E’ il 1968: USA, URSS, Regno Unito e molti altri paesi firmano il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Un negoziato durato anni, iniziato nel ’63 dopo la firma del Trattato per la Messa al Bando Parziale dei Test Nucleari. Una delle tappe più significative di quel processo di “razionalizzazione imperiale” in cui si imbarcarono le due superpotenze una volta che l’URSS riuscì faticosamente a raggiungere la parità nucleare e la dottrina della “Massive Retaliation” americana cessò definitivamente di essere credibile, un processo noto comunemente come “detente” o distensione che vide Washington e Mosca fissare i propri confini – oltre i quali non sarebbe stato saggio avventurarsi – ma anche dietro i quali sarebbe stato necessario un ferreo controllo. Una stabilizzazione del sistema internazionale in preparazione ad una nuova era di confronto, che inizierà alla fine degli anni ’70.
Ciò che pochi oggi sanno – e che Leopoldo Nuti, considerato il massimo esperto italiano sulla vicenda, ci racconta nel suo “La Sfida Nucleare” – è che l’Italia, a dispetto della sua moderna immagine di potenza multilateralista e promotrice di qualsiasi iniziativa internazionale, quel trattato non lo voleva firmare. E non lo firmò fino a 6 mesi dopo, con ben 12 dodici riserve, per poi non ratificarlo in parlamento – e quindi non aderirvi – fino al 1975. Accompagnata dalla Germania.
UN PAESE SCONFITTO PUO’ AVERE L’ATOMICA?
Quella di Italia e Germania è una storia camminata mano nella mano. Si unificano insieme, anche combattendo su fronti diversi contro Francia e Austria, entrambe vedono nella prima guerra mondiale il completamento del loro Risorgimento (questa volta dai lati opposti della barricata) entrambe successivamente vivono il fascismo e la seconda guerra mondiale, perdendola, e subendone le conseguenze.
Entrambe dopo la guerra si rimettono in piedi piuttosto velocemente nella cornice dell’Europa Occidentale a guida americana (per quanto riguarda la Germania Ovest) delle prime iniziative di integrazione europea – anch’esse collegate all’integrazione atlantica – della ricostruzione post-bellica ma anche (soprattutto l’Italia) delle opportunità offerte dall’avere (giocoforza) “le mani nette” sul fronte coloniale, opportunità che istituzioni come l’ENI di Enrico Mattei, in sinergia con la politica, sfrutteranno pienamente.
Con gli anni ’60 diventano attori economici di tutto rispetto nell’arena dei paesi industrializzati, ma questo rinnovato slancio non si traduce in un rinnovato status strategico. Dunque, la ricchezza di questi due paesi rimane di fatto in balia dei detentori dell’hard power, dietro e oltre cortina. Quand’anche si parla di riarmo in funzione antisovietica – peraltro non sempre visto di buon grado a casa, per ragioni questa volta del tutto interne – l’ambito di discussione è se subordinarlo ad una struttura a guida americana, ad una a guida francese (CED) o se evitarlo del tutto. La NATO rimarrà – fino ad oggi – ancora un’organizzazione dedita a tenere i “tedeschi sotto” (certamente i più temibili della coppia).
E dove può manifestarsi nel modo più chiaro questo “fattore sconfitta”, se non nelle questioni riguardanti il sacro graal della potenza militare e della sovranità nazionale, l’arma atomica?
Il nostro paese proverà in ogni modo – scoprendo i limiti imposti dall’esterno alla sua azione, talvolta lambendoli pericolosamente – ad avvicinarsi all’arma atomica.
Un missile a medio raggio “Alfa”, sviluppato interamente in Italia dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70.
Le ragioni sono principalmente due, e sono entrambe condivise con la Germania. Una riguarda la possibilità di un’invasione del Patto di Varsavia: l’Italia è un paese di frontiera nella guerra fredda, e non può essere sicura – soprattutto dopo la fine della Massive Retaliation – che gli Stati Uniti rischieranno una guerra (convenzionale o nucleare) con l’URSS per difenderla, ma non può neanche sperare di difendersi da sola con le sue esigue forze convenzionali. Washington ha da sempre un problema di credibilità strutturale, causato dall’estrema sicurezza di cui gode il suo territorio, difeso da due grandi oceani e ricco di risorse in grado di consentire l’autarchia. In sostanza, sconta il vantaggio di potersi ritirare dai suoi impegni senza subire conseguenze irreversibili.
La seconda invece, derivante dalla prima, una questione di bilanciamento all’interno dell’alleanza: se sono solo le armi – convenzionali e nucleari – statunitensi a poter garantire la sicurezza dell’Italia, il paese rimane di fatto in uno status di protettorato permanente, incapace di adottare una politica estera indipendente, se necessario in rottura con Washington. Non è assolutamente un caso che durante la crisi del sistema valutario di Bretton Woods alla fine degli anni ’60 l’unico paese a pretendere le sue spedizioni di oro dalla Fed – nonostante le forti pressioni americane per convertire i propri dollari in titoli, come tutte le altre banche centrali – sia la Francia. Non è un caso che nel ’73 – in occasione della crisi transatlantica scatenata dalla Guerra del Kippur – sia la Francia l’unico paese a voler andare fino in fondo, rigettando la costituzione dell’IEA e spingendo sul dialogo euro-arabo nonostante la minaccia americana di ritirare le truppe dal continente: Parigi, forte del proprio deterrente nucleare, è l’unica capitale pronta a dire “fate pure”.
Perciò tentiamo di avvicinarci all’arma nucleare da 4 diverse angolazioni, tutte quelle possibili: tramite il rapporto bilaterale con gli USA, tramite la NATO, tramite l’integrazione europea… e infine tramite l’estremamente controversa “opzione nazionale“.
SLBM classe M51 della Forza Oceanica Strategica francese, considerato da molti esperti il migliore missile intercontinentale balistico al mondo
Nel 1959, accettammo di buon grado lo schieramento di missili nucleari a medio raggio americani Jupiter in due siti a Gioia del Colle, in Puglia. Con una gittata di oltre 3000km, il momento in cui l’Italia si sia più avvicinata a possedere un’arma atomica strategica in tutta la sua storia.
Sì, perché i missili Jupiter erano quasi più italiani di quanto non fossero americani: spiega Nuti – citando il generale Graziani – che le testate nucleari (che secondo il sistema della doppia chiave, sarebbero dovute essere custodite dagli USA, mentre all’Italia spettava il controllo del vettore) fossero permanentemente montate sui missili in posizione da combattimento, pronti ad essere lanciati in soli 15 minuti.
Inoltre, la loro collocazione in una base interamente gestita dall’aeronautica italiana ne avrebbe concretamente reso possibile l’uso anche contro il parere americano, in caso di estrema emergenza. Lo spiega Holifield, segretario del comitato congressuale americano responsabile delle armi atomiche, dopo un’ispezione in un’altra base Jupiter in Europa nel 1960, causando uno scandalo politico: “La cosa più simile a quello che dovrebbe essere il loro possesso da parte degli Stati Uniti, è il fatto che là fuori ci sono 7 uomini e un carrello collegato elettricamente con quel coso. Sei di loro sono di un’altra nazionalità, e il settimo, che ha la chiave, è americano. Tutto quello che devono fare per prendersi la chiave è dargli una botta in testa con uno sfollagente“. Una scelta deliberata secondo Nuti, orientata verso la condivisione nucleare con gli alleati NATO, aggirando la legge statunitense.
