Stati Uniti! La coperta troppo corta di un impero Con Gianfranco Campa

La leadership statunitense dominante inizia a presagire che la coperta di cui dispone non è sufficiente a coprire l’attuale impero. Una crisi, quindi, da sovraestensione cui porre in qualche maniera rimedio. I dilemmi da risolvere sono drammatici. Si tratta di consolidare con polso ferreo il controllo sull’area accessibile del proprio impero sul quale esercitare egemonia diretta ed estrazione spietata di risorse; il capro espiatorio designato è, a questo punto, l’Europa con la piena accondiscendenza delle sue élites. Si tratta di ridurre e concordare con i nuovi contendenti nell’agone internazionale, in primo luogo la Cina, le dinamiche di una globalizzazione dalla quale la formazione sociale degli Stati Uniti non può prescindere in tempi storicamente ragionevoli, pena il collasso interno, ma dalla quale anche la Cina potrebbe subire sconquassi traumatici in caso di collasso della intera rete costruita in questi ultimi decenni. La recente intervista alla Segretaria all’economia Raimondo, recentemente pubblicata, dietro la maschera dell’oltranzismo parossistico, cerca di delimitare, appunto, i confini di questo scontro http://italiaeilmondo.com/2024/04/23/cina-stati-uniti-capire-la-dottrina-raimondo-di-alessandro-aresu/ , in verità troppo ristretti per l’attuale leadership cinese. Un nodo gordiano quasi impossibile da sciogliere e del quale sembra approfittare sul piano dei consensi popolari Donald Trump parallelamente però al crescere della stretta soffocante della piovra tentacolare dei centri di potere che cercherà di soffocarlo presto o tardi. Nel frattempo sia in Europa, il polacco Duda oltre allo scontato Orban, che il leader liberale in Giappone, figure politiche inaspettate sembrano cogliere il vento che spira oltreatlantico. Opportunismo e trasformismo di chi? Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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IL SUPER MALUS, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL SUPER MALUS

Sul super bonus si è scatenato un dibattito, che non tiene conto tuttavia di una circostanza di rilievo decisivo, applicata ad una fattispecie per certi aspetti nuova, o almeno non abituale.

Andiamo per ordine.

Milton (e Rose) Friedman scrivevano sull’errore dello Stato assistenziale (in Liberi di scegliere), che consisteva in un fatto fondamentale, ovvero che “Quando si spende, si può spendere il proprio denaro o quello altrui; e si può spendere per se stessi o a favore di qualcun altro. Combinando queste due coppie di alternative si ottengono quattro possibilità”. Se si spende denaro proprio a proprio favore la scelta è la migliore possibile perché “si ha un forte incentivo sia a economizzare sia a ottenere tutto il valore possibile da ogni dollaro che si spende”. Quando si spende  a favore di qualcuno denaro proprio “si ha lo stesso incentivo a economizzare della I categoria, ma non lo stesso incentivo a ottenere il pieno valore del proprio denaro, almeno secondo il giudizio del destinatario” anche perché non si hanno tutte le relative informazioni. Se si spende a proprio favore denaro altrui, non si ha alcun incentivo ad abbassare il costo, ma solo quello ad ottenere il valore.

Quando poi si spende per altri denaro di altri  “si ha poco incentivo sia a economizzare sia a cercare di dare al proprio ospite ciò al quale egli può attribuire il massimo valore”.

Normalmente le ultime due categorie di spese sono quelle praticate dalle pubbliche amministrazioni, secondo il modello usuale che l’amministratore (ma anche il legislatore) spende denaro di altri (i governati-contribuenti).

Nel super bonus invece il modello è invertito. È il contribuente-committente che decide la spesa, attribuita poi (come sempre) alle pubbliche finanze, cioè ai contribuenti. Il che ha, come si legge sui giornali, portato a ristrutturare il 4% degli immobili, la cui spesa è stata pagata dal 100% dei contribuenti.

Il meccanismo è perciò inusuale ma presenta lo stesso inconveniente di quello generalmente praticato, e che sta a “monte” della distinzione tra pubblico e privato, governanti e governati: che chi spende quattrini degli altri è portato a spenderli male.

Perché per fare un calcolo corretto costi/benefici occorre che ambedue siano sopportati dalla stessa persona. Anche quando si finanzia, con vari sistemi un’impresa privata, con quattrini pubblici – che è il caso più vicino a quello del super bonus e spesso praticato – il risultato può (e spesso è) lo stesso: a un profitto privato corrisponde un esborso pubblico, di guisa che, a valutarli entrambi, risulta un cattivo affare.

Questo al di là delle considerazioni, spesso fatte dai politici: ritorni fiscali (ma sono solo parte delle spese pubbliche), inefficienza della p.a. (verissimo, ma da curare altrimenti), corruzioni (non manca mai), “giustizia contributiva” e così via.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Intelligence economica e Confindustria, di Marco Pugliese

Tratto da linkedin:

Un proposito più che meritorio. Mi preme sottolineare, però, alcuni aspetti fondamentali: 1- per la natura specifica della UE, l’attività lobbistica è fondamentale e deve essere gestita, per le caratteristiche della struttura industriale, da associazioni e, più realisticamente, da specifiche componenti di esse, visto il carattere eminentemente conservatore e ossequiente di Confindustria 2- per la natura specifica della struttura industriale, l’apporto del ceto politico-governativo è ancora più importante che per gli altri paesi europei, quanto lo è di fatti, purtroppo, più deficitario 3- diventa fondamentale, non solo salvaguardare, ma recuperare il controllo e la gestione paritetica delle compartecipazioni della grande industria di base in vista di possibili fusioni nel contesto europeo 4- occorre orientare sempre più verso il prodotto finito finale la produzione della piccola e media industria piuttosto che sulla componentistica o, quantomeno e in controtendenza, diversificare il portafoglio clienti sulla falsariga, ormai parziale anch’essa, di Brembo e poche altre 5- creare un sistema bancario-finanziario dedicato. Pensare ad un particolare connubio tra banche-poste-Cassa DDPP in controtendenza con la progressiva cessione di azioni di Poste Italiane a fondi internazionali. “Vaste programme”. Concordo che basilare è la consapevolezza dei termini della questione Giuseppe Germinario

Intelligence economica e Confindustria

Ho letto con grande attenzione il programma di Emanuele Orsini (ormai al vertice di Confindustria) e sottolineo che questo imprenditore (che conosce la costellazione delle PMI italiane) ha messo al centro un progetto fondamentale per le nostre aziende (di tutte le dimensioni): l’intelligence economica salva-aziende.

Prima dovrà serrare i ranghi e ridare serenità ad una Conf troppo importante e strategica per il nostro Paese. La dorsale dei piccoli e medi imprenditori sarà fondamentale nella nuova Confindustria che ha bisogno di far lavorare grandi e piccoli in parallelo. Orsini dovrà gestire la delicata nuova normativa europea inerente la manifattura (le nostre imprese piccole e medie non sono mai state al centro dei progetti europei…).

Oltre a questo va sottolineato come Francia, Germania, USA, Uk, Giappone e Cina avvantaggiano i propri settori industriali e di manifattura. Per gestire il peso italiano a Bruxelles serve una vera e propria intelligence economica che protegga le nostre aziende e gli asset economici.

Qualche esempio?

Siamo la seconda manifattura d’Europa: non possiamo farci fagocitare da regolamenti decisi altrove.
Abbiamo una dorsale strategica fatta di PMI, non possiamo avvallare proposte (soprattutto da Nord Ue) che avvantaggiano la grande industria.
Non possiamo accettare che stati come Germania o Francia aiutino le proprie imprese a debito (omettendolo, la Germania 1000 miliardi dal 2013).
Non possiamo farci sfilare in affari come il fu Fincantieri-Stx.
Non possiamo farci imporre carburanti sintetici tedeschi quando abbiamo Eni che lì produce da più d’un anno.
Non possiamo rimanere fuori dal comparto industriale dedicato allo spazio (annessa IA).
Non possiamo più permettere attacchi ai nostri asset come accadde con Saipem nel 2015.

Serve una svolta sistemica e bisogna iniziare anche a dire che l’obiettivo deve essere chiaro: riportare l’Italia ad occupare il quarto posto (come ad inizio anni ‘90) a livello industriale nel mondo, lasciando questo settimo posto ormai datato anni 2000. Basta galleggiare, bisogna spingere.

Ho creato https://openindustria.com per dare rete tra imprese, educazione, cultura e ricerca.

Al suo interno progetti innovativi come Deutelio o quello di Gianfranco Pizzuto, oltre a Roberto Santori con Made in Italy.
Aggiungi anche il lavoro del CISINT – Centro Italiano di Strategia e Intelligence nel settore geoecomomico e la mission di ItalyUntold.

Grazie alla professionalità di Roberto Macheda stiamo cercando di dare un respiro più profondo a chi vuol cambiare il Paese investendo.

A breve uno speciale inerente Confindustria su Bankimpresanews.com

Sono convinto che sia giunto il momento di concludere il tempo delle mezze misure.
Porto per questo motivo Olivetti e Mattei in aziende e scuole: dobbiamo tornare a crederci o avremo un futuro di serie B.

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Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi. Intervista a Massimo Morigi, a cura del prof Umberto Marsilio

UN CONVEGNO SU ANTONIO DE MARTINI PER LA  NASCITA DI UNA NUOVA GEOPOLITICA MAZZINIANA 

Alcune domande dello storico Umberto Marsilio al prof. Massimo  Morigi, filosofo politico e cultore della storia risorgimentale e del  repubblicanesimo. Le domande sono state poste a seguito della  visione di Marsilio della conferenza Lo Stato delle Cose della  Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, conferenza tenuta  da Morigi presso la Società degli Uomini della Casa Matha di  Ravenna e disponibile su YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM&t=4693s . Più  l’annuncio di un prossimo convegno di studi per onorare la memoria  del geopolitico mazziniano Antonio De Martini 

 In seguito alla visione su YouTube della mia conferenza Lo Stato  delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, lo  storico Umberto Marsilio ha ritenuto opportuno pormi alcune  domande alle quali ben volentieri rispondo, premettendo che per  alcune, che riguardano più prettamente l’ histoire événementielle, sarò  necessariamente laconico (ciò dovuto allo stato della ricerca  storiografica che non consente maggiore precisione), per altre, che  investono direttamente la storia delle idee sarò forse ridondante, e  questo dipende indubbiamente dalla mia specifica competenza nello  studio ed insegnamento della filosofia politica.  

qui il testo in formato pdf

MAZZINI DE MARTINI MORIGI MARSILIO INTERVISTA

 Rispondo quindi alla domanda che mi pone Marsilio in merito  alle somiglianze e differenze caratteriali e politiche fra Mazzini e  Garibaldi. È sempre difficile, se non impossibile, indagare la  psicologia intima delle persone, siano queste nostre dirette conoscenze o personaggi storici. I personaggi storici, tuttavia, hanno sulle persone  che non hanno svolto vita pubblica, una via privilegiata per  scandagliare la loro psicologia perché essi dovettero per ragioni  “professionali” rapportarsi con vasti aggregati umani al fine di  indirizzarne non solo il presente o il futuro da qui ad una generazione,  come possono o si illudono di fare le persone non pubbliche ma con  più ristrette cerchie familiari e/o amicali, ma di determinare il futuro  di numerose successive generazioni e per svolgere questa missione essi  dovettero costruirsi non solo una maschera personale e/o familiare ma anche una maschera pubblica.  

 Ora dal punto della maschera pubblica, non si potrebbero  concepire due personaggi più diversi di Mazzini e Garibaldi. Molto  appropriatamente lo storico del movimento repubblicano e del  Risorgimento Roberto Balzani ha affermato che Garibaldi costruì il  suo carisma sulla presenza e sul riconoscimento ictu oculi della sua persona e sul contatto diretto col suo stesso corpo (i Mille potevano  vedere e, se volevano o le circostanze glielo consentivano, addirittura toccare l’oggetto del loro mito, e, in generale, tutto il mito di Garibaldi  fu costruito su stereotipi che rimandavano ad un paradigma di  sacralità – e quindi di carisma politico – di stampo cattolico cristologico dove la visione dell’immagine è fondamentale  nell’adorazione della divinità), mentre Giuseppe Mazzini, sostiene  sempre Balzani ed io concordo in pieno, fu l’eroe dell’assenza, voglio  dire dell’assenza della sua immagine e del suo contatto diretto presso i  suoi seguaci, fra i quali pochissimi ebbero modo di vederlo e  riscuotendo, nonostante questo, fortissimi sentimenti di ammirazione e  folte schiere di seguaci (una intensità di sentimenti e foltezza di  seguaci che però dopo ogni sommossa mazziniana regolarmente fallita  andarono mano a mano scemando e dopo ogni rovescio dei moti da  lui suscitati molti dei suoi seguaci lo abbandonavano per abbracciare  percorsi più realistici e moderati per il loro patriottismo). Plastico in questo senso di leadership per assenza, il caso dei fratelli Bandiera che  si immolarono per gli ideali mazziniani senza mai avere visto una sola  volta il Maestro di Genova.  

 Per quanto riguarda gli ideali che accomunavano Mazzini e  Garibaldi, facile rispondere. Entrambi volevano l’unificazione del  nostro paese, solo che Mazzini voleva che l’Italia fosse unificata e al  tempo stesso fosse retta da una forma di governo repubblicana mentre  per Garibaldi l’unica cosa importante era l’unificazione e la forma di  governo, in fin dei conti, non era così importante perché egli si  acconciò ben volentieri al fatto che a dirigere l’unificazione del paese  fosse il Piemonte retto dalla monarchia sabauda.  

 È assolutamente indispensabile a questo punto fare però una  precisazione. E non tanto su Garibaldi e sul suo pragmatismo  nell’azione ma su Mazzini e sul suo ideale repubblicano e questo mi  consente fra l’altro di rispondere ad un’altra domanda che Marsilio  mi ponte e che è la seguente «per quali motivi oggi Mazzini è ritenuto  un Pater Patriae sebbene la sua visione e la sua azione politiche non  sono state determinanti nel processo di unificazione?». Ora ad un  livello superficiale di risposta si potrebbe dire perché infine la  monarchia che Mazzini tanto detestava ha cessato di esistere e al suo posto abbiamo oggi una “bella” repubblica, nata, si dice sempre, dalla  resistenza che su di sé seppe accogliere i migliori empiti anche del  risorgimento, dei quali Mazzini seppe dare espressione non solo per la  sua lotta per l’unificazione del paese e per la forma di governo  repubblicana ma anche per la sua visione sociale, di cui la Repubblica  fondata sul lavoro avrebbe saputo cogliere le sue idealità ed i  propositi. 

 

 Ma, purtroppo, qui siamo in piena costruzione non tanto di un  mito mazziniano (se studiato a fondo, uno dei rischi che corre anche lo  storico più smaliziato ed arcigno è di mitizzare Mazzini, vedi  Salvemini con i suoi giudizi sempre altalenanti fra l’ipercritico e  l’ammirato su Giuseppe Mazzini) ma in pieno mito regressivo sui  quarti di nobiltà che dovrebbe vantare la nostra repubblica, o meglio, siamo in pieno mito regressivo e di rimozione sulla realtà effettuale 

della genesi e natura reale della sua costituzione materiale che anche  oggi, ancor dopo più di settant’anni dalla sua nascita, anche a livello  non meramente pubblicistico e/o giornalistico ma anche in sede  scientifica o pseudotale, continua ad essere rappresentata come una  repubblica nata dalla resistenza contro il totalitarismo fascista e  quindi in virtù di questo mitologico inizio incontestabilmente  democratica (in realtà nacque dalla sconfitta ed occupazione militare  anche se, dobbiamo pure dirlo, non c’è storia di fondazione di nessuna  nazione che non sia intrisa di mitologia e/o di false e ridicole  rappresentazioni della stessa, da questo punto di vista paese che vai  mito di fondazione che trovi), mentre nella realtà effettuale della sua  costituzione materiale la nostra repubblica solo con molta fantasia può  essere definita, qualsiasi cosa si intenda col termine, come una  democrazia, manifestandosi essa come una cristallina e tetragona oligarchia elettiva seppur a suffragio universale e sul significato di  questa definizione non penso sia necessario dilungarsi se non  addentrandoci su un “piccolo” dettaglio in merito al pensiero di  Giuseppe Mazzini.  

 Ora se si va a leggere a fondo e per esteso Mazzini, ci accorgiamo  che egli impiega assai di rado il termine ‘democrazia’ e gli preferisce il  termine ‘repubblica’, intendendo con repubblica non solo il dato  puramente istituzionale (e qui siamo in piena banalizzazione del  pensiero di Mazzini così come oggi lo intendono i suoi attuali stanchi  emuli), ma proprio una forma di Stato che fosse finalizzata all’insegna della tutela e sempre maggiore valorizzazione della Res Publica,  intendendo quindi Mazzini la Repubblica come quell’insieme di  valori materiali e spirituali verso i quali era dovere di tutti i cittadini  agire in vicendevole collaborazione al fine di ottenerne un sempre  maggior accrescimento e potenziamento di generazione in  generazione.  

 A ciò si potrebbe obiettare che anche la nostra repubblica e in  Costituzione ed anche nelle sue politiche concrete si pone questi  obiettivi mazziniani ma qui io non voglio sindacare sull’efficacia nel  raggiungimento di questi buoni propositi (penso non sia necessario un  mio giudizio al riguardo…) ma su un fatto che riguardo a Mazzini non  viene mai messo in rilievo e si tratta del seguente punto: Mazzini  aveva una visione olistica della società che era radicalmente nemica  della visione atomistica della società così come la vede e disegna il  liberalismo e così come è strutturata nella reale filosofia di impianto e  nell’azione delle forze politiche che agiscono nella repubblica italiana.  

