i 5 effetti dello strike Usa contro Soleimani in Iran, di Giuseppe Gagliano- Il senso del tragico, di Piero Visani

L’Iraq e la Libia si stanno avviando sulla strada della decomposizione. E’ l’effetto più nefasto e deleterio dell’intervento americano ed occidentale in quei due paesi. Gran parte delle forze politiche, comprese quelle di opposizione a queste intrusioni non stanno operando o si stanno rivelando incapaci di una opera di ricostruzione nazionale. Un gioco di azione e reazione, di provocazioni, incluso quello dello sfoggio di prigionieri, che rende le componenti autoctone in lotta sempre più delle appendici di forze esterne. Tra i paesi in preda al conflitto militare solo la Siria di Assad, almeno nella sostanza, sembra mantenere la caratteristica di una reazione impegnata al mantenimento della propria integrità nazionale_Giuseppe Germinario

Ecco i 5 effetti dello strike Usa contro Soleimani in Iran. Gli scenari di Gagliano

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Tutti gli scenari possibili dopo che il generale iraniano Soleimani è stato ucciso il 3 gennaio da un raid ordinato da Trump. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Il comandante delle Quds Force, unità del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) iraniane, il generale Qassem Soleimani, è stato ucciso venerdì 3 gennaio da un raid ordinato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sull’aeroporto internazionale della capitale irachena Baghdad, secondo quanto riferito dal Pentagono e dalla Casa Bianca.

Soleimani, 62 anni, non solo aveva coordinato le operazioni extraterritoriali iraniane in particolare in Iraq, in Siria, in Libano e Yemen ma aveva in particolare contribuito in modo decisivo a sostenere il presidente siriano Assad. Inoltre, durante la guerra in Iraq, Soleimani servendosi abilmente delle Forze di Mobilitazione Popolare, unità paramilitari sciite appoggiate proprio dall’Iran, aveva dato un contributo militare di grande rilievo nel fermarne il radicamento dell’Isis in Iraq.

L’operazione americana, che rappresenta un successo sotto il profilo della Intelligence, è stato realizzata grazie all’uso di un drone MQ-9 Reaper che ha anche eliminato il generale delle milizie irachene Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare, il Generale Hussein Jaafari Naya, il Colonnello Shahroud Muzaffari Niya, il Maggiore Hadi Tarmi ed il Capitano Waheed Zamanian.

Sotto il profilo strettamente politico-strategico, l’operazione militare è stato attuata a scopo preventivo – per sventare operazioni offensive iraniane contro funzionari americani, come indicato dal Times sulla base delle informazioni del Pentagono – e dissuasivo.

Vediamo di spiegare a tale proposito cosa significa esattamente dissuasivo. Ora, al di là delle comprensibili e scontate reazioni di condanna da parte del leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei e del presidente iraniano, Hassan Rouhani, l’operazione attuata dagli Stati Uniti deve essere contestualizzata sul piano militare in primo luogo all’interno di una più ampia operazione di ritorsione in stile israeliano determinata sia da quella del 27 dicembre in cui un attacco missilistico è stato posto in essere contro una base militare irachena cagionando la morte di un civile americano sia a causa delle violente proteste del 31 dicembre presso l’ambasciata statunitense a Baghdad, situata nella cosiddetta Green Zone, coordinate dalle Brigate di Hezbollah e dalle Forze di Mobilitazione Popolare, proteste volte a chiedere il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq.

Inoltre, sotto il profilo strettamente politico, Mike Pompeo proprio il 13 dicembre aveva avvertito Teheran che qualsiasi azione offensiva sotto il profilo militare nei confronti degli Stati Uniti avrebbe ricevuto una risposta adeguata.

In secondo luogo, sotto il profilo della strategia globale posta in essere da Trump, questa operazione militare risulta essere pienamente coerente con l’obiettivo di contrastare in modo ampio, sistematico e capillare la presenza sciita in Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen.

In terzo luogo, questa operazione militare, può essere inquadrata anche per consolidare il suo consenso interno e per allontanare lo spettro della messa in stato di accusa da parte del Congresso. D’altronde l’uso della politica estera come strumento per rafforzare il consenso al livello di politica interna costituisce non l’eccezione ma una costante a livello storico.

In quarto luogo tutto ciò non farà altro che consolidare la partnership militare degli Usa con l’Arabia Saudita e Israele i cui servizi di sicurezza hanno certamente svolto un ruolo di rilievo nella individuazione di Soleimani.

SCENARI POSSIBILI

Fra gli scenari possibili da escludere vi è certamente l’invasione militare americana determinata dalla natura geografica della Repubblica Islamica. Sebbene gli Usa abbiano infrastrutture militari in 14 Paesi e cioè in Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrein, l’Iran oltre ad avere una estensione di 1.684.000 chilometri quadrati, è una fortezza naturale – pensiamo ad esempio all’uso strategico che Teheran farebbe dei Monti Zagros che dividono l’Iran dalla Turchia – e una eventuale operazione terrestre proveniente dall’Afghanistan non solo implicherebbe mesi di pianificazione ma implicherebbe il dispiegamento di una forza terrestre di almeno 300 mila soldati  operazione che andrebbe autorizzata dal Congresso che, allo stato attuale, sta ponendo in essere un procedimento di messa in stato di accusa proprio contro Trump. Inoltre sarebbe necessaria da parte dell’Iran e/o dei suoi alleati una azione terroristica analoga a quella dell’11 settembre per conseguire una coesione politica necessaria per un intervento di queste proporzioni.

Quanto ad un intervento nucleare limitato da parte degli Stati Uniti questo avrebbe delle conseguenze ancora più imprevedibili sul piano internazionale poiché non soltanto determinerebbe una condanna unanime da parte di tutte le istituzioni internazionali ma soprattutto determinerebbe una reazione anche di natura  militare da parte della Russia.

Non c’è dubbio che in primo luogo questa offensiva statunitense porterà in primo luogo a un aumento della conflittualità da parte sia degli alleati dell’Iran nei confronti di Israele – stiamo naturalmente alludendo a Hezbollah – sia ad un ulteriore incremento della instabilità in Iraq.

In secondo luogo il sostegno militare e di intelligence fornito dall’Iran agli Houthi, attori centrali nel conflitto yemenita, potrebbe determinare  una risposta rapida e diretta stando proprio alle dichiarazioni di Mohammed Ali al-Houthi capo del Comitato supremo rivoluzionario Houthi – cioè ad una  ritorsione militare.

In terzo luogo i rapporti tra Cina e Usa potrebbero subire un ulteriore peggioramento dal momento che proprio la Cina sostiene l’Iran nel contesto della Nuova Via della Seta. 

In terzo luogo l’Iran potrebbe mettere in campo il tentativo di utilizzare lo Stretto di Hormuz come strumento di deterrenza militare.

In quarto luogo, l’Iran potrebbe attuare operazione terroristiche ai danni delle basi militari americane in Qatar e Bahrein.