L’amministrazione Heisenhower – agendo nella cornice della supremazia nucleare sull’URSS – puntava molto sulla condivisione nucleare con gli alleati, nel suo “minimalismo strategico”: un contenimento dell’Unione Sovietica improntato quasi esclusivamente sull’arma nucleare; anche condivisa con gli alleati – per rendere più credibile la deterrenza – risultava preferibile rispetto ai costi esorbitanti che avrebbe implicato una difesa convenzionale dei nuovi territori dove l’impero americano aveva estesa la sua influenza. Sarà però un’impostazione strategica destinata a finire con l’amministrazione Kennedy, resa impraticabile dall’ascesa dell’URSS come potenza nucleare a pieno titolo.
Il programma Jupiter dunque durerà poco, e nel 1963 i missili nucleari “italiani” – operativi da fine 1960 – saranno sacrificati sull’altare della crisi dei missili di Cuba – insieme a quelli turchi – per essere sostituiti da missili Polaris nel Mediterraneo – ad esclusivo controllo statunitense – causando sia malumori che velati sospiri di sollievo a Roma. Contemporaneamente, Washington a Nassau decide di fornire i Polaris esclusivamente al Regno Unito, una mossa male accolta sia in Francia che nel resto d’Europa, che contribuì all’uscita di Parigi dalla NATO e all’indurimento del veto nei confronti dell’integrazione europea di Londra. Sintomatica di una nuova era nucleare, in cui l’arma atomica – soprattutto strategica – non sarebbe più stata condivisa con facilità.
Restano le armi nucleari tattiche, una componente più fumosa della deterrenza nucleare, meno documentata e poco coinvolta nella contesa politica. Tattiche che sono ancora presenti nelle basi italiane.
All’inizio degli anni ’60, in Italia sono presenti (con vari gradi di controllo statunitense, da quello operativo fino a quello della sola custodia formale delle testate) due battaglioni di lanciarazzi nucleari Honest John – gittata massima 50km – due battaglioni di lanciarazzi nucleari Corporal, mine nucleari da utilizzare nel Gorizia Gap, 24 obici M-115 dotati di proiettili nucleari, e persino un centinaio di missili anti-aerei nucleari Nike-Hercules, pensati per colpire concentrazioni di bombardieri ma spendibili anche in funzione terra-terra con un raggio massimo di circa 170km. Tutte armi utilizzabili in un teatro di operazioni locale, alcune forse – come i Jupiter – senza approvazione statunitense.
Sistema d’arma Nike Hercules installato in Italia. Oggi non esistono più missili da contraerea nucleari, essendo venute a mancare le concentrazioni di bombardieri dell’epoca della seconda guerra mondiale, con l’avvento dell’era dei missili.
Con la fine del programma Jupiter e lo spostamento della deterrenza nucleare americana in mare – con i Polaris – l’Italia comunque non si arrenderà ad essere esclusa da ogni tipo di controllo sulle armi atomiche strategiche necessarie alla sua difesa.
La nuova idea è quella di creare una forza nucleare NATO – a carattere però multinazionale e non sovranazionale, dato importante, con unità controllate dai singoli paesi membri – armata di missili Polaris, basata nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico. A Roma questa iniziativa è presa estremamente sul serio, con la riconversione dell’Incrociatore (ereditato dalla Regia Marina) Giuseppe Garibaldi in una delle prima navi lanciamissili al mondo, la prima che avrebbe ospitato delle testate nucleari. Il progetto era quello di creare altre unità simili, e di imbarcarvi missili Polaris armati con testate nucleari, con equipaggi interamente italiani – solo una minima presenza formale americana – nell’ambito di una forza nucleare a comando NATO.
E’ una prospettiva che Washington intrattiene – o fa finta di intrattenere – ma superata dai tempi: l’era della condivisione nucleare è giunta al capolinea con la crisi dei missili di Cuba e il primo ban sui test nucleari, inizia l’era della razionalizzazione delle due sfere d’influenza. Questo significa un più ferreo controllo da parte di Washington (e Parigi, Londra) sul proprio arsenale nucleare: il sogno della “forza nucleare NATO” svanirà, sostituito dall’annacquato Nuclear Planning Group, dotato del solo compito di studiare i possibili bersagli di armi nucleari strategiche saldamente in mano a Washington. E’ qui che l’Italia inizia a guardare ad alternative più radicali.
L’Incrociatore Giuseppe Garibaldi lancia un Polaris UGM-27 durante i suoi test
LA FIRMA DEL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE E L’OPZIONE EUROPEA
Morte le opzioni di condivisione bilaterale – o multilaterale – dell’arsenale atomico americano, salvo le sempre presenti armi nucleari tattiche, Italia e Germania si avviano ai negoziati che porteranno al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) con atteggiamento estremamente guardingo.
Due nazioni ormai cardinali nel sistema economico delle nazioni industrializzate, vedono (giustamente) il TNP come l’istituzionalizzazione del loro status di potenze sconfitte, la ratifica permanente della loro condizione di minorità rispetto non solo a USA e URSS, ma anche (argomento forse ancora più sentito) rispetto a Francia e Regno Unito. L’Ambasciatore Roberto Ducci riassumerà le perplessità italiane con una formula succinta ed elegante, definendo il TNP “Il trattato col quale si pretende che coloro che hanno fatto voto di castità si evirino“.
Convinte però di non poter fare molto altre (sicuramente consce delle possibili conseguenze di una vera e propria opposizione) Roma e Berlino tentano di apportare modifiche al trattato, in mancanza delle quali la firma – secondo l’ambasciatore a Berlino, Luciolli – sarebbe stata “Una capitolazione totale“: una durata non illimitata (25 anni, diventerà illimitata nel 1995) maggiori obblighi di disarmo per i paesi nucleari (ignorata) minori restrizioni per l’uso civile (parzialmente accolta) e infine l’importante (accolta, col tempo) sostituzione dell’agenzia europea EURATOM all’IAEA per i paesi membri. Con quest’ultima modifica al trattato, è evidente che Italia e Germania vogliano tenere la porta aperta all’opzione nucleare strategica che sembra più realistica: un’atomica tinteggiata – come scrive Caracciolo in “La pace è finita“, rimarcando l’attualità di questo proposito – “con qualche mano di vernice gialla e blu“. L’integrazione europea è sempre stato il veicolo delle ambizioni italiane e tedesche di tornare potenza – un’ambizione, va detto, non condivisa da quasi nessun altro paese membro – ma la prospettiva è senz’altro lontana e incerta. Lo è oggi, lo era a maggior ragione negli anni ’60.