 Questo atomismo di fondo nella visione della società è  solidalmente condiviso sia dalla attuale “destra” politica che dalla  attuale “sinistra” politica, da questo punto di vista non ci sono  differenze ma, ancor peggio (o ancor meglio, lo studioso  weberianamente deve segnalare i valori in gioco ma dopo, per quali  prender parte, è la coscienza di ognuno di noi che deve assumersi  l’onere decisione finale), bisogna dire che il male (o il bene, lo ripeto,  dipenda dal carattere di ognuno di noi decidere per quali valori  propendere) proviene dalle origini di questa repubblica, che non  nacque su un patto costruttivo e condiviso di valori basato sulla  tradizione storico-morale della nazione ma su una finzione valoriale nata dal compromesso politico fra i valori delle forze comuniste e  quelli delle forze cattoliche e che celava una terribile sconfitta militare e la conseguente umiliante sottomissione “democratica” verso i  vincitori (Art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come  strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di  risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di  parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un  ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;  promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale  scopo.», non ha altro significato effettuale che stabilire che l’Italia  rinuncia alla guerra perché impossibile da muovere solo con le sue  deboli forze ma vi partecipa se quelle potenze anticomuniste che  hanno vinto la seconda guerra mondiale ritengono necessario che lo  faccia. Ogni riferimento alle odierne vicende è puramente casuale… ). 

 E quindi rispondo alla domanda: se Mazzini viene preso sul serio  non può essere considerato un padre nobile di questa patria perché il  suo pensiero, e riprendo qui una definizione di Costanzo Preve impiegata dal filosofo pensando ad una rifondazione in senso  umanistico del marxismo, imporrebbe tutto un ‘riorientamento  gestaltico’ della nostra vita politico-sociale, riorientamento gestaltico  all’insegna di una visione olistica della società e assolutamente nemico  della impostazione liberale anomica ed atomistica della stessa, in  questa impostazione anomica ed atomistica, fra l’altro, la democrazia  rappresentativa italiana (ma parlando in sede di analisi politologica,  lo ripeto, si dovrebbe dire al posto di ‘democrazia rappresentativa’ ‘oligarchia elettiva a suffragio universale’) in assoluta buona  compagnia con tutte le forme di democrazia rappresentativa (cioè di  oligarchia elettiva) di tutti quei paesi che oggigiorno, definizione nata  in seguito alla guerra russo-ucraina, vengono definiti presi nel loro  insieme come “occidente collettivo” (definizione coniata da Putin per  designare le potenze occidentali che gli si contrappongono nella guerra  russo-ucraina ma ormai fatta propria, per una sorta di eterogenesi dei  fini, anche dallo stesso occidente che muove guerra, seppur non dichiarata e per procura, alla Russia. Prima della caduta del muro di  Berlino, aveva corso legale il termine ‘mondo libero’, libero, cioè, dal  comunismo e per questo comprendente anche le liberissime dittature  militari latino-americane; oggi che il comunismo è sepolto e quindi  non si può più lottare per difendersi da un morto, per combattere la  Russia e la Cina in un mondo sempre più multipolare ed  imprevedibile, è meglio richiamarsi all’idea di un mitico occidente che  si contrapporrebbe alle autocrazie asiatiche russe e cinesi. In  conclusione, quello di ‘occidente’ termine dal nobilissimo orizzonte valoriale e dalle profondissime radici storico-filosofiche ma in questa  fase storica prostituito dagli italici ed esteri pennivendoli agli interessi  della Nato…).  

 È noto come Gramsci non amasse Mazzini e su questo fatto è  stato in passato sottolineato che se sullo specifico Gramsci imputava a  Mazzini di non aver affrontato, e con lui tutto il risorgimento, la  questione contadina, su un piano più generale ciò sarebbe dovuto  perché l’uno, Gramsci, era portatore di un pensiero totalitario mentre  Mazzini può essere considerato l’alfiere di un pensiero democratico,  dando all’aggettivo una semantica del tutto sovrapponibile a quella  conferitagli dalla versione liberal-atomistico-anomica anzi descritta.  

 E qui siamo in presenza di un vero e proprio travisamento del  pensiero mazziniano: Mazzini nei suoi scritti con molta parsimonia  impiega il lemma ‘democrazia’ preferendogli il termine ‘repubblica’ e  questa non è una casualità lessicale perché, come ho cercato di  illustrare, la repubblica mazziniana intende agire nell’ambito e  forgiando una società olistico-organica nella quale certo, le libertà  politiche ed individuali non sono assolutamente conculcate ma nella  quale il termine ultimo di riferimento e legittimità non è mai il singolo  individuo anonimicamente ed atomisticamente inteso ma il popolo olisticamente inteso (dalla maggior parte dei suoi attuali sfiancati  emuli, lo scritto più rappresentativo del pensiero di Giuseppe Mazzini,  i Doveri dell’Uomo, con la sua idea della primazia dei doveri sui diritti,  altro non significherebbe altro, sic et simpliciter, che prima di  reclamare un diritto bisogna aver ottemperato al complementare  dovere senza porsi, questi tristi emuli, troppe domande del perché di  questa gerarchia, se non affermando la fuorviante banalità che per  Mazzini la morale veniva prima della politica – o, tradotto in maniera  ancora più banale, che il mio diritto finisce dove comincia quello del  mio vicino –, mentre quello che voleva far emergere Mazzini con la  sua teoria della prevalenza dei doveri sui diritti è che la società è un  tutto organico e che l’individuo è sì importante ma è solo concepibile  all’interno di questa società verso la quale, proprio in virtù della sua  totalità organica, si ha il dovere di concepirla sovraordinata rispetto  all’individuo che pur giustamente reclama i diritti). 

 Possiamo quindi dire che fra Gramsci e Mazzini sussistono, certo, profonde differenze, l’uno guardava alla classe operaia e  contadina come base di manovra per la sua azione politica mentre  Mazzini guardava al popolo italiano ma se la classe operaia e la classe  contadina costitituiscono per Gramsci la totalità politica sulla quale  doveva agire il nuovo principe partito comunista per portare queste  due classi all’autocoscienza della propria totalità organica, per  Mazzini, non classista ma in un certo senso ugualmente “totalitario” 

(totalitario ma non autoritario-dittariale e penso sia meglio per questa  comunicazione risparmiarci la ricostruzione dell’origine del termine e  del suo impiego da parte di Mussolini, del fascismo e poi anche, se non  soprattutto, da parte della pubblicistica di stampo liberal democratico: ad altra puntata…), la totalità sulla quale svolgere  l’azione politica era il popolo italiano nella sua interezza e l’agente che  doveva portare il popolo italiano alla consapevolezza della sua totalità  organica doveva essere sempre un partito politico, ma repubblicano, da lui guidato che, tramite sommosse e financo azioni che noi oggi  definiremmo terroristiche, avrebbe cercato di far sorgere questa  autocoscienza di totalità organica nel popolo italiano.  

 Quindi sia Mazzini che Gramsci nella storia del pensiero politico  italiano possiamo dire che fossero entrambi portatori di una linea di  azione che possiamo dire ‘olistico-culturalista’ perché in assenza del  suscitamento politico e pedagogico da parte dell’avanguardia politica  dell’autoscoscienza della propria natura olistica sulle rispettive masse di riferimento (classe operaia e contadina in Gramsci, popolo italiano  in Mazzini) nessuna azione politica sarebbe stata né possibile né di  alcun valore (i moti mazziniani che Mazzini sapeva votati ad un  probabilissimo fallimento nell’immediato sono da Mazzini stesso  indicati come fenomenale strumento pedagogico e i Quaderni del  Carcere di Gramsci, oltre che testimoniare una incrollabile fede di  stampo veramente mazziniano nel trionfo finale della causa  rivoluzionaria, sono intesi dal rivoluzionario sardo come strumento  per portare le sue due classi di riferimento alla propria autocoscienza  organica, premessa indispensabile questa autocoscienza per il trionfo  della rivoluzione comunista). L’antipatia di Gramsci verso Mazzini  può quindi anche essere considerata come la percezione da parte del  rivoluzionario sardo di avere avuto una sorta di precursore nella metodologia ed impostazione valoriale da parte di un personaggio il  quale, però, non guardava esclusivamente al proletariato e alla massa  contadina come base di azione politica, mentre di tutt’altro segno,  giusto per fare un esempio che ci aiuti a rendere più chiaro il concetto,  era l’avversione di Gobetti verso Mazzini: in questo caso il campione  della rivoluzione liberale, quindi una rivoluzione sì ma una rivoluzione  che avrebbe ancor più accentuato i tratti atomistici e anomici del già allora esistente regime liberale, non poteva che considerare un vuoto  filosofema tutta l’impostazione olistico-organica mazziniana. 

 

 Vengo ora velocemente a rispondere alle altre domande tenendomi per ultima la domanda di Marsilio relativa allo “stato delle  cose” sui vizi e le virtù della odierna geopolitica italiana. Per quanto  riguarda la domanda se l’epilogo della Repubblica Romana sia il  segno delle divergenze politiche e di azione che già si potevano  intravvedere fra Mazzini e Garibaldi, rispondo che rispetto a quanto  fin qui affermato sulle loro differenze, nella Repubblica Romana  rifulse il genio politico di Mazzini mentre Garibaldi, anche se efficace  sul piano militare, non riuscì nella maniera più assoluta a concepire 

un percorso politico per cercare di salvare la Repubblica Romana  (Mazzini cercò sempre una trattativa col corpo di spedizione francese venuto per sopprimere la Repubblica Romana giocando sulle  ambiguità politiche e sulla tradizione rivoluzionaria della Repubblica  francese mentre Garibaldi voleva semplicemente rigettarla manu  militari a mare, un progetto assolutamente impossibile da realizzare).  Quindi anche se alla fine il progetto mazziniano di trascinare a fianco 

– o in posizione di neutralità – della Repubblica Romana la repubblica  francese fu un fallimento, esso dimostra che in questo caso il vero  pragmatico della politica era Mazzini mentre Garibaldi, in fondo,  altro non si comportò e connotò che come un validissimo militare ma  sprovvisto di alcuna visione politica, e questo contrariamente a quanto  si dice tuttoggi anche a livello storiografico che Garibaldi fosse un  concreto uomo d’azione mentre Mazzini sarebbe stato una sorta di  generoso acchiappanuvole. Se vogliamo usare queste usurate categorie, è semmai vero il contrario. Mazzini il concreto uomo  politico, Garibaldi il generoso, efficace uomo d’azione, ma in fin dei  conti, politicamente ingenuo acchiappanuvole.  

 E sulla base di questo ribaltamento degli stereotipi pubblico caratteriali dei due personaggi mi avvicino alla domanda di Marsilio  sul perché la guerra di Crimea vide la contrarietà di Mazzini alla  partecipazione piemontese e rispondo affermando che Mazzini aveva capito benissimo che il monarchico regno di Sardegna tramite questa  partecipazione avrebbe avuto ascolto fra le grandi potenze europee e  questo, oltre a dare una svolta moderata e monarchica a tutto il  movimento rivoluzionario italiano, celava anche un altro rischio che la  storiografia non ha mai a sufficienza sottolineato: mentre Mazzini e  Garibaldi intendevano per unificazione italiana tutta la penisola più le  isole principali, intendevano cioè un’Italia con un territorio più o  meno sovrapponibile a quello odierno, il regno di Sardegna e  segnatamente Cavour non pensavano assolutamente a questo tipo di  assetto territoriale, volendo Cavour ingrandire il Piemonte a spese  del dominio diretto dell’Austria nell’Italia del nord e forse  aggiungendo, se proprio si vuole esagerare, qualche propaggine  dell’Italia centrale. Cavour definiva l’idea di una unificazione di tutta  la penisola una autentica corbelleria e mi preme sottolineare che se la  spedizione dei Mille fu segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele  II e dalla Gran Bretagna dovette affrontare la contrarietà di Cavour.  Comunque, per farla breve: il sognatore Mazzini era ben al corrente  di tutti questi rischi qualora l’iniziativa della rivoluzione italiana fosse  passata al Regno di Sardegna, Garibaldi bellamente li ignorava o  fingeva di ignorarli.  

 In merito alla domanda quanto Mazzini stimasse Garibaldi e se  la stima di Garibaldi verso Mazzini fosse superiore a quella che  Mazzini aveva per Garibaldi, rispondo molto semplicemente che allo  stato degli atti si può affermare che ad un’iniziale vicendevole e  profonda stima, a partire dalla Repubblica Romana in poi mai  nessuno dei due mise in dubbio la buona fede dell’altro ma le accuse  che entrambi vicendevolmente si scagliarono riguardarono l’altrui  l’ingenuità politica e la conseguente facilità di manipolazione: nel caso delle accuse di Mazzini contro Garibaldi, ad opera della monarchia  sabauda e nel caso delle accuse rivolte a Mazzini, secondo Garibaldi in  una sorta di automanipolazione mazziniana dovuta alle proprie elucubrazioni ideologiche e dalla sua intransigenza repubblicana che  non avrebbero lasciato alcuno spazio di manovra politica con chi  repubblicano non era ma intendeva comunque lottare per  l’unificazione del paese. Sull’intensità intima di questi vicendevoli  sentimenti di apprezzamento e di ridimensionamento delle rispettive figure, confesso che non so pronunciarmi, in quanto i due personaggi  furono due figure pubbliche e quando si scrive e si agisce per la storia  c’è sempre, in positivo come in negativo, un non detto, sul quale è  sempre molto difficile esprimerci.  

 In merito alla domanda di Marsilio sulle potenze che i due eroi  del Risorgimento stimavano di più, per Garibaldi è facile rispondere:  Garibaldi stimava moltissimo la Gran Bretagna (vedi la mia  conferenza e anche i lavori Eugenio Di Rienzo) e da questa fu anche 

decisamente aiutato nella sua Spedizione dei Mille mentre Mazzini  pur avendoci vissuto molti anni non espresse mai sentimenti di così  forte amicizia pur non arrivando mai direttamene ad accusare  l’Inghilterra di una politica imperialista (veramente, come ho detto  nella mia conferenza, Mazzini era ben consapevole che l’Inghilterra  faceva i suoi comodi a danno di coloro che si mostravano più deboli e  meno resistenti all’avanzata dell’uomo bianco, solo che questa aperta sincerità Mazzini la riteneva dannosa, alla luce del suo realismo  politico, per tessere alleanze per una futura unificazione dell’Italia e  dall’altro lato, Mazzini non era del tutto contrario al colonialismo  europeo, perché, non molto originalmente rispetto alla sua epoca, da  lui ritenuto propedeutico alla diffusione della civiltà). Ma per essere  veramente sintetici, Mazzini amava profondamente solamente una  nazione e questa era l’Italia che nei disegni mazziniani doveva costituire il fulcro del futuro concerto europeo costituto dalle nazioni  liberate dal giogo delle potenze continentali di allora, l’Austria e la  Russia, ed affratellate in seguito all’abbattimento della Santa  Alleanza, all’insegna di una egemonia italiana meritata sul campo della distruzione di queste potenze prevaricatrici dei diritti dei popoli  europei.  

 Alla domanda cosa pensavano Cavour e Vittorio Emanuele di  Mazzini, rispondo molto semplicemente che se fosse loro capitato fra  le mani e avessero potuto decidere unicamente alla luce delle loro  convinzioni personali, lo avrebbero impiccato. Non so quindi cosa gli  avrebbero fatto se fosse effettivamente capitato fra le loro mani, i due  personaggi in questione erano sempre uomini politici e in politica non  sempre, anzi quasi mai, si fa quello che si vorrebbe, ma sicuramente  dare seguito alla condanna a morte che il Regno di Sardegna aveva  posto sul suo capo, certamente rispondeva alla loro più sentita convinzione.  

 Infine rispondo alle forse più importante domanda di Marsilio  in merito alle virtù e manchevolezze della geopolitica italiana. Senza  voler fare l’elenco delle più o meno commendevoli iniziative di  pubblicistica geopolitica che in seguito alla guerra russo-ucraina  hanno preso vigore e che sono sorte principalmente sul Web (e in  questo generale movimento di rinnovamento di queste varie iniziative  di pubblicistica geopolitica anch’io ho dato, soprattutto sul piano della  riflessione teorica attraverso l’elaborazione del paradigma del  Repubblicanesimo Geopolitico, il mio modesto contributo; ma di esso  non parlerò oltre perché altro è l’argomento dell’intervista. Una cosa  è però assolutamente necessaria dirla: i primi vagiti del  Repubblicanesimo Geopolitico furono ospitati dalle colonne on line del  blog di geopolitica “Il Corriere della Collera”, ora cessato nelle sue  pubblicazioni – ma ancora in Rete – per la morte del suo fondatore, lo  studioso di politica internazionale, il mazziniano, pacciardiano e  quindi fautore ante litteram della repubblica presidenziale Antonio De Martini, al cui impareggiabile magistero politico, scientifico e morale dovrà necessariamente ispirarsi la geopolitica italiana per la sua  auspicabile rifondazione ab imis ma, in conclusione, del succitato  movimento di rinnovamento della geopolitica italiana non mi dilungo  oltre in quanto, proprio per la sua carica innovativa, eccentrico  rispetto al mainstream della geopolitica italiana e quindi lodevolmente  con scarso valore di rappresentatività della stessa e, comunque, chi si  ritenga incuriosito da questa mia affermazione può benissimo andarsi  ad ascoltare la mia conferenza, nella quale viene elencata, oltre alle  lodevoli nuove iniziative di riflessione geopolitica, anche una nutrita  schiera di “esperti” geopolitici, molto esperti nel realismo politico ma  solo pro domo loro…), parlerò solo di “Limes” e del suo valente  direttore e deus ex machina Lucio Caracciolo.  