In quinto luogo questa azione militare da un lato aumenterà in modo rilevante la destabilizzazione in Medio Oriente e dall’altro lato certamente rafforzerà il ruolo politico-religioso sciita a livello globale.

https://www.startmag.it/mondo/soleimani-iran-usa-iraq/?fbclid=IwAR3EFUeKAMbE1v6Lr1tfFADWWG0bVbZOb7bAcZyxhyb9EVuLG_RU877WawA

IL SENSO DEL TRAGICO, di Piero Visani

E’ saper morire per ciò in cui si crede. Si colpisce e si è colpiti. Si sviluppano politiche e se ne subiscono le conseguenze. Non si pensa che vivere consista soltanto nel pagare, farsi tassare da ladri patentati e farsi sfruttare da classi dirigenti ignobili, che non hanno nemmeno il coraggio delle loro azioni.
Marcire – da vivi – non è preferibile che farlo da morti.
Molti del centrodestra italiano – nella loro infinita saggezza da servi – diranno che è stato ucciso un terrorista…

“Difficile concentrare tante sciocchezze geopolitiche in una sola frase.
A partire dal fatto che in Medio Oriente l’Iran (con la Russia) ha fatto da argine al terrorismo islamico dell’Isis tollerato, per non dire altro, da Arabia Saudita e Usa. E per finire con il fatto che l’Italia è il principale partner economico europeo dell’Iran: in questo caso delle imprese nazionali e del popolo delle partite Iva ce ne freghiamo?”

La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

La Turchia non esclude la forza per fermare la perforazione al largo di Cipro

La Turchia non esclude la forza per fermare la perforazione al largo di Cipro

https://www.newsobserver.com/news/business/article238265218.html?fbclid=IwAR292EE4saxnZ9Pk5J11OzFnd3t9UVvDBrfwkYk57S3xYgLydKCv8x5TmB0

The Associated Press
11 dicembre 2019 07:36

ANKARA, Turchia

La Turchia potrebbe usare le sue forze militari per fermare qualsiasi perforazione esplorativa di gas nelle acque al largo di Cipro che sostiene come proprie, ha avvertito il ministro degli Esteri turco.

Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha dichiarato al canale di informazione pro-governo A Haber che la Turchia “ha il diritto di impedire” qualsiasi perforazione non autorizzata nelle acque che si ritiene rientri nella propria piattaforma continentale.

Alla domanda specifica se la Turchia potesse usare mezzi militari per fermare tali trivellazioni, Cavusoglu ha detto “certo”.

Parte dell’area che la Turchia reclama sono le acque sulle quali Cipro ha diritti economici esclusivi e in cui le società tra cui Total francese e l’Eni italiano sono autorizzate dalla nazione insulare del Mediterraneo orientale a svolgere congiuntamente perforazioni.

Un consorzio composto dalle due società è autorizzato a condurre perforazioni esplorative in sette dei “13” blocchi che compongono la zona economica esclusiva di Cipro. Il consorzio ha annunciato che nel prossimo anno procederà con una nuova tornata di perforazioni esplorative.

Altre società autorizzate alla ricerca di idrocarburi nella zona di Cipro includono ExxonMobil con il partner Qatar Petroleum e un consorzio composto da Noble energy, Dutch Shell e Israeli Delek con sede in Texas.

La Turchia afferma che la sua pretesa di una vasta fascia del Mediterraneo è rafforzata da un accordo che ha firmato con il governo della Libia riconosciuto dalle Nazioni Unite che delinea le frontiere marittime dei due paesi.

La Grecia, l’Egitto e Cipro, che si trovano geograficamente tra i due paesi, hanno denunciato l’accordo come contrario al diritto internazionale e la scorsa settimana la Grecia ha espulso l’ambasciatore libico sulla questione.

Cipro afferma di aver avviato un’azione legale presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia contro le violazioni della Turchia dei suoi diritti sovrani. A luglio, la Turchia ha inviato navi di perforazione scortate da navi da guerra per effettuare perforazioni esplorative all’interno della zona economica cipriota, compresa un’area in cui il consorzio Eni-Total ha diritti di perforazione.

La Turchia non riconosce Cipro divisa etnicamente come uno stato e rivendica il 44% della sua zona economica come propria. Dice che agisce per proteggere i suoi interessi e quelli dei turco-ciprioti nella parte nord di Cipro.

L’anno scorso, le navi da guerra turche hanno bloccato fisicamente una nave da perforazione noleggiata da Eni per perforare un pozzo esplorativo in un’altra area in cui la società italiana è autorizzata a effettuare una ricerca di gas a sud-est di Cipro.

Nel frattempo, il Ministero della Difesa di Cipro ha annunciato che effettuerà manovre navali congiunte con Francia e Italia giovedì al largo della costa meridionale della nazione insulare.

L’inutilità di proteste in Iraq e in Libano, di Hilal Khashan

 

Qui sotto la traduzione di un articolo tratto da https://geopoliticalfutures.com/ riguardante la situazione in Libano. Lo si deve leggere tenendo presente il particolare punto di vista del sito. Il riferimento al ruolo di organizzazioni non governative sostenute da centri statunitensi ed occidentali è di per sé eloquente. Particolarmente interessante il giudizio sulla natura e le dinamiche di esercizio del potere nei due stati citati. Giuseppe Germinario

Le proteste pubbliche sono state una componente centrale in Libano e in Iraq negli ultimi anni, grazie anche ad una proliferazione di organizzazioni non governative sostenute dagli Stati Uniti in entrambi i paesi. Le manifestazioni mirano a supportare i temi familiari di lotta contro la corruzione burocratica, le interruzioni di elettricità e le carenze croniche di acqua, e a limitare l’appropriazione indebita di fondi pubblici galoppante. E non ostante esse non abbiano mai ottenuto la riforma istituzionale significativa, la durata e la gravità di quelli attualmente in corso – in particolare contrassegnati dalla violenza delle proteste sciite irachene – avevano convinto molti osservatori che questa volta sarebbe stato diverso.

Ma questo succede in gran parte perché questi stessi osservatori non riescono a capire come funzionano i sistemi politici iracheni e libanesi. Dopo che il Libano ottenne l’indipendenza nel 1943, i leader settari instaurarono una formula di condivisione del potere in base a congreghe confessionali con un elaborato legislativo, esecutivo e giudiziario di facciata. Tale sistema di governo è relativamente insensibile alle istanze pubbliche e strutturalmente impermeabile alla riforma. Subito dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003, gli amministratori statunitensi in Iraq hanno incoraggiato l’adozione del modello politico libanese. Così ora, come in Libano, i nervi, le tensioni della politica irachena si trovano al di fuori della giurisdizione dei rami formali di governo. La pressione dell’opinione pubblica, sia che prenda la forma di protesta spontanea o dell’azione della società civile, non ha collegamenti con il processo decisionale, che segue il modello di struttura elitaria, piuttosto che quello della partecipazione dei cittadini.

C’è poco da meravigliarsi, quindi, se il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, arriva ad accusare l’ingerenza straniera nel far deragliare sui veri motivi della rivolta del Libano che tanto ha sorpreso gli osservatori, invitando quindi i propri sostenitori a dissociarsi da essa. Il pesante coinvolgimento sciita nelle proteste, diffusesi in tutto il paese, ha minacciato di rendere priva di significato la sua alleanza del 2006 con il Free Patriotic Movement del presidente Michel Aoun (FPM), che ha dato Hezbollah una parvenza di legittimità nazionale. Si sono prontamente rimessi al suo giudizio, così come i seguaci del FPM il giorno dopo.