Roma e Berlino infatti non si rassegneranno, e fino al ’75 non ratificheranno il TNP. A casa nostra, si accarezzerà anche l’ipotesi più controversa e inconfessabile: quella nazionale.
Già nel 1967 – prima della firma del TNP – a porte chiuse i toni si fanno accesi, scrive Nuti:
“Quando il 20 febbraio si riunì il Consiglio Supremo di Difesa per discutere sul problema della non-proliferazione e di un’eventuale scelta nucleare nazionale, Fanfani [allora Ministro degli Esteri N.d.R.] constatò una radicata e diffusa ostilità nei confronti del trattato da parte di quasi tutti i principali esponenti del governo, in particolare per quanto riguardava la ‘discriminazione illimitata proposta dal TNP tra non-nucleari e nucleari’. Saragat [PDR N.d.R.] in particolare, sembrò anche in quell’occasione assumere una posizione dai connotati fortemente nazionalistici, quasi favorevole a un’opzione nucleare nazionale, ma anche gli altri partecipanti alla riunione non nascosero le loro riserve.“
E in effetti, il Capo di Stato Maggiore – Generale Aldo Rossi – aveva dato il via libera nel 1964 allo studio in gran segreto di un deterrente nucleare italiano.
Il dibattito si farà molto più acceso – e sporco – in Italia nei 6 e rotti anni che separeranno la firma dalla ratifica.
Un lungo periodo di attesa giunge al termine quando finalmente – nel 1973 – viene completata la tanto voluta intesa tra EURATOM e IAEA: adesso ogni “scusa” cade, ed è il momento di decidere o meno per la ratifica. I paesi del Benelux – che fino a questo punto avevano agito di concerto con Italia e Germania, essendo in una situazione simile dal punto di vista della deterrenza nucleare – ratificheranno immediatamente, lasciando fuori solo Roma e Berlino.
La contesa non investe – perlomeno inizialmente – l’opinione pubblica, ma si consuma nel nostro paese tramite una serie di dichiarazioni, riunioni coperte dal segreto di stato, articoli scritti sotto pseudonimo, campagne di disinformazione.
Con il primo test nucleare dell’India – paese non firmatario del TNP – la fronda dello stato profondo italiano contraria alla ratifica del trattato prende coraggio, denotando un evidente fallimento del regime di non proliferazione: apre le danze Roberto Gaja – Segretario Generale del Ministero degli Esteri – scrivendo un articolo sotto pseudonimo, in cui esorterà Roma a non ratificare il trattato a meno che all’Italia (come ad altri paesi) non venisse riconosciuto il ruolo di “paese soglia” che effettivamente ricopriva, sotto il regime del trattato. Sì, perché l’Italia, ai (bei) tempi era il terzo produttore di energia nucleare civile della NATO (dopo USA e Regno Unito, più della Francia) e aveva la capacità di produrre materiale fissile adatto a far partire un programma nucleare militare nel giro di pochi mesi, grazie all’impianto EUREX I di Saluggia, che dagli anni ’80 sarebbe stato coadiuvato dall’impianto EUREX II in grado di produrre abbastanza materiale fissile da sostenere un programma nucleare in piena regola. Come evidenziavano Aldo Moro e altri membri di spicco della Democrazia Cristiana, l’Italia non partecipava alla “contesa nucleare” solo perché non voleva, non perché non poteva. Molti in Italia (tra gli addetti ai lavori) ritenevano che questa capacità dovesse essere mantenuta, per esercitarla nel caso di mutate condizioni internazionali.
Addirittura – a TNP già firmato – l’Italia svilupperà un suo missile a medio raggio indigeno al 100%, l’Alfa – con gittata di 1600km – abbandonandolo, dopo 3 test avvenuti con successo, solo dopo la ratifica.
Proseguirà il pezzo grosso del CNEN (Centro Nazionale per l’Energia Nucleare) Achille Albonetti su La Discussione – organo stampa della DC – evidenziando il fatto che l’Italia si stesse mettendo in condizione di minorità nel suo teatro geopolitico prioritario – il Mediterraneo – ratificando il TNP senza che lo facessero anche Albania, Algeria, Francia, Egitto, Libia, Spagna, Turchia e Israele (che nel ’74 aveva già l’arma nucleare, anche se forse Albonetti non lo sapeva).
La rivista su cui “Roberto Guidi” esprime sotto pseudonimo le sue perplessità sul Trattato di Non Proliferazione
Poi la vicenda diventerà ulteriormente fumosa, coinvolgendo questa volta anche i media mainstream.
La rivista Politica e Strategia, edita dall’Istituto per gli Studi Strategici e della Difesa (ISSED) del Generale dell’Aeronautica Dullio Fanali – che appena 2 anni dopo diventerà una delle principali persone d’interesse nello scandalo Lockheed – pubblicherà nel settembre 1974 un’edizione speciale tutta dedita alla proliferazione nucleare italiana, contenente articoli che spazieranno da posizioni di pacata critica al TNP ad ardite ipotesi di deterrente nucleare nazionale.
Immediatamente, partirà una vera e propria macchina del fango mediatica contro il milieu contrario alla ratifica del trattato – da parte di testate di area comunista e socialista – ricca di riferimenti all’eversione nera che da pochi anni aveva iniziato a scuotere il paese: il quotidiano di area comunista Paese Sera titolerà “Tattica e nera. L’H sognata dai golpisti“, il settimanale di area socialista L’Europeo scriverà “I Mau-Mau delle ambasciate” – alludendo al movimento di guerrigliero/terroristico in Kenya – Il Manifesto invece “La ‘diplomazia nera‘ preme per l’atomica italiana“. In particolare il dito venne puntato contro Albonetti, considerato il “capofila” di una cordata di diplomatici, politici, industriali e militari favorevoli all’atomica italiana e collegati (secondo questa campagna) con trame eversive. Il direttore del CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare), l’Ammiraglio Avogadro di Valdengo, rassegna le sue dimissioni: tra le speculazioni che circolano, l’opzione che sia venuta alla luce la pianificazione segreta di un test nucleare dimostrativo come quello indiano, utilizzando uranio arricchito ottenuto dalla Francia un decennio prima per un progetto di nave a propulsione nucleare, o processato all’impianto EUREX di Saluggia.
Esponenti della sinistra presentarono interrogazioni parlamentari al governo. Infine, una petizione per la ratifica immediata del TNP da parte di 142 scienziati guidati dal “ragazzo di Via Panisperna” Ugo Amaldi, contribuì a scandalizzare l’opinione pubblica.
Cosa succede dietro le quinte? E’ impossibile dirlo, un altro grande mistero italiano. Che esistesse in quegli anni un milieu eversivo legato sia a settori delle istituzioni sia ai movimenti neofascisti è un dato di fatto. Ma estremamente chiari sono anche i suoi rapporti – o meglio dire la sua simbiosi, ormai diventata innegabile, da Borghese a Fiore, passando per Edgardo Sogno – con Londra e Washington, due capitali estremamente contrarie ad ogni ipotesi nucleare nazionale. D’altro canto, un’altra potenza fermamente contraria – ancor più di Londra e Washington – all’atomica italiana era l’Unione Sovietica, con cui il PCI (ed i media intorno ad esso gravitanti) mantenevano ancora stretti rapporti, nonostante la conversione all’atlantismo in fieri sotto la direzione di Berlinguer, che con Mosca romperà al punto da diventare (forse) vittima di un attentato dei servizi segreti bulgari.