 Ora uno dei suoi ultimi editoriali su YouTube si intitola Stiamo  perdendo la guerra. Medio Oriente e Ucraina in fiamme. L’Italia paga il  conto ma non conta, ed io ho già definito questo titolo e il contenuto del  video «disperazione ed ingenue illusioni di un geopolitico à la  recherche du temps perdu.». In estrema sintesi l’illusione: la Nato  nella guerra russo-ucraina si è dimostrata inefficace, l’Italia non può  però lasciare andare questo quadro di riferimento e deve quindi  rafforzare i legami con gli Stati Uniti tramite un trattato bilaterale che  rimedi alle problematiche messe in luce dalla crisi della Nato. Come si  dice: auguri e figli maschi. Necessità quindi di un riorientamento  gestaltico della politica e delle geopolitica italiane in senso mazziniano  come, appunto, avrebbe voluto De Martini. À suivre 

Massimo Morigi, nell’anno 2024 e nel mese della nascita della  Repubblica Romana del 1849 

P.S. dell’intervistatore. Il professor Massimo Morigi mi aveva concesso l’intervista pochi giorni dopo il IX febbraio, ricorrenza  mazziniana della nascita della Repubblica Romana del 1849. Più che  una coincidenza. E, inoltre. L’intervista era stata pubblicata originariamente in data 11 marzo 2024, il giorno dopo l’anniversario  della morte di Giuseppe Mazzini (altra coincidenza…) sulla rivista on  line “Nazione Futura” (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20240313160712/https://www.nazi 

onefuturarivista.it/2024/03/11/mazzini-e-garibaldi-nelle diatribe-geopolitiche-risorgimentali/ ) ma si è ora ritenuto  opportuno ripubblicarla sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” (forse l’iniziativa on line che Morigi sente talmente vicina e propria  che egli, per una sorta di pudore, non aveva nominato nell’intervista) perché egli mi ha comunicato che è intervenuto un fatto nuovo e  questo fatto nuovo consiste nel fatto che Morigi e “L’Italia e il  Mondo” hanno deciso di organizzare a Ravenna un convegno per  onorare la memoria del geopolitico mazziniano Antonio De Martini. Il  seguito all’insegna, ci auguriamo tutti, del motto mazziniano ‘Pensiero  e Azione’, che fu anche la stella polare dell’operato politico, scientifico  e morale di Antonio De Martini. Ora e sempre. 

Umberto Marsilio, Pasqua di Risurrezione 2024

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Fratelli d’Italia: eredità neofascista, populismo e conservatorismo, di Marco Tarchi

Fratelli d’Italia: eredità neofascista, populismo e conservatorismo

Un nuovo partito o l’ultimo capitolo di una lunga storia?

Il 25 settembre 2022 Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni politiche italiane all’interno di una coalizione di destra (nota in Italia come coalizione di centro-destra) composta da Forza Italia di Silvio Berlusconi e dalla Lega di Matteo Salvini. Questa vittoria ha portato all’investitura del governo guidato da Giorgia Meloni.

Il successo elettorale di Fratelli d’Italia, che era stato anticipato, ha suscitato nel mondo accademico un rinnovato interesse per il partito, in particolare per l’identità di questa forza politica. Si tratta dell’ultima manifestazione di una famiglia politica che affonda le sue radici nell’esperimento fascista iniziato un secolo fa, oppure di una destra radicale populista in ascesa in Europa dagli anni Novanta, o ancora di un nuovo partito ibrido che combina elementi della vecchia estrema destra neofascista, del populismo di destra e del conservatorismo contemporaneo?

Marco Tarchi fa il punto sul dibattito in corso, analizzando le origini e la storia di questa forza, nonché gli elementi di continuità e di rottura con i partiti che l’hanno preceduta e che provengono dallo stesso filone politico, ovvero il Movimento Sociale Italiano (MSI) e Alleanza Nazionale (AN). Il politologo fa luce anche sui fattori che hanno determinato l’ascesa al potere di Fratelli d’Italia e sulle sfide ideologiche, organizzative ed europee che il partito si trova ora ad affrontare.
ora affrontate.

Marco Tarchi,

Professore di Teoria politica e Comunicazione politica presso la Scuola di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze.

Introduzione

Come prevedibile, il successo delle elezioni politiche italiane del 25 settembre 2022 (26% dei voti, 118 deputati e 66 senatori eletti) e la nomina del suo leader Giorgia Meloni a primo ministro hanno scatenato l’interesse accademico per lo studio del partito Fratelli d’Italia (FdI), ben oltre l’attenzione dei media. Fino a un anno prima di questo evento elettorale, la produzione di libri e articoli sul tema si era limitata a lavori giornalistici, non esenti in alcuni casi da intenti apologetici o propagandistici1 , e all’autobiografia della principale protagonista2 dell’ascesa di un partito che, almeno fino al 2019, era stato considerato dagli osservatori come marginale e destinato a svolgere un ruolo secondario non solo all’interno del sistema politico italiano, ma anche all’interno della coalizione di centrodestra, allora guidata dalla Lega di Matteo Salvini.

In ambito accademico, le citazioni erano state poche e limitate a brevi cenni in articoli di carattere più generale3. La formazione del governo guidato da Giorgia Meloni ha invece dato il via a un’importante fioritura di contributi – libri e articoli pubblicati su riviste internazionali4 – che ha aperto una prima serie di dibattiti sulla storia ancora breve del partito, sulle ragioni della sua nascita e sui fattori che gli hanno permesso di diventare, in meno di dieci anni, il partito preferito dagli italiani.

Parte
Il dibattito sull’identità politica di Fratelli d’Italia

Il dibattito si è concentrato sull’identità di FdI, sui fondamenti ideologici del suo discorso politico e sui contenuti dei suoi programmi. Con una domanda di fondo: siamo di fronte a un partito almeno in parte nuovo, o semplicemente al rappresentante più recente e moderno di una tradizione che affonda le sue radici in un capitolo della storia italiana iniziato un secolo fa con l’avvento del fascismo? O, per dirla in altro modo, Fratelli d’Italia appartiene ancora all’ambito del neofascismo o va visto come un rappresentante della destra radicale populista? Oppure deve essere visto come l’espressione di un genere nuovo, ibrido, che combina alcuni aspetti della vecchia estrema destra, altri del nazional-populismo fiorito in quasi tutti i Paesi europei a partire dagli anni Novanta5 e altri ancora del conservatorismo?

I sostenitori della prima ipotesi fanno notare che molti dei dirigenti del partito – il suo presidente, più di tre quarti dei membri degli organi direttivi, numerosi rappresentanti in parlamento e nei consigli regionali e comunali – provengono dal Movimento sociale italiano (MSI) o da Alleanza nazionale (AN), che gli è succeduto nel 1995, e che nei discorsi ufficiali della sua presidente, anche da quando è capo del governo, sono frequenti i riferimenti alla “lunga storia” di cui FdI è erede. Inoltre, l’attuale sede del partito ha lo stesso indirizzo dei suoi predecessori, in via della Scrofa 39 a Roma, e anche nel resto d’Italia, in molti casi, le sue federazioni e sezioni sono rimaste o sono tornate nei locali dove si trovava Alleanza Nazionale. Per alcuni osservatori, questi elementi sono sufficienti a stabilire un rapporto di sostanziale continuità tra il presente e il passato. E anche il primo accademico ad affrontare in modo scientifico lo studio del Msi, nel 1989, il politologo dell’Università di Bologna Piero Ignazi, esaminando i documenti e i programmi di Fratelli d’Italia, sostiene questa interpretazione.

Nella postfazione alla recente nuova edizione del suo libro più noto, Il polo escluso, in cui cerca di riassumere gli sviluppi della “destra nazionale” italiana negli ultimi trentatré anni (dal 1990 al 2022), Ignazi afferma che il partito di Giorgia Meloni non è altro che il prodotto di nostalgici del MSI6 che, senza dichiararlo apertamente, mirano semplicemente a far risorgere Alleanza nazionale (AN). Le tappe del suo percorso dal dicembre 2012 a oggi sono viste come tanti passi sulla “strada di un nostalgismo più o meno velato, cosparso di abbondanti dosi di sovranismo euroscettico e di pulsioni xenofobe e securitarie”. Secondo Ignazi, le tesi espresse nella mozione del secondo congresso del partito nel 2017 (su cui torneremo più avanti) “denotano un’intima sintonia sentimentale e ideologica con il neofascismo, di cui rivendicano una continuità ideale”. E di questo “rapporto irresoluto con il passato” il partito non si libererà nemmeno nel decennio successivo, continuando a manifestare una “visione populista e cospirativa” e un “substrato illiberale”, che il “seducente utilizzo della figura di Giorgia Meloni, rappresentante politica devota, convinta e appassionata, ma traboccante di sentimenti materni e amicali” serviva solo a nascondere.

Piero Ignazi riconosce che FdI ha subito un cambiamento nel passaggio da un ruolo di opposizione a quello di responsabilità di governo, ma ritiene che questo cambiamento possa essere “strumentale e congiunturale”. E così, nella sua interpretazione, evidenzia quello che considera il “tono revanscista, addirittura nostalgico, tipico di una comunità che si sente ancora fedele all'”Idea”, cioè all’ideologia fascista, più o meno ricalibrata nel dopoguerra”, discorsi che avrebbero caratterizzato la convention con cui Fratelli d’Italia, il 14 dicembre 2022, ha celebrato i suoi primi dieci anni di vita e la “continuità politico-ideale con il Msi, idealizzato come partito democratico” quando, scrive l’accademico, esso “era stato giustamente definito dal maestro di scienza politica Giovanni Sartori un partito ‘antisistema’”7 .

Un altro argomento spesso citato nel dibattito sulle connotazioni ideologiche di Fratelli d’Italia è la presenza nel suo simbolo della fiamma tricolore, che il Msi adottò fin dall’inizio e che, nonostante il forte dibattito interno e le pressioni esterne, Alleanza Nazionale mantenne fino a quando il suo leader Gianfranco Fini decise di scioglierlo e di fondersi con il Popolo della Libertà, l’effimero partito unico di centro-destra voluto e guidato da Silvio Berlusconi. Anche chi riconosce l’evoluzione del partito nei dieci anni della sua esistenza non può fare a meno di notare che, sempre per questa caratteristica, FdI non manca di essere descritto come “il terzo partito della fiamma “8 e quindi legato, in qualche misura, alle vicende del neofascismo italiano. Questa affermazione è senza dubbio condivisibile, ma per capire se Fratelli d’Italia sia riuscita a emanciparsi dalla storia a cui appartiene, e se sì, come e perché, è necessario esaminare la complessità della traiettoria dei suoi “antenati” nell’Italia del dopoguerra.

IIParte
La lunga marcia della “destra” italiana dal 1945 a oggi

Per oltre cinquant’anni, il termine “neofascismo” è stato utilizzato quasi esclusivamente in Italia per caratterizzare quella corrente politica che, in altri Paesi, veniva chiamata “estrema destra”. Con questa denominazione si intendeva circoscrivere il fenomeno a un desiderio di rivalsa, o almeno di vendetta, da parte di coloro che erano stati sconfitti nella guerra civile che aveva insanguinato il Paese dal settembre 1943 all’aprile 1945 e che si sentivano, nel nuovo Stato repubblicano, nella condizione psicologica di “esuli in patria “9 .

1
La strategia di integrazione nella destra: il Movimento sociale italiano (MSI)

Con la caduta definitiva del fascismo e la morte di Mussolini, non restava che coltivare la nostalgia per un’epoca passata o isolarsi nel risentimento e nel vano desiderio di vendetta. Il 26 dicembre 1946, la nascita del Movimento sociale italiano offrì una casa a quelle decine di migliaia di ex militari che erano stati dalla “parte sbagliata”, quella perdente, durante la guerra civile, pur non riuscendo, fin dalle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948, a conquistare i voti della maggior parte dei tanti italiani che avevano manifestato il loro sostegno a Mussolini fino alla caduta del regime – e che, alle prime avvisaglie della guerra fredda, avevano deciso di appoggiare la Democrazia Cristiana (CD) per creare una “diga” contro il comunismo. La CD riuscì a dare a questa nicchia di irriducibili seguaci postumi del Duce una rappresentanza istituzionale, portando in Parlamento un manipolo di deputati e senatori.

Il crollo del fascismo, tuttavia, ebbe un altro effetto politico cruciale: spazzò via la destra “costituzionale”, erede di una delle tante tradizioni politiche che avevano animato il Risorgimento, i cui rappresentanti, di fronte all’impetuosa avanzata dei fascisti e all’instaurazione dello Stato autoritario, si erano ritirati dalla vita pubblica o avevano accettato un ruolo di sostenitori del regime. Accusati di essersi compromessi con la dittatura o di averne favorito l’avvento, i liberali e i conservatori moderati erano quasi scomparsi dalla scena. Il sistema politico repubblicano fu quindi impostato su nuove basi, basate principalmente su un partito centrista di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana (DC), un partito di opposizione chiaramente di sinistra, il Partito Comunista Italiano (PCI), il Partito Socialista Italiano (PSI), meno radicale e meno forte, e un piccolo numero di partiti minori, tra cui i repubblicani e i socialdemocratici, destinati a svolgere il ruolo di alleati o rivali della Democrazia Cristiana a seconda delle circostanze e delle convenienze del partito di maggioranza. Formazioni più o meno effimere – dal Fronte dell’Uomo Qualunque, primo rappresentante della ricca progenie del populismo italiano10, ai vari partiti monarchici11 – si inserirono progressivamente nel ristretto spazio della destra, senza mai riuscire a esercitare una reale influenza sulla dinamica governativa. Solo a costo di numerose discussioni interne, spaccature e scissioni, provocate dal rifiuto di molti suoi esponenti di concludere accordi con i “traditori” che, nel 1943, avevano preferito il Re a Mussolini, o di ammorbidire l’ostilità verso gli ex nemici d’oltremare in nome della “difesa dell’Occidente” e di accettare l’adesione dell’Italia alla NATO, il MSI riuscì a integrarsi in questo spazio all’inizio degli anni Cinquanta.

Per mezzo secolo, il MSI ha così esercitato un sostanziale monopolio sullo spazio politico ed elettorale della destra, senza tuttavia riuscire a liberarsi dell’etichetta di estremismo che i suoi avversari gli avevano affibbiato. Gli sforzi del suo leader moderato Arturo Michelini (che rimase alla guida del partito dal 1954 al 1969) per stringere un’alleanza con i liberali e i monarchici e dare vita alla cosiddetta “Grande Destra” fallirono, così come i tentativi di inserirla, in funzione anticomunista, nelle coalizioni di governo dominate dalla DC. In alcune occasioni, la Democrazia Cristiana accettò i voti del MSI in Parlamento per controbilanciare la temporanea defezione di alcuni alleati di governo e riuscire ad approvare leggi controverse, ma quando l’appoggio di deputati e senatori del MSI si rivelò indispensabile per il varo del monocolore guidato da Fernando Tambroni nella primavera del 1960, la Democrazia Cristiana preferì costringere il capo del governo alle dimissioni e spianare la strada alla prima coalizione di centro-sinistra con i socialisti. Il timore di essere accusati di collusione con i fascisti era troppo grande.

Questi fallimenti diedero origine a forti polemiche all’interno del MSI, portando talvolta a spaccature tra le componenti più radicali. Tuttavia, nessuno dei gruppi che nel corso dei decenni tentarono di sfidare il dominio del MSI sul suo abituale “terreno di caccia” riuscì mai a conquistare una solida base sul territorio o un numero significativo di elettori (e pochi di essi tentarono di superare la prova delle urne), il che portò la maggior parte di essi a ricorrere a forme di azione violenta o a coltivare piani per un colpo di Stato. Gli anni Settanta, noti come “anni di piombo”, videro alcuni di questi piccoli movimenti coinvolti nella cosiddetta “strategia della tensione”, tra episodi terroristici e collusioni con settori “deviati” dell’apparato di sicurezza dello Stato.

A partire dagli anni Sessanta, il MSI cercò di accentuare i suoi riferimenti alla destra, al punto da cambiare nome e simbolo nel 1971 per diventare Movimento Sociale Italiano Destra nazionale (MSI-DN), al fine di assorbire ciò che rimaneva dell’ultimo partito monarchico. Pur continuando a conquistare rappresentanti in parlamento e nei consigli comunali a ogni elezione e attenuando sempre più i riferimenti palesi al fascismo, ormai limitati alla retorica usata negli incontri con la base militante e nei congressi, non riuscì a uscire dalla sua marginalità nello scenario politico italiano. Anche il rinnovamento militante introdotto dalla segreteria di Giorgio Almirante (che durò dal 1969 al 1987) non riuscì a rompere il suo isolamento, che lo confinò a un sostegno elettorale di circa il 5-6% – con la sola eccezione dell’8,7% del 197212 – in un momento in cui il partito si trovava in una situazione di crisi, 7% nel 197212 – in un momento in cui altri Paesi europei cominciavano a rinnovare i loro programmi e ad allargare la loro base elettorale, con partiti politici che avevano origine nell’estrema destra, come il Front National di Jean-Marie Le Pen in Francia e il Freiheitliche Partei Österreichs di Jörg Haider in Austria. Questo lungo periodo di stallo diede vita a nuovi scontri interni, questa volta con la corrente più moderata che voleva trasformare il partito in una “normale” formazione liberal-conservatrice di destra, sfociando nella scissione, alla fine del 1976, di metà dei membri dei gruppi parlamentari di Camera e Senato e nella nascita di Democrazia Nazionale, destinata a scomparire dopo soli tre anni, a causa dell’irrisorio 0,6% ottenuto nelle elezioni del 197913. Da allora fino ai primi anni Novanta, il Msi attraversò una lunga fase di stagnazione politica ed elettorale, pur subendo due cambi di segretario nazionale (Gianfranco Fini dal 1987 al 1990, Pino Rauti nel 1990-1991, poi di nuovo Fini)14 .