In Iraq, i veri detentori del potere sono le milizie sciite organizzate nell’ambito delle Forze mobilitazione popolare (PMF). Il paese ha un complesso sistema socio-religioso che è favorevole alla situazione di stallo politico in quanto il PMF è supportato dalla casta clericale, a Najaf, a sua volta venerata da sciiti laici, grazie al suo ruolo come fonte di ispirazione religiosa. In Libano, una società profondamente frammentata, i violatori della fiducia del pubblico trovano rifugio nei confini inattaccabili delle loro sette.

Ci sono sempre validi motivi per le persone in Iraq e in Libano per manifestare la loro rabbia per la strada. Eppure, data la struttura del sistema politico, c’è scarsa possibilità che possano smantellare il cartello settario della classe dirigente. Questo è il motivo per cui la promessa del ministero dell’Interno iracheno, di adottare misure per proteggere i manifestanti e proteggere la proprietà pubblica e privata suonò vacua. Questo è il motivo per cui gli appelli clericali di riforma e di auto-moderazione suonano superficiali al meglio. In entrambi i paesi, i governi hanno promesso di attuare riforme sociali radicali, ricostruire le infrastrutture di utility, fornire sollievo ai poveri, e recuperare beni pubblici rubati. Ma oggi, come in passato, più i funzionari fanno promesse alla loro gente, meno accade in realtà, e la frustrazione pubblica cresce. Inchieste sulla corruzione non portano da nessuna parte, e consentono ai colpevoli di sottrarsi alla giustizia. Organicamente incapace di effettuare una riforma, per non parlare di comprenderne il significato, i funzionari riescono a farla franca per la loro incompetenza e confondono le previsioni degli analisti circa la loro scomparsa.

https://geopoliticalfutures.com/the-futility-of-protests-in-iraq-and-lebanon/

RAPPRESENTAZIONE DEI curdi … Di Richard Labévière

Una riluttante macchina per i media si è nuovamente conclusa con l’ultima offensiva turca nel nord della Siria. Ancora una volta, le emozioni e la moralità (politicamente corrette) soppiantano l’informazione fattuale e l’analisi politica, portando una situazione complessa allo stretto dualismo buono / cattivo, buono / cattivo, curdi / turchi … Le belle anime giuste gli hommist usano e abusano dell’anacronismo storico non esitando a descrivere la reazione non occidentale all’offensiva turca di “Monaco oggi”. Bernard-Henri Levy e i suoi complici moltiplicano le imposture intellettuali e il “bugiardo degli altipiani” – Caroline Fourest – ci presenta una clip alla gloria dei “combattenti” curdi, finanziata dai sostenitori israeliani. Non facile

Molti giornalisti, che stanno semplicemente localizzando la Siria su una mappa, stanno piegando le orecchie con l’autonomia di “Rojava”. Il Rojava? È il nome di un territorio “fabbricato”, le cui basi demografiche e storiche sono in gran parte fantasticate. Il 17 marzo 2016, le fazioni curde hanno proclamato il “Rojava”, un’entità “democratica federale” che comprende i tre cantoni “curdi”: Afrina, Kobane e Djezireh. Ma prima di considerare il “Rojava” come un’entità naturale, geografica se non eterna che sarebbe sempre esistita, dobbiamo fermarci un attimo sulla genealogia storica di questa denominazione per vedere meglio cosa copre.

CHE COS’È IL “ROJAVA”?

Il termine è usato da alcuni movimenti nazionalisti curdi per designare un’area geografica, storicamente popolata dai curdi, e inclusa nello stato siriano dalle autorità francesi dopo la prima guerra mondiale e lo smantellamento dell’Impero ottomano. In effetti, con l’accordo franco-turco del 20 ottobre 1921, la Francia si era annessa la Siria e aveva posto sotto il suo mandato le province curde di Djezireh e Kurd-Dagh. Le popolazioni curde lungo il confine turco occupavano tre aree strette separate (senza continuità territoriale): le regioni di Afrine, Kobane e Qamichli, motivo per cui alcuni autori non parlano di un “Kurdistan siriano” ma piuttosto di “Regioni curde della Siria”. Le tre enclavi curde estendono tuttavia i territori curdi di Turchia e Iraq.

Nella sua autoproclamata costituzione del dicembre 2016, il nome ufficiale di “Rojava” è accompagnato dalla seguente espressione: “Sistema democratico federale della Siria settentrionale”. Questo annuncio è stato fatto a Rmeilane dal Partito dell’Unione Democratica (PYD). Dal 2012 il Kurdistan siriano è controllato da varie milizie curde. Nel novembre 2013, i rappresentanti curdi hanno dichiarato di fatto un governo in questa regione, che ospita circa due milioni di persone.

Nel 2012, le autorità siriane sono costrette a inviare truppe principalmente ad Aleppo e nei dintorni di Damasco. Queste emergenze strategiche non consentono di proteggere l’intero territorio siriano, mentre l’insurrezione si sviluppa nelle città di Afrine, Kobane e Hassake. Dal 12 novembre 2013, il Kurdistan siriano ha il suo “autogoverno” autoproclamato. L’annuncio è stato fatto dal PYD, la sussidiaria siriana del Kurdistan Workers ‘Party (PKK) con sede in Turchia. Questa entità afferma di gestire “questioni politiche, militari, economiche e di sicurezza nella regione curda della Turchia e della Siria”.

Fatto unilateralmente dal PYD, questo annuncio non ha ricevuto l’accordo del Consiglio nazionale curdo, che lo rimprovera di “andare nella direzione sbagliata”. Da parte sua, il PYD risponde all’opposizione siriana non islamista di non aver fatto nulla per difendere le località curde attaccate dalla primavera da gruppi jihadisti come l’organizzazione dello “Stato islamico”, il Jabbath Front al-Nusra e Formazioni salafiste come Ahrar al-Cham. Infine, il PYD ha proclamato una “Costituzione del Rojava” il 29 gennaio 2014.

Come “Eretz-Israel” (Grande Israele), il “Rojava” è, quindi, una creazione politica e ideologica che rientra nell’auto-proclamazione delle organizzazioni politiche curde e non una geografia che si imporrebbe dal inizio dei tempi. Pertanto, dovremmo evitare di usare questo nome in modo errato e come se fosse il Polo Nord o Adélie Land!

IL “FDS”, COME IL KOSOVO KLA

Come hanno fatto in Kosovo alla fine degli anni ’90 con l’istituzione dell’UCK (Kosovo Liberation Army) – una banda di criminali e assassini che praticano il traffico di armi, droga e organi – i servizi speciali statunitensi hanno prodotto l’FDS, le “forze democratiche siriane” nell’est dell’Eufrate, principalmente da fazioni curde e filo-curde. Al fine di non prestarsi alle critiche a una tale “milizia confessionale” e di presentare, al contrario, un fronte multiconfessionale, i servizi del Pentagono hanno incluso negli “arabi” FDS, spesso combattenti persi, mercenari inizialmente impegnati in ranghi di Qaeda o Dae’ch.