E comunque, il milieu contrario alla ratifica del TNP era davvero sovrapponibile a quello dell’eversione nera/golpista/angloamericana? Su questo punto è facile oggi rispondere di no. Alcuni suoi esponenti – come Fanali – saranno lambiti dalle inchieste sull’area golpista, altri – ambasciatori come Gaja, Ducci, Quaroni, burocrati come Albonetti – ne rimarranno del tutto estranei.
La campagna di pressione da parte della sinistra fu promossa da Mosca? Londra e Washington furono coinvolte, in una convergenza d’interessi con l’URSS nel belpaese – volta a mantenere intatto l’assetto di Yalta/Helsinki – che avrà occasione di manifestarsi anche altre volte durante la distensione? Domande a cui invece non è possibile dare risposta. Forse si trattò solo della reazione isterica di un paese spaventato, sia dagli eventi degli anni precedenti, sia dalle armi in generale, sia dall’idea stessa di ritornare potenza. Anche questo è possibile.
Fattostà che al governo e alla coalizione parlamentare non rimane altra scelta: dietro la pressione dell’opinione pubblica “benpensante” ma anche dei governi alleati (come Nuti scriverà di aver appreso in una discussione riservata con un diplomatico britannico) l’Italia ratifica il TNP nel maggio 1975. Insieme alla Germania.
1953, primo test del sistema d’artiglieria nucleare M65. Sistemi d’arma simili erano presenti in Italia durante tutta la guerra fredda
GLI EUROMISSILI E IL TRAMONTO DELL’OPZIONE NAZIONALE
Armi nucleari strategiche verranno schierate nuovamente in Italia – i cosiddetti “euromissili” Pershing e Cruise – nel 1983, nel contesto di un confronto bipolare ripartito a pieno regime dopo la razionalizzazione, tra guerre per procura in Afghanistan e Angola, superamento senza precedenti dei “confini di Yalta” con il supporto a Solidarnosc in Polonia, guerra commerciale, fine della stabilità strategica nucleare e incidenti estremamente pericolosi.
Questa volta però con delle differenze: non solo i missili americani sono meno ben accetti in Europa rispetto agli anni ’60 – un’Europa che si è imbarcata nelle sue “Ostpolitik” e arriva vicina ad una guerra commerciale con gli USA per partecipare alla costruzione del gasdotto Yamal – ma sono anche privi del lasco sistema a “doppia chiave” che rendeva i Jupiter degli anni ’60 un sistema d’arma quasi più italiano che americano, racconta Nuti:
“Gli americani […] non si mossero dalle loro posizioni iniziali, dal momento che ritenevano impossibile installare fisicamente sui missili una doppia chiave, e non desiderabile la partecipazione italiana alla catena di comando” […] “L’ex ministro della Difesa Lagorio conferma l’esistenza di questo negoziato e racconta di essersi adoperato a più riprese durante il suo mandato perché i missili fossero gestiti congiuntamente secondo il meccanismo della doppia chiave, sul modello proprio di quanto era accaduto con i missili Jupiter […] La disponibilità americana a negoziare sarebbe continuata fin quando il presidente Raegan non manifestò in proposito la sua netta ostilità in una lettera al Presidente del Consiglio Fanfani […] aggiunge nelle sue memorie che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Santini, gli avrebbe suggerito di risolvere il problema, nel caso in cui non si fosse riusciti a trovare una soluzione concordata e si fosse davvero verificato un disaccordo con gli americani circa l’impiego dei missili, bloccandoli nei loro rifugi con il ricorso alla forza“
In sostanza, se prima ci si chiedeva se gli americani sarebbero riusciti a fermare un lancio di missili Jupiter da parte di un’Italia “uscita dal seminato” ora ci si chiedeva se l’Italia sarebbe riuscita a fermare un lancio di missili Cruise – controllati interamente dal 487th Tactical Missile Wing americano di stanza a Comiso, in Sicilia – nel caso in cui gli americani avessero deciso di procedere contro il parere di Roma. Un completo ribaltamento dei rapporti di forza – per quanto concerneva la catena di comando – che di fatto sobbarcava sull’Italia tutti i costi dell’ospitare armi nucleari sul suo territorio (essere un bersaglio per le armi nucleari sovietiche o di altri avversari degli Stati Uniti) senza però conferirgliene i benefici (disporre in qualche misura di un proprio deterrente nucleare strategico). Sintomatico dei nuovi rapporti di forza – più sbilanciati verso Washington – che si instaureranno tra Italia e Stati Uniti con la fine della guerra fredda, e con il (conseguente) cambio di regime che avverrà sull’onda di tangentopoli, dello sgretolamento del PCI e dell’MSI.
Gli “euromissili”, comunque, verranno rimossi già nel 1987.
Anni ’80, un aviere della 485th Tactical Missile Wing mantiene la sua posizione durante un test di lancio del sistema d’arma GBM-109G (Cruise), Europa
Per quanto riguarda le altre “opzioni nucleari” nella disponibilità di Roma – anche dopo la ratifica del TNP – l’Italia rimarrà di fatto un “paese soglia” – dotato di un’avanzata industria nucleare civile e di strutture convertibili in breve tempo ad uso militare – per altri 15 anni, fino a quando il referendum dell’87 – promosso da radicali, socialisti e ambientalisti sull’onda del disastro di Chernobyl, sostenuto poi anche da DC e PCI – non renderà di fatto impossibile la costruzione di nuove centrali (e addirittura impedirà ad ENEL di partecipare in progetti di nucleare all’estero, come a voler spargere sale sulle rovine del programma nucleare italiano) e il governo nel 1990 deciderà di chiudere tutti e 4 gli impianti già esistenti.
Tramontata ogni ipotesi di atomica nazionale, ad oggi rimangono aperte come strade soltanto la futuribile – quanto incerta – opzione europea, e l’eventuale utilizzo di armi nucleari tattiche americane a corto raggio, ad ora presenti nella sola variante di bombe gravitazionali B-61 sganciabili da jet Tornado o F-35A di stanza a Ghedi ed Aviano.
L’Italia è certamente più lontana dall’atomica oggi rispetto agli anni ’60, ’70, ’80. Questo dato, unito a quello di forze convenzionali tenute al minimo (e forse al di sotto, se si esclude la marina) livello di guardia, dice già tutto sulle reali possibilità di autonomia strategica del paese, al netto dei (per quanto auspicabili) sogni europei.