2
La strategia di rifocalizzazione. Gianfranco Fini e Alleanza Nazionale

C’è voluta la crisi dei partiti tradizionali seguita allo scandalo di Tangentopoli (la scoperta da parte della magistratura milanese di una vasta rete di corruzione amministrativa e di un sistema di finanziamento illecito dei partiti) per cambiare questo stato di cose e inaugurare un nuovo capitolo della storia della destra in Italia. Il discredito dei partiti che avevano governato il Paese per quasi cinquant’anni ha trasformato quella che era stata la debolezza del Msi, la sua lunga distanza dai luoghi del potere, in un punto di forza, consentendogli di rivendicare le sue “mani pulite” di fronte alla disonestà del resto della classe politica. Grazie ai primi notevoli successi elettorali in una serie di elezioni comunali nel 1993, il partito, che aveva sempre sofferto del peso della sua “identità illegittima “15 , riuscì finalmente, un anno dopo, dopo l’entrata in scena di Berlusconi come federatore di un ampio fronte di forze ostili alla sinistra e l’adozione di una nuova legge elettorale, a ottenere un ruolo all’interno del governo, cambiando poi nome in Alleanza nazionale e accentuando ulteriormente la sua distanza dal fascismo16.

Mentre questo accadeva in Italia, in altri Paesi europei prendeva forma quella che Ignazi proponeva di chiamare “estrema destra post-industriale”, in contrasto con l’estrema destra “tradizionale” ancora legata alla memoria e al culto del fascismo. Pur continuando a ritenere che alcuni tratti antisistema e un’ideologia delegittimante la democrazia liberale siano presenti nei partiti appartenenti a questa famiglia, Ignazi ritiene che essi non possano essere visti come “una rivitalizzazione del ‘mito della palingenesi’ del fascismo [perché] offrono una risposta ai conflitti della società contemporanea (è questa la chiave del loro successo)”. Per questi gruppi, “la difesa della comunità naturale contro la presenza degli stranieri (da cui razzismo e xenofobia) è soprattutto una risposta identitaria all’atomizzazione e alla spersonalizzazione; l’invocazione della legge e dell’ordine, l’appello diretto al popolo e l’irritazione per i meccanismi rappresentativi rispondono al bisogno di autorità e di guida in una società in cui l’autorealizzazione e l’individualismo hanno lacerato le maglie protettive dei legami sociali tradizionali; il recupero dei valori morali tradizionali è la risposta al libertarismo post-materialista17 “.

Secondo Ignazi, Alleanza Nazionale, diretta discendente del MSI, non aveva adottato questa forma innovativa, rimanendo nel limbo di un “post-fascismo” dai contorni ancora incerti18 e che solo in seguito avrebbe portato a una vera e propria evoluzione rispetto alle posizioni originarie. La sua comparsa, tuttavia, ha posto fine al lungo periodo di monopolio del neofascismo sull’estrema destra e ha rivelato uno scenario caratterizzato da tre distinti e concorrenti percorsi di sviluppo di quello che la letteratura accademica ha definito radicalismo di destra19 : fondamentalismo ideologico combinato con populismo e conservatorismo nazionale.

Dal Congresso di Fiuggi del gennaio 1995, quando si decise lo scioglimento del MSI, la prima di queste strade è stata seguita da tutti i gruppi che hanno rifiutato di abbandonare l’identificazione con l’esperienza fascista e che, nonostante la continua e intensa mobilitazione della loro base militante, non sono riusciti a rompere il cordone sanitario eretto dalle altre forze politiche, né a emergere dai margini. La palese inconsistenza della loro base elettorale (le liste collegate a questo campo politico, nel complesso, non hanno superato l’1,3% nelle elezioni legislative del 2018) ha segnato la definitiva sconfitta di questa opzione. Le altre due hanno dovuto attendere l’affievolirsi dell’ondata iniziale di Alleanza Nazionale per potersi delineare più chiaramente.

Tra il 1995 e il 2009, lo spazio elettorale della destra nel sistema italiano si è ampliato fino a superare la soglia del 15% (15,7% nel 1996, più lo 0,9% dei concorrenti del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore, un piccolo partito nostalgico guidato dall’ex segretario del MSI Pino Rauti), ma allo stesso tempo la sua influenza politica, che all’inizio di Tangentopoli era sembrata in forte crescita (l’Msi era riuscito a superare il 30% alle elezioni comunali di Roma e Napoli e a conquistare trentatré amministrazioni comunali in città con più di 15.000 abitanti tra la primavera e l’autunno del 1993). 000 abitanti tra la primavera e l’autunno del 1993) si è ridotta. Pur essendo stata ammessa nella coalizione che Berlusconi aveva creato nel 1994 per sconfiggere l’unione delle forze di sinistra, Alleanza Nazionale ha sofferto fin dall’inizio di essere un “junior partner” in questa alleanza, a causa della maggiore forza elettorale di Forza Italia e soprattutto della preponderanza del personaggio mediatico del premier. Se l’ingresso nel governo con cinque ministri e dodici sottosegretari di Stato è stato un successo importante, che ha segnato la fine dell’esclusione dei neofascisti dai giochi di potere, la gestione dei rapporti con gli alleati non si è rivelata facile. Le maggiori frizioni si ebbero con la Lega Nord, il cui programma federalista – espressione di un’ideologia secessionista – contrastava nettamente con il nazionalismo e il centralismo di Alleanza Nazionale, ma anche con la componente ex democristiana e con Forza Italia, dove di tanto in tanto sorgevano dei contrasti.

Già nel 1996 si manifestarono alcune differenze strategiche tra i membri della coalizione. Fini, che tendeva sempre più a personalizzare la sua leadership e a governare da solo il partito, avvalendosi degli amplissimi poteri conferitigli dallo statuto, senza tenere conto delle istanze – spesso divergenti – delle correnti interne, si oppose alla scelta di Berlusconi di consentire la nascita di un governo tecnico sostenuto da quasi tutti i gruppi presenti in Parlamento e preferì indire elezioni politiche anticipate, nella speranza di ottenere un risultato che mettesse in discussione la posizione del fondatore di Forza Italia come leader assoluto della coalizione. La manovra è fallita, ma AN ha ottenuto un risultato storico, con il 15,7% dei voti espressi, e il suo presidente ha poi deciso di rendere ancora più evidente la competizione diretta con Forza Italia. Per farlo, scrive Ignazi, “ha enfatizzato una certa distanza e separazione dal proprio partito per massimizzare politicamente il successo della propria immagine20 ” e ha moltiplicato le occasioni di contestazione. In altre parole, per evitare di subire le conseguenze della sua immagine di membro estremo dell’alleanza, ha deciso di avvicinare il suo partito al centro. La risposta di Berlusconi fu quella di radicalizzare la critica alla sinistra, con cui Fini cercava di dialogare per arrivare a una riforma condivisa delle istituzioni in senso presidenziale, presentandosi come il vero baluardo contro la conquista del potere da parte degli ex comunisti21.

Da quel momento in poi, anche i rapporti personali tra i due uomini cominciarono a inasprirsi, mentre all’interno del partito si accentuò il divario tra un’ispirazione liberale, favorevole alle privatizzazioni e alle leggi del mercato, e un’ispirazione “sociale”, in cui persisteva la diffidenza verso il capitalismo. La strategia di Fini subì due sconfitte nel 1999; in primo luogo nel referendum sulla legge elettorale che, eliminando definitivamente l’assegnazione proporzionale di una parte dei seggi parlamentari, avrebbe reso Alleanza Nazionale indispensabile – e quindi influente – in qualsiasi futura coalizione di centrodestra; in secondo luogo nelle elezioni europee, dove Alleanza Nazionale rinunciò al proprio simbolo per presentare una lista comprendente esponenti del Partito Popolare, erede della DC, e del Partito Radicale, noto per le sue posizioni progressiste, perdendo così un terzo degli elettori conquistati cinque anni prima.

Nonostante il successo del centrodestra alle elezioni legislative del 2001 (49,6% dei voti espressi) e il ritorno al governo, in cui a Fini è stata affidata la vicepresidenza, il progetto coltivato dal presidente di Alleanza Nazionale non ha fatto passi avanti. Il suo partito è sceso al 12%, mentre il reintegro della Lega Nord nella coalizione, dopo il duro confronto degli anni precedenti, complica ulteriormente gli accordi sulla linea politica ed economico-sociale da seguire. Gli scontri tra i due partiti diventano frequenti, costringendo Berlusconi a cambiare la composizione dell’esecutivo nel luglio 2004 e a chiedere nuovamente al Parlamento il voto di fiducia. Nel frattempo, il leader di Alleanza Nazionale trovò nuovi modi per sottolineare la sua distanza dalle idee a cui la maggioranza del suo partito era rimasta legata: Gianfranco Fini propose di concedere agli immigrati il diritto di voto alle elezioni amministrative, poi, durante un viaggio in Israele, di descrivere il periodo successivo al 1938 del regime fascista, in particolare le sue leggi razziali, come “male assoluto”, e di difendere la procreazione medicalmente assistita contro il parere del Vaticano. Queste proposte suonavano come una rottura con la tradizione ideologica e culturale da cui AN era emersa, e così furono viste da molti membri della direzione del partito, accentuando la spaccatura interna. Senza cedere agli appelli dei dissidenti, Fini proseguì sulla strada dell’avvicinamento agli ambienti liberal-conservatori europei, citando José María Aznar, Nicolas Sarkozy e David Cameron come modelli di una destra moderna, anche se questo significava provocare una scissione più significativa delle precedenti, quella de La Destra, che alle elezioni politiche del 2008 ottenne il 2,8%.

Il ritorno al governo dopo il successo della coalizione di centro-destra alle elezioni del 2008 non ha favorito la situazione. Nel novembre 2007, Fini ha minacciato pubblicamente di abbandonare l’alleanza, denunciandone l’incapacità di affrontare le questioni più urgenti del momento. Lo stesso giorno, Berlusconi ha risposto annunciando, senza alcuna consultazione preliminare, la creazione di un nuovo partito, il Popolo della libertà (PdL). Inizialmente la reazione di Fini è stata dura e ha incluso il tentativo di creare un partito alternativo, l’Alleanza per l’Italia, ma la caduta del governo Prodi ha impedito che l’operazione andasse a buon fine e, visti i tempi stretti dell’imminente campagna elettorale, lo ha costretto ad aderire al cartello voluto dal Cavaliere. Nel frattempo, la fondazione Fare Futuro, creata dall’ala liberale del partito, continuava a stabilire contatti con esponenti di spicco del centro e della sinistra moderata, con l’obiettivo di trovare interlocutori disposti a legittimare Fini come successore di Berlusconi alla guida del campo moderato. Scegliendo di farsi eleggere Presidente della Camera dei Deputati, l’ex Presidente di Alleanza Nazionale ha voluto assumere un profilo super partes, contrapponendosi in modo sempre più evidente alla controversa figura dell’alleato-avversario lontano dal “bon ton” istituzionale. Gli scontri divennero così frequenti che i rapporti tra i due uomini si incrinarono definitivamente: dopo un’accesa lite, Fini fu espulso dal PdL e costituì prima un proprio gruppo parlamentare e poi un partito, Futuro e Libertà per l’Italia (FLI), nel tentativo, non riuscito, di sfidare il governo a cui aveva partecipato. Molti deputati e senatori di Alleanza Nazionale, però, non lo hanno seguito e FLI è sopravvissuto ai margini del sistema fino alle elezioni del 2013, quando ha subito una clamorosa sconfitta, ottenendo solo lo 0,47%, pur facendo parte della coalizione centrista guidata dal premier uscente Mario Monti.

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La strategia populista: la Lega di Matteo Salvini

Proprio l’infelice conclusione dell’esperimento di governo tecnico di Monti, sostenuto dal centrodestra e dal centrosinistra ma fortemente impopolare a causa delle misure di austerità economica attuate, ha inaugurato una nuova fase del percorso della destra italiana, quella populista, incarnata principalmente dalla Lega tra il 2013 e il 2018.

Già considerata un partito della destra radicale populista da Hans-Georg Betz nel suo studio del 1994 e inclusa nella stessa categoria da Cas Mudde tredici anni dopo22 , la Lega ha subito una lunga serie di riadattamenti ideologici, tattici e strategici nel corso della sua storia. Fondata con il nome di Lega Nord nel 1989 per riunire in un’unica organizzazione diversi movimenti autonomisti che si erano sviluppati nelle regioni settentrionali del Paese in polemica contro l’eccessiva centralizzazione dell’amministrazione statale, le procedure burocratiche farraginose, il peso della tassazione, la corruzione dei partiti e l’inefficienza del Parlamento23 , inizialmente rivendicava un’identità liberale, soprattutto in ambito economico. Il crollo della Prima Repubblica, tuttavia, ha costretto la Lega ad abbandonare il ruolo di mero portavoce della “voce del Nord” e ad accettare la logica delle alleanze, pur considerandole sempre precarie e provvisorie. La breve esperienza di governo del 1994-1995, tuttavia, dimostrò la sua incapacità di abbandonare gli attacchi all’establishment, e la fase pro-indipendenza che seguì mostrò ancora più chiaramente la sua mentalità populista.

Oltre alle campagne contro l’immigrazione e la partitocrazia, temi sempre presenti nei suoi programmi, da quel momento in poi attaccò anche l’Unione Europea e i “poteri forti”, l’alta finanza e la grande industria, ricorrendo talvolta ad argomentazioni complottiste, oltre a difendere la famiglia e le tradizioni dalle istanze progressiste, a rifiutare l’omosessualità, a chiedere misure protezionistiche in economia, a opporsi alla delocalizzazione dei processi produttivi e a denunciare le conseguenze negative della globalizzazione. Queste posizioni gli hanno permesso di diventare il partito più amato dagli elettori della classe operaia nel 1996. Dopo l’11 settembre 2001, la denuncia della minaccia islamica in Europa e gli appelli alla costruzione di un fronte comune euro-americano per difendere la civiltà occidentale dalle insidie del terrorismo islamico si sono inseriti in questo quadro. Tutte caratteristiche che hanno permesso alla Lega di entrare nella famiglia dei partiti populisti della destra radicale.

Tuttavia, nel 2012, dopo un periodo di crisi interna innescato dallo scandalo della cattiva gestione dei fondi pubblici, che ha portato all’allontanamento del leader storico del partito Umberto Bossi – già menomato da un ictus nel 2004 – l’ex ministro dell’Interno, divenuto presidente del partito, è stato costretto a dimettersi, Dopo aver ottenuto il peggior risultato elettorale della storia del partito (4,1% dei voti espressi), la Lega è riuscita a risollevarsi, eleggendo Matteo Salvini come segretario e adottando pienamente l’agenda nazional-populista.

Sfruttando appieno le possibilità offerte dai social network24 e sfoggiando il linguaggio aggressivo e talvolta volgare di un “uomo del popolo”, Salvini ha scelto come bersagli polemici la classe politica e l’Unione Europea, accusate di non aver risposto efficacemente alla crisi economica del 2008-2011, gli intellettuali, accusati di appoggiare tutte le proposte progressiste in materia di diritti civili (matrimonio e adozione per gli omosessuali, maternità surrogata, ecc. ) e soprattutto l’immigrazione, considerata una fonte di concorrenza sleale per i lavoratori autoctoni e una minaccia per la coesione culturale del Paese e per lo stile di vita della popolazione. Insistendo su questo pericolo e facendone il fulcro delle campagne elettorali, Salvini ha portato la Lega da una dimensione regionale a una nazionale, sostenendo un credo nazionalista, ultraconservatore e xenofobo. La sua ammirazione per la Russia di Putin e per le idee di Trump lo ha portato a stringere legami con altri partiti della destra radicale europea e ad aderire al gruppo Europa delle Nazioni e delle Libertà di Marine Le Pen al Parlamento di Bruxelles, poi diventato Identità e Democrazia. Nonostante questa caratterizzazione ideologica radicale, la nuova Lega, grazie ai suoi successi elettorali (17,4% alle elezioni politiche del 2018 e 34,3% alle elezioni europee del 2019), è riuscita a conquistare il primato all’interno della coalizione di centrodestra, a scapito di Forza Italia, e ha potuto così rendersi autonoma, formando un governo con l’altra formazione populista di protesta, il Movimento 5 stelle (M5S).

Per poco più di un anno, dal giugno 2018 all’agosto 2019, questa coalizione di forze anti-establishment è stata indicata come il caso di maggior successo della strategia messa in atto dai partiti populisti di destra radicale sul palcoscenico europeo e ha suscitato grande preoccupazione nella Commissione europea e in molti governi stranieri. Tuttavia, nell’agosto 2019, Salvini ha commesso il grave errore di voler porre fine all’accordo con il M5S, nella speranza di poter ripetere o estendere il successo registrato alle elezioni europee in elezioni politiche anticipate, che il Presidente della Repubblica non avrebbe concesso. È così che Salvini ha rapidamente trasformato un trionfo in un disastro. Non appena ha lasciato il governo, la Lega ha iniziato a vedere calare le intenzioni di voto a suo favore nei sondaggi e da allora non è più riuscita a invertire questa tendenza. Allo stesso tempo, gli elettori che avevano abbandonato la Lega, ritenendo Salvini inaffidabile, hanno spostato le loro simpatie su Fratelli d’Italia. La pandemia Covid-19, che ha visto Salvini a lungo incerto sulla posizione da assumere su contenimento e vaccini, poi desideroso di entrare nel governo guidato da Mario Draghi – un banchiere, e quindi una delle figure storicamente più odiate dalla Lega e in generale da tutti i populisti – ha accentuato questo processo di rapida dissoluzione del capitale elettorale della Lega, che in poco più di tre anni è sceso dal 34,3% delle elezioni europee del 2019 all’8,9% delle elezioni politiche del 2022.