L’architetto di questo esercito locale era il generale Joseph Votel che era il capo delle forze speciali statunitensi. Il 24 giugno 2014, il presidente Barack Obama ha nominato Votel al posto dell’ammiraglio William H. McRaven alla posizione di 10 °capo del comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti. Questa nomina è stata confermata dal Congresso a luglio e il cambio di comando è avvenuto il 28 agosto. Joseph Votel è diventato il comandante di USCENTCOM il 30 marzo 2016. Il 23 aprile 2018, Votel ha effettuato la sua prima visita ufficiale in Israele come comandante di CENTCOM. Durante la sua visita, ha incontrato il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano – Gadi Eisenkot -, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat e altri alti funzionari della sicurezza in Israele responsabili del monitoraggio della guerra civilo-globale della Siria.

Come comandante della CENTCOM, il generale Votel ha supervisionato la continuazione della “guerra al terrorismo” ufficiale, in particolare con la Joint Task Force Joint Operation Inherent Resolve contro l’ ISIS. in Iraq e Siria. Queste operazioni contro Dae’ch hanno visto la CENTCOM essere maggiormente coinvolta nelle guerre siriane e irachene. Di fatto, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, si trattava principalmente di rovesciare “il regime di Bashar al-Assad”, per usare l’espressione usata dalle agenzie di stampa parigine che designano il governo siriano.

LOTTA “ANTI-TERRORISTA” CONTRO BACHAR

Il 25 settembre 2017, il ministro degli Esteri siriano Walid Mouallem ha dichiarato che i curdi siriani “vogliono una qualche forma di autonomia nel quadro della Repubblica araba siriana. “Questa domanda è negoziabile e può essere oggetto di dialogo”, afferma. Questo tipo di dichiarazione e l’uso del termine “autonomia” è una novità per Damasco, ma allo stesso tempo annuncia la sua opposizione al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno “totalmente inaccettabile per la Repubblica araba siriana”.

Dall’apertura della crisi siriana nel marzo 2011, Washington e i suoi alleati hanno avanzato la lotta contro il terrorismo – guidato in particolare sostenendo varie fazioni curde – per rovesciare il governo siriano. Cercando di fare in Siria ciò che hanno applicato in Iraq, i funzionari statunitensi perseguono una pausa, una “divisione” del paese, modestamente chiamata “soluzione federale”, anche se nessuno crede nella volontà di Washington di trasformare la Siria in Confederazione Svizzera …

I media occidentali accusano abitualmente Damasco di aver deliberatamente rilasciato migliaia di jihadisti incarcerati per giustificare le sue operazioni militari. Ripresa da tutti i donatori di lezioni siriane, questa affermazione è un’assurdità assoluta, nella misura in cui questa richiesta era un requisito dell’Arabia Saudita per consentire ai rappresentanti dell’opposizione siriana – nominati e finanziati da Riayd – continuare a partecipare alle discussioni di Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Con la generalizzazione della guerra civile, gli Stati Uniti e la Francia hanno armato diverse unità dell’Esercito siriano libero (ASL), presentate come un’organizzazione di opposizione “moderata”, “secolare” e “democratica”. Diavolo! Nel corso dei mesi, l’ASL diventerà l’anticamera obbligatoria della maggior parte dei gruppi jihadisti più radicali impegnati contro l’esercito del governo siriano. Da parte sua, i servizi britannici finanzieranno la creazione di una strana ONG – i “White Helmets” – la cui missione ufficiale è di salvare i combattenti jihadisti. Col tempo, questi stessi “caschi bianchi” passeranno all’azione armata anti-siriana e al traffico di organi umani, così come i criminali dell’UCK del criminale di guerra Hassim Thaçi in Kosovo.

In una conversazione telefonica con Recep Tayyip Erdogan domenica 6 ottobre 2019, il Presidente degli Stati Uniti ha dato il via libera alle forze armate turche per entrare in Siria ad est dell’Eufrate e occupare tutto o parte del “Rojava”. Il Pentagono ha affermato che se gli FDS resistessero alle armi in mano, le forze statunitensi (che si sono stabilite su otto basi tra Kobane e Raqqa) si asterrebbero dal sostenerle. La partenza delle truppe americane dal nord della Siria è stata appena confermata. La Francia ha ancora cinque mini-basi militari a Rojava, praticamente accoppiate con basi statunitensi. Sarà sola con l’esercito turco prima di essere costretta a ritirarsi in Iraq?

Dal 2013, Mosca convoca Washington per trasmettervi l’elenco delle cosiddette fazioni ribelli “moderate”, “secolari” e “democratiche”, al fine di stabilire un migliore coordinamento antiterroristico. In effetti, i servizi americani non hanno mai voluto o potuto trasmettere questo famoso elenco perché le organizzazioni terroristiche sostenute dai paesi occidentali, quelle del Golfo e persino Israele, risultano essere le più radicali in termini di fondamentalismo religioso.

Il 26 settembre ad Ankara, in occasione del vertice tripartito dei presidenti turco, iraniano e russo, è stato deciso di istituire corridoi umanitari al fine di risparmiare la popolazione civile dalla tasca di Idlib (a ovest di Aleppo). Dopo il vertice, Mosca informò le autorità di Damasco dell’imminente attacco di Ankara, dicendo che era il modo migliore per riportare il PYD nei ranghi e riprendere il controllo – alla fine – di questo lungo tratto di territorio lungo il confine turco da Aleppo a Deir ez-Zor (nell’estremo oriente del paese). Per diversi anni, il Cremlino non ha disperato di una stretta di mano tra Recep Tayyip Erdogan e Bashar al-Assad. Siamo ancora lontani da ciò, ma questo rimane uno degli obiettivi della diplomazia russa.

Da parte sua, Teheran si oppone risolutamente all’operazione turca, pur avendo cura di non aggiungere ulteriori atti ad essa per non compromettere l’ottimo livello delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il grande perdente in questa vicenda è Donald Trump, che dopo aver dato il via libera a questa nuova operazione militare, ora offre … la sua mediazione. Per quanto riguarda la Corea del Nord e l’Afghanistan, non è vinto! Tuttavia, i massimi esperti del Pentagono e del Partito Repubblicano hanno condannato la decisione della Casa Bianca e riconoscono che in Siria gli Stati Uniti hanno perso la partita, poiché perderanno anche in Yemen grazie o piuttosto a causa della disattenzione dell’alleato saudita.

La debolezza e l’isteria americane mettono in luce la forza silenziosa dell’orso russo, che sta emergendo come il vincitore di questa nuova resa dei conti. In Medio Oriente, come altrove, l’impero sta gradualmente svanendo e lasciando il posto al suo grande avversario strategico, anche se la strada sarà tutt’altro che una passeggiata per Mosca …

I KURDES NON HANNO PARIGI GRATUITI!