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (ho scoperto che pay pal prende una commissione di 0,38 centesimi)
Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei conflitti Mazzini/Garibaldi. Conferenza del prof. Massimo Morigi
Il 10 marzo 2023 presso l’ Aula Magna dell’ Universitas Domus Mathae Ravennae (segnaliamo per inciso che la Domus Mathae Ravennae, anche denominata Casa Matha o Schola Piscatorum Domus Matha perché nacque per tutelare i pescatori ed il loro ambiente, è la più antica confraternita del mondo occidentale da allora ininterrottamente in vita, risalendo il suo primo statuto al 1260, questo l’Occidente cui ci piace appartenere e non quello fumettistico se non pornografico che ci viene propalato ad ogni piè sospinto dai mass media), il nostro collaboratore prof. Massimo Morigi ha tenuto una conferenza dal titolo invero molto insolito “Lo Stato delle Cose delle Geopolitica Italiana nei conflitti Mazzini/Garibaldi”. Titolo singolare perché a nostra memoria è la prima volta dove espressamente si affrontano tematiche risorgimentali ricorrendo alla tipica strumentazione concettuale della geopolitica e del realismo politico e dove, per scendere nel ragionamento sviluppato da Massimo Morigi, le deludenti prove date nel suo complesso dai maggiori esponenti della geopolitica italiana e dei c.d. esperti italici in tema di relazioni internazionali sulle ultime vicende ucraine, oltre naturalmente ad essere spesso il frutto di incompetenza se non di crassa malafede, vanno soprattutto inquadrate in una tara storica che iniziando dal Risorgimento vede una sorgente nazione bisognosa per ottenere l’unificazione di appoggiarsi alle grandi potenze francese ed inglese ma che proprio per questa sua ancillarità rispetto ai suoi sponsor è quasi impossibilità di sviluppare un suo autonomo pensiero strategico. E ritornando al titolo della conferenza, Morigi ha sviluppato la sua conferenza affermando che nella risaputa rivalità fra Mazzini e Garibaldi non c’era solo l’intransigenza di Mazzini a favore della Repubblica contrapposta ad una maggiore duttilità ed arrendevolezza di Garibaldi verso la monarchia sabauda (e fra l’altro Morigi facendo l’esempio della Repubblica Romana del 1849 ha anche voluto smontare il mito di un Mazzini utopista mentre Garibaldi, più pratico, avrebbe voluto attaccare con ancora maggiore decisione le truppe di Oudinot venute per soffocare nel sangue la Repubblica Romana: in realtà il vero realista fu Mazzini che sperò fino all’ultimo in una vittoria della sinistra nelle elezioni francesi che avrebbe dato respiro alla Repubblica sorta sulle rive del Tevere, che poi questa vittoria non ebbe luogo è tutta un’altra storia e Garibaldi, non avrebbe comunque mai avuto alcuna possibilità di vittoria nel caso, come poi realmente accadde, che la Francia si fosse messa definitivamente di traverso), non c’era solo, dicevamo, la maggiore intransigenza repubblicana di Mazzini contro il filosabaudismo di Garibaldi ma c’era anche il fatto che Giuseppe Mazzini voleva sviluppare, come in effetti tentò, una linea di pensiero geopolitico nazionale che nulla dovesse a livello teorico come a livello concreto agli agenti strategici delle grandi potenze nemiche dell’Austria mentre per Garibaldi sviluppare questo tipo di pensiero era l’ultima delle sue preoccupazioni. E ciò ben si vide in occasione della guerra di Crimea ove Garibaldi si dimostrò entusiasta della partecipazione del Piemonte a fianco degli anglo-francesi mentre Mazzini che non aveva certo grandi simpatie per la Russia zarista era tuttavia ben consapevole che si trattava nient’altro di un impresa per sostenere gli interessi imperialistici anglo-francesi e non una guerra per la libertà dei popoli come voleva illudersi Garibaldi. ( Un notazione sul “contesto” della conferenza: il relatore parlando dell’ottocentesca guerra di Crimea ha voluto molto chiaramente far intendere quale sia la sua parte nell’odierna guerra russo-ucraina e il non averlo fatto apertis verbis è dovuto unicamente al fatto del luogo istituzionale dove ha avuto luogo la conferenza, la Casa Matha di Ravenna appunto, oltre al collegato non irrilevante fatto che erano presenti le massime autorità politico-istituzionali della città degli esarchi; diciamo che spingersi oltre il “limite” raggiunto da Morigi avrebbe provocato il rigetto del suo ragionamento, che invece per la puntualità dei riferimenti storici e l’ “abilità” dialettica del relatore ha ottenuto un vasto e non contrastato consenso, insieme, ovviamente, aver cominciato a seminare qualche sano dubbio anche presso i maggiormente schierati a favore dell’attuale follia sull’attuale demente schieramento dell’Italia nella vicenda ucraina. Ci rendiamo conto che visto il contesto, al momento, non si poteva fare di più. Per le prossime volte suggeriamo però una ancora maggiore chiarezza del relatore, certamente possibile visto il consenso e credibilità che ha ottenuto in questa occasione). Inoltre Morigi ha anche sottolineato che per Mazzini questa linea di Geopolitica nazionale e non servile presso nessuno doveva cominciare in primo luogo da una radicale riforma della pedagogia nazionale, che doveva vedere la costruzione non certo di un uomo nuovo (come fu nella caricatura nazionalistica dei migliori empiti patriottici del Risorgimento operata dal fascismo) ma certamente di un uomo rinnovato, rinnovato nella consapevolezza dei suoi diritti ma, in primo luogo, dei suoi doveri verso la comunità nazionale. E qui si ritorna così agli odierni mass media ed autoeletti esperti di geopolitica, che se possono prosperare e diffondere una cattiva geopolitica, lo possono fare perché la pedagogia nazionale della Repubblica che ripudia la guerra e nata dalla Resistenza è sempre stata non a caso di un infimo livello perché, per farla breve e ad li là di ogni retorica, frutto della sconfitta militare nel secondo conflitto mondiale la quale ha comportato la pressoché totale evirazione dei centri nazionali di elaborazione politico-strategica (un certo Enrico Mattei cercò di mettere una pezza a questo “Stato delle Cose” e la faccenda non finì benissimo…). Ma è ora tempo di dare direttamente la parola a Morigi e quindi ben volentieri rinviamo alla sua conferenza all’URL di YouTube https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM&t=3277s
Buon ascolto
Pino Germinario
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (ho scoperto che pay pal prende una commissione di 0,38 centesimi)
“Il reato di cui è accusato l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e che oggi potrebbe costargli l’arresto, è “fabbricato” ad arte per impedirgli di ricandidarsi alla Casa Bianca.” Lo ha detto il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO), definendo, quella che si starebbe costruendo intorno a Trump, una manovra “completamente antidemocratica“. “In questo momento l’ex presidente Trump ha dichiarato che potrebbero arrestarlo. Se così fosse, visto che nessuno è nato ieri, sarebbe per far sì che il suo nome non compaia sulla scheda elettorale”, ha detto AMLO durante la tradizionale conferenza stampa quotidiana. “Lo dico perché anch’io ho sofferto per la fabbricazione di un crimine, quando non volevano che mi candidassi. E questo è completamente antidemocratico, perché non permette al popolo di decidere chi lo governa”
AMLO prosegue affermando che l’Amministrazione Biden non ha il diritto di parlare di violenza in Messico poiché avrebbe autorizzato il “sabotaggio” del gasdotto Nord Stream, come sostiene il giornalista Seymour Hersh.
Il presidente AMLO risponde al rapporto statunitense sui diritti umani che attacca il Messico: “Non è vero, stanno mentendo. È pura politica… Non vogliono abbandonare la Dottrina Monroe, né il cosiddetto Destino Manifesto. Non vogliono cambiare, e si credono il governo del mondo. Sono dei bugiardi. Non prendetela male. È come se iniziassimo a valutarli in termini di diritti umani. Perché non liberate Julian Assange? Se parlate di giornalismo e libertà di stampa, perché avete Assange in carcere? Come mai un giornalista pluripremiato ci dice che il governo statunitense ha sabotato il gasdotto tra Russia ed Europa?”.
Le dichiarazioni di AMLO sono arrivate poco prima di incontrare l’inviato di Biden, per il cambiamento climatico, John Kerry; questo rende l’impatto delle sue dichiarazioni ancora più significativo e forte. AMLO da credibilità a una narrazione che sostiene che lo stesso Biden abbia autorizzato un’azione segreta per bombardare il gasdotto Nord Stream.
Altre volte, in passato, Lopez Obrador si è schierato dalla parte di Trump, Nel gennaio del 2021, Lopez Obrador aveva denunciato, ad esempio, la decisione di Twitter di bloccare il profilo di Trump, per i riferimenti alle proteste in corso al Campidoglio. “Una cosa che non mi è piaciuta è la censura. Non mi piace che qualcuno venga censurato e privato del suo diritto di trasmettere messaggi, su Twitter o su Facebook, non sono d’accordo”, ha sottolineato il presidente Messicano “Dobbiamo tutti garantire la libertà“.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2020 AMLO fu uno degli ultimi leader stranieri a fare visita all’allora presidente americano tessendo le lodi al presidente Trump, ringraziandolo per il rispetto e l’amicizia riconosciuta al Messico e ad AMLO. AMLO fu anche uno degli ultimi leader mondiali (insieme a Putin) a congratularsi con Biden per le sue elezioni da presidente.
NEL CORTILE DI CASA
Dopo l’Argentina, anche il Messico, il 12 marzo scorso, ha ufficializzato, assieme all’Egitto e ad altri stati, la richiesta di adesione al BRICS. Trattandosi della parte del “cortile di casa” adiacente ai propri confini, pur nello smarrimento e nel caos in cui si trova la leadership statunitense, ci sarà da aspettarsi una sua qualche energica reazione. Il canale più diretto e immediato di intervento potrebbero essere i cosidetti “cartelli della droga” messicani, vere e proprie formazioni paramilitari in gran parte provenienti dalle forze speciali dell’esercito messicano.
Non è detto, però, che questa volta si realizzi facilmente.
È vero che i legami con l’entroterra statunitense sono più che solidi; è altrettanto vero che i laboratori di droghe sintetiche di questi cartelli si forniscono in gran parte dei principi attivi di produzione cinese. Una sorta di nemesi della “guerra dell’oppio” di fine ‘800 che presuppone la tessitura di legami altrettanto forti di questi cartelli con ambienti cinesi.
In guerra non si va certo a sottilizzare sull’integrità morale degli “amici”.
Come ben sanno i nostri lettori, uno dei motivi di contrasto e di logoramento dei rapporti tra l’Algeria e la Francia è stato il mancato rispetto, da parte transalpina, degli impegni di investimento nel settore industriale e manifatturiero in territorio algerino. Uno dei fattori che ha aperto ulteriormente la strada alla Russia e alla Cina. Come un “miles gloriosus” da par suo, il Governo Meloni ha rilanciato con toni roboanti una riedizione della antica politica di Enrico Mattei, che tanto lustro e prestigio ha dato all’Italia in quelle lande.
Ora cominciano a delinearsi i contorni reali di questa politica, in paradossale sodalizio con la Francia.
Macron ha appena annunciato il programma di costruzione di uno stabilimento automobilistico in Algeria. Finalmente una prima parziale soddisfazione tra tante promesse inevase.
Cosa dovrebbe produrre questo stabilimento? Ebbene sì, la FIAT 500.
Questo impegno sarebbe parte del pacchetto di accordi bilaterali di collaborazione tra Italia e Algeria, o parte di un triangolo discreto nel quale l’Italia, in cambio di forniture alquanto dubbie di gas e petrolio, funge da paravento, con i propri marchi e con il proprio residuo prestigio nell’area mediterranea, a mere operazioni di recupero per conto terzi. Del resto aziende come Fiat, ma sempre più anche ENI e Leonardo, gravitano sempre più in orbita statunitense e in subordine dei satelliti europei più importanti.
CERCASI BADOGLIO 2.0. TORNA, PIETRO: TUTTO È PERDONATO.
28 settembre 1937, Stadio di Berlino.
Benito Mussolini [in tedesco]: “Il Fascismo ha la sua etica, alla quale intende rimanere fedele, ed è anche la mia personale morale: parlare chiaro e aperto e, quando si è amici, marciare insieme sino in fondo.”
21 marzo 2023, Senato della Repubblica italiana.
Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio: “Continueremo a sostenere l’Ucraina senza badare all’impatto che queste scelte possano avere nel breve periodo sul consenso verso la sottoscritta, il governo, o le forze di maggioranza. Continueremo perché è giusto farlo sul piano dei valori e dell’interesse nazionale”.