Questo risultato ha segnato la sconfitta (almeno temporanea) di un nazional-populismo che sembrava destinato a inaugurare un ciclo di egemonia nello spazio della destra e ha rilanciato, con molta più forza e su nuove basi, il progetto nazional-conservatore che si era incarnato tra il 1995 e il 2009 in Alleanza nazionale.

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Dalla scissione del Popolo della Libertà al potere: la fulminea ascesa di Giorgia Meloni

Il protagonista di questa nuova fase della storia della destra italiana è senza dubbio Fratelli d’Italia (FdI). Nel giro di quattro anni, Fratelli d’Italia è passata dal 4,4% al 26% dei voti alle elezioni politiche. Dopo un anno di governo guidato dal suo leader, Fratelli d’Italia ha ora il 30% dei voti, secondo i sondaggi, e rappresenta il punto di arrivo provvisorio della metamorfosi della destra. Sebbene più volte definito dagli osservatori come estremo, radicale o neofascista, per superare il deficit di legittimazione che lo aveva sempre penalizzato e conquistare le simpatie dei segmenti moderati dell’opinione pubblica italiana, Fratelli d’Italia è stato portato a moderare sempre più le sue idee, i suoi comportamenti e i toni della sua espressione, accettando di socializzarsi alla democrazia compiendo quello che Ignazi ha definito “il lungo viaggio nelle istituzioni”.

La sincerità di questa presa di distanza di FdI, dei suoi dirigenti e dei suoi militanti dalle simpatie e dalle nostalgie fasciste coltivate da molti di coloro che avevano militato nei due precedenti “partiti-fiamma” è stata oggetto di un ampio dibattito fin dalla comparsa della nuova sigla sulla scena politica italiana. Consapevole dei dubbi esistenti al riguardo, Giorgia Meloni ha deciso di pubblicare il suo libro autobiografico per chiarire la sua visione del mondo e i suoi obiettivi. Come già accennato, le dichiarazioni dei rappresentanti del partito e i suoi documenti ufficiali sono stati oggetto di numerose analisi. Gli autori sono giunti a diverse interpretazioni: c’è chi ha osservato un’evoluzione rispetto al suo passato neofascista, chi lo ha collocato – insieme alla Lega – nella famiglia della destra radicale populista e chi continua a considerarlo di estrema destra. Ognuna di queste interpretazioni contiene elementi e considerazioni interessanti che meritano un attento esame. Tuttavia, per verificare la solidità dell’insieme, è necessario ricostruire, in modo sintetico, il percorso compiuto da questo raggruppamento politico fino ai giorni nostri: un percorso che è stato meno lineare di quanto sostengono i suoi sostenitori e che ha attraversato diverse tappe, segnate da posizioni piuttosto diversificate.

Quasi tutte le analisi convergono su un punto: quando il partito è stato creato il 16 dicembre 2012, l’intenzione dei suoi fondatori non era semplicemente quella di riunire i reduci di Alleanza nazionale delusi dal progressivo logoramento del Popolo della Libertà. I tre principali promotori – Giorgia Meloni, ex presidente di Azione giovani, l’organizzazione giovanile di Alleanza nazionale, già vicepresidente della Camera dei deputati e poi ministro della Gioventù; Ignazio La Russa, attivista fin dagli anni Sessanta all’interno del Msi e a lungo dirigente di quel partito e di Alleanza nazionale; Guido Crosetto, proveniente da Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero della Difesa – avevano in mente un progetto più ambizioso: ricostruire l’intero centrodestra su nuove basi. Centrodestra Nazionale era il nome scelto da La Russa per il partito che intendeva fondare quando decise di separarsi dal Popolo della Libertà in reazione alla decisione di Berlusconi di far risorgere Forza Italia. A unirli è stata la comune avversione per la decisione del leader del PdL di sostenere il governo Monti e di revocare le elezioni primarie organizzate per determinare il suo successore alla guida del “partito unico”. Per ribadire le intenzioni iniziali dei fondatori, a quasi un anno dalla nascita di Fratelli d’Italia, Crosetto formulò una chiara domanda retorica in occasione della festa di Atreju, una sorta di fiera del partito: “Chi può rappresentare il centrodestra, se non noi?25”.

Il programma elaborato in fretta e furia per le elezioni del febbraio 2013 usa toni sommessi e si limita a proporre un pacchetto di riforme in linea con quanto sostenuto in più occasioni dagli ex esponenti di Alleanza Nazionale confluiti nel Popolo della Libertà: elezione diretta del Presidente della Repubblica, abolizione del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari; riduzione del debito e della spesa pubblica; lotta agli sprechi e promozione di una nuova etica pubblica; riduzione della pressione fiscale; separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri; sostegno alla natalità per combattere il declino demografico. Solo alcune proposte riecheggiano le tesi nazional-populiste: una critica qualificata all’euro, che “funge da amplificatore delle disfunzioni degli Stati nazionali”, e l’affermazione “crediamo nell’Europa dei popoli, ma non nell’Europa della finanza e delle oligarchie”. Anche sull’immigrazione le formule scelte sono caute: “Governare i flussi, controllare le frontiere, far rispettare lo Stato di diritto significa garantire l’accoglienza, l’integrazione e la solidarietà”, pur precisando che “parallelamente alla lotta intransigente all’immigrazione clandestina, deve essere perseguito con lo stesso ritmo il percorso di piena integrazione dei nuovi cittadini” e che “devono essere considerati aventi diritto coloro che completano il ciclo completo della scuola dell’obbligo e dimostrano piena integrazione e volontà di ottenere la cittadinanza “26.

La risposta alle urne è stata un modesto 1,96%. Questo risultato, inferiore alle aspettative, permise comunque al partito, in quanto “miglior perdente” della coalizione di centro-destra, di eleggere nove deputati, che portarono ad alcuni cambiamenti. Crosetto, che era stato nominato presidente del partito al momento della sua fondazione, passò il testimone a La Russa e, soprattutto, si cercò di ottenere il simbolo della fiamma tricolore dalla Fondazione Alleanza Nazionale, che ne deteneva i diritti di utilizzo. Una volta riuscita l’operazione, la scritta “Centrodestra Nazionale” fu rimossa dal simbolo a favore della fiamma e del nome della Meloni. Un altro gesto che indica chiaramente il reinserimento nella storia del MSI è stata la decisione di tenere il secondo congresso nazionale (dal 7 al 9 marzo 2014) a Fiuggi, luogo in cui più di diciannove anni prima si era svolta la cerimonia di fondazione di Alleanza Nazionale, e di fare della vedova di Giorgio Almirante l’ospite d’onore. Tuttavia, il programma elaborato per le successive elezioni europee, lungi dal collocarsi nella tradizione post-fascista, era decisamente orientato verso i temi cari alle formazioni nazional-populiste, che si stavano affermando in molti Paesi: uscita dall’euro e dai trattati fiscali e di bilancio dell’UE, riduzione dell’ingerenza delle istituzioni di Bruxelles nelle politiche nazionali, “protezionismo intelligente”, cooperazione europea contro l'”immigrazione incontrollata”, difesa delle radici cristiane del continente e della sacralità della famiglia, regole europee contro la finanza speculativa27. Più che allinearsi alle posizioni di partiti come il Rassemblement National, il Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ) o l’Alternative für Deutschland (AfD), con i quali non c’è ancora una collaborazione organica, la scelta di queste proposte suggerisce la volontà di competere con la Lega Nord, nel momento in cui si presenta sotto la guida di Salvini, per conquistare un elettorato euroscettico che i sondaggi danno in costante crescita.

Tuttavia, la sfida lanciata da Giorgia Meloni, recentemente divenuta presidente di FdI, al suo alleato e rivale non ha avuto immediato successo. Alle elezioni europee del 2014 i risultati elettorali sono stati in crescita, superando il milione di voti, ma il risultato del 3,7% non ha permesso al partito di superare la soglia per eleggere i membri del Parlamento europeo. Il primo obiettivo del nuovo Presidente è quindi quello di ristrutturare l’organizzazione in modo da poter fare efficacemente proselitismo e propaganda in tutta Italia, mentre l’Officina per l’Italia, laboratorio di idee aperto a intellettuali di varia estrazione, è chiamata da diversi mesi a definire la piattaforma politica e culturale su cui costruire il nuovo centrodestra. Gli ostacoli non sono mancati, anche al suo interno, dal momento che il relativo fallimento delle elezioni europee aveva scontentato una parte dei quadri intermedi, portando a una nuova scissione nel novembre 2015 e alla nascita del movimento Azione Nazionale28 , ma la coesione del gruppo dirigente, La candidatura di Giorgia Meloni a sindaco di Roma nel 2016, pur non essendo sostenuta da Forza Italia, ha rappresentato un momento di rilancio mediatico e politico: con il 12,3% ottenuto, la giovane leader di FdI ha aumentato la propria credibilità e popolarità, in un momento in cui Berlusconi – sempre più invischiato in cause giudiziarie e scandali – stava ottenendo i peggiori risultati nella storia del suo partito.

Gli indici di gradimento della Meloni erano ora più alti di quelli dei leader dei partiti alleati29 . Tuttavia, non erano sufficienti per ottenere un sostegno più ampio. Il partito si è quindi affidato a una linea ideologica più aggressiva, radicalizzando le posizioni precedenti al secondo congresso nazionale del dicembre 2017. Il leitmotiv del programma presentato in quell’occasione – il nazionalismo, definito con un po’ di pudore “patriottismo” – non rappresentava una novità rispetto al tono con cui veniva enunciato. Infatti, allo slogan “prima gli italiani” si accompagnava l’espressione di una “filosofia dell’identità” da cui derivavano la critica all'”universalismo radicale”, l’accusa rivolta all’ONU di volere una “sostituzione etnica” in Europa ispirata a un “astratto principio multiculturalista”, e la richiesta di misure rigorose per arginare i flussi migratori e contrastare il rischio di islamizzazione del continente30. Sono queste posizioni, contenute nella mozione approvata dai delegati (le tesi di Trieste), che hanno portato alcuni analisti a classificare Fratelli d’Italia come parte della destra radicale populista. Tuttavia, la lettura di questa mozione-manifesto rivela che accanto a queste posizioni, altre idee si ispiravano a una filosofia conservatrice destinata, nel tempo, a prevalere sulla cultura politica del partito: il recupero della tradizione e la critica al culto del progresso; la riaffermazione del ruolo centrale dell’autorità nella società e nello Stato; l’elogio della ruralità; il rifiuto della teoria del gender; la valorizzazione del patrimonio storico italiano: arte, archeologia, paesaggio e natura. Anche in politica estera si cerca un equilibrio tra conservatorismo e radicalismo: Se da un lato si afferma che “l’Italia fa parte dell’Occidente, è naturalmente alleata delle nazioni europee, degli Stati Uniti e degli altri popoli di cultura europea e occidentale” e che l’Alleanza Atlantica è il suo “ambito naturale di alleanza militare”, dall’altro si sostiene che l’Italia non condivide “la logica di ostilità nei confronti della Federazione Russa”, con la quale si ritiene “necessaria e proficua una stretta collaborazione sul piano economico e strategico”, anche nella lotta al terrorismo.

Per il momento, i benefici di questa accentuazione dei tratti ideologici anti-establishment del partito sono stati limitati. La concorrenza del M5S e della Lega era troppo forte. Questi due partiti sono emersi come vincitori delle elezioni generali del marzo 2018. Il M5S, con il 32,68%, non solo ha confermato la sua posizione di primo partito italiano, ma è anche riuscito a consolidare la supremazia acquisita cinque anni prima. La Lega, con il suo spettacolare balzo al 17,35%, ha superato per la prima volta Forza Italia, relegata al 14%. Il risultato ha lasciato a Salvini le mani libere per trovare alternative all’ormai classica coalizione di centrodestra (che non aveva abbastanza membri in parlamento per formare un governo indipendentemente dal sostegno degli altri partiti). Il leader della Lega ha colto l’occasione per accettare l’idea di un “contratto di governo” con il Movimento 5 stelle, basato su un programma in cui spiccano alcuni dei temi più cari ai populisti, come politiche più dure contro l’immigrazione o una drastica riduzione del numero dei parlamentari.

Di fronte a questo nuovo scenario, Fratelli d’Italia, che era tornato a guadagnare leggermente ottenendo il 4,35% e triplicando il numero di seggi in Parlamento (19 deputati e 7 senatori), sembrava non avere altra scelta che continuare ad accettare un ruolo secondario all’interno del centrodestra. Tuttavia, Salvini, che da tempo gode di un buon rapporto personale con Giorgia Meloni, ha cercato di convincerla a entrare nel governo guidato da Giuseppe Conte, avvocato e professore universitario, un outsider politico proposto dai sostenitori di Beppe Grillo. Se Fratelli d’Italia avesse fatto parte della maggioranza, la Lega avrebbe avuto un alleato per inserire nell’agenda di governo le misure a cui teneva particolarmente. La risposta, però, è stata negativa: Giorgia Melon ha ritenuto che l’esecutivo “giallo-verde” (i colori simbolo del M5S e della Lega) fosse troppo eterogeneo e troppo di sinistra. Questo rifiuto era un’espressione pratica delle tesi triestine: il populismo poteva essere un antidoto alla degenerazione dei legami sociali in un contesto in cui “i legami di appartenenza vengono scientificamente spezzati per costruire una massa di cittadini-consumatori senza storia, radici, identità, patria, comunità, religione o genere”, ma a condizione che i partiti adottassero un programma identitario. Il “populismo giustizialista e demagogico che si è diffuso in Italia”, cioè quello del M5S, era destinato a fare solo danni. Era quindi meglio restare fuori dal governo e concentrare le proprie energie sullo sviluppo delle strutture organizzative locali del partito.

Questa scelta ha dato i suoi frutti nel febbraio 2019, alle elezioni regionali in Abruzzo. Grazie anche all’indebolimento di Forza Italia, Fratelli d’Italia è riuscita a far accettare ai suoi alleati la candidatura di un suo esponente, Marco Marsilio, alla presidenza della Regione, che ha vinto con il 48,3%. La novità è stata notevole: per la prima volta Fratelli d’Italia ha conquistato la guida di un’istituzione, pur ottenendo molti meno voti della Lega (6,5% contro 27,5%), che aveva sfruttato l’effetto propulsivo dell’azione di Salvini come Ministro dell’Interno e il suo alto profilo mediatico.

Tre mesi dopo, le elezioni europee hanno confermato la straordinaria efficacia della strategia di “nazionalizzazione” e svolta populista che il segretario aveva imposto alla Lega: il 34,33% ottenuto alle urne (oltre 9 milioni di voti) è un risultato che nessuno immaginava possibile, né tra i sostenitori né tra gli avversari. Il ciclone Lega non ha però spazzato via Fratelli d’Italia, né Forza Italia, scesa all’8,79%, e il M5S, che ha visto quasi dimezzare il suo risultato (17,07%) rispetto alle elezioni politiche dell’anno precedente. Con il 6,46%, la lista che continua a portare il nome della Meloni in evidenza nel suo simbolo ha eletto cinque europarlamentari, un risultato che si rivelerà molto utile in seguito.

Tra i cinque eletti c’è Raffaele Fitto, giovane ma esperto politico – è stato presidente della Regione Puglia e ministro dal 2008 al 2011. Esponente di Forza Italia, vanta una vasta rete di relazioni personali, costruita durante i due mandati da europarlamentare nel gruppo del PPE. Grazie a lui, nel novembre 2018 Fratelli d’Italia è stata accolta nel gruppo parlamentare dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), dominato dal PiS polacco. A Fitto è stata affidata la co-presidenza di questo gruppo.

I “governi del Presidente” compaiono quando il governo ha perso il sostegno della sua maggioranza parlamentare e il Presidente della Repubblica cerca di convincere i leader dei partiti a formare una nuova coalizione di maggioranza in grado di sostenere un governo alternativo senza dover ricorrere a nuove elezioni parlamentari.

L’adesione ai Conservatori ha permesso a FdI di dissipare, almeno in parte, il sospetto di essere rimasto un partito post-fascista di facciata e di dimostrare di non soffrire dell’isolamento a cui sono stati condannati i partiti populisti del gruppo Identità e Democrazia al Parlamento di Strasburgo. È stato quindi compiuto un primo passo verso l’obiettivo più ambizioso di raggiungere una posizione influente a livello internazionale. Ciò significava rafforzare gradualmente le relazioni con gli ambienti conservatori extraeuropei. In quest’ottica, nel febbraio 2020 Meloni ha ottenuto un invito alla National Prayer Breakfast di Washington, un importante raduno di conservatori americani. Lì ha elogiato la presidenza di Donald Trump. Due anni dopo, è stata invitata a parlare al CPAC, la più importante conferenza politica del mondo conservatore. Nel settembre 2020 le è stata affidata la carica di presidente del partito politico Conservatore e Riformista Europeo (CRE), che ricopre tuttora, essendo stata riconfermata a fine giugno 2023.

Nel frattempo, Matteo Salvini, a metà estate 2019, aveva deciso, come abbiamo detto, di interrompere la collaborazione con il M5S e il primo governo Conte, scommettendo che nuove elezioni lo avrebbero reso arbitro della politica italiana, da solo o in coalizione con alleati molto più deboli della Lega, o forse in un’alleanza ristretta ai soli Fratelli d’Italia – con i quali le differenze programmatiche si erano ormai fortemente ridotte. Il risultato delle elezioni europee lasciava presagire che il tandem Lega-FdI potesse raggiungere la soglia del 40% dei voti, il che faceva sperare in una maggioranza di seggi in Parlamento. Tuttavia, il Presidente della Repubblica ha respinto la richiesta di elezioni politiche anticipate, decidendo di affidare la guida del Paese a un governo tecnico. Questo governo non vedrà mai la luce a causa dell’accordo tra il M5S e il Partito Democratico per formare un secondo governo Conte, questa volta “giallo-rosso”. I piani di Matteo Salvini così rovinati hanno causato il suo forte declino.