In breve, non si tratta di decolorare Ankara e cadere, a nostra volta, in un contro-dualismo altrettanto assurdo di quello che abbiamo sottolineato nel preambolo. No, vale anche la pena ricordare che i servizi segreti turchi hanno partecipato alla nascita dell’organizzazione “Stato islamico” ( Dae’ch ) in Siria dal 2014 al 2016, colpevole di numerosi attacchi mortali. Fedele ai comandamenti dell’ideologia della Fratellanza Musulmana, lo stesso Recep Tayyip Erdogan ha ripetutamente parlato a favore del rovesciamento del “regime di Bashar al-Assad”, incredulo agli occhi della via turca sunnita. Ankara ha continuato a giocare la carta dell’apertura delle porte dei migranti contro i paesi europei e continua a farlo.

Nonostante una sessione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – organizzata su richiesta della Francia – ma che non ha dato nulla, perché l’Unione europea (UE) non infastidisce – puramente e semplicemente: qualsiasi tipo di discussione sull’adesione della Turchia all’UE è sempre più improbabile? Perché la NATO non sta prendendo provvedimenti per condannare chiaramente l’attacco unilaterale di uno dei suoi principali stati membri? Perché non sono previste sanzioni economiche per rispondere al colpo di stato di Ankara?

Storicamente molto mal consigliato – come notato da Alain Chouet (vedi ORIENT-ATIONS) – Donald Trump non avrebbe dovuto essere sorpreso dal fatto che i curdi non combatterono sulle spiagge dello sbarco alleato il 6 giugno 1944 – il Papuani, pigmei e yanomami, i bastardi! – d’altra parte, avrebbe potuto ricordare che diverse fazioni e popolazioni curde hanno partecipato al genocidio armeno dall’aprile 1915 al luglio 1916, nonché alle recidive nel 1923! Pertanto, non ci lasceremo confinare al pianto dei curdi che sarebbero le vittime eterne della storia. Certamente, legati a difficili battute d’arresto militari, i loro successivi fallimenti sono anche e soprattutto il frutto dei loro leader politici in primo piano quali quelli delle unità di protezione del popolo (YPG),

Infine, come prendere sul serio lo scrittore francese Patrice Franceschi e la sua isterica difesa dei curdi quando vediamo che indossa con orgoglio – sopra la tasca sinistra della sua uniforme da ufficiale di riserva – le insegne del Paracadutisti israeliani !!! Non è solo una colpa del gusto, ma anche un grave ostacolo al codice militare che vieta tale uso delle insegne di un esercito straniero. Inoltre, e prima di unirsi agli interessi del regime di Tel Aviv, questo scrittore-ufficiale dovrebbe invece concentrarsi sugli interessi vitali del suo paese. Comprenderebbe che nel Vicino e Medio Oriente gli interessi di Israele non corrispondono necessariamente a quelli dell’eterna Francia …

Richard Labévière

https://www.les-crises.fr/quadra-kurdes-par-richard-labeviere/

le guerre di Israele e il nomos della terra secondo Fabio Falchi

Da sempre il richiamo della terra, la sedimentazione dello spirito, della cultura e dell’anima di un popolo in un particolare territorio hanno suscitato l’interesse di studiosi ed analisti entrando a pieno titolo tra i fattori che determinano le dinamiche geopolitiche, il confronto e il conflitto tra stati e popoli. La retorica sulla globalizzazione in primo luogo e la tesi delle dinamiche del conflitto politico dettate dalla lotta di classe sembravano aver messo definitivamente in secondo piano questo interesse sino a prevederne la totale rimozione. Con il suo ultimo libro “le guerre di Israele e il nomos della terra” Fabio Falchi ci offre un esempio concreto di quanto sia illusoria questa rimozione e di come sia una che l’altra non possano prescindere dalla forza delle radici. Ne discutiamo in questa conversazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE, di Antonio de Martini

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE

Tra ieri e oggi mi sono divertito a leggere qua e là i commenti dei « geopolitici » che spuntano come funghi dopo la pioggia.

Cercano di scrutare nella breve dichiarazione di Mike Pompeo come gli auruspici nelle viscere degli animali sacrificati.

E, conseguentemente, segnalano merda.

1) prima cacca:lasciano intendere che gli Houti siano poco più che una milizia filo iraniana e sciita.

FALSO: sono una tribù che vive da almeno un secolo alla frontiera Saudita. Hanno un credo religioso a metà strada tra i sunniti e gli sciiti.

Si sono ribellati periodicamente fino a che furono sottomessi da Salah, il Presidente che gli USA vollero cacciare dopo un trentennio di regno, in nome della democrazia.

Accettò, gravemente ferito, di farsi curare negli USA lasciando però la presidenza al suo vice e le FFAA al cognato.

Tornato, trovo il vice che non voleva tornare nell’ombra e il cognato defenestrato e in rivolta.

Si rivolse agli Houti che aveva sottomesso e li aiutò a debellare il regime. È morto un paio di anni fa in combattimento. Aveva un grande carisma ed era un guerriero nato.

Il suo vice il pallido HADI è oggi rifugiato in Arabia Saudita in regime di semilibertà dorata.

Mohammed ben Salman – il principe assassino saudita- da neo ministro della Difesa dichiarò guerra allo Yemen ( senza interpellare il Crownprince o gli Esteri) credendo di liquidare gli Houti in una blitz krieg e conquistare lo Yemen.

Fu ripetutamente e sonoramente battuto, ma raggiunse l’obbiettivo di fare amicizia con i lobbisti americani degli armamenti cui assegnò cospicue quanto inutili commesse. Si avvicinò al potere scalzando il cugino ministro dell’interno, ma la guerra non si concluse.

Ora ha il potere saudita ma non riesce a vincere la guerra benché abbia coinvolto gli Emirati della UAE ( specie Abu Dahbi) che volevano partecipare al bottino, per non lasciare Aden ai sauditi, ma non a una guerriglia logorante.

Il capo degli Houti , mi spiace non ricordarne il nome, si è rivelato un vero guerriero della tempra di Salah: affronta gli avversari compensando gli svantaggi tecnologici con la sorpresa e la motivazione dei suoi.

Ha trasformato la deportazione ( subita da Salah) dei suoi in nuove basi di attacco, ha trovato i mezzi per le armi e sembra che abbia imparato a miniaturizzare i congegni di guida dei vettori inserendo il GPS russo che non ha zone illeggibili.

Dopo due attacchi di prova ( a Maggio e a Agosto) ha colpito la provincia orientale governata da un fratello del Crownprince col duplice scopo di fargli fare una figura barbina e avvertire la famiglia reale che se vuole continuare a vendere la loro mercanzia devono lasciare lo Yemen, paese di guerrieri.

2) seconda cacca: gli USA, non hanno ancora interiorizzato la lezione dell’attacco alle due torri. Gli arabi , come noi italiani del resto, sono cattivi organizzatori militari e combattenti temerari e audacissimi.
Gli USA cercano di spiegarsi l’evento attribuendolo ( con cautela) agli iraniani e i “ geopolitici” de noantri assecondano gli israeliani con la storiella della base di lancio vicina a Bagdad.

La realtà, molto più semplice, è che se gli Houti possono trasferirsi nel cuore dell’Irak, a maggior ragione possono farlo nel cuore dell’Arabia Saudita. C’è anche meno strada.

Certo, bisognerebbe ammettere che oltre a non avere il controllo dei cieli e del mare, il grande principe saudita ( e il suo potente alleato) non ha nemmeno il controllo del territorio, specie da quando ha fatto ammazzate due suoi fratelli-cugini pretendenti al trono. La vendetta è un obbligo d’onore.

Terza cacca. Per non offendere l’alleato nessun occidentale fa notare l’estrema cautela dei vertici americani.

I militari tacciono non sanno come spiegare il fatto che non hanno controllato le coste yemenite bloccando il contrabbando; non hanno controllato i cieli sauditi ( solcati da dieci droni o missili , fa lo stesso ) e non hanno controllato le vie di terra giudicandole impossibili per via del clima da attraversare. Trilioni al vento.

Non sanno ( gli analisti)che mio padre nel ‘35 andò proprio lì a reclutare 400 guerrieri per attraversare il deserto dancalo ( il più caldo al mondo + 65 all’ombra) per prendere alle spalle l’esercito del Negus schierato col fianco sul lago Ashanghi.

Per essere arruolati a piena paga dovevano fare cinque centri consecutivi a 200 metri col 91 su un fiaschetta di Chianti da mezzo litro, col collo interrato.

I politici , anche Trump, hanno lasciato parlare solo Pompeo e lui non ha detto praticamente nulla.

Ben Salman, cui Trump ha demandato un “ assessment”, si sta chiedendo di quanto si è avvicinato alla fine.

Putin, ha imparato il marketing: ha detto che con il sistema antiaereo S400 non sarebbe successo.

La borsa petrolifera invece ha detto che è un buon affare (+20% in un giorno per il greggio USA e il Brent che non c’entrano affatto).

Ricordate l’aeroplano che atterrò sulla piazza Rossa a Mosca quasi preannunziando la fine dell’URSS?
Il parallelo giusto è questo. Il re è nudo e il principe assassino è in mutande.

TORNA LA COMPAGNIA DELLE INDIE?

È bastato che Donald Trump lasciasse intravvedere la possibilità di incontrare il premier iraniano Rouhani la prossima settimana all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, perché “entità sconosciute” promuovessero un attacco distruttivo alla più grande zona petrolifera del mondo.

Per attutirne gli effetti, persino il Pentagono sta suggerendo “risposte caute” e “ soluzioni pacifiche”.

Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale è stato scelto tra i “ negoziatori” e non tra i geopolitici o i militari.
Rouhani non ha aperto bocca. I sauditi tacciono.
Gli Stati nazionali sono stati colti alla sprovvista.

Una ultima disperata resistenza di chi non ama l’idea di un incontro-dialogo è stata organizzata attorno alla concessione o meno del visto di ingresso negli USA al premier Rouhani e dall’annunzio che la Marina Saudita si unisce agli USA nel pattugliamento a protezione delle rotte del petrolio. Non ha protetto casa sua, ma vuole pattugliare il quartiere…

Mano a mano che il tempo passa, si delineano schieramenti non tanto nazionali ma tra entità interessate all’apertura di negoziati distensivi e altre interessate a mantenere lo stato di tensione, le sanzioni escludenti e il prezzo del greggio elevati.

Queste entità trascendono i confini nazionali e li attraversano longitudinalmente, continuano l’opera di criminalizzazione di ogni altro tipo di combustibile: carbone, legno ( amazzonia), nucleare.

Costoro, coperti anche da ruoli pubblici, creano intralci politici, logistici ed etici ad alcuni paesi produttori con grandi riserve petrolifere ( Venezuela, Iran, Russia) per tenerli fuori dai mercati e mantenere livelli di prezzi di mercato remunerativi per l’estrazione del petrolio di scisti.

Altri paesi potenzialmente ricchi in petrolio ( Egitto, Sudan) vengono ricattati con la minaccia di assetarli bloccando a monte il Nilo per riempire faraonici bacini di dighe e centrali idroelettriche in paesi ( Etiopia) dove non esiste alcunarete di distribuzione energetica e per crearla serviranno decenni e decenni.

Senza nuove urgenti e cogenti leggi di diritto internazionale che escludano eserciti privati, milizie paramilitari e proxy wars ci troveremo a fare guerre provocate e/o dichiarate ufficialmente da consigli di amministrazione e stati acquistati o conquistati da società per azioni.

LA MATASSA, di Antonio de Martini

LA MATASSA

L’Arabia Saudita si trova tra due fuochi da lei provocati: a sud la guerra con lo Yemen e a nord il conflitto siriano.

Gli Stati Uniti si trovano anch’essi tra due fuochi possibili: da una parte il conflitto in Irak con l’ISIS ( per combattere il quale hanno equipaggiato e autorizzato le milizie sciite) e dall’altra dovrebbero combattere e disarmare le stesse milizie sciite che secondo le accuse israeliane sono la base dell’attacco agli impianti petroliferi.

Entrambi i paesi stanno concertandosi oggi a Gedda circa il da farsi che consisterebbe nel decidere atti di guerra contro l’Iran, il quale nega tutto.

Gli Stati Uniti promettono di esibire alle Nazioni Unite le “ prove” che l’intelligence sta approntando, sempre che si trovi un Presidente USA disponibile a ripetere la scena di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa irachene per avere il sostegno degli alleati.

Ne dubito.

Al massimo lo farà il fido Pompeo e tornerà con le pive nel sacco.

Il senato USA, anche repubblicani, dice che bisogna accertarsi che l’alleato saudita “ abbia tutte le armi necessarie” alla sua difesa . Escludono attacchi diretti di qualsiasi genere.
Alla peggio vorranno fare una Proxy war, ma ne stanno già facendo due….

La proxy war è una forma di lotta affidata nascostamente a terzi mirante a guerreggiare contro un paese terzo senza che appaia il mandante per non violare in forma sfacciata il principio di non ingerenza negli affari interni altrui fissato da Metternich nel Congresso di Vienna( 1815) .

Di fatto è impossibile trovare prove di una proxy war.

I dati di fatto sono che l’AS ha speso quest’anno 82,6 miliardi di dollari in armamenti e l’Iran 13,2.
Gli abitanti dichiarato dai sauditi sono 20 milioni e dagli iraniani 70.

L’Iran è stato oggetto di sanzioni da parte americana e gli europei stanno lavorando per farle togliere o attenuarne gli effetti.

Non credo vi siano dubbi su chi sia l’attaccante strategico, ne sulla fine che farebbero Riad e Tel Aviv in caso di scontro aperto.

Le conclusioni del vertice tra Mohammed ben Salman e Mike Pompeo dunque sono scontate.

La risposta di aumento delle sanzioni, inasprirebbe la situazione a danno degli interessi degli Stati Uniti, ma sarebbe ben vista dai sauditi.

Una decisione di intensificare qualche forma di proxy war sarebbe ben vista dagli americani ma danneggerebbe i sauditi destinati inevitabilmente a sostenere la reazione.

Una reazione nei confronti delle milizie sciite irachene ( incolpevoli) provocherebbe una nuova guerra in Irak e smentirebbe tre decenni di scelte politiche USA, dato che furono loro a dare il potere agli sciiti ed armarne le milizie.
Si passerebbe dalla tragedia alla farsa.

Parimenti impensabile è una rappresaglia contro gli Houti, dato che lo Yemen è stato da mesi dichiarato “ emergenza umanitaria” dalle Nazioni Unite e una serie di ben tre delibere senatoriali che proibivano di fornire armi e assistenza ai sauditi in guerra sono state fermate da un veto presidenziale.
Il quarto sarebbe di troppo.

Un’azione contro Hezbollah in Libano verrebbe vista come un diversivo e scatenerebbe una reazione contro Israele in un momento politico delicatissimo e alla vigilia della comunicazione del piano di pace coi palestinesi.

Le sole soluzioni sono un “ coup de teatre” di Trump alle Nazioni Unite con Rouhani ( che però agli occhi di molti potrebbe sembrare una sconfitta) o far fuori ( sei mesi) Mohammed ben Salman e dare tutte le colpe a lui.
Voi cosa scegliereste ?

C’EST L’ORIENT ! …….C’EST LA guerre, di Antonio de Martini

C’EST L’ORIENT !

Sono un lettore di “L’Orient-Le jour”, il giornale francofono di Beirut e di “ The Times of Israël” anglofono di Tel Aviv.

Oggi su l’Orient c’è un articolo dedicato al ministro degli Esteri israeliano che definisce « burattino dell’Iran » il segretario di Hezbollah, Nasrallah.

Strano che la mia copia, sono abbonato, proprio oggi non mi sia arrivata e che il tono del pezzo sia in contrasto con l’abituale felpata cautela. Provocatorio.

Sono giorni ormai che Israele ha lanciato, in perfetta coordinazione con l’ambasciatore USA a Beirut , una offensiva giornalistico-diplomatica mirante a disarmare e far mettere fuori legge l’Hezbollah inserito dagli USA nell’elenco delle “organizzazioni terroristiche”.

Si tratta di un “aiutino” offerto da Trump alla campagna elettorale di Netanyahu del quale il Libano dovrebbe fare le spese.

Hezbollah è un partito politico che raccoglie stabilmente il 50% dei suffragi elettorali , dispone di un esercito più forte, esperto e motivato di quello del governo libanese. ( 25.000 effettivi e 30.000 riservisti, reduci dalla vittoria in Siria ).

I quindici anni di conflitto civile, cessato nel 91, sofferto dal piccolo paese (103.000 morti su 3 milioni di abitanti) hanno vaccinato per almeno un secolo l’intera popolazione dall’idea di ricorrere alla violenza interna o esterna che sia.

Non faranno la guerra per gli USA né Israele. Né altri.

La guerra civile fu istigata e finanziata dagli stessi attori del presente conflitto siriano e che sono dietro all’improvviso impellente bisogno di sbarazzarsi di Hezbollah diventato ormai un attore permanente dello scenario Levantino.

Israele ha attaccato militarmente il Libano ripetutamente: voleva acqua ( il fiume Litani) e mirava al territorio compreso tra Tiro e Sidone.

Già nel 1982 invase tutto il sud Libano fino alla periferia di Beirut ( operazione “ pace in Galilea”) scacciandone gli abitanti – in prevalenza sciiti- che si spostarono di 50 km, in trecentomila, verso Beirut.
Il catasto di Saida ( Sidone) fu distrutto intenzionalmente per facilitare la rapina.

I Cristiani si spostarono, a loro volta, versoJunie, di una ventina di km.

Da questa mal meditata occupazione israeliana nacque un movimento di resistenza ( l’Hezbollah ) che – assieme alla opinione pubblica internazionale- indusse gli israeliani a rientrare nei confini, appropriandosi solo di una fascia di dieci km che dovettero poi ugualmente abbandonare a causa degli attacchi partigiani diuturni e delle troppo onerose misure di sicurezza.

Un secondo tentativo – un blitz punitivo vero e proprio contro Hezbollah – tentato dagli israeliani, si risolse in una sconfitta militare netta che provocò la rimozione del comandante israeliano accusato di incapacità.

Nel 2006 ci furono bombardamenti israeliani nella piana della Bekaa ad alcune infrastrutture ( e a una fabbrica di bottiglie per birra a capitale indiano!) che gli USA rifinanziarono ristabilendo la tregua.

Adesso, dopo aver fallito coi carri armati prima e con gli aerei dopo, provano con la propaganda e le pressioni diplomatiche.

L’obbiettivo di minima è ottenere un attacco Hezbollah che ridarebbe il carisma del capo militare a Netanyahu offuscato da accuse di tangenti su forniture militari tedesche e pressato dal rivale generale Ganz.

L’obbiettivo medio è quello di far ritirare dalla Siria i volontari Hezbollah che danno manforte al governo e agli iraniani e limitarne la libertà di movimento.

L’obbiettivo strategico é far continuare “l’unrest” nel Levante ritagliando un ruolo per l’emarginata diplomazia USA, a rimorchio e incapace di aver un ruolo guida in tutta l’area.

Ora ha inviato la signora Hole a Cipro per mediare a nome dell’ONU una riconciliazione greco-turca….

Hezbollah ha fatto sapere di essere per ora soddisfatto anche solo dell’innervosimento israeliano che teme un attacco sul suo territorio e ha pubblicato alcune foto di camionette israeliane di presidio al confine con dentro dei manichini.

Un trucco, già utilizzato, per supplire alla carenza di personale esausto dai turni impossibili, al punto che nel sud – a Gaza- il governo israeliano ha offerto cospicua assistenza finanziaria a Hamas in cambio di una “ tregua durevole”.

L’arma demografica comincia a fare effetto. Gli ebrei americani comprano volentieri una casa in Israele, ma non intendono lasciarci le ossa.

Anche il governo siriano, dopo otto anni di guerra, ha scarsità di effettivi.

A Deraa ( zona del giabal druso) , dopo la riconquista, ha concluso un accordo con gli sconfitti: ha lasciato l’armamento leggero di dotazione a un battaglione di ex nemici, incaricandolo di mantenere l’ordine pubblico in città.

Cerca la riconciliazione e
le truppe fedeli le risparmia per presidiare il troppo vicino confine israeliano.

ANCORA IRAN_QUESITI INQUIETANTI, di Antonio de Martini

Le acute considerazioni di Antonio de Martini iniziano con due interrogativi inquietanti, giustamente inquietanti. Il giudizio impietoso e senza attenuanti sulla Presidenza Trump, senza dubbio più severo e senza attenuanti rispetto a quello espresso su altre presidenze, oscura e sottovaluta alcuni dati di fatto:

  • sino ad ora Trump non si è invischiato in nessun conflitto militare e ha sempre sottolineato l’intenzione di uscire al più presto da quelli ereditati dalle precedenti presidenze; uno dei paletti fissati da Trump ai componenti del suo staff avvicendatisi sino ad ora è stato proprio quello di evitare di innescare confronti armati aperti
  • l’andamento schizofrenico della politica estera è legato oltre che alla complessità delle attuali dinamiche geopolitiche, alla contrapposizione inedita, nella loro evidenza e virulenza, tra strategie e tattiche antitetiche dei vari centri decisionali statunitensi, gran parte dei quali fuori dal controllo della Presidenza
  • l’affermazione di strategie, alleanze e tattiche chiaramente alternative comporta la destrutturazione degli attuali sistemi di alleanze. Ciò che appare come un desolante isolamento, potrebbe rivelarsi come un isolamento relativo teso a creare un sistema di alleanze più limitato, ma più coeso in una cornice di multipolarismo sempre più definita. Una fase di transizione che porti al logoramento definitivo delle vecchie élite, in particolare europee. Da questo punto di vista è eloquente la discrezione e la prudenza coltivata da Putin verso Trump, pur in presenza di pesanti provocazioni americane

Detto questo, l’attuale gioco con l’Iran potrebbe in effetti rivelarsi alla fine la trappola perfetta per far cadere o annichilire l’inquilino della Casa Bianca, in un confronto che all’interno del paese lo vede altrimenti vincente, almeno per il momento. Una trappola che potrebbe scattare sulla base di una quantomeno oggettiva convergenza di interessi tra le componenti oltranziste e antitrumpiane americane e dei loro alleati esterni e quelle iraniane, responsabili in buona parte anch’esse, anche se non in prevalenza, della situazione caotica in Medio Oriente, ad iniziare dal sacrificio della questione palestinese. Anche in questa oggettiva convergenza le visioni strategiche sono piegate spesso, in ultima analisi, ai fini dei conflitti politici interni. Una dinamica valida per tutti gli schieramenti, non solo per quello che risale a Trump_Germinario Giuseppe

ANCORA IRAN_QUESITI INQUIETANTI

Quante volte andrà fino al limite della guerra per poi ritornare indietro in sicurezza?
Quante volte ancora prima di restare solo, con la May?

Mentre si avvicina la data del 27 giugno in cui – in base al trattato Iran-EU e potenze europee- l’Iran si renderà libero di riprendere la marcia al nucleare,
l’Iran annunzia di aver abbattuto un drone della Marina USA MQ-4C Triton.

L’accusa è di violazione dello spazio aereo a scopo di spionaggio.

In pratica, ad ogni passo indietro americano dal “brinkmanship”, corrisponde adesso un passo avanti iraniano.

Il controllo dell’area dello stretto di Hormuz diventa sempre più difficile dato che gli USA accusano la perdita di due drone ( un Reaper il 6 giugno e un Triton ieri). Niente morti per fortuna, ma così si facilitano gli scontri.

Il tentativo di creare una “coalizione dei volenterosi “ in Asia – dopo il “fin de non recevoir” europeo sembra essersi rivelato inefficace. Nessun ritiene che il duo Trump- Netanyahu sia dalla parte della ragione.

Se pensiamo che, agli inizi della vicenda “ nuovo ordine mondiale” di Bush senior i “ volenterosi” erano 34 abbiamo la misura di quanto la politica estera americana sia stata piegata alle esigenze di politica interna elettorale.

E di come siano considerati gli alleati dal governo degli Stati Uniti. Entità sacrificabili sull’altare dell’elettorato del Massachusetts.

SOR SALVINI VIEN DA ROMA CON
LE SCARPE ROTTE AI PIÈ

Se il piano USA era quello di piegare l’Iran e la sua dirigenza ai voleri angloamericani e trascinarli a un nuovo tavolo di negoziati, ebbene, è fallito.

Se volevano mostrare al mondo chi comanda, non ci sono riusciti.

Per questi due fallimenti hanno pagato un ulteriore prezzo di immagine in medio Oriente.

Sembra però che questa volta l’ abbiano capita in meno dei nove anni che ci sono voluti per la Siria.

l’Iran ha subìto, tacendo, ogni genere di pressioni economiche e procedure diplomatiche, ma ha reagito unicamente nei tempi e termini previsti dal trattato che lo ha legato all’occidente.

Trascorso un anno dal recesso unilaterale USA, ha applicato i termini usati dal trattato ( e pensati per un Iran violatore del patto) e dato i sessanta giorni di preparazione previsti agli altri partner perché procedessero al richiamo del dissenziente a rientrare nei termini del patto.

Il primo successo persiano è stato che nessuno degli altri sottoscrittori – in questo anno trascorso- ha rinnegato l’impegno preso. Nemmeno l’Onu e nemmeno l’Inghilterra.

Il secondo è l’espressione di stizza e meraviglia del dipartimento di Stato che si è trovato di fronte al muro di gomma degli europei e all’intransigenza iraniana che ha rifiutato ogni dialogo .

La meraviglia si è trasformata in stupore quando di fronte all’accusa del Presidente Trump di sabotaggio al traffico petrolifero, gli iraniani gli hanno dato del bugiardo ed è venuto un gesto di solidarietà dal solo governo inglese dimissionario ( non di denunzia del trattato però ).

A questo punto, il fido Bolton (detto “ due baffi appesi sul nulla”) dalla certezza di colpevolezza, è passato alla quasi certezza ( “almost sure”) e due giorni dopo il CENTCOM medio oriente ( che aveva diffuso il filmato ) ha cambiato apparentemente discorso lamentando che gli Houtis ( tribù yemenita in guerra con l’Arabia Saudita da tre anni ) tentavano, a volte – e di recente con successo – di abbattere i drone americani. ( un MQ 9 Reaper il 6 giugno).

Dopo aver dato questa anticipata spiegazione circa l’assenza di filmati che mostravano DOVE si era ritirato il pattugliatore IRGC classe Gashti del film, hanno ripreso la marcia indietro parlando di missili S A 6 ( automontati) e poi di S A 7 ( missili da spalla) di cui la penisola arabica è gonfia come un otre.

La ragione per cui l’Iran si rifiuta ostinatamente di trattare è duplice.
Da una parte, perché rifiuta di trattare sotto minaccia ( il sistema fu inventato da loro tremila anni fa e citato nel trattato di strategia dell’imperatore di Costantinopoli Maurizio, citato da Luttwark ne “ la grande strategia dell’impero bizantino”) .

Seconda e decisiva ragione è che gli iraniani ( e nemmeno noi) hanno/abbiamo capito quali siano le richieste USA, stante che ancora oggi gli iraniani – persino nello scontro diplomatico- hanno scrupolosamente seguito quanto stabilito dal trattato e non rispondono alle incursioni israeliane in Siria.

Per rimediare a questa sconfitta isolante, il povero Pompeo fa un giro dell’Asia-Pacifico in cerca di alleati per una azione comune non meglio specificata, perché inesistente, contro l’Iran che è tra i principali se non il principale fornitore di petrolio di India, Indonesia, Malesia. Pakistan, Corea e Giappone. ( tanto che alle Sanzioni precedenti furono esonerati dall’embargo dagli stessi USA) .

In questo frangente, giunge la visita a Washington di un vice presidente italiano ( con delega all’interno) che offrirà il sostegno di mezzo governo.

Tornerà indietro con foto ricordo e la notizia che Trump si lamenta di Draghi
“ che ha svalutato l’Euro” ( Deo gratias) e dichiara che si ricandiderà per un altro quadriennio.

Lo rileggeranno trionfalmente, salvo poi accorgersi che saranno rimasti soli assieme a questi moderni voltagabbana sovranisti de Milan.

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