Governo di centrodestra con Giorgia Meloni, congresso costituente del PD con a capo Elly Schlein. Grandi novità che tendono a riprendere e riproporre vecchi schemi interpretativi del tutto inadeguati ad affrontare il nuovo contesto politico-sociale e geopolitico. Una contrapposizione artificiosa, probabilmente artefatta, che con sussulti e forzature non fa che riproporre temi e rivendicazioni in una cornice già fallita. Non è una fase costituente; è il compimento di un processo gia delineato quaranta anni fa. Il risultato è una classe dirigente inadeguata e un ceto politico autoreferenziale. Un guscio che si sta trasformando in una pesante cappa soffocante il paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euri (ho scoperto che pay pal prende una commissione di 0,38 centesimi)
Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euri (ho scoperto che pay pal prende una commissione di 0,38 centesimi)
Monica Vitti, nella parte di Giuliana in una scena del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, girato nel 1964 a Ravenna
“L’ Italia e il Mondo” pubblica ora in un’unica soluzione il saggio di Massimo Morigi Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Con due “piccole” differenze rispetto alla pubblicazione in quattro puntate. La prima che al saggio introduttivo alla biografia su Arnaldo Guerrini e alla biografia stessa sul martire repubblicano ed antifascista sono state aggiunte le scansioni PDF degli originali delle tre “veline di Guerrini” che erano pur presenti da p. 83 a p. 89 del saggio ma che vi erano riportati solo nella loro trascrizione ma non nella loro autentica immagine. È un po’ un’emersione fantasmatica dalla notte dei tempi, tanto più, come preciseremo ora, che l’archivio dai quali questi importanti documenti erano stati recuperati e riconsegnati alla storia degli uomini ora probabilmente non esiste più. La seconda differenza è che il saggio che nella sua interezza “L’Italia e il Mondo” propone ai suoi lettori contiene anche una commemorazione dell’avvocato Vincenzo Cicognani di Lugo, che non solo fu amico e collaboratore di Arnaldo Guerrini (ed anche fra i fondatori del Partito d’Azione) ma che di quell’archivio che serbava i tre importantissimi documenti redatti da Arnaldo Guerrini era stato il creatore ed il custode e che, probabilmente a causa, mettiamola così, di una notevole insensibilità storica da parte di chi avrebbe dovuto custodirlo, oggi non esiste più. Leggerete anche che per Morigi l’occasione per commemorare Vincenzo Cicognani è stata l’ultima ricorrenza del IX Febbraio, col quale quest’anno i residuali mazziniani italiani hanno celebrato il 174° anniversario della fondazione della Repubblica Romana del 1849. Siamo sempre in tema di spettrali “emergenze” ma, come ben si vede anche in questi giorni, anche (se non soprattutto) di queste fantasmatiche apparizioni politico-religiose, così nel bene come nel male, è indissolubilmente impastata e generata la geopolitica…
Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.
Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene.
Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.
E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.
Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.
A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé tutti i connotati dell’ “ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).
In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto – negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.
L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).
Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo. In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.
Teodoro Klitsche de la Grange
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.
Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.
Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.
Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.
Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.
In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.
Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:
la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”
l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze
l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.
L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.
Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.
L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.
Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.
Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.
Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.
Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.
La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.
A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.
Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.
La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.
È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.
Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.
Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.
Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.
La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.
Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.
La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.
Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.
Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.
Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.
Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.
Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.
Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.
Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.
Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.
La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.
L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.
L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.
Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su questo sito abbiamo più volte sottolineato il ruolo inconsistente e nefasto svolto dai paesi europei in Africa, specie nella area costiera mediterranea e subsahariana. Il deprimente allineamento dei paesi europei alla linea russofobica e di aperta ostilità alla Russia, tra le enormi implicazioni di postura geopolitica, di politica estera e di natura socio-economica, ne avrà una ancora del tutto sottovalutata dalle classi dirigenti europee, in particolare di Francia e Italia: l’obbligo di attenzione verso l’unico spazio geopolitico in qualche maniera rimasto agibile, l’Africa appunto. Una strada obbligata da percorrere, però, nelle condizioni peggiori. Nessuno dei paesi europei, allo stato, dispone di sufficienti strumenti diplomatici, politici, economici e militari sufficienti a perseguire politiche più autonome; gran parte delle classi dirigenti africane hanno assunto ormai una consapevolezza dell’interesse nazionale tale da consentire l’assunzione di un proprio ruolo autonomo e di agire tra le contraddizioni e gli spazi di un contesto multipolare ben visibile in Africa; le grandi dinamiche geopolitiche di quel continente sono ormai in mano ad altri protagonisti, nella fattispecie Stati Uniti, Cina, Russia, India e Turchia in particolare. Ai paesi europei non resta alla fine che il ruolo di meri ausiliari. Un contesto che rischia pesantemente di vellicare tentazioni ed avventure neocoloniali che puntino ad agire sulle diversità etniche e tribali rese presentabili nella veste della salvaguardia dei diritti umani e della tutela di una democrazia formale che in realtà non fa che sancire il predominio di gruppi etnici. Tentazioni coltivabili, come ovvio, nella condizione di ausiliari nella competizione geopolitica in corso. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Bernard Lugan è un noto storico specializzato in Africa. In un momento in cui i riflettori dei media sono puntati sul conflitto russo-ucraino, ci è sembrato utile pubblicare questa intervista che getta nuova luce sulle relazioni molto deteriorate tra Francia e Africa. Ciò che è in gioco in questo continente in piena espansione demografica è di grande importanza per comprendere meglio la ricomposizione in corso delle relazioni internazionali e la perdita di influenza della Francia nonostante (o a causa di) i suoi (maldestri) interventi politici e militari.
Bernard Lugan, il 9 febbraio pubblicherai una Storia del Sahel, dalle origini ai giorni nostri (Éditions du Rocher), essenziale per comprendere le minacce del mondo di oggi. Per te, è importante conoscere questa storia. Pensi che questo fattore sia sottovalutato?
Bernard Lugan
I decisori francesi non hanno visto che gli attuali conflitti saheliani sono prima di tutto risorgenze “modernizzate” di quelle di ieri, che inscritte in una lunga catena di eventi, spiegano quelli di oggi.
Prima della colonizzazione, i meridionali sedentari venivano catturati nella tenaglia predatoria dei nomadi. Un fatto comune a tutto il Sahel, dal Senegal al Ciad dove troviamo lo stesso problema. Alla fine del XIXe In un secolo, la colonizzazione ha bloccato l’espansione di entità predatorie nomadi il cui crollo è stato fatto nella gioia dei sedentari che hanno sfruttato, i cui uomini hanno massacrato e venduto donne e bambini agli schiavisti del mondo arabo-musulmano.
Ma, così facendo, la colonizzazione ha invertito l’equilibrio di potere locale offrendo vendetta alle vittime della lunga storia dell’Africa, mentre riuniva predoni e predoni entro i limiti amministrativi dell’AOF (Africa occidentale francese). Tuttavia, con l’indipendenza, i confini amministrativi all’interno di questo vasto insieme divennero confini di stati all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i sedentari prevalevano politicamente sui nomadi, secondo le leggi immutabili dell’etno-matematica elettorale. Gli ex governanti non accettarono di diventare sudditi dei loro ex vassalli, quindi fu posto il problema conflittuale saheliano. Le prime guerre tuareg scoppiarono nel 1960 in Mali, poi in Niger e Ciad dove i Toubou si sollevarono.
G.C.
Nel tuo libro, seguiamo costantemente l’interazione tra la geografia e ciò che definisci etno-storia. Perché i decisori francesi non l’hanno visto?
B
Questo è davvero il cuore della cascata di errori commessi dai decisori politici francesi mentre i militari avevano capito la realtà sul terreno, ma non sono stati ascoltati. In Mali siamo stati al cospetto di due guerre, quella dei Tuareg a nord, quella dei Fulani a sud, e poi, più tardi, si è aggiunta quella dello Stato Islamico nella regione dei tre confini.
Nel nord, e come ho più volte detto nei miei articoli su Real Africa, la chiave del problema era detenuta oggi dai Tuareg riuniti di nuovo attorno alla “leadership” di Iyad Ag Ghali, leader storico delle precedenti ribellioni tuareg. Politicamente, avremmo dovuto raggiungere un accordo con questo leader di Ifora con il quale inizialmente avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto identitaria prima di essere islamisti. Tuttavia, per ideologia, per rifiuto di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno politica africana francese consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Anche il secondo conflitto, quello del sud (Macina, Liptako, Burkina Faso settentrionale e regione dei tre confini), ha radici etno-storiche e la loro forza trainante è costituita da alcuni gruppi Fulani.
G.C.
Lei scrive che il jihadismo è “il più delle volte lo schermo del traffico di droga”. Quindi i due mali sono strettamente intrecciati?
B
Un altro errore di Parigi è stato quello di aver “essenzializzato” la questione chiamando sistematicamente come jihadista qualsiasi bandito armato o anche qualsiasi portatore di armi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, abbiamo avuto a che fare con trafficanti che affermavano di essere jihadisti per coprire le loro tracce. Perché è più gratificante pretendere di combattere per la maggior gloria del profeta che per le stecche di sigarette, le spedizioni di cocaina o per il controllo delle rotte migratorie verso l’Europa. Da qui la giunzione tra traffico e religione, la prima nella bolla assicurata dall’islamismo. L’errore della Francia è stato quello di aver rifiutato di vedere che ci trovavamo di fronte alla spazzatura delle rivendicazioni etniche, sociali, mafiose e politiche, opportunamente vestite con il velo religioso, con diversi gradi di importanza di ogni punto a seconda dei momenti.
G.C.
Lei spiega che un altro errore francese è stato quello di aver globalizzato la questione quando era imperativo regionalizzarla.
B.L
Proprio perché Parigi non voleva vedere che ISGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) e AQIM (Al-Qaeda per il Maghreb Islamico) hanno obiettivi diversi. L’ISGS, che è collegato a Daesh, mira a creare un vasto califfato transetnico in tutta la striscia sahelo-sahariana per sostituire e comprendere gli stati attuali. Da parte sua, essendo AQIM l’emanazione locale di ampie frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, vale a dire i Tuareg nel nord e i Fulani nel sud, i suoi leader locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Fulani Ahmadou Koufa, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli Stati del Sahel. Parigi non ha visto che c’era un’opportunità sia politica che militare da cogliere, che non ho mai smesso di dire e scrivere, ma in Francia non ascoltiamo le opinioni degli “eretici”… Di conseguenza, i decisori parigini hanno categoricamente rifiutato qualsiasi dialogo con Iyad ag Ghali. Al contrario, il presidente Macron ha persino dichiarato di aver dato a Barkhane l’obiettivo di liquidarlo… Contro quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “digitando” indiscriminatamente tutti i GAT (gruppi terroristici armati) perentoriamente descritti come “jihadisti”, rifiutando così qualsiasi approccio “raffinato”. “à la française”…
G.C.
Qual è il ruolo di Wagner nella regione del Sahel?
B
Permettetemi di essere molto chiaro: rifiuto questa mania di attribuire agli altri le cause dei nostri fallimenti. Se Wagner ha preso il nostro posto nella Repubblica Centrafricana, è perché Sarkozy ci ha fatto evacuare Birao, chiusa di tutta questa parte dell’Africa che i russi, che sanno leggere una mappa, hanno naturalmente occupato. Poi perché Hollande aveva i pannolini distribuiti dai nostri eserciti quando era necessario colpire e molto duramente la Seleka. Abbiamo perso la fiducia dei nostri alleati locali e tutto il nostro prestigio. I russi dovevano solo raccogliere il frutto maturo che avevamo lasciato sull’albero. . . In Mali era la stessa cosa e l’ho spiegato a lungo all’inizio di questa intervista.
Ma, più in generale, attraverso il rifiuto della Francia, sono i “valori” dell’Occidente che l’Africa rifiuta. Il continente, che, nel suo insieme, si riconosce nei valori naturali della famiglia vede con repulsione il “matrimonio per tutti”, i deliri LGBT o il femminismo castrante di ogni virilità proposta come “valori universali” dall’Occidente. Per gli africani, questa è una prova di decadenza. Questo è il motivo per cui la Russia appare, al contrario, come un contrappeso di civiltà al frantoio morale-politico occidentale.
Per quanto riguarda la democrazia “alla francese”, è vista come una forma di neocolonialismo. Tanto più che proporre agli africani come soluzione ai loro problemi l’eterno processo elettorale, il miraggio dello sviluppo o la ricerca del buon governo è ciarlataneria politica… Gli eventi dimostrano costantemente che in Africa, democrazia = etno-matematica, il che si traduce in gruppi etnici più grandi che vincono automaticamente le elezioni. Ecco perché, invece di spegnere le fonti primarie di incendio, le elezioni le rianimano. Per quanto riguarda lo sviluppo, tutto è già stato provato in questo settore dall’indipendenza. Invano. Inoltre, come possiamo ancora osare parlare di sviluppo quando è stato dimostrato che la demografia suicida africana vieta ogni possibilità?
G.C.
Quindi, quale futuro?
B
Decine dei migliori bambini in Francia sono caduti o tornati mutilati per aver difeso un Mali i cui uomini emigrano in Francia piuttosto che combattere per il loro paese. Ma, richiesto dagli attuali leader maliani in seguito ai numerosi errori di Parigi, il ritiro francese ha lasciato campo libero al GAT, offrendo loro anche una base d’azione per destabilizzare Niger, Burkina Faso e paesi vicini. Il bilancio politico di un decennio di coinvolgimento francese è quindi catastrofico.
La Francia sta ora affrontando un rifiuto globale. Se il Niger, un paese più che fragile in cui abbiamo appena ritirato le nostre forze, dovesse subire un colpo di Stato, la situazione diventerebbe problematica e il ritiro verso le coste un’emergenza. Ma con quali mezzi di ritiro? Gli uomini possono ancora essere evacuati per via aerea, ma per quanto riguarda i veicoli e le attrezzature, dal momento che non abbiamo jumbo jet?
La priorità urgente è quindi sapere cosa stiamo facendo nella striscia sahelo-sahariana dove non abbiamo interessi, compreso l’uranio trovato altrove. Dobbiamo quindi definire finalmente e molto rapidamente i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo o meno disimpegnarci, a quale livello e, soprattutto, senza perdere la faccia.
Occorre trarre diversi insegnamenti da un colossale fallimento di cui, va ripetuto, i responsabili politici sono gli unici responsabili. In futuro, dovremo dare priorità agli interventi indiretti o alle azioni rapide e ad hoc delle navi, che eliminerebbero lo svantaggio dei diritti territoriali percepiti localmente come una presenza neocoloniale insopportabile. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento del potere delle nostre risorse marittime e delle nostre forze di proiezione.
Ultimo ma non meno importante, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si sviluppi. Ciò implica che i nostri intellettuali finalmente capiscono che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etno-matematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti sono ora i loro padroni. Questo sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma questa è la realtà africana. Più che mai, è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne trarranno beneficio… In una parola, il ritorno alla realtà, la rinuncia alle “nuvole”, che passa attraverso la conoscenza della geografia e della storia, ed è questo lo scopo del mio libro e delle sue numerose mappe.
Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.
Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).
Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.
Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).
Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.
C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.
Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.