L’estinzione della stella di Salvini è stata seguita quasi immediatamente dall’apparizione di quella della Meloni, che i sondaggi davano in forte ascesa. Ma è stato l’emergere della pandemia Covid-19 a dare a questa inversione di tendenza proporzioni ben maggiori.

Fin dall’inizio della crisi, Fratelli d’Italia ha espresso una forte opposizione al confino e all’imposizione del green pass, criticando le scelte del governo e dell’Unione Europea, schierandosi a difesa delle libertà individuali e chiedendo urgenti misure di sostegno economico per le categorie produttive colpite duramente dai divieti e dalle restrizioni. Dal canto suo, la Lega ha seguito una linea altalenante, oscillando tra la richiesta di maggiore fermezza nella lotta all’epidemia e il sostegno alle manifestazioni contro i vaccini.

Questo ha permesso a Giorgia Meloni di apparire più coerente e credibile e di recuperare il tempo perduto nel mondo dei social media, dove il numero dei suoi follower è aumentato notevolmente. La sua carta vincente, però, è stato il rifiuto categorico di entrare nell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, dopo la caduta del secondo governo Conte. Mentre Forza Italia e, dopo qualche esitazione e dissidio interno, la Lega, hanno accettato l’invito a entrare nel governo di “salvezza nazionale” con i propri ministri, Fratelli d’Italia ha denunciato l’imposizione al Paese di un ennesimo esecutivo che non aveva ricevuto il consenso elettorale e ha guidato un’opposizione flessibile nelle scelte concrete (approvando misure che sembravano ragionevoli) ma inflessibile nella retorica e nella comunicazione. I sondaggi d’opinione, in costante aumento nel 2021-2022, mostravano che questa scelta era elettoralmente vantaggiosa.

Allo stesso tempo, si è rafforzata la tendenza a identificare il partito con il suo Presidente. Il suo successo agli occhi dell’opinione pubblica ha contribuito a contenere l’emergere di correnti interne. Qui troviamo una tendenza tipica dei “partiti di fiamma” a circondare il leader di un’aura di incontestabilità, e tanto più evidente nelle fasi di successo. Giorgia Meloni non dovette tenere un congresso, a causa delle condizioni imposte dalla pandemia, né occuparsi degli affari interni, che vennero affidati al vasto gruppo di collaboratori fidati, lasciandola libera di concentrarsi sul rapporto con l’opinione pubblica. Cercò di consolidare la sua immagine nell’immaginario collettivo degli italiani come una giovane donna, forte e coerente, intransigente nei suoi principi e allo stesso tempo materna e compassionevole. È questa, infatti, l’immagine che emerge dalla sua autobiografia, un vero e proprio successo editoriale. Ne sono state vendute quasi duecentomila copie. Anche i suoi avversari hanno involontariamente contribuito a questo sforzo di personalizzazione della sua immagine: per esempio, hanno prodotto un video ironizzando sul tono enfatico di uno dei comizi della Meloni (“Sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana. Non possono togliermi questo”), un meme molto popolare sui social network che, invece di ridicolizzare la leader di Fratelli d’Italia, ha aumentato ulteriormente la sua popolarità. Tanto che, alla fine, il successo elettorale di Fratelli d’Italia nel settembre 2022 è apparso a tutti come un successo personale della leader. Nessuno ha contestato la sua nomina a Presidente del Consiglio, né tra i suoi alleati né tra i suoi avversari.

È nel periodo di più diretta competizione con la Lega, dal momento in cui Salvini ha fatto fallire il primo governo Conte e quando la sua popolarità ha iniziato a crollare, che Giorgia Meloni ha utilizzato maggiormente il suo repertorio stilistico populista, selezionando alcuni temi e attenuandone altri. La denuncia delle élite, che era stata il pilastro della sua retorica negli anni precedenti, si è limitata ad accuse più generiche e meno frequenti. La volontà popolare è stata invocata solo per incoraggiare il ricorso alle urne e per chiudere il capitolo dei “governi del Presidente” (della Repubblica)31 , senza abbandonare quell’esaltazione delle virtù della gente comune che è uno degli indicatori più chiari della mentalità populista. Pur ricordando lo stretto legame tra popolo e nazione, è su quest’ultima che si concentra la carica emotiva dei discorsi del leader. La stessa critica virulenta all’immigrazione è spesso sovrapposta agli appelli per il ritorno delle tradizioni culturali offuscate dall’ondata progressista scatenata dal movimento di protesta del 1968. L’attacco alla “lobby LGBT” e alla “follia” della teoria dell’intercambiabilità dei sessi – che in alcune occasioni, come i raduni organizzati in Spagna per sostenere i candidati del partito gemello Vox, sono emersi con particolare vigore – ne ha offerto un esempio lampante.

Tuttavia, dal giugno 2021, quando Fratelli d’Italia ha superato la Lega nei sondaggi e ha iniziato a intravedere la possibilità di prendere le redini della coalizione e quindi di guidare il futuro governo, queste dichiarazioni radicali sono state sempre più accompagnate da atteggiamenti più moderati e da una maggiore apertura al dialogo, soprattutto nelle sedi istituzionali, per dare al partito un’immagine più responsabile.

Il programma presentato per le elezioni del 2022 ha rispecchiato questo processo di “rimodellamento”, adottando toni più pacati, correggendo alcune posizioni precedenti e passando dalle solite accuse a critiche più ragionate, ampliando al contempo la portata dei temi trattati. Invece di denunciare i “tecno-burocrati di Bruxelles”, ad esempio, questo programma esprime l’intenzione di “rilanciare il sistema di integrazione europea, per un’Europa delle nazioni, basata sugli interessi dei popoli e capace di affrontare le sfide del nostro tempo”. Anche sul tema dell’immigrazione le intenzioni sono meno bellicose. Le proposte si limitano a chiedere “la difesa delle frontiere nazionali ed europee come previsto dal Trattato di Schengen e come richiesto dall’UE, con controlli alle frontiere e il blocco degli approdi per fermare, in accordo con le autorità nordafricane, il traffico di esseri umani” e la stipula di accordi tra l’UE e gli Stati di provenienza dei migranti illegali per gestire i rimpatri. Allo stesso tempo, il programma chiede la massima intransigenza contro il fondamentalismo islamico, ma anche contro ogni forma di antisemitismo e razzismo.

Vengono mobilitati altri strumenti per contrastare le accuse di estremismo da parte degli oppositori, come l’attenzione alla condizione femminile e alla dignità dell’individuo. Ciò include la promozione della “lotta contro tutte le forme di discriminazione, la promozione e il sostegno dei modi per emancipare le donne dagli stereotipi culturali che le pongono in una posizione subordinata”, nonché la lotta contro “tutte le discriminazioni basate sulle scelte sessuali e sentimentali delle persone”. Anche le questioni ambientali sono prese in considerazione. Tuttavia, se da un lato si sostiene la necessità di aggiornare e rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e di attuare la transizione ecologica prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, dall’altro si sottolinea la necessità di proteggere il sistema produttivo dai prevedibili effetti negativi delle politiche ambientali, “con particolare attenzione ai settori industriali difficilmente riconvertibili (ad esempio l’industria automobilistica)”. Considerando questi passaggi e l’allargamento degli orizzonti programmatici ad altri temi trascurati in passato, o liquidati in poche righe – a partire da quelli economici – è chiaro che questo programma riassume il compito che attende il partito quando si troverà alla guida del Paese.

Numero di volte che Fratelli d’Italia è stato eletto alle elezioni politiche ed europee, dalla sua fondazione fino alle elezioni del 2022

Source :

*Le elezioni parlamentari del 25 settembre 2022 sono state le prime a tenersi in seguito alla riforma che ha ridotto il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200.

Cronologia dei risultati elettorali dei tre “partiti fiamma” (MSI, AN, FdI) alle elezioni della Camera dei Deputati e del Parlamento Europeo (in %)

Source :

Salvatore Vassallo et Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice, Il Mulino, Bologne, 2023, p.222

IIIPartie

Qual è la situazione oggi in termini ideologici, organizzativi ed europei?

1

Sul fronte ideologico

Come era facile prevedere, assumendo le redini del governo come partito più forte della coalizione, Fratelli d’Italia è entrato in una nuova fase della sua storia, che lo costringe a trovare un equilibrio tra l’immagine saliente che gli ha fatto guadagnare tanti consensi negli anni dell’opposizione e quella molto più moderata e responsabile che si addice a tutti coloro che occupano i ruoli istituzionali più importanti. Gli osservatori che hanno descritto FdI come un partito populista di destra radicale semplicemente analizzando il contenuto dei suoi programmi o le dichiarazioni pubbliche dei suoi esponenti hanno recentemente trovato difficoltà a trovare dati a sostegno della loro tesi, anche se hanno cercato di evidenziare la persistenza di un certo “scivolamento” verbale tra gli attivisti ora assegnati a incarichi di governo, Come nel caso del rischio di “sostituzione etnica” dovuto all’eccessiva immigrazione citato dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, che è anche cognato di Giorgia Meloni, o di alcune dichiarazioni ambigue sul regime mussoliniano da parte di La Russa, nel frattempo eletto presidente del Senato.

Di fronte a sfide inedite, il partito sembra obbligato a sciogliere i nodi residui che ne limitano i movimenti nell’attuale spazio politico e ideologico, e non solo in Italia. Le dure invettive contro l’Unione Europea, ancora presenti nell’autobiografia di Meloni, che la descriveva come “un parco giochi per tecnocrati banchieri che banchettano sulle spalle dei popoli “32 e come un’istituzione “utopica e potenzialmente tirannica “33 , hanno lasciato il posto a generiche proposte volte a riformare le istituzioni di Bruxelles. Nonostante la persistenza di una forma di opposizione all’immigrazione e la richiesta che l’UE adotti misure efficaci per contrastarla, non si parla più del blocco navale per impedire lo sbarco dei migranti, di cui si parlava molto spesso. D’altra parte, le critiche alle argomentazioni progressiste in materia di “questioni etiche” sono ancora frequenti: sebbene le unioni civili tra persone dello stesso sesso siano state accettate nel manifesto elettorale del 2022, la maternità surrogata, l’adozione da parte di persone dello stesso sesso e le teorie “gender” continuano a essere respinte.

Il profilo di Fratelli d’Italia nel 2024 sembra quindi essere quello di un soggetto politico la cui identità è ancora in via di definizione, in quanto risponde alle opportunità e alle sfide presentate dal contesto in cui si sta evolvendo. Saldamente ancorato alla destra dello spettro politico e con una concezione bipolare delle dinamiche sistemiche, il partito utilizza un mix di idee conservatrici e nazionaliste, presentate come “patriottismo sovranista”, come ingredienti di base del suo messaggio. Diffidente nei confronti del populismo – che contrasta con il culto dell’autorità statale dei suoi esponenti di punta ed è accusato di essere nient’altro che la versione contemporanea della demagogia34 – quanto del globalismo e del cosmopolitismo, la sua stella polare è un’idea di nazione che, pur mostrando alcuni tratti nativisti, non reca più alcuna traccia delle inclinazioni espansionistiche e bellicose che avevano caratterizzato fascismo e neofascismo. E l’antisemitismo era totalmente assente dai suoi riferimenti ideologici. I dirigenti del partito, guidati da Meloni, non perdevano occasione per manifestare il loro attaccamento alla democrazia, per ribadire la loro fedeltà all’Alleanza Atlantica in nome dei valori dell’Occidente liberale e per prendere le distanze dall’esperienza fascista35. La formula più appropriata per definire FdI oggi sembra quindi quella scelta da Vassallo e Vignati: un partito nazional-conservatore, formato, soprattutto ai vertici, da “democratici afascisti”, cioè da persone che si sono ormai lasciate alle spalle le grandi divisioni del Novecento e vedono nella frattura culturale tra conservatorismo e progressismo la linea di conflitto fondamentale dell’epoca attuale.

De-radicalizzare un partito che fino a poco tempo fa ha fatto del radicalismo verbale la sua arma più efficace, e rendere sempre meno estremisti i suoi programmi e la sua immagine, è dunque la scommessa che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia sono ora costretti ad accettare, se non vogliono vivere a loro volta il brutale declino che Salvini e la Lega hanno subito tra il 2019 e il 2022. Allo stesso tempo, si tratta di tracciare un percorso di successo per i partiti fratelli in altri Paesi europei. L’obiettivo è rendere il Partito Popolare Europeo più di destra per cambiare le politiche dell’Unione Europea.

2
A livello organizzativo

Da questo punto di vista, Fratelli d’Italia si trova di fronte a una serie di sfide: consolidare la propria struttura organizzativa per completare il processo di istituzionalizzazione iniziato da pochi anni, accrescere il proprio capitale di legittimità a livello internazionale, stabilizzare i rapporti con gli alleati di coalizione per evitare il rischio di logoramento dell’azione di governo.

Sui primi due punti, la strada sembra ancora lunga e piena di insidie. La crescita rapidissima del suo risultato elettorale in proporzioni inaspettate ha posto Fratelli d’Italia in una situazione paradossale, simile a quella vissuta dalla Lega nel 2018-2019: ottenere un gran numero di cariche elettive a livello locale – consiglieri comunali e regionali, sindaci e vicesindaci – senza avere il personale adatto a ricoprirle e senza disporre di una rete di collegamenti organici con associazioni e gruppi di interesse in grado di garantire la collaborazione di esperti e tecnici di fiducia.

Orientamento politico delle coalizioni alla guida dei governi regionali

Source :

Nota: i numeri sulla mappa si riferiscono ai nomi delle regioni nella tabella della pagina seguente.

La presenza di Fratelli d’Italia nei consigli regionali

Nei primi anni della sua esistenza, in molte città di piccole e medie dimensioni, il partito non disponeva nemmeno di locali in cui allestire le sedi delle sezioni comunali e delle federazioni provinciali. Al momento della fusione con il Popolo delle Libertà, i locali appartenevano ad Alleanza Nazionale ed erano stati affidati a una fondazione che ne deteneva l’uso esclusivo. Solo una parte dei locali è stata affittata a Fratelli d’Italia. Il secondo congresso nazionale del 2017 ha cercato di porre rimedio a questi problemi avviando una nuova fase organizzativa. Nel 2019 è stato modificato lo statuto. Sono state stabilite regole più precise per il funzionamento della struttura interna, tra cui l’obbligo per tutti i membri eletti, a tutti i livelli, di versare un contributo finanziario.

L’organigramma elaborato in questa occasione è, sulla carta, molto complesso; riproduce la classica struttura dei partiti burocratici di massa. Il presidente, eletto dal congresso, è circondato al massimo livello da una serie di organi politici: l’assemblea, la direzione, il coordinamento politico, l’esecutivo e i dipartimenti tematici. Altri organi sono responsabili di compiti burocratici: la Commissione di garanzia, la Segreteria amministrativa e il Comitato amministrativo. In tutti questi organi, alcuni membri sono nominati direttamente dal Presidente, mentre gli altri sono eletti. Lo stesso schema si ripete, in forma semplificata, a livello locale, confermando la natura fortemente gerarchica del partito, ereditata dalla tradizione del MSI e di Alleanza Nazionale. Come hanno scritto Vassallo e Vignati, la struttura di Fratelli d’Italia “è guidata dal leader e dall’esecutivo nazionale”. I presidenti e i coordinamenti regionali sono strutture dipendenti da questo centro: “agiscono in base alle direttive nazionali del movimento “36 .

In teoria, il partito è caratterizzato da una forte democrazia interna. La selezione dei candidati alle cariche istituzionali si basa sul criterio delle elezioni primarie aperte ai sostenitori. Ma nella pratica le cose vanno diversamente. Dopo il 2017 non si è tenuto alcun congresso nazionale. Giorgia Meloni è stata scelta come Presidente per acclamazione. I membri dell’Assemblea e dell’Esecutivo sono stati eletti in blocco da una lista presentata dalla Presidenza. Lo stesso vale per i dirigenti regionali e provinciali, quasi tutti nominati dalla direzione nazionale, mentre alcuni di quelli eletti dai militanti furono sostituiti d’autorità dagli organi nazionali37.

Di fatto, il modello organizzativo di FdI sembra riprodurre il centralismo plebiscitario38 già sperimentato da MSI e AN: è un “partito del presidente”, la cui personalizzazione è ulteriormente accentuata dal fatto che Giorgia Meloni fa largo uso dei social media. Questo le permette di bypassare il filtro degli organi interni – che raramente vengono convocati – e di rivolgersi direttamente a iscritti e sostenitori, così come la sua costante abitudine di usare il pronome “io” anziché “noi” nei suoi discorsi pubblici, assumendo così la rappresentanza esclusiva del partito. Se questa accentuata leadership ha finora dato i suoi frutti in termini di risultati elettorali, ha certamente rallentato l’istituzionalizzazione del partito e la responsabilizzazione dei suoi quadri intermedi, dando adito a diffusi dubbi – più volte ripresi da stampa e osservatori – sul reale grado di competenza e capacità della classe dirigente su cui il Presidente può contare.

3
A livello europeo

Per quanto riguarda il problema della legittimazione internazionale, necessaria per un partito la cui storia affonda le radici nell’eredità neofascista, gli sforzi di Giorgia Meloni e dei suoi più stretti collaboratori, in particolare Guido Crosetto e Raffaele Fitto, sono stati intensi. Si è puntato soprattutto a confermare la vocazione atlantista e occidentale di Fratelli d’Italia, cancellando ogni precedente traccia di simpatia per la Russia di Putin, affermando il sostegno incondizionato all’Ucraina, ribadito in ogni occasione, e attenuando fortemente, ma non abbandonando, le critiche all’Unione Europea. Per affermare le credenziali conservatrici di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha fatto leva soprattutto sul suo ruolo di presidente del partito dei Conservatori e Riformisti europei, incontrando negli anni i rappresentanti dei partiti alleati, a partire dal polacco Morawiecki, dallo spagnolo Abascal e dall’ungherese Orbán. Questa scelta strategica l’ha portata a prendere sempre più le distanze dalle formazioni nazional-populiste del gruppo Identità e Democrazia, che comprende la Lega di Salvini, suo partner di governo, e il Rassemblement National. Questo allontanamento da Marine Le Pen è stato particolarmente marcato. Fino al 2017, Giorgia Meloni sosteneva di condividere con lei gli stessi ideali e la stessa linea politica, “per un’Europa dei popoli, delle patrie e delle sovranità “39 . La presidente di Fratelli d’Italia ne ha poi preso progressivamente le distanze, fino a non fare mistero della sua preferenza per Éric Zemmour come candidato alle elezioni presidenziali del 2022. Nonostante Marine Le Pen gli abbia espresso pubblicamente le sue congratulazioni e la sua gratitudine all’indomani del suo successo elettorale, nel settembre dello stesso anno, la frattura ha continuato ad approfondirsi, culminando nell’annuncio, nel febbraio 2024, dell’adesione di Nicolas Bay, unico eurodeputato di Reconquête! all’Assemblea di Strasburgo, al gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR). Questa mobilitazione è dovuta senza dubbio all’azione dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, che è passato dalla Lega a Fratelli d’Italia nel 2021, lo stesso anno in cui è diventato marito di Marion Maréchal.

Questa affiliazione ha destato molto stupore tra i commentatori politici italiani, in quanto ritenuta in contraddizione con l’ambizione di Fratelli d’Italia di far parte della nuova maggioranza del Parlamento europeo dopo le elezioni del 6-9 giugno 2024 e, di conseguenza, di influenzare la scelta del Presidente della Commissione attraverso un accordo con il PPE. L’adesione del partito di Zemmour potrebbe rafforzare numericamente il gruppo conservatore e forse garantirgli un numero maggiore di eletti rispetto ai concorrenti di Identità e Democrazia, ma l’immagine di estremismo che Reconquête! si è creata all’estero, in particolare per il radicalismo delle sue idee sulla lotta all’immigrazione e all’Islam, potrebbe costituire un serio ostacolo al progetto di alleanza con i moderati e i centristi. Sappiamo che questa scelta non è stata condivisa da alcuni quadri di FdI. Evidentemente Giorgia Meloni ha deciso di tentare una nuova scommessa, dopo le tante che hanno segnato la sua ascesa politica, convinta di vincere. Il voto europeo, che per Fratelli d’Italia si preannuncia positivo, comporta quindi seri rischi per il capo del governo italiano.

Annexe I

Histoire de la droite italienne
Synthèse chronologique depuis 1922

Annexe II

Chronologie des gouvernements italiens depuis 1946

Note : La couleur indique le parti d’appartenance du chef du gouvernement.

 

Notes

Prima, seconda, terza Repubblica. Confrontiamo. Non dimentichiamo_di Yari Lepre Marrani

Riceviamo e pubblichiamo

Prima, seconda, terza Repubblica.

Confrontiamo. Non dimentichiamo.

 

Passione e politica sono un connubio imprescindibile. Un vero uomo politico è quell’ individuo visceralmente appassionato della cosa pubblica per la quale combatte ogni giorno; considera lo Stato un mezzo per migliorare le condizioni dei cittadini non un fine da raggiungere per scopi personali: un uomo che perde e vince ma cerca sempre di lottare per affermare un ideale di progresso collettivo. La politica italiana,nel turbinio degli anni, ha perso un grande valore: quella dignità d’intenti e riforma che rende i suoi rappresentanti figure forti di riferimento, leader e statisti “capaci di governare”. La conseguenza di questa perdita ha mostrato quanto sia fragile l’equilibro tra l’incompetenza e il potere, e pericoloso. Quanto siano labili e sottomessi i politici italiani di oggi è palese, lo riconoscono i cittadini e il popolo disilluso lascia all’astensionismo sempre più alto il suo responso. L’astensionismo diviene un simbolo sociale di un disagio ingravescente di individui che disertano le cabine elettorali in un silenzioso disprezzo.

Grandi ideali,sublimi speranze di riscatto sociale e popolare tradite – si veda la parabola del M5S, il suo percorso, la sua catastrofica caduta, il rinnegamento dei suo nobili obiettivi, le personalità che l’hanno abitato e che lo sfruttano ancora – sono, tra molti altri, i tumori di uno Stato che barcolla nell’instabilità e nell’asservimento a poteri palesi e occulti. In questa sferza di disastri, doppiogiochismi, opportunismi,debolezze possiamo ripensare al passato, agli anni perduti, a protagonisti i cui errori sono stati svelati e legalmente condannati ma dei quali non possiamo negare l’intelligenza e lungimiranza nonchè l’indiscussa capacità di leadership. E torna il nome, amato e esecrato, di Craxi: uomo “totus politicus”, simbolo di un intero decennio di benessere – gli anni ’80 – che lui ha segnato con 2 governi e la cui figura controversa torna alla memoria e al doveroso confronto quando pensiamo (e osserviamo) la politica di oggi, dal berlusconismo in poi. Craxi riemerge come simbolo di una politica concreta, riformista, estremamente attiva il cui presente articolo non vuole delimitare al celeberrimo episodio della base di Sigonella. Se il nome e le idee di Craxi possono tornare alla ribalta nell’oceano di desolazione della politica attuale che tradisce elettori e ripugna astensionisti, non è solo per la differente statura del personaggio e le riforme attivate nei suoi governi ma per un’intuizione politica chiara che il leader socialista ebbe nel settembre 1979 quando lanciò, all’alba del pentapartito, l’idea rimasta inattuata di una Grande Riforma dello Stato non in senso settoriale ma istituzionalmente vasta, coinvolgente tutte le forze politiche, culturali e sociali del paese. Una Grande Riforma costituzionale, istituzionale, amministrativa preludio di un’Era italiana nuova. E fu l’idea più illuminata dell’allora leader nascente del PSI: un’idea di riforma universale che trasformi lo Stato  italiano, ne muti la politica debole, moralmente velenosa, incapace di galvanizzare  i lavoratori italiani in un sigillo di reciproca fiducia tra governanti, politici e uomini del popolo per risollevare uno Stato in perpetua crisi sociale. L’Italia necessita di cambiamenti  profondi, riforme non episodiche ma risolute e migliorative delle condizioni del popolo stesso sempre più rabbioso  con palesi, gravi parentesi di sofferenza sociale la quale finisce per mutarsi, inevitabilmente,in bruttura morale  e stagnazione economica. La figura di Craxi va ricordata non solo per la notte tra il 10 e l’11 ottobre del 1985 ovvero la Crisi di Sigonella: una minuta goccia d’orgoglio in un oceano di asservimento italiano alla “Fedeltà agli Alleati”.

Craxi è morto da latitante e nessuno nega le condanne in giudicato, la corruzione della politica italiana che toccò l’apice tra il 1987 e il 1992. Nessuno nega gli errori finali di un leader che è stato tanto rilevante come statista quanto degradato a “lupo delle tangenti”. Non possiamo tuttavia, se illuminati da onestà intellettuale, negare la sua intelligenza politica.

 

Quella “Grande Riforma” non è mai stata realizzata, neanche lontanamente si è cercato di porne le basi realistiche per una sua concreta realizzazione il cui fine andrebbe ricercato nella riforma profonda e integrale della cosa pubblica. E l’Italia da oltre 40 anni si perde nell’oblio. Di quell’idea Craxi è stato l’artefice nel marasma degli anni che portarono alla progressiva autonomia del PSI e quest’ultimo al governo.

 

Confrontare passato e presente non è solo doveroso: è strumento necessario per valutare e giudicare i cambiamenti e i peggioramenti, le loro genesi, per gettare le basi  a grandi mutamenti, non piccole riforme stagnanti che nascono nel silenzio e per il silenzio sono state concepite. Si cercano “Grandi Riforme” innanzi al mondo che corre, ad un’Italia assopita, frustrata,delusa, ad un’Europa finta e disunita, incapace persino di reagire militarmente forte e compatta al criminale attacco russo.  E Craxi, al netto delle sue colpe ma anche dell’importanza incontestabile dei suoi governi, ha lanciato una visione su cui i suoi successori hanno calato un velo funereo senza accorgersi che con quel velo coprivano l’orgoglio (e il benessere) del popolo italiano per decenni. Craxi ha acceso una fiammella che i suoi successori non hanno voluto trasformare in fuoco riformatore. Eschilo diceva che “la vita è un complesso di felicità e sventura”: Craxi ne è stato un vivo esempio, dagli altari di Palazzo Chigi alla cupa latitanza di Hammamet. Ricordare dunque, confrontare sempre. Mai dimenticare. Diversamente dall’oblio nasce solo altro oblio, dall’ignoranza nuova ignoranza. Dalla censura vendicativa del passato nasce lo sfacelo attuale e aumenta lo scetticismo e la distanza del popolo verso i governanti: i cittadini finiscono per essere sempre illusi e poi traditi dopo ogni tornata elettorale. L’astensionismo è solo un sintomo di un malessere molto più poderoso. Chi ha cercato di contenerlo non ha mantenuto le promesse ma si è dimostrato un vuoto fallimento figlio di opportunismi e profonda ignoranza: il M5S, fondato da un comico e affondato dalla finale sua indifferenza e dall’incapacità dei suoi uomini e donne che ancora occupano molte poltrone nella grande casa della politica.

Dott. Yari Lepre Marrani

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Vincenzo Costa, “L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl”_a cura di Alessandro Visalli

Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.

Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale[1] di Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico, che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.

Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.

Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la sua identità, che cosa la distingua da altre culture[2]. Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma è la domanda stessa sulla storia”.

 

Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.

L’obiettivo della lettura di Costa, ovvero la dislocazione che intende provocare, è quindi ben chiaro. Si tratta di svuotare quella idea di un senso che si dipana nella Storia, che fa tanta parte della tradizione Occidentale (provenendo dall’escatologia ebraica e poi cristiana, molto più che dai greci, a mio parere) e che trova una sistemazione nella narrazione teleologica hegeliana (formatosi come teologo, come si sa) e poi marxiana. Il problema è che se si oltrepassa l’escatologia, anche nella forma secolarizzata, diviene vuoto l’avvenire. Per questo la nazione più intensamente religiosa dell’Occidente, la più fondamentalista, è anche quella che si aggrappa con tutte le forze al suo avvenire, rischiando di precipitare il mondo intero nel vortice delle guerre pur di non rinunciarvi.

 

Questo obiettivo rilegge/tradisce lo stesso testo della “Crisi”, in quanto ancora implicato, se pure con alcuni spostamenti, con quella idea che interessa l’intero Ottocento europeo (secolo di massima forza del continente), per il quale la stessa Europa è il luogo nel quale la Ragione si dispiega.

La mossa più semplice, davanti a questa hybris, è quella di Lévi-Strauss, in “Razza e storia[3], che senza esitazioni la qualifica come ‘eurocentrismo’. Un’accusa la quale si dispiega in una diversa temperie storica, a partire da quegli anni Cinquanta del Novecento in cui la sconfitta del continente nelle due guerre mondiali definì la perdita della centralità ed il confronto con l’orrore dell’olocausto. Inoltre, anni in cui prese forza il movimento decoloniale, in parte spinto e favorito dalla lotta tra i due blocchi[4].

Il Levi-Strauss citato da Costa afferma infatti nel 1952 che ‘progresso’ e ‘storia cumulativa’ hanno senso solo se le civiltà seguono lo stesso percorso, la stessa direzione. Se risultassero orientate diversamente e in tale direzione accumulassero esperienze, allora apparirebbero rispettivamente stazionarie. La linea di sviluppo che una perseguirebbe non significherebbe nulla per l’altra. Ad esempio, una civiltà che valorizza lo sviluppo tecnico vedrebbe come statica una che attribuisse valore alla consapevolezza del rapporto con la natura, e viceversa.

Ma a questa cruciale obiezione dell’antropologo, che inclina, come Boas e Mead[5], a forme di relativismo culturale per le quali ogni civiltà è semplicemente diversa ed unica, e può essere giudicata solo nei propri specifici termini, vanificando qualsiasi possibilità di giudizio di valore, Costa obietta, in quello che mi pare in fondo il centro del testo (con uno straordinario “e tuttavia,” di incipit):

 

“e tuttavia, negare la teleologia non è senza rischi, poiché non si può abbandonarla senza pagare un prezzo: quello di scadere in un cieco empirismo e abbracciare un mero relativismo storico al cui interno ogni cultura va bene. All’interno di questo relativismo l’incontro stesso tra le culture non può neanche accadere perché culture differenti sono incommensurabili, e quindi, l’incontro deve semplicemente fare spazio a una sorta di indifferenza culturale e di tolleranza negativa. Non esiste la storia, allora, ma soltanto uno zoo di culture.

La negazione dell’idea di teleologia si risolve allora in una dissoluzione della nozione di verità e di ragione. A essere più precisi, essendo essa stessa eurocentrica, non deve essere la nozione di verità a guidare l’incontro tra culture. Il prezzo da pagare quando si abbandona la nozione di teleologia consiste nel rendere impossibile ogni critica razionale, persino la nozione stessa di dialogo razionale, dato che ogni cultura è un sistema chiuso e incommensurabile rispetto ad altre culture”[6].

 

 

Da qui muove la proposta che Costa recupera in Husserl. La teleologia, che non si può abbandonare senza affrontare l’horror vacui, può essere solo intesa al modo di Hegel come dynamis, nel quale la meta è contenuta nell’origine? Quando un seme contiene la pianta, e l’incompiuto deve compiersi attraverso sia pure conflitti e negazioni? Non è possibile intenderla come possibilità?

Se la potenza non è un atto che deve compiersi, ma, piuttosto, un ambito di virtualità al quale si può attingere, se, in altre parole, “l’atto fa essere la potenza”. Allora, storia e verità sarebbero in un diverso rapporto tra di loro, contingente.

Recupera significa anche tradisce, perché come immediatamente avverte l’autore, in Husserl ci sono abbondanti tracce di una visione del destino come compimento, ovvero di una storicità pura, che non si può che qualificare come etnocentrica. Per sfuggire bisogna tradire il testo nel punto in cui immagina la storia come un processo cumulativo e come approssimazione alla verità. Nel punto in cui, recuperando la tradizione scientifica che imbibisce ogni aspetto della cultura Ottocentesca nella quale Husserl si è formato, alla fine la verità è oggetto e rappresentazione e le teorie sono comunque rispecchiamento della realtà, pur non adeguandosi mai completamente ad essa.

 

Una concezione che, seguendo la critica del testo, presuppone inevitabilmente una ragione antistorica e quindi indipendente dai modi di espressione. Viceversa, “ogni cultura determina l’orizzonte teleologico a seconda da ciò che essa pone come modello di civiltà”[7]. La teleologia è, dunque, essa stessa un prodotto storico (un prodotto non solo di ogni ‘civiltà’, quando di ogni epoca storica, e, si potrebbe aggiungere, di ogni prospettiva pratico-disciplinare entro essa, se non si temesse di disintegrare l’oggetto – come forse merita – ). Se ogni epoca ha la sua storia (ed ogni civiltà ne ha una), allora ci si riavvicina a Boas e Levi-Strauss, restando distanti solo per una sorta di umanesimo che innerva l’intero testo. Ovvero per l’assenza di quel pessimismo radicale ed anti-antropocentrico, anti-umanistico e irreligioso, che caratterizzava il grande studioso belga. Certo, l’eliminazione della storia determinata da un proprio telos, in favore della contingenza (ma di una contingenza a sua volta necessaria, in quanto piena e capace di autoconferma) e del caso, impedisce di riconoscerlo ex ante, ma lo consente solo ex post (qui si potrebbe richiamare il Lukacs della “Ontologia[8]).

Il telos è, nella lettura della “Crisi” di Costa, tuttavia costantemente indeterminato, privo di un criterio ultimo, e di unità e necessità. È per questo che “è possibile interpretare il testo husserliano senza assumere una prospettiva archeo-teleologica”. Ed è possibile scegliere la traccia di questa lettura, tradendo altri contenuti del testo e la stessa “intenzione” dell’autore e del suo tempo, ovvero “trascurando molti passi testuali che contesterebbero la nostra lettura e confermerebbero l’appartenenza di Husserl alla metafisica della presenza, del senso e dell’identità tra ragione e storia”[9]. Qui si aprirebbe, insomma, una contraddizione nel testo tra l’idea tradizionale che l’uomo, in quanto essere razionale, perviene a sempre maggiori gradi di auto-riflessività (per cui, ad esempio, il nostro grado di auto-riflessività sarebbe superiore a quello delle generazioni che ci hanno preceduto, sarebbe a dire greci inclusi), dall’altra quella che il telos si vede solo a cose fatte e non può essere determinato anticipatamente; per cui in assenza di un criterio astorico non resta che l’interpretazione prima ricordata.

Ma allora, che cosa rende possibile l’unità di ragione e storia, senza l’idea di progresso? Per Costa la verità è sempre assente e differita, e quindi la ragione è solo la ricerca di un obiettivo che si sottrae. Più esattamente è la coscienza di questo impossibile afferrare ciò che si differisce costantemente. Ovvero è la coscienza della distanza dalla verità, dell’impossibilità di padroneggiare, una volta e per sempre, questo differirsi. Ma questa coscienza sarebbe l’Europa.

 

Con le parole stesse del testo:

 

“l’Europa sarebbe allora la coscienza del sottrarsi della verità, del suo infinito differirsi, e proprio in questo consisterebbe il suo valore ‘universale’. Al contrario, essa ricade al di qua di sé stessa (ricade nel mito) tutte le volte che si autorappresenta come depositaria di valori universali e come punta avanzata della storia della ragione. La coscienza della distanza dalla verità diviene presunzione di essere la depositaria della verità.”[10]

 

 

E’ del tutto palese, in questa posizione, estratta a forza, per così dire, dal testo della “Crisi”, l’obiettivo che si spende nei conflitti del presente. In questa fase in cui l’universalismo Occidentale, di derivazione escatologica, si fa parodia di se stesso nello sforzo di sovraestendersi in una posa imperiale. L’accusa che Costa dirige a questa postura, e che sarà più chiara nel suo successivo e più esplicito libro “Categorie della politica[11], è di tradire lo stesso Occidente, ovvero la sua segreta identità più autentica. Lungi dall’essere la difesa dei valori occidentali contro l’aggressione di civiltà ‘autoritarie’, la postura che un declinante potere imperiale anglosassone ha preso e prende verso la richiesta di protagonismo[12] avanzata dal resto del mondo è un tradimento dello stesso Occidente più autentico.

Lo scopo politico è farla finita con la vecchia, in verità antica, idea che solo l’Occidente è la casa della ragione e gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo noi, se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel processo in cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani). Invece, per Costa, la storia universale (già questo singolare fa problema) è un processo (altro singolare) in cui si dà contaminazione, innesti, dialoghi, scontri e incontri, davanti alla ricerca a volte cooperativa di una verità che si sottrae per tutti. Il punto di attacco, che rende intelligibile ed anche condivisibile il libro, è che il nuovo eurocentrismo si presenta come quella forma di universalismo che, in quanto astratto, si impone dissolvendo tutte le tradizioni culturali, a partire da quella stessa dell’Occidente ben inteso.

 

Resta poco chiaro, un residuo husserliano direi, perché questa descrizione della consapevolezza del sottrarsi sarebbe europea, anzi sarebbe il lascito dell’Europa al mondo. Poco chiaro in due sensi: perché richiama l’Europa ad un’idealizzazione di alcuni pensatori aristocratici greci del IV secolo a.c.[13], riletta attraverso il lungo medioevo islamico ed europeo ed il filtro dell’Ottocento tedesco (che aveva il problema di sottrarsi al latino); perché, oltre a dimenticare il cristianesimo e il lascito romano, questa idealizzazione trascura le altre grandi culture che hanno rapporti con la verità altrettanto complessi. Peraltro, per fare una battuta su problemi di altissima complessità (e specializzazione), anche gli arabi sono ‘greci’ e, in ogni caso, i ‘greci’ non sono europei (in quanto sono contaminati assai profondamente dalle grandi culture antecedenti, egiziana e persiana[14], oltre che indiana).

 

Lo stesso Costa lo ricorda quando scrive “dobbiamo chiederci se questa caratteristica [la ricerca della verità che si sottrae] sia riservata alla cultura europea o se, in forme differenti, non costituisca l’orizzonte di ogni cultura”[15]. La mia risposta è . Rispondere no, peraltro, fa ricadere inevitabilmente nella posizione eurocentrica; se non altro attraverso il sottile velo del maieuta (già in Socrate orientato sottilmente allo scopo di ricondurre l’altro della democrazia al discorso degli aristoi). Ovvero del maestro che conduce i popoli bambini alla comprensione adulta. D’altra uscire da se stessi è sempre difficile, anche lo stesso Levi-Strauss fu criticato da Edward Said perché senza volere descrive le altre culture usando la sua tecnica che è intrinsecamente etnocentrica[16].

 

Il testo di Husserl è interessante perché reca in sé il travaglio di un momento di messa in questione della forma prima di universalismo imperiale europeo, innestato sul monopolio presunto e rivendicato del progresso tecnico-scientifico che rappresenta la crescita in sé evidente. Un processo quindi di tecnicizzazione della ragione e di sua unità. La crisi di cui parla il libro degli anni Trenta è quindi in primo luogo la disgregazione di questa unità e naturalezza. Unificazione dei tre trascendenti di Vero, Bello e Bene e dell’orizzonte di attesa, ovvero dell’escatologia (idea tratta dal mondo ebraico-cristiano, tuttavia). Quel che accade nel crogiuolo della crisi europea (ovvero del disastro delle due guerre civili e della perdita della centralità, con il sorgere di potenze extraeuropee, come gli Usa e il Giappone) è la perdita del senso della direzione. O, in altre parole, degli orizzonti di attesa.

Qui la soluzione si affaccia come mantenersi desti nella differenza, capire la crisi come oblio (dell’identità autentica dell’Europa) anziché tramonto (alla Spengler). Non concepirsi come privi di legami e quindi liberi, ma situati in una tradizione che radica la libertà oltre il mero principio di piacere. Oltre quell’orgiastico che reagisce alla perdita di senso in una fuga aristocratica (Costa tornerà su questo tema nel libro successivo) alla Bataille.

Come accade con la cultura cinese, con l’antica nozione di Dao, o a quella indiana con Brahma, non si tratta di raggiungere un fine, quale esso sia, ma restare aperti alla ricerca sapendola sempre relativa e incompleta. Il punto è che se si trascura questo dinamismo e si confonde il sapere con la verità, immaginandosi in possesso della chiave dell’universale una volta e per tutte, si ricade nel mito. Si perde l’origine e si dimentica se stessi.

 

Ciò che stiamo facendo è dunque dimenticarci.

 

Il telos (ora lasciamo pure perdere se è Europa, o se questo è un nome per designare un atteggiamento ed un lascito che non è solo ‘nostro’) sarebbe dunque la coscienza della differenza tra sapere e verità.

Questo telos che sarebbe proprio della fondazione greca. O, per meglio dire, della dinamica più propria dell’esperienza greca. Anzi, dell’esperienza della filosofia greca post-socratica. Ma “Grecia”, avverte il testo, “non significa una cultura determinata ma un atteggiamento”, essa “allude a uno strato di esperienza presente, in maniera latente, in ogni cultura”[17].

Lasciando da parte la domanda che scaturirebbe ovvia a questo punto, perché chiamare questo idealtipo con innumerevoli applicazioni “Grecia”, quando questa si dissolve avvicinandosi[18], il punto è che noi non rappresentiamo il mondo come è, ma viviamo piuttosto nella sua apertura. Ovvero abitiamo nel sistema di differenze che lo costituisce. Ricordando Hegel e la nozione di negazione determinata, e quello di contesti di volta in volta determinati, noi stessi dobbiamo concludere l’essere costituiti quali nodi di una certa epoca. La ragione stessa non è dunque assimilabile ad una sorta di Grande Dibattito (come forse vorrebbe Habermas), ma piuttosto un movimento dei mondi storici concreti, che situa esistenze, rende possibili natura e cultura di volta in volta situate, apre il senso e crea lo spazio nel quale si gioca. L’idea di verità è solo l’apparire, ogni volta in forme diverse e sotto diverse urgenze e soggettività, del mistero dell’essere (per usare un gergo filosofico) nella sua inesauribilità. La verità è, quindi, rapporto ad un’alterità.

Ma questa posizione, che gioca sul crinale sottile tra un sempre possibile relativismo e il rifiuto delle sue conseguenze, implica anche che, come ogni discorso, la Giustizia dipenda dal contesto.

 

Passando per una decostruzione della nozione di storia universale e di Europa nella prospettiva hegeliana, Costa nega in fondo che, come voleva Derrida, Husserl sia sulla stessa lunghezza d’onda. Per la quale in sostanza l’Occidente è la ragione stessa che si impone al mondo e alla quale tutti gli altri popoli possono partecipare solo nella misura in cui accettano la forma della razionalità che ha trovato forma al termine del percorso della storia, nell’Europa germanica. Quella storia che è unità e dispiegamento e passaggio dalla potenza all’atto. Lo ‘svolgimento’ sarebbe, allora, solo uno srotolarsi di un sé già presente nell’origine e coincidente con la logica. Il Geist (lo spirito) sarebbe insieme razionalità vivente e dinamismo della ragione, ma in esso sarebbe del tutto presente e necessaria la gerarchizzazione delle culture. Qui la famosa tesi dei ‘popoli senza storia’, nei quali lo spirito non ha direzione e quindi resta incapace di crescita.

 

La differenza è che in Husserl “la nozione di verità corrode quella di totalità”, mentre in Hegel:

 

“il telos allude a un incompiuto che vuole compiersi, per cui la teleologia sembra implicare un volontarismo intenzionale, una metafisica secondo cui la realtà pulsa verso una meta. Pertanto, la storia ha un senso solo se vi è un fine/una fine della storia, e si può parlare di telos solo a partire dall’intero, dalla chiusura di questo movimento della fine della differenza tra sapere e verità”[19].

 

 

Ma se, come vorrebbe ancora Husserl, la verità è sempre irraggiungibile, allora ogni epoca ha il suo scopo ultimo e vive nell’anticipazione. La potenza, il nucleo della razionalità, lo stesso movimento del dispiegarsi, e quindi il telos, il destino, viene quindi costruito retroattivamente in ogni epoca del mondo e secondo il suo concetto. Secondo il concetto di emancipazione che serba. Resta ancora una sorta di teleologia, ma senza compimento. In sostanza, se resta un fine dalla storia di cui si può dire, questo è tenere aperta la differenza.

 

Stiamo tornando a Levi-Strauss, ed all’antropologia culturale della sua generazione? In effetti, si articola una forma di relativismo, ma sotto condizioni specifiche. La verità è inattingibile, storica e temporale, dipende dall’epoca, ma non è relativa nel senso individuale. Non è questione di desiderio (come vorrebbe una cultura diffusa in Occidente a partire dal secolo scorso e normalmente etichettata come post-moderna), piuttosto “sono i contesti e non le opzioni soggettive e arbitrarie a fissare le coordinate”[20]. È possibile quindi giudicare in relazione a queste coordinate.

Certo, resta il problema pratico di chi determina le coordinate anche se storicamente date, se qui-ed-ora. Resta il problema che l’apertura è un campo di conflitti. Che le sfide alle quali bisognerebbe rispondere, perché poste dall’epoca, sono centralmente interpretazioni e sono la materia stessa del conflitto per lo spirito del tempo. La sfida che individua la nostra epoca del mondo è quella per l’estensione della libertà del mercato e della razionalità liberale, come vorrebbe una forte linea di interpretazione anglosassone? Oppure è la contaminazione e l’apertura alla pluralità dei mondi in un contesto di legittimazione reciproca? L’emancipazione alla quale tendere è quella degli individui dalle strutture collettive, in modo che sia il mercato a definire il proprio di ciascuno, o delle comunità che sono libere di definirsi secondo i propri specifici termini?

E la storia è sviluppo di questa idea centrale, della democrazia di mercato, o stratificazione di diversi modi di stare in rapporto e di riconoscersi situati? Le diverse forme particolari di questo stare in rapporto con la tradizione, e di restare aperti alla differenza tra i saperi e la verità, tra il giusto e le forme della socialità, sono implicate con il relativismo necessariamente? Per sfuggire all’antitesi tra universale e particolare è sufficiente che si ridefinisca l’universale come apertura all’altro da sé ed al riconoscimento del sé come altro?

 

È possibile che in questo modo si disperda ogni possibile idea di ragione, e ogni forma immaginabile di universalismo. O, forse, che in tal modo ciò che si perde sia solo l’universalismo astratto. D’altra parte, la ‘ragione universale’ è il centro della filosofia occidentale, o della sua antropologia filosofica, e Husserl l’ha sempre tenuta per ferma. Inoltre, l’ha sempre localizzata in Europa, dove la filosofia sarebbe cominciata come “non conoscenza”. Costa qui ricorda l’importante critica che negli anni Sessanta, non per caso nel contesto dei movimenti decoloniali, ha individuato nella filosofia Occidentale stessa la “mitologia bianca”. Una critica che da Derrida non manca di investire direttamente anche lo stesso Husserl, “per Husserl, come per Hegel, la ragione è storia e non c’è storia se non della ragione”[21]. Ed ancora,

 

“la metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare Ragione. Il che non accade senza conflitti”[22].

 

 

Ha ragione Derrida, nel volere mitologica ed etnograficamente definita questa pretesa dell’Occidente di parlare la lingua dell’umanità tutta, o ha ragione Husserl, che individua nella filosofia e nella scienza “il movimento storico della rivelazione universale innata, come tale dell’umanità”? Per il nostro non ci sono alternative, o nella storia europea (non già in quella indiana o cinese, non in quella araba, non altre) si dispiega la ragione stessa, oppure c’è il relativismo culturale. Precisamente scrive: “solo così sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la ‘Cina’ o l’’India’”[23]. Per cui in un certo senso l’universale vive nel particolare, in noi.

La ragione che Husserl difende è un capolavoro di etnocentrismo e di centralità della propria specifica posizione nella storia: la ragione e la verità universali si incarnano in Europa perché solo in essa si comprende razionalmente il reale tramite la filosofia. Le altre culture non conoscono la filosofia, quindi non hanno accesso al reale e alla totalità. All’obiezione circa l’evidente presenza di testi ‘filosofici’ in altre culture, avanzata al suo tempo da Georg Misch, lo stesso Husserl replicò, come riporta Costa, che “bisogna evitare che la generalità meramente morfologica occulti le profondità intenzionali, non bisogna diventar ciechi di fronte alle differenze essenziali e di principio”. La filosofia occidentale inizierebbe infatti con una “dichiarazione di non conoscenza” e con lo stupore verso un inconoscibile senza rimedio, oltre che con l’apparire della idealità. Ovvero con Platone e Socrate. Momento della storia della cultura greca che segnerebbe “la specificità del nostro essere occidentali”. Questo perché in Grecia nascerebbe la “teoria”, ovvero l’atteggiamento teoretico, un modo di essere del tutto non-pratico, una mera esigenza di verità sviluppata in vista di nessuna utilità.

Piuttosto singolare come spiegazione, nel momento in cui sembrerebbe essere piuttosto il contrario[24]. Ad esempio, il taoismo bisogna orientarsi alla scoperta della legge latente ai mutamenti delle cose, legge che si sottrae alle constatazioni empiriche ma impregna l’universo. L’intima unione con il Tao (o Dao) avviene proprio con il distacco, la rinuncia alle passioni, la Via che non agisce, che è inattiva, non forza la sorte. Oppure la dottrina del maestro Mo Ti (479-381 a.C.), contemporaneo di Socrate, contrapposta a quella di Confucio e del suo allievo Mencio, che prediligeva il culto del Cielo, l’amore universale e la non aggressione e pace tra tutti i popoli in un’epoca di guerra civile[25].

 

Dunque, la storia universale coincide con l’europeizzazione di tutta l’umanità. Ovvero, con l’estensione del modo di abitare il mondo che sarebbe proprio dell’Europa. Con quel modo dell’abitare che sarebbe, cioè, abitato dallo stupore. Quell’atteggiamento che consisterebbe nel rapportarsi a sé stesso come un altro e nutrirsi del decentramento.

Ma, e qui affonda la sua critica Derrida, accolta da Costa se pure con alcune timidezze, “il proprio di una cultura è di non essere identica a sé stessa”; la nozione stessa di “cultura” è un’astrazione e il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. Allora l’identità stessa è provvisoria ed è contaminata. Oppure, in altre parole, “ciò non significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco delle differenze”[26].

 

Allora cosa si può dire, che rispettare il particolare non può significare altro che tradire l’universale? Come sfuggire a questa aporia. Se si può porre una qualche identità data, quindi un fine, un telos, e se questi hanno un valore universale, allora non ci sono vie di uscita dall’etnocentrismo (in Europa sarebbe un eurocentrismo, altrove sarebbe la pretesa di una via all’umano di volta in volta braminica, cinese, islamica, o sudamericana, e via dicendo). Se, invece, non c’è la possibilità di rivendicare un telos propriamente umano e valido quindi per tutti, allora bisognerebbe concludere che una cultura vale l’altra. Resterebbe preclusa la critica e la cooperazione andrebbe affidata a meccanismi non verbalizzati (come il mercato, o la semplice forza). Con che diritto potremmo intervenire in un’altra cultura che apparisse a noi strana o ripugnante, oppure, ed è lo stesso, con che diritto gli altri sulla nostra?

È certo un problema enorme, e per percepirlo basta entrare in contatto con qualche “altro”, spiando dal pertugio della porta il modo in cui lui vede noi. O, ancora meglio, accorgersi che in ogni ‘altro’ ci sono tutti i conflitti che ci attraversano. Nel più volte condannato mondo persiano, ovvero iraniano, vive un conflitto secolare tra istanze di secolarizzazione, che guardano in parte anche all’Occidente, e istanze religiose nelle quali la tradizione viene continuamente rinnovata. La storia del paese, negli ultimi cinque secoli almeno, è attraversata da questo conflitto ciclico. Si sono succeduti periodi di “modernizzazione” a periodi “tradizionalisti”. Abbiamo quindi il diritto di scegliere per loro quale deve prevalere questa volta? Abbiamo quello di sforzarci di farlo vincere?

Quale è l’identità pura e quale quella contaminata, da loro come da noi?

 

Probabilmente ciò che andrebbe fatto è, qualunque sia l’etichetta che vogliamo dargli, decentrarsi, assumere il punto di vista dell’altro e immaginare il suo mondo. Lasciare anche che questi immagini il nostro e guardarsi nell’immagine.

Per concludere questa breve lettura, l’Occidente idealizzato, ma devo dire davvero difficile da rintracciare (casomai è più facile trovarlo a Teheran o a Pechino), di Costa è quindi quello che è cosciente che il proprio modo di pensare è solo uno tra i molti possibili ed è disponibile a cambiare direzione. È quello che resta cosciente della differenza incolmabile tra interpretazione e verità, ma non per questo cessa di cercarla. E comprende che la ricerca è possibile solo nel decentramento e nella coltivazione dello stupore per l’apertura all’altro da sé, che è possibile perché anche il sé è un altro. Da scoprire.

 

Si potrebbe dire che l’Occidente è migrato via dall’Occidente.

 

 

[1] – Husