnate a cercare percorsi alternativi verso paesi più accondiscendenti oppure a riorganizzare le traversate in modo da arrivare direttamente ai punti di sbarco. Ci vorrà tempo per ritessere le fila di una organizzazione ormai abituata da anni ai salvataggi facili se non addirittura commissionati. Una volta ripristinata non farà però che innalzare il livello di scontro sempre che auspicabilmente il Governo riesca a mantenere la giusta determinazione.

Rimane il problema della gestione dei rimpatri e delle grandi sacche di lavoro nero e di malaffare. Ci vorrà tempo, i recenti fatti di Macerata, Moncalieri e Foggia dovrebbero riuscire a dare una ulteriore spinta; non mi pare che ci siano grandi movimenti organizzativi in proposito. Rimangono purtroppo alcuni punti oscuri da risolvere come il comportamento di ampi settori di comando della Marina Militare particolarmente propensi alle politiche di “accoglienza”.

È sul piano europeo che sembrano raggiunti i migliori risultati politici, sia pure ancora interlocutori. La richiesta di condivisione della gestione ha messo a nudo la spaccatura netta latente tra gli stati nazionali; gli accordi su base volontaria hanno rivelato una volta di più che l’Unione Europea consiste fondamentalmente in un accordo solvibile tra stati nazionali e il surrettizio passaggio dai cosiddetti “rapporti di cooperazione rafforzata” a quelli “su base volontaria” non fanno che accentuare questo aspetto e questa divaricazione dai propositi unitari. La solidarietà su base volontaria si sta rivelando in tutta la sua ipocrisia nei tentativi di rifilare le maggiori quote ai paesi dai governi per qualche motivo più accondiscendenti, come quello spagnolo. Una soluzione che si rivelerà presto una mina vagante in grado di destabilizzare ulteriormente quel Governo già fragile. Rimangono la meschineria sempre più sciatta della leader tedesca dei “volonterosi” impegnata più che altro a tentare di rifilare ai paesi europei originari di prima accoglienza gli ultimi arrivi indesiderati e le rodomontate di Macron, imperterrito nelle sue politiche di destabilizzazione nel Mediterraneo pressoché a costo zero per il suo paese. Può rivelarsi, quello della solidarietà europea, nel medio termine un boomerang che arrivi ad alimentare e legittimare i flussi migratori illegali e incontrollati. Un argomento che verrà affrontato nell’articolo che esaminerà il futuro del Governo Italiano dal punto di vista delle dinamiche geopolitiche.

RAI E SISTEMA DI INFORMAZIONE

Le elezioni del 4 marzo e la formazione a giugno del nuovo governo hanno accelerato un processo di stretta normalizzazione del sistema di informazione tradizionale.

Già prima delle elezioni l’ipotesi di un governo costruito sull’asse Renzi-Berlusconi era servita da guida agli indirizzi editoriali del Gruppo Mediaset e dei quotidiani legati al gruppo.

Con la svolta politica di primavera quella ipotesi è rimasta sorprendentemente all’ordine del giorno. La7 ha accentuato scandalosamente e sfacciatamente, specie nelle ore serali, la propria partigianeria filopiddina; Mediaset da par suo ha epurato i propri staff con il benservito a Belpietro, uno dei due esempi di editori autonomi in Italia e Giordana affidando la redazione di un canale in quota renziana.

La nomina di Marcello Foa a consigliere d’amministrazione, in predicato di diventare Presidente della RAI, ha rappresentato il classico significativo intoppo nella realizzazione del progetto. La canea e la sollevazione di scudi del vecchio establishment politico e dell’universo mediatico sono impressionanti. Mettere in discussione così rozzamente l’integrità, la capacità professionale e l’attitudine alla funzione di garante di un tale professionista, senza alcuno scrupolo nella rimozione di condolidati rapporti di lavoro ultradecennali, ha rivelato il legame simbiotico del sistema informativo con i centri di potere sempre meno credibili e sempre più smarriti. Anche su questo il comportamento del “liberale” Berlusconi è emblematico sia dello stato dell’arte che della statura dei personaggi.

La stampa e la televisione non detengono più il monopolio dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica, ma sono ancora uno strumento importante e con una gerarchia precisa che consente una manipolazione controllata. Le reti di informazione e socializzazione telematiche sono canali alternativi sino ad ora efficaci anche se caotici e pletorici, quindi dispersivi e propensi a creare nicchie. I sistemi di manipolazione, legati per lo più al controllo dei server centrali di trasmissione e gestione dei dati, sono indiretti e sofisticati, legati alla manipolazione degli algoritmi che decidono della facilità di accesso. Strumenti al di fuori della portata di azione dei ceti politici periferici i quali devono accontentarsi di attività di disturbo e di segnalazione, il più delle volte pretestuosa. Anche qui la via della censura e dell’oscuramento si sta aprendo con minori vincoli legali e possibilità di contrasto delle decisioni. La recente chiusura di infowars, negli USA, rappresenta un primo grave segnale; le ricadute di credibilità sui gestori delle reti sono però molto pesanti.

Sta di fatto che la vicenda ha contribuito a mettere a nudo il complesso sistema di relazioni e manipolazione del sistema informativo e a far venire allo scoperto le reti coperte di collusione.

IL DECRETO DIGNITA’

È forse il provvedimento dalle implicazioni più significative in grado di mettere in evidenza le debolezze di fondo delle due forze politiche e la loro capacità di superarle.

Se con il “job act” Renzi ha voluto sancire una prova di forza con il sindacato, indebolendone strutturalmente la capacità di contrattazione collettiva e di gestione dei contenziosi individuali, con la limitazione e giustificazione dei contratti determinati e la reintroduzione dei voucher presenti nel “decreto dignità” il sindacato è rimasto paradossalmente ai margini anche in un tentativo di avanzamento dei diritti dei lavoratori dipendenti. È proprio il concetto di autonomia sindacale ed autonomia contrattuale, quindi delle modalità di contrattazione, così come imposto dalla CISL ed acquisito da tempo ormai dalle due altre organizzazioni, che sta venendo meno. I tempi di un intervento legislativo diretto sulla questione della rappresentanza e della titolarità dei diritti di contrattazione, sino ad ora prerogative gelosamente detenute dalle associazioni sindacali, sono ormai maturi. Le ragioni sono oggettive, legate ad una frammentazione del mercato del lavoro difficilmente gestibile con i tradizionali strumenti di azione sindacale; sono anche soggettive, con un gruppo dirigente autoreferenziale, legato sempre a doppio filo con il vecchio ceto politico e sempre meno rappresentativo di una base sindacale dagli orientamenti politici sempre più incompatibili e lontani da essi.

Il merito dei provvedimenti legati ai lavori occasionali e ai contratti a tempo determinato colgono un problema reale. Da una parte la presenza di lavori occasionali e la necessità di una loro copertura assicurativa e previdenziale cui associare in qualche maniera il riconoscimento di una pensione sociale oggi concessa indiscriminatamente e oggetto di clamorose speculazioni assistenziali specie tra gli immigrati. Dall’altra il fatto della estensione abnorme del contratto a tempo determinato anche in settori ed aziende nei quali l’oggettività di un rapporto continuativo è lapalissiana. La canea organizzata in maniera scontata da Forza Italia e settori di Confindustria e apparentemente paradossale dal PD rivela il carattere ormai opportunistico, retrivo e reazionario di queste forze, tanto più evidente in quanto permangono i pesanti limiti imposti dal job act in materia di giusta causa nei licenziamenti individuali e di regolamentazione delle procedure dei licenziamenti collettivi. Un atteggiamento che dice tutto sulla incapacità di queste forze di proporre una rinascita qualitativa del paese. L’illusione d’altro canto permane ben riposta nella speranza che sia la mera regolamentazione normativa a risolvere il problema della diffusione del lavoro precario e illegale.

Dal versante delle imprese il provvedimento coglie un altro punto debole delle precedenti politiche, quello delle delocalizzazioni e dell’uso opportunistico degli incentivi agli insediamenti. Si tratta però ancora di un atteggiamento passivo utile a contenere gli atteggiamenti predatori. L’aspettativa implicita è che ciò creerebbe spazi all’arrivo di imprenditoria cosiddetta sana. Anche su questo l’opposizione ha rivelato un atteggiamento del tutto supino alle dinamiche di mercato. Rimangono però i limiti della mancanza di una politica economica attiva che punti allo sviluppo di nuova e più grande imprenditorialità radicata nel paese e di nuovi settori da costruire e ricostruire prima che scompaia definitivamente la memoria e il patrimonio di conoscenze. Eppure nel mondo sono ormai numerosi i paesi emersi dal sottosviluppo con queste politiche. Gli stessi Stati Uniti stanno ripensando drasticamente politiche di tutela del patrimonio tecnologico, di compartecipazioni che favoriscano l’imprenditoria locale che per altro sono state liberale in modo selettivo.

QUI PRO QUO

In realtà il ceto politico emergente, presente soprattutto nei due partiti di governo fatica ancora a pensare che non esistono classi, ceti e settori sociali portatori di per sé di innovazione, distruzione creativa e di emancipazione, fossero anche i settori imprenditoriali più dinamici o gli ambienti sociali più precarizzati. Una fatica legata all’infatuazione persistente verso le politiche “dal basso” e verso le virtù innate del popolo sia nella sua versione democraticista che federalista strisciante.

Il sentore di questo limite per fortuna inizia a serpeggiare in settori di questo ceto politico emergente, nella Lega molto più che nel M5S.

L’ipotesi di riorganizzazione della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) orientata al finanziamento della media e piccola industria rappresenta un indizio di tale presentimento più che una consapevolezza. Ma è un obbiettivo ancora estemporaneo che prescinde da un piano di rientro dall’estero del debito nazionale, di recupero ad uso interno della raccolta del risparmio, di creazione di un apparato tecnico in grado di progettare e gestire le grandi opere pubbliche e i processi di industrializzazione e formazione di imprenditoria completamente distrutto e disperso negli anni ’90, dopo il pesante degrado subito negli anni ’80. Manca la consapevolezza del ruolo strategico della grande industria nei settori di punta e dell’importanza del controllo e della riorganizzazione degli apparati pubblici e statali con una definizione chiara delle gerarchie.

Una consapevolezza paradossalmente più presente e razionale all’estero visto che mi è capitato di leggere alcuni articoli di riviste specializzate americane che sostenevano la progettazione anglo-italiana dell’aereo multiruolo Tempest, alternativo a quello franco-tedesco, anche per consentire la sopravvivenza del patrimonio tecnologico nell’avionica di Finmeccanica. Si tratta certamente di un sostegno interessato, ma quantomeno rivelatore della ben maggiore consapevolezza altrui dei problemi di casa nostra.

Manca soprattutto, con l’eccezione di una cerchia ristretta di consiglieri di Salvini e della componente più ostracizzata dei tecnici al governo, la contezza del fatto che dovessero essere perseguite in maniera più o meno coerente queste politiche si troveranno a scontrarsi con il nocciolo duro della trama delle politiche e delle normative e prassi comunitarie le quali vanno ben al di là dei limiti di deficit e degli obblighi di rientro del debito.

Non solo! Saranno dinamiche le quali, se messe in atto, faranno emergere allo scoperto all’interno stesso dei due partiti le componenti pronte a rimpolpare quelle forze reazionarie, per il momento disorientate, tese allo statu quo del paese.

Nel M5S sull’immigrazione sono già sorte le prime voci “autorevoli” di dissenso, sulle grandi opere infrastrutturali la fronda si presenta ben più minacciosa e determinata, mentre il grande supervisore alternativo, da mesi in viaggio negli Stati Uniti, illuminato dai suoi incontri con esponenti del Partito Democratico americano e da esponenti della Silicon Valley, gli stessi del Renzi di cinque anni fa, confortato dal lauto contratto con Mondadori non esita a richiamare sulla retta via. Nel federalismo strisciante e surrettizio possono trovare spazio le forze disgregatrici nella Lega nonché sostenitrici della riproposizione classica del centrodestra.

Un processo in divenire durante il quale saranno le aspre condizioni di conflitto a temprare e formare le forze più determinate, ma largamente inesperte secondo ricomposizioni ancora tutte da decifrare. Nel contesto geopolitico, soprattutto l’avvento di Trump, ha aperto nuovi spazi che non permarranno ancora per molto nell’attuale incertezza; in questi ambiti il Governo ha ritrovato un dinamismo quasi sconvolgente rispetto alla palude remissiva cui ci avevano abituati i precedenti. Un dinamismo però ancora ampiamente subordinato alle strategie altrui e soggetto quindi alla mutevolezza capricciosa delle decisioni e degli eventi. Un aspetto che affronteremo nel prossimo articolo.

IL CROLLO DEL PONTE MORANDI A GENOVA

Durante la stesura dell’articolo è piombata la tragedia del crollo del ponte di Genova. Non si può certo definire un evento e un ambito minore. Si tratta probabilmente di un evento di gran lunga più dirompente dei fatti connessi alla morte di Pamela Mastropietro a Macerata e al sottobosco e coperture che faticano ad emergere in quell’ambiente. Le sole conseguenze economiche e sociali sono di per sé drammatiche e rischiano di condannare tragicamente uno dei poli del vecchio triangolo industriale e la logistica del Nord-Italia. Da questo evento, se ben gestito politicamente, potranno emergere visivamente le condizioni e le collusioni che hanno consentito il sopravvento, l’affermazione e l’alimento dagli anni ’90 della classe dirigente che ha ridotto in queste condizioni il paese. Una classe dirigente che ha subordinato come mai in altre momenti della storia dell’Italia unita il paese agli interessi e alle contingenze politiche esterni; una classe dirigente che ha contribuito a trasformare definitivamente la quasi totalità della grande imprenditoria privata in un consorzio parassitario ed assistenziale grazie alle privatizzazioni soprattutto di Telecom e delle reti di comunicazione e dei servizi; ha distrutto e abbandonato gran parte del ridotto ceto manageriale nazionale costruito in oltre quarant’anni e esposto alla speculazioni e agli istinti di una rete commerciale predatoria buona parte dei ceti medi produttivi dell’agricoltura e della piccola industria. Il muro isterico di difesa eretto intorno a Società Autostrade dalla stampa e dai partiti attualmente all’opposizione rivelano il nervo scoperto da una simile tragedia. Le risposte di Conte, Toninelli e Di Maio sembrano dettate dall’istinto e dall’indole tribunizia. Il retaggio antindustrialista e contrario alle grandi opere pesa nella credibilità del M5S. Chiedere la decadenza immediata della concessione ha certamente un effetto mediatico immediato ma rischia di trascinare, alla luce dei testi conosciuti e pubblici dei capitolati di concessione, in un contenzioso e una diatriba esposta ai polveroni e alle manipolazioni. Meglio sarebbe arrivare ad una sorta di commissariamento dei servizi di controllo ispettivo di Ministero dei Trasporti e ANAS, a un rapido censimento delle opere da risanare, ad un risanamento a tempi stretti della rete a carico dei concessionari con la spada di Damocle del ritiro delle autorizzazioni. Porterebbe alla resa dei conti nel gruppo societario e allo sfilacciamento in poco tempo della rete di relazioni e cointeressenze che hanno tenuto in piedi questo sistema grazie alla drammatica riduzione dei margini di rendita prossimi venturi. Solo disarticolando quel sistema si potrà poi infierire e porre nel frattempo le basi politiche e tecnico-organizzative di una rifondazione. Potrebbe essere il momento giusto per recuperare nello Stato e negli apparati quelle leve indisponibili, ma sino ad ora silenti, a protrarre lo stato di fatto e indispensabili a dare corpo ai programmi e alle migliori intenzioni.

Con una avvertenza. I tempi e i contenuti della comunicazione devono essere dettati dagli uomini di governo piuttosto che da organi di informazione in evidente debito di vendite e credibilità. Se non si riesce a gestire dignitosamente questo figurarsi quali difficoltà potranno sopraggiungere a tenere la nave con il profilarsi delle nubi cupe d’autunno tanto più che l’ombrello trumpiano rischia di essere ulteriormente indebolito dalle prossime elezioni d’autunno e dalle vicende giudiziarie prossime venture. Le inchieste giudiziarie in corso, l’attentato alla sede della Lega di Treviso sono solo dei preavvisi di una tempesta che punta alla reinvestitura esterna sotto mentite spoglie di una vecchia classe dirigente capace solo di attendere gli eventi e a maggior ragione ancora più nefasta per il paese che verrà.

 

 

Del Manifesto politico di Carlo Calenda, di Alessandro Visalli

Del Manifesto politico di Carlo Calenda.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2018/07/del-manifesto-politico-di-carlo-calenda.html

pubblichiamo queste interessanti considerazioni di Alessandro Visalli con lo scopo di alimentare il dibattito sulle profonde trasformazioni in corso del panorama politico italiano_Giuseppe Germinario

A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.

Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.

Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione). Si tratta dell’ultimo episodio del disgelo che, dopo molti avvertimenti inascoltati, ha mosso la parte inferiore della stratificazione sociale, portandola ad esprimere nelle urne tutta la sua rabbia e il suo risentimento. Nel 2016 abbiamo avuto la Brexit, poi la sconvolgente elezione di Trump, il referendum italiano, le elezioni francesi con la crescita elettorale di Mélenchon e la scomparsa del Partito Socialista, di recente le elezioni tedesche e l’emergere di canditati francamente socialisti in USA nelle importantissime primarie di New York (sulla traccia di Sanders).

In questo quadro a dir poco confuso leggiamo il Manifesto; l’avvio ha respiro e parte con una franca ammissione:

Caro direttore. Dall’89 in poi i partiti progressisti hanno sposato una visione semplificata e ideologica della storia. L’idea che l’avvento di un mondo piatto, specchio dell’Occidente, fondato su: mercati aperti, multiculturalismo, secolarizzazione, multilateralismo, abbandono dello stato nazionale, generale aumento della prosperità e mobilità sociale, fosse una naturale conseguenza della caduta del comunismo si è rivelata sbagliata.

Dall’ammissione di un errore di prospettiva storica, ovvero di aver creduto alla narrazione della destra americana, che voleva nella sconfitta del suo co-egemone ed avversario storico derivarne la conseguenza del totale controllo, ideologico e pratico-materiale, del mondo, consegue un esito che interessa l’oggi.

Oggi l’Occidente è a pezzi, le nostre società sono divise in modo netto tra vincitori e vinti, la classe media si è impoverita, la distribuzione della ricchezza ha raggiunto il livello degli anni Venti, l’analfabetismo funzionale aumenta insieme a fenomeni di esclusione sociale sempre più radicali.

Questa è la base sociale che determina una netta conseguenza politica che si è manifestata in modo evidente in Italia nelle elezioni politiche di marzo.

La democrazia liberale è entrata in crisi in tutto il mondo e forme di democrazia limitata o populista si vanno affermando anche in Occidente. La Storia è prepotentemente tornata sulla scena del mondo occidentale.

Ma Calenda, mentre sembra prendere atto di una discontinuità radicale, non rinuncia egualmente ad una parte essenziale della narrazione di questi anni: anche se bisogna ammettere a denti stretti che l’occidente popolare si è impoverito, però l’altra metà del mondo si è arricchita. Insomma la globalizzazione ha un segno complessivamente positivo, va in direzione del sol dell’avvenire.

Viceversa la globalizzazione ha portato benessere in Asia e in molti paesi emergenti, dove aumentano i divari sociali e culturali, ma in un contesto di crescita generale. Anche all’interno delle società Occidentali la competizione e i mercati aperti hanno portato allo sviluppo di eccellenze produttive e tecnologiche che sono però ancora troppo poche per generare benessere diffuso.

Chi ha letto qualche libro di Branko Milanovic (ad esempio “Mondi divisi”) sa che neppure questo è così semplice: l’ineguaglianza complessiva è in realtà aumentata dagli anni settanta, colpendo molte economie deboli (gli effetti li vediamo nelle migrazioni), mentre è diminuita in alcune aree nelle quali alla manodopera a buon mercato, disponibile a farsi sfruttare dai capitali occidentali in favore dei consumatori occidentali, si è unita a Stati forti in grado di difendersi dal “Washington Consensus” e dai suoi guardiani (FMI e BM). In sostanza in questi anni i paesi già ricchi sono cresciuti poco (ca. 2% all’anno), quelli di mezzo sono calati, quelli deboli sono precipitati e pochi paesi molto grandi (dunque con Stati molto forti) sono cresciuti moltissimo. Ma di questi (in sostanza Cina e India, insieme ad alcune “tigri asiatiche”) soprattutto alcune aree costiere o comunque fortemente interconnesse. Si è avuto, d’altro canto, un vero e proprio crollo dei paesi ex-ricchi non occidentali, in sostanza sono cresciuti sette paesi (Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malaysia, Botswana, Egitto) quindi, ovviamente India e Cina, e sono invece declinati molti paesi (Nicaragua, Iran, Angola, Croazia e Serbia, Algeria, Colombia, Argentina, Costa Rica, Messico, Venezuela, Uruguay) per i più vari motivi. Dal punto di vista individuale, invece, sono cresciuti i redditi medio-bassi (in India e Cina soprattutto) e sono calati vistosamente quelli delle classi medie inferiori occidentali, mentre nel decile più ricco i redditi hanno avuto un’impennata. Il mondo, dice Milanovic, ha complessivamente il 77% di poveri, il 7% di classe media e il 16% di “ricchi”.

Insomma, non si tratta di un trionfo neppure sotto questo profilo. Quel che è accaduto è l’effetto di una “grande partita”, un effetto della quale è citato di passaggio nella parte finale del manifesto, che ha visto indebolirsi in modo cruciale le “logiche territorialiste” (Arrighi) di organizzazione del potere, in favore di “logiche capitaliste” che sono rivolte solo all’autoaccrescimento a qualsiasi costo. Questa dinamica si è prodotta per effetto del raggiunto stato di sviluppo delle forze produttive (al termine del cosiddetto “trentennio glorioso” e sulla spinta della decolonizzazione e di altri fattori anche tecnologici) in competizione le une contro le altre e mal contenute dagli involucri statuali che hanno portato a partire dagli ultimi anni sessanta ad una tendenziale riduzione del saggio di profitto per gli investimenti “territoriali”, e quindi al “disimpegno” (Streeck). A questo punto gli agenti economici utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, progressivamente hanno spostato gli investimenti sul terreno finanziario e questo si è espanso in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è quindi da considerare una sorta di cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi effetto dell’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che, secondo la ricostruzione storico-economica di Arrighi, nel “sistema-mondo” non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale). Ma perché questo accada è necessario che si riformi un “ordine mondiale”, e al momento questa è la posta del gioco. Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica (in questo senso un accenno anche nella recente intervista a Kissinger).

Fino a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.

Il nostro fa parte sicuramente, per formazione, frequentazioni ed inclinazione, del primo, ma vorrebbe anche raccogliere parte della forza che si sta addensando nel secondo polo. Il Manifesto è espressione di questo tentativo.

Ma torniamo a noi; stringendo lo sguardo, per Calenda:

L’Unione Europea è figlia di una fase “dell’Occidente trionfante” da cui ha assunto un modello di governance politica debole, lenta e intergovernativa. L’Eurozona al contrario ha definito una governance finanziaria rigida ispirata da una profonda mancanza di fiducia tra “Sud e Nord”, incapace di favorire la convergenza, gestire gli shock senza scaricarli sui ceti deboli e promuovere la crescita e l’inclusione. Tutte queste pecche sono frutto di scelte degli Stati membri e non della Commissione Europea o dell’Europa in quanto tale.

Non è chiaro cosa sia “l’Europa in quanto tale”, ma la descrizione è sostanzialmente corretta, salvo che la descrizione della scelta è senza soggetto, non sono certo “gli Stati” che hanno scelto, ma una specifica coalizione sociale ed economica che ha governato le scelte dell’Unione e dei suoi principali stati membri ed era rappresentata in Italia dai partiti della seconda Repubblica che hanno perso il 4 marzo. Senza compiere questa analisi, che avrebbe fornito il necessario punto di vista, per condurre una proposta realmente discontinua Calenda passa a guardare direttamente il quadro politico che vorrebbe federare:

La crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica.

Sembrerebbe che con questa sottolineatura si iscriva nella lunga schiera di chi accusa l’involuzione tecnocratica, espressamente teorizzata negli anni novanta (ad esempio da La Spina e Majone in “Lo stato regolatore”) o temuta (ad esempio da Robert Dahl in uno dei suoi ultimi interventi, o da Peter Mair nel suo ultimo libro postumo). In realtà non lo fa, perché non spiega perché le classi dirigenti, trovandosi bene in esse, hanno presentato come inevitabili e positivi fenomeni nei quali alcuni (loro) vincevano e altri (la maggioranza) perdeva. E perché per farlo hanno cercato per anni di ridurre la democrazia con dispositivi tecnici maggioritari la cui funzione principale non era l’efficienza, ma la possibilità di ricevere una delega da minoranze fattesi maggioranze per opera della legge, da ultimo il 4 dicembre. Ma da qui va ancora più in fondo:

Allo stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale. Il risultato è stato l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova. I progressisti sono inevitabilmente diventati i rappresentanti di chi vive il presente con soddisfazione e vede il futuro come un’opportunità.

Come sostengono in molti (ad esempio Luca Ricolfi) quelli che chiama “i progressisti” (non nominandoli come “sinistra”) hanno ristretto la propria base ai soli vincenti della globalizzazione, chi vive bene nelle grandi città, è interconnesso e soddisfatto, e quindi vede il mondo con ottimismo. Ma questi sono una piccola minoranza e diminuiscono sempre di più (per una semplice analisi sociologica si veda Bagnasco “La questione del ceto medio”).

Ed allora?

I prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali.

La sfida si giocherà da oggi al 2030. In questa decade le forze del mercato, della demografia e dell’innovazione porteranno a una drammatica collisione a meno di non correggerne e governarne la traiettoria. L’invecchiamento della popolazione porterà il tasso di dipendenza tra popolazione in età lavorativa e popolazione in età pensionistica vicino al rapporto di 1 a 1. Ciò avrà due conseguenze rilevanti: l’insostenibilità dei sistemi pensionistici e la diminuzione strutturale del tasso di crescita delle economie. Negli ultimi 65 anni infatti un terzo della crescita è derivata dall’aumento della forza lavoro. L’effetto potenzialmente positivo su stipendi e occupazione della riduzione di forza lavoro (meno persone dunque più domanda e meno offerta) sarà controbilanciata, dall’automazione. Ad un aumento della produttività derivante dall’innovazione tecnologica vicino al 30 per cento entro il 2030, corrisponderà la scomparsa del 20-25 per cento dei lavori che esistono oggi. L’aumento della produttività e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.

Se ciò non accadrà aumenteranno le diseguaglianze tra categorie di lavoratori e lo squilibrio tra salari e profitti.

Questa analisi in molte forme diverse sta diventando mainstream (naturalmente nei dettagli e nelle soluzioni si nascondono le differenze, oltre che nella diagnosi delle cause), l’abbiamo appena letta da The Guardian (che è un poco come dire da La Repubblica inglese).

Anche per Calenda la situazione è dunque ad un turning point: la velocità e la magnitudo del cambiamento sarà tale da assomigliare alla crisi che descrive Carl Polanyi nel suo capolavoro (“La grande trasformazione”).

Il cambio di paradigma economico avverrà ad una velocità mai sperimentata nella Storia. Le nostre democrazie, colpite da una gestione superficiale della globalizzazione, non possono sopravvivere a un secondo shock di dimensione molto superiori. Lo scenario che abbiamo sopra descritto richiederà un impegno diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata.

Come accadde allora, anche per Calenda, il desiderio di protezione delle masse sconvolte e minacciate dalla paura richiederà l’intervento dello Stato (nell’intervallo tra le due guerre lo abbiamo avuto in forme diverse in USA e UK, in Germania e Italia, in Russia).

Da qui si passa alla cronaca:

L’Italia anello fragile, finanziariamente e come collocazione geografica, di un occidente fragilissimo, è la prima grande democrazia occidentale a cadere sotto un Governo che è un incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà.

E quindi si passa alla parola d’ordine. Si passa alla missione di federare le forze:

Occorre riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte a questa minaccia mortale. Per farlo è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe.

Un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile. Abbiamo bisogno di offrire uno strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti malandati e che abbia un programma che non si esaurisca, nel pur fondamentale obiettivo di salvare la Repubblica dal “sovranismo anarcoide” di Lega e M5s.

Dunque quel che Calenda propone è una alleanza interclassista che superi il partito classista (dall’alto) al quale si è da poco iscritto e che abbia l’ambizione di sottrarre lo spazio di difensori del popolo interpretata dalle forze emerse come vincitrici dal voto. Quelle forze contro le quali si è alzata, forte, la reazione della difesa di classe sotto vesti europeiste ed interpretata dal Presidente (lo abbiamo commentato qui), ma che poi hanno dato comunque forma ad un governo con profonde differenze. In estrema sintesi la mia opinione è, diversamente da Calenda, che il paese il 4 marzo si sia spaccato su una linea che attraversa le sue borghesie e, insieme, che lo attraversa geograficamente. Si è manifestata la defezione che covava da tempo di parte della borghesia nazionale verso quella componente della borghesia coinvolta più profondamente con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Peraltro la precisa coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista, condotto da Trump, e della defezione della borghesia nazionale da questa in ultima analisi danneggiata è davvero singolare. Quella che al momento governa il paese con un consenso che sfiora il 60% è una strana coalizione che va: dalle Piccole e Medie Imprese, impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali; ai professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati; agli operai e impiegati di detti settori; ai precari e, infine, alla parte più attenta dei disoccupati. Resta fuori da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va sull’astensione; la media borghesia tutelata e parte del mondo dei pensionati più abbientil’alta borghesia e la grande industria internazionalizzata con parte dei suoi lavoratori che rappresentano l’aristocrazia del lavoro. Gli ultimi strati continuano a garantire il loro sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto mondialista ed europeo, ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del Parlamento e almeno una decina di punti in meno nel paese.

Certo, questa coalizione “populista” (che in realtà unisce due populismi molto diversi) è come l’acqua e l’olio, instabile e contraddittoria: gli interessi degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole, potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.

In questa potenziale frattura tra la protezione sociale e la protezione individualista Calenda pensa probabilmente di potersi inserire, recuperando spazi di consenso, anche oltre la “coalizione della rendita” evocata abbastanza chiaramente dal Presidente Mattarella nel suo discorso (vedi “Post-democrazia e crisi italiana”). Pensa in sostanza di ripetere in forma diversa l’operazione, fatta da Salvini, di saldare un più largo consenso a partire dall’egemonia di alcuni interessi e di una cultura ben radicata nella piccola borghesia con inclinazioni nazionaliste. Quindi di riaggregare i ceti popolari che sono sfuggiti ai Partiti di centro europeisti intorno ad una operazione egemonizzata questa volta da quella “coalizione della rendita” che Mattarella vuole mobilitare dall’alto. Una operazione politica, quindi, che parli sì di protezione e che recuperi l’interesse nazionale solo nei limiti compatibili con i processi di accumulazione resi possibili dai mercati aperti e dal processo di integrazione europeo.

Si tratta di un compito realisticamente impossibile: l’apertura implica messa in competizione e questa determina necessariamente la retrocessione dei diritti e delle garanzie accumulate a partire dal primo “momento Polanyi” nella prima parte del novecento. Ciò almeno per qualche decennio e fino a che la maggior parte degli abitanti del mondo non si sia incontrata a mezza strada con il primo miliardo (come arriva onestamente ad ammettere Branko Milanovic nel suo ultimo libro “Ingiustizia globale”). È chiaro che la prospettiva di Milanovic pone insormontabili problemi sia di tenuta democratica, dato che la rivolta continuerà, sia di tenuta ecologica, ma la soluzione di Calenda è di gran lunga al di qua del necessario.

Calenda non sembra voler prendere atto che non si può avere insieme la conservazione delle élite estrattive, alle quali è legato, e la protezione dei perdenti che queste naturalmente producono. Per dare gambe a questo inane tentativo delinea quindi un programma fin troppo dettagliato per un “Manifesto”:

Le priorità di questo programma sono:

Tenere in sicurezza l’Italia. Sotto il profilo economico e finanziario: occorre chiarire una volta per tutte che ogni riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicina al default. Deficit e debito vanno tenuti sotto controllo, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è indispensabile per trovare compratori per il nostro debito pubblico.

Sotto il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del “Migration Compact” proposto dall’Italia alla UE. Creare canali di ingresso regolari e selettivi.

Occorre infine ribadire con forza la nostra appartenenza all’Occidente, all’alleanza atlantica e al gruppo dei paesi fondatori dell’Ue, come garanzia di stabilità, sicurezza e progresso.

L’architrave è posto all’inizio, senza mettere in questione la finanziarizzazione dell’economia e dunque le sue “formazioni predatorie” (definizione di Saskia Sassen), e restando ben allineati con l’egemone sfidato, la gestione dell’immigrazione appare solo una concessione allo spirito populista. In un altro quadro potrebbe essere un elemento di una strategia di riequilibrio tra lavoro e capitale indispensabile per riattrarre valore nella società.

Proteggere gli sconfitti. Rafforzando gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quando causate dalla concorrenza sleale di paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro.

Approvare il salario minimo per chi non è protetto da contratti nazionali o aziendali.

Allargare ad altri settori fragili il modello del protocollo sui call-center per responsabilizzare le aziende e impegnarle su salari e il no a delocalizzazioni.

Alcune misure sono opportune, ma non a caso nella scelta tra reddito paternalisticamente concesso nei limiti della “inclusione” e gli schemi di lavoro garantito che sono portati avanti nelle componenti più consapevoli della sinistra socialista, sceglie decisamente la soluzione compatibile con l’impostazione liberista (proposta anche dallo stesso Milton Friedman).

Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca). Finanziare un piano di formazione continua per accompagnare la rivoluzione digitale. Proseguire il piano impresa 4.0 e portare a 100.000 i diplomati degli Istituti Tecnici Superiori. Implementare la Strategia Energetica Nazionale e velocizzare i 150 miliardi di euro previsti per raggiungere i target ambientali di CoP21. Aumentare la dotazione dei contratti di sviluppo e del fondo centrale di Garanzia per ricostituire al Sud la base industriale che serve per rilanciarlo. Rivedere il codice degli appalti per velocizzare le procedure di gara. Mantenere l’impegno sulla legge annuale per la concorrenza. Prevedere un meccanismo automatico di destinazione dei proventi della lotta all’evasione fiscale alla diminuzione delle tasse, partendo da quelle sul lavoro.

Da questo punto il quadro dell’ispirazione ideologica si chiarisce: non si esce dallo schema della “terza via”, si tratta di superare una crisi determinata dall’indebolimento dei rapporti di forza sociali e dalla debolezza della domanda che ne consegue, intervenendo solo a livello individuale, in continuità con le politiche liberiste, con riduzioni delle tasse e politiche dell’offerta.

Promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo. Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per stare nel mondo e in UE. Partecipando al processo di costruzione di una Unione sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa, commercio), tra il nucleo dei membri storici ma ribadendo la contrarietà all’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e all’irrigidimento delle regole sulle banche. Promuovere la rimozione dei limiti temporali sulla flessibilità legata a riforme e investimenti approvata sotto la Presidenza italiana della UE. Sostenere la conclusione di accordi di libero scambio per aprire nuovi mercati al nostro export, ma mantenere una posizione intransigente sul dumping rafforzando clausole sociali e ambientali nei trattati.

La contraddizione che deriva dal voler tenere insieme, sotto egemonia dall’alto, interessi contrapposti si manifesta in sommo grado in questo passaggio, nel quale l’astuto richiamo del concetto di nazione e financo di patria è reso incongruamente funzionale alla “costruzione di una unione sempre più forte”, con determinazione di elementi essenziali di politica estera (e dunque di posizionamento nella distribuzione delle risorse e nella tutela differenziale dei diversi settori e attori) in comune. Calenda non sembra assolutamente comprendere che la capacità di perseguire i propri interessi implica la tutela di uno spazio di indipendenza proprio nella politica estera e di difesa; non esistono politiche neutre.

Ancora più contraddittoria la pretesa di aprire gli accordi di “libero scambio” e contemporaneamente non farlo, per “mantenere una posizione intransigente sul dumping”. Il mondo è un luogo nel quale le regolazioni e le condizioni materiali sono enormemente diverse. Metterlo in contatto senza filtri significa fare scambio “libero”, non farlo significa “proteggersi”. Calenda sceglie il primo, ma se ne vergogna e cerca di coprirlo con qualche retorica a poco prezzo.

Conoscere. Piano shock contro analfabetismo funzionale. Partendo dalla definizione di aree di crisi sociale complessa dove un’intera generazione rischia l’esclusione sociale. Estensione del tempo pieno a tutte le scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura. E’ nostra ferma convinzione che una liberal democrazia non può convivere con l’attuale livello di cultura e conoscenza. L’idea di libertà come progetto collettivo deve essere posta nuovamente al centro del progetto di rifondazione dei progressisti.

Qui siamo esattamente al “istruzione, istruzione, istruzione” di Tony Blair.

Il crocevia della Storia che stiamo vivendo alimenta paure che non sono irrazionali o sintomo di ignoranza. Abbiamo davanti domande epocali a cui nessuno può pensare di dare risposte semplicistiche.

  • La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o farà dell’uomo un suo strumento?
  • lo spostamento di potere verso oriente, conseguente alla globalizzazione innescherà una guerra o avverrà, per la prima volta nella Storia, pacificamente?
  • Le nostre società sono destinate a una stagnazione secolare?

Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini.

La competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.

Per fare tutto ciò occorre tornare ad avere uno Stato forte, ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la propria strada NEI processi di cambiamento, ma che non butti i soldi pubblici per nazionalizzare Alitalia o Ilva. Stato forte vuol dire burocrazia efficiente e dunque una rivoluzione nel modo di concepire, regolare e retribuire la pubblica amministrazione. L’Italia ha bisogno poi di un’architettura istituzionale che coniughi maggiore autonomia alle regioni con una clausola di supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali.

In questo ultimo passaggio dello Stato Forte, ma debole (ovvero non invasivo) e orientato solo a consentire ai cittadini di farsi strada da soli, di trovare ognuno la “propria” strada, è contenuta ancora una volta l’essenza del pensiero liberal che Clinton, Schroder e Blair (appena preceduti da Mitterrand) promossero negli anni novanta. In questi passaggi è manifesta la direzione egemonica che si cerca di rimettere in piedi, un progetto guidato dalla solita borghesia che ce l’ha fatta, che sempre ce la fa, ma con uno sguardo “compassionevole”.

Esiste un altro nemico da battere ed è il cinismo e l’apatia che di una larga parte della classe dirigente italiana. Dai media alla politica, dalle associazioni di rappresentanza agli intellettuali l’idea che ogni passione civile sia spenta e che si possa contemplare “Roma che brucia” con la “lira in mano” godendosi lo spettacolo, è diventata una posa tanto diffusa quanto insopportabile. La battaglia che abbiamo di fronte si vince anche sconfiggendo il cinismo dei sostenitori di un “paese fai da te”.

Si può fare: L’Italia è più forte di chi la vuole debole!

In definitiva ad una prima impressione quella di Calenda può sembrare un’analisi coraggiosa ed un programma riformista forte, ma si tratta solo di una minestra riscaldata. Una minestra senza sapore con un vago colorito anni novanta, nella quale la parola “sinistra” non appare neppure una volta e con buona ragione.

Cosa c’è di credibile in un programma che si vorrebbe a difesa dei meno protetti dalla globalizzazione e contro il governo impolitico dei tecnici e che poi elenca minuziose micropolitiche di cui non lascia intravedere la direzione? Nel quale l’obiettivo appare meramente riattivare lo sviluppo senza andare ad incidere nell’assetto del mondo che questo sviluppo impedisce per i più?

Del resto se l’analisi si svolge, a ben vedere, tutta entro le coordinate culturali del liberismo imperante, al più filtrato dalla fallimentare ipotesi della “terza via”, la soluzione non può distanziarsi in modo sostanziale dallo schema: accettazione della competizione e sostegno a chi ce la può fare, contenimento con piccolissime concessioni per gli altri.

Ma per evitare che si arrivi a ripetere le tragedie del novecento serve molto più della minestra riscaldata e del liberalismo compassionevole.

Occorre ben altro: bisogna svolgere politiche coordinate sia contro il mercantilismo di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità fiscale (che implica quella monetaria), sia per ripristinare la forza del lavoro nei confronti del capitale (grande e piccolo). È indispensabile riposizionare l’economia del paese verso il mercato interno anche con opportune forme di protezione e riequilibrando la distribuzione tra salari e profitti. Bisogna farla finita con il “libero commercio”, nel senso che il commercio deve compiersi su piani di effettiva parità, e per questo occorre definire accordi e stabilire regole e condizioni. Bisogna immediatamente riassorbire parte dell’esercito di riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione, che va modulata in funzione delle capacità di civile assorbimento ed integrazione, e accuratamente coltivato dalle politiche di austerità) e garantire a tutti i diritti sociali, dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati presenti sul territorio nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili in primo luogo attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia popolare, infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del territorio dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia, e quindi di potenziamento del pubblico impiego con almeno due milioni di nuove assunzioni a tempo pieno (a partire proprio dalle strutture di accoglienza e sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche del profitto altamente finanziarizzato contemporaneo).

Ma ciò non può certo essere compiuto da questa coalizione, né dalla “alleanza repubblicana” proposta da un davvero poco credibile Carlo Calenda.

Dovremo aspettare che qualcuno prenda da terra la bandiera e trovi il coraggio di alzarla, come altrove sta avvenendo.

Putin mette a nudo la distopia americana, di Paul Craig Roberts

Putin mette a nudo la distopia americana

Paul Craig Roberts

Dobbiamo concederlo a Putin. Lui è il migliore che ci sia. Notare la facilità con cui ha regolato il confronto con quell’idiota di Chris Wallace. https://www.rt.com/usa/433447-putin-interview-fox-wallace/

Cosa c’è che non va nel sistema dei media statunitensi il quale non riesce a produrre un secondo giornalista competente che faccia compagnia a Tucker Carlson? Perché i restanti giornalisti americani, come Chris Hedges, ora sono nei media alternativi?

Tutto quello che posso dire, e Putin probabilmente lo sa già, è che c’è qualcosa di più importante in corso di presstitute che tiene in ostaggio la relazione tra la Russia e gli Stati Uniti rispetto alla lotta politica interna tra il Partito Democratico e il Presidente Trump. Non è solo che i media corrotti degli Stati Uniti servono come propagandisti per il Partito Democratico contro il Presidente Trump. Gli uffici stampa stanno servendo l’interesse del complesso militare / di sicurezza, che ha interessi di proprietà nei media statunitensi altamente concentrati, per mantenere la Russia posizionata come il nemico che giustifica l’enorme budget di $ 1.000 miliardi del complesso militare / di sicurezza. Senza il “nemico russo”, qual è la giustificazione di uno spreco di denaro quando così tanti bisogni reali sono sottofinanziati e non finanziati?

In altre parole, i media americani non sono solo stupidi, sono corrotti oltre ogni misura.

Oggi alle 12:40, ora di New York, la NPR aveva una raccolta di trump-basher che facevano del loro meglio per impedire all’appuntamento di Trump / Putin di produrre una normalizzazione delle relazioni tra i due governi. Ad esempio, come sa ogni persona informata, la comunità dei servizi segreti degli Stati Uniti non ha certamente concluso che la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali. Questa conclusione è stata raggiunta da alcuni membri selezionati di 3 delle 16 agenzie di intelligence ed è stata espressa non come un fatto provato ma come “altamente probabile”. In altre parole, non era altro che un parere orchestrato dato da agenti cooperativi i quali senza dubbio si aspettano delle promozioni in cambio.

Nonostante questo fatto noto, la squadra di propaganda dell’NPR ha detto che Trump aveva creduto a Putin piuttosto che a un rapporto unanime di intelligence dei fatti degli Stati Uniti che provava le interferenze della Russia. I denigratori di Trump-basher hanno detto che aveva creduto al “teppista Putin” e non ai suoi stessi esperti americani. I sostenitori NPR di Trump hanno continuato a confrontare il “raccordo con Putin” con l’opinione di Trump che la violenza di Charlottesville fosse stata alimentata da entrambe le parti. I criticoni di NPR hanno equiparato la dichiarazione fattuale di Trump sulla violenza da entrambe le parti con lo “schierarsi con i neonazisti” a Charlottesville.

Il punto di NPR è che Trump si schiera con nazisti e teppisti russi ed è contro gli americani.

Quello che Trump disse in effetti riguardo alle presunte interferenze elettorali era che se c’era o non c’era interferenza elettorale, essa non aveva alcun effetto come hanno ammesso Comey e Rosenstein, e non assume la stessa importanza della possibilità che due potenze nucleari vadano d’accordo ed evitino le tensioni in grado di provocare una guerra nucleare. Si potrebbe pensare che persino un idiota NPR possa capirlo.

Il trionfo su NPR è andato avanti per tutto il giorno mescolato a un occasionale attacco della Russia per aver ucciso civili siriani in attacchi aerei contro i jihadisti supportati da Washington che, secondo le istruzioni di Washington, cercano di aggrapparsi a un po ‘di Siria in modo che Washington e Israele possono ricominciare la guerra. Ci si meraviglia della stupidità di coloro che danno soldi all’NPR in modo che l’NPR possa mentirgli tutto il giorno. Come George Orwell aveva previsto, le persone sono più a loro agio con le bugie del Grande Fratello che con la verità.

Una volta la NPR era una voce alternativa, ma è stata rotta dal regime di George W. Bush ed è diventata completamente corrotta. NPR continua a fingere di essere “ascoltatore supportato”, ma in realtà ora è una stazione commerciale proprio come ogni altra stazione commerciale. NPR cerca di mascherare questo fatto usando “con il supporto di” per introdurre gli annunci a pagamento dalle aziende.

“Con il sostegno di” è come NPR ha tradizionalmente riconosciuto i suoi donatori filantropici. La vera domanda è: come fa NPR a mantenere il suo status di esenzione fiscale 501c3 quando vende pubblicità commerciale? Non c’è bisogno che NPR si preoccupi. Finché l’entità presstitute serve l’élite dominante a spese della verità, manterrà il suo stato di esenzione fiscale illegale.

È ovvio che le incriminazioni dei 12 ufficiali dei servizi segreti russi immediatamente precedenti alla riunione di Trump / Putin avevano lo scopo di minare l’incontro e di offrire ai giornalisti maggiori opportunità per i colpi più disonesti ai danni del presidente Trump. Ai miei tempi, i giornalisti sarebbero stati abbastanza intelligenti e avrebbero avuto abbastanza integrità per capirlo. Ma i comunicati stampa occidentali non hanno né intelligenza né integrità.

Quante prove vuoi? Ecco la stampa di Michelle Goldberg che scrive sul New York Times che “Trump mostra al mondo che è il lacchè di Putin.” La giornalista dice di essere “sconcertata dalla prestazione servile e schifosa del presidente americano.” Apparentemente Goldberg pensa che Trump avrebbe dovuto picchiare Putin.

Il Washington Post, in passato un giornale, ora uno scherzo malato, sosteneva che “Trump si era appena colluso con la Russia. Apertamente.”

Non sono solo i presstitutes. Sono i cosiddetti esperti, come Richard Haass, presidente del Consiglio per le relazioni estere, un gruppo auto-importante, finanziato dal complesso militare / di sicurezza, che presiede la politica estera americana. Haass, aderendo alla linea ufficiale di sicurezza / sicurezza, ha dichiarato erroneamente: “L’ordine internazionale per 4 secoli si è basato sulla non interferenza negli affari interni degli altri e sul rispetto della sovranità. La Russia ha violato questa norma sequestrando la Crimea e interferendo con le elezioni americane del 2016. Dobbiamo affrontare la Russia di Putin come lo stato canaglia che è “.

Di cosa sta parlando Haass? Quale rispetto per la sovranità ha Washington? Sicuramente Haass ha familiarità con la dottrina neoconservatrice dominante dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti. Sicuramente Haass sa che i problemi orchestrati con Iraq, Libia, Siria, Corea del Nord, Russia e Cina sono dovuti al risentimento di Washington per la loro sovranità. Qual è l’unilateralismo di Washington sul fatto che Washington rispetti la sovranità dei paesi? Perché Washington vuole un mondo unipolare se Washington rispetta la sovranità di altri paesi? È precisamente l’insistenza della Russia su un mondo multipolare che la pone nel mirino della propaganda. Se Washington rispetta la sovranità, perché Washington rovescia i paesi che ce l’hanno? Quando Washington accusa la Russia di essere una minaccia per l’ordine mondiale, significa che la Russia è una minaccia per l’ordine mondiale di Washington. Haass sta dimostrando la sua idiozia o la sua corruzione?

Come i media americani hanno definitivamente dimostrato non hanno indipendenza ma sono un portavoce dei democratici e degli interessi delle multinazionali; dovrebbero essere nazionalizzati. I media americani sono così compromessi che la nazionalizzazione sarebbe un miglioramento.

Anche l’industria degli armamenti dovrebbe essere nazionalizzata. Non solo è un potere più grande del governo eletto, ma è anche molto inefficiente. L’industria degli armamenti russi con una minima frazione del budget militare statunitense produce armi di gran lunga superiori. Come ha detto il presidente Eisenhower, un generale a cinque stelle, il complesso militare-industriale è una minaccia per la democrazia americana. Perché la feccia dei media è così preoccupata per l’inesistente interferenza russa quando il complesso militare / di sicurezza è così potente da poter realmente sostituirsi al governo eletto?

Ci fu un tempo in cui il Partito Repubblicano rappresentava gli interessi degli affari, e il Partito Democratico rappresentava gli interessi della classe operaia. Ciò ha tenuto l’America in equilibrio. Oggi non c’è equilibrio. Dal momento che con il regime di Clinton, l’uno per cento ricco è diventato molto più ricco, e il 99 per cento è diventato sempre più povero. La classe media è in serio declino.

I democratici hanno abbandonato la classe operaia, che i democratici ora liquidano come “Trump deplorables” e sostengono invece la divisione e l’odio di IdentityPolitics. In un momento in cui il popolo americano ha bisogno di unità per resistere a mire guerrafondaie e avidità, non c’è unità. Alle razze e ai sessi viene insegnato a odiarsi l’un l’altro. È ovunque tu guardi.

Rispetto all’America in cui sono nato, l’America di oggi è fragile e debole. L’unico sforzo per l’unità è creare unità che la Russia sia il nemico. È proprio come nel 1984 di George Orwell. In altri aspetti l’attuale distopia americana è peggiore di quella descritta da Orwell.

Cerca di trovare un’istituzione pubblica o privata americana che sia degna di rispetto, che sia onorevole, che rispetti la verità, che sia compassionevole e che cerchi la giustizia. Quello che trovi al posto della compassione e della richiesta di giustizia sono leggi che puniscono se critichi il genocidio israeliano dei palestinesi o perdi informazioni che mostrano i crimini commessi dal governo degli Stati Uniti. Con tutte le loro istituzioni corrotte, anche il popolo americano viene corrotto. La corruzione è ciò in cui i giovani sono nati. Non sanno niente di diverso. Che futuro si riserva per l’America?

Come possono la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord raggiungere un compromesso con un governo che non conosce il significato della parola, un governo che richiede la sottomissione e quando la sottomissione non viene segue la distruzione come abbiamo imparato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen.

Chi sarebbe così sciocco da fidarsi di un accordo con Washington?

Invece di perseguire un accordo con Trump, che si sta preparando ad essere rimosso, Putin dovrebbe preparare la Russia alla guerra.

La guerra sta sicuramente arrivando.

Momenti della verità, di Roberto Buffagni

Momenti della verità

Che cos’ho imparato in questi giorni di crisi

 

In questi giorni di crisi politica e istituzionale abbiamo vissuto alcuni momenti della verità. Ne capitano pochi, nella vita: facciamone tesoro.

Momento della verità 1: all’Unione Europea la verità fa male, conforme la celebre sentenza della pensatrice italiana Caterina Caselli.[1] L’UE è un ferro di legno politico[2] privo di legittimità; in altri termini, non può dire in nome di che cosa comanda, eppure comanda e vuole continuare a comandare. Questo vizio di nascita, o, nel linguaggio preferito dalla UE, questa fragilità strutturale, la rende insieme fragilissima e rigidissima. Non appena la questione della legittimità viene in luce e si sposta al centro della scena, la sua resilienza e il suo spazio di manovra politica tendono allo zero. Quando il riflettore si spegne, quando la questione delle legittimità ritorna nel backstage politico, la UE ritrova la sua flessibilità, il suo spazio di manovra politico, il suo consenso, in breve la sua forza.

Momento della verità 2: le classi dirigenti italiane proUE (cioè praticamente tutte le classi dirigenti italiane) hanno avuto molta paura. L’enorme errore politico del Presidente Mattarella (la bocciatura del governo esplicitamente motivata con la presenza di Paolo Savona, reo di aver predisposto il “piano B” di uscita dall’euro) ha spostato al centro della scena politica la questione della legittimità, provocando le conseguenze di cui al punto 1 e aprendo la strada a una crisi istituzionale che poteva propagarsi all’intero edificio UE. La classi dirigenti italiane proUE hanno sperimentato anche emotivamente il trauma di due verità: a) che il loro predominio si fonda, letteralmente, sul nulla: il Re UE non è nudo, ma proprio non esiste: esiste solo per generale consenso a un’impostura b) che fondarsi su un’impostura li espone a un rischio esistenziale permanente. La paura che li ha scossi fin nelle viscere muove l’ondata d’ odio scriteriato che vediamo manifestarsi sui media proUE, dove leggiamo, anche scritte da persone intelligenti, moderate, colte, esortazioni a prendere provvedimenti folli quali la messa fuori legge di Lega e 5*, vale a dire incitamenti alla guerra civile e al terrore di Stato. La paura e l’odio formano uno dei composti psicologici più difficili da sciogliere e più pericolosi che esistano. Dalle classi dirigenti italiane proUE, chi sta nel campo avverso deve aspettarsi una guerra condotta con qualunque mezzo (peso le parole). Con questa affermazione non esorto a togliersi i guanti ma all’esatto contrario: esorto a stare in guardia, e a non permettere assolutamente che il conflitto politico trascenda nell’illegalità e nella violenza.

Momento della verità 3: il popolo italiano non è stupido. Nonostante quel che pensano e sperano le classi dirigenti italiane proUE, e nonostante un paio di generazioni di diseducazione politica, dissoluzione sociale, perfusione mentale d’una sciacquatura di piatti culturale altamente tossica, il popolo italiano, nel suo insieme, ha capito all’ingrosso che cosa c’era in ballo, non appena il Presidente Mattarella ha alzato il fondale ed è apparso coram populo quel che c’è nel backstage. Non ha capito tutto, ma ha capito l’essenziale: ha capito che chi lo comanda, lo comanda in nome e per conto altrui. Chi sono di preciso questi altri non l’ha capito, ma che sono altri, figli di altro padre e altra madre, con altri interessi, altre speranze, altri progetti, altre visioni del mondo, questo l’ha capito.

Momento della verità 4: il popolo italiano ha paura. Il popolo italiano non è stupido, ma ha paura. Da un canto, questa paura è indice di saggezza, perché è giusto e ragionevole aver paura, quando i rapporti di forza sono sfavorevoli: ed effettivamente i rapporti di forza gli sono sfavorevoli. Che i rapporti di forza gli siano sfavorevoli, il popolo italiano l’ha imparato nel modo più difficile, cioè per esperienza: una dura maestra che prima ti fa l’esame e solo dopo ti illustra il programma su cui dovevi prepararti. Disoccupazione, salari da fame, risparmi che si erodono, famiglie che si frantumano, figli senza prospettive di vita ordinata che reagiscono disordinandosela in proprio, accuse infamanti e derisioni umilianti sbattute in faccia 24/7 dalle istanze autorevoli sono un’esperienza che non si scorda facilmente. Alla paura si può reagire in due modi: con la prudenza e il coraggio che affrontano il pericolo, con la confusione e la deriva mentale che lo negano e lo rimuovono. Purtroppo, negare e rimuovere il pericolo è più facile.

Momento della verità 5: il popolo italiano ha bisogno di disciplina. Il popolo italiano ha bisogno di disciplina perché non ce l’ha, e senza disciplina un popolo non è un popolo ma una plebe che si lascia attraversare e scuotere dalle emozioni e dai desideri come un feto nel grembo materno. Il professor Giulio Sapelli ha trovato una formula efficace, per definire la base sociale del Movimento 5*: il popolo degli abissi. L’ha ripresa da un vecchio libro di Jack London, Il tallone di ferro, che non a caso fu una delle letture più popolari nel movimento socialista tra Otto e Novecento. Il popolo degli abissi è quello che più direttamente sperimenta di persona il tremendo, dissolvente disordine materiale e morale a cui accenno al punto precedente. Il suo grido di battaglia, “uno vale uno”, la sua rivendicazione di democrazia diretta, sono reclami più che comprensibili e scusabili di fronte all’umiliazione, alla paura di affogare, di essere schiacciati e aboliti dalla macchina sociale senza lasciare memoria di sé: manco una lapide e una tomba, gli eredi ti fanno cremare perché costa meno. Però sono anche trappole, trappole inesorabili: perché non è vero che uno vale uno, e non è vero che si può prendere il potere e raddrizzare un mondo storto prendendo il 51% dei voti.

Momento della verità 6: il Movimento 5* deve scegliere il suo nemico. Il Movimento 5* deve scegliere il suo nemico, e non l’ha ancora fatto. Non l’ha ancora fatto per due ragioni: a) perché non vuole credere di avere un nemico, un nemico disposto a impiegare tutti i mezzi per vincere, e preferisce negare o rimuovere il pericolo. Trova più facile indicare come nemico qualità prepolitiche quali la disonestà, la corruzione, etc. Ma non è così che si agisce politicamente. La disonestà, la corruzione, in genere il male morale sono nemici interiori di ciascuno, perché sono possibilità sempre presenti nel cuore di tutti gli esseri umani, quale che sia la loro posizione politica e sociale. Per agire politicamente, dobbiamo designare un nemico politico, che sarà un uomo o un gruppo di uomini, buoni e cattivi insieme come siamo anche noi, dal quale ci dividono volontà, interessi, progetti, etc. b) perché ha paura di quel che implica designare un nemico politico. Designare un nemico politico comporta diventare adulti. Comporta smettere di pensare di essere i buoni che combattono contro i cattivi. Comporta smettere di pensare che il conflitto possa cessare nella concordia universale. Comporta infine darsi una disciplina e una struttura, agire razionalmente subordinando la tattica alla strategia, e smettere di credere al momento magico in cui il mondo intero sarà costretto a riconoscere che abbiamo ragione. Esempio concreto: nel momento culminante della crisi istituzionale, dopo il veto del Presidente Mattarella a Savona, quando per l’alleanza Lega – 5* si apriva uno spazio di manovra immenso, i 5* hanno commesso due errori politici non meno colossali di quello compiuto da Mattarella. Prima, hanno rivendicato d’impulso, a caldo, la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Si è trattato di un errore politico immenso perché a) la rivendicazione è stata fatta senza sincerarsi di avere la necessaria maggioranza parlamentare b) anche qualora la si fosse trovata, persino qualora la messa in stato d’accusa avesse portato alla deposizione del presidente Mattarella, nessuno aveva avuto neppure il tempo materiale di pensare alle conseguenze politiche immani che ne sarebbero scaturite, e al modo di sfruttarle costruttivamente, senza precipitare la nazione nel caos c) di conseguenza ci si autodesignava come politicamente irresponsabili, confermando le valutazioni correnti nel campo avverso. Poi, ritirata senza motivazioni plausibili la proposta di messa in stato d’accusa, Di Maio ha invitato Savona a ritirare la sua candidatura per consentire la formazione del governo, errore politico immenso perché a) trasformava lo scontro politico-istituzionale sulla legittimità in dissidio interno intorno a un capriccio egocentrico di Savona e/o a un’astuzia interessata dell’alleato leghista b) forniva una comoda via d’uscita all’avversario in grave difficoltà c) manifestava un opportunismo politico e una fragilità psicologica esiziali, incapacitanti. Savona non casca nella trappola, e a questo punto la deputata Laura Castelli lancia la proposta di spostarlo ad altro ministero, altro errore politico immenso, perché a) soccorre l’avversario in grave difficoltà b) non si rende conto che la questione “piano B” e Savona al MEF fanno tutt’uno, e hanno spaventato l’avversario perché avere nel governo un Ministro dell’Economia munito dell’ “opzione nucleare” è l’unica garanzia di una trattativa non cosmetica e non traumatica con l’Unione Europea[3] c) trasforma insomma una battaglia strategica in uno scontro tattico nel quale si possono fare compromessi e accettare mezze vittorie o mezze sconfitte. N.B.: sul piano tattico le mezze vittorie/mezze sconfitte esistono: si può pareggiare una battaglia. Sul piano strategico, le mezze vittorie e le mezze sconfitte non esistono proprio: le guerre o si vincono o si perdono.

Momento della verità 7: il difficile viene adesso. Il difficile viene adesso perché i presupposti sui quali è nato questo governo – realizzare una politica anticiclica in economia, dare lavoro, ridurre drasticamente l’immigrazione, mettere “prima gli italiani” – sono tutti irrealizzabili senza una trattativa con la UE che ne metta in questione i meccanismi strutturali. Una trattativa con la UE che ne metta in questione i meccanismi strutturali rappresenta un rischio esistenziale non soltanto per la UE come entità politico-economica, ma per tutte le classi dirigenti proUE non solo italiane, che sulla UE fondano il proprio dominio. L’unico, ripeto unico modo per trattare una modifica dei meccanismi strutturali della UE senza giungere molto presto al punto decisivo in cui si è costretti all’alternativa secca “cedere e subordinarsi in permanenza modello Tsipras/ andare in default, uscire dall’euro unilateralmente, impiantare un’economia di guerra per un periodo di transizione di alcuni anni” è avere il piano B, la capacità e la volontà di usarlo se necessario, e avvalersene come deterrente per prevenire lo scontro decisivo e l’alternativa tutto/nulla (v. la nota 3). La mezza vittoria/mezza sconfitta, insomma il compromesso tattico che ha condotto all’insediamento del governo può innescare due catene di conseguenze. Prima catena: il governo fa annunci, introduce alcuni provvedimenti secondari propagandisticamente efficaci ma che non importano lo scontro con la UE, e sostanzialmente non consegna la merce promessa agli elettori, o meglio al popolo italiano. Risultato finale: la mezza vittoria/mezza sconfitta tattica si trasforma in sconfitta strategica (perdiamo la guerra, e la perdiamo molto male, perché la perdiamo per colpa nostra). Seconda catena: il governo consolida le sue posizioni in patria e trova alleati all’estero, l’alleanza tra Lega e 5* si rafforza trovando concordia sull’obiettivo strategico e sulla designazione del nemico, il tema “modifica strutturale della UE, suoi costi/benefici e metodi per ottenerla” viene ampiamente dibattuto diffondendo vasta consapevolezza e appoggio tra la popolazione; e una volta costruite le condizioni di possibilità di uno scontro diretto con la UE, lo si implementa, probabilmente dopo uno scioglimento delle Camere e una nuova campagna elettorale, che guadagni al nostro fronte una larga maggioranza elettorale e un governo fortemente coeso e competente. Poi, si passa “allo scontro con il grosso dell’esercito nemico”, e se la fortuna assiste, la mezza vittoria/mezza sconfitta tattica si trasforma in vittoria strategica: vinciamo la guerra, cioè otteniamo una modifica strutturale della UE che apre la via a una sua trasformazione, in forme per ora imprevedibili. La prima catena di conseguenze è la più probabile (il fallimento è sempre più facile del successo), la seconda resta possibile, se ci diamo da fare e non ci perdiamo d’animo. La terza proprio non c’è.

[1] https://youtu.be/DOVGmoQpOaA

[2] V. il mio scritto qui ospitato: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[3]V. http://italiaeilmondo.com/2018/05/29/che-cose-e-come-funziona-il-piano-b-per-luscita-dalleurodi-roberto-buffagni/

24° podcast_ Botta e risposta, di Gianfranco Campa

Il Russiagate avrebbe dovuto essere la pietra tombale della Presidenza Trump. Si sta rivelando una caccia ai mulini a vento che rischia di ridicolizzare e discreditare ulteriormente i promotori. Per uscire dalla palude nella quale stanno annaspando senza vie di uscita cercano di aprire pretestuosamente nuovi filoni di indagine con veri e propri colpi di mano e abusi delle proprie funzioni e del proprio mandato. Un logoramento che sta consentendo a Trump di esibire nuovi campioni in grado di tener testa alle scorribande e di rendere la pariglia anche allo stesso livello. La discesa in campo di Rudolph Giuliani è particolarmente significativa. Efficace nel ribattere gli attacchi personali, al prezzo però del sacrificio progressivo dello staff che ha portato Trump alla Casa Bianca sull’onda di prospettive e strategie alternative oramai sempre più vaghe. Un duello che spinge a concentrare sempre più le forze nella tenzone con il risultato di allentare i fili che controllano le dinamiche nei paesi alleati più stretti. Tanto più che uno degli oggetti reali del contenzioso che fanno da sfondo alle faide riguarda il mantenimento o meno della rete di rapporti multilaterali costruiti in questi ultimi trenta anni oppure la loro ridefinizione attraverso una rinegoziazione  bilaterale con i principali paesi, compresi quelli aderenti al Patto Atlantico. Una dinamica che porta ad acuire le rivalità tra le varie potenze regionali ma che sembra altresì offrire qualche margine di azione inaspettato a nuovi centri politici in via di emersione. Ciò che sta accadendo in Italia potrebbe testimoniare un ulteriore passo verso questa direzione. Un processo che rende ancora più interessante ed offre un contesto verosimile alla narrazione inedita che Gianfranco Campa continua ad offrirci_ Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-24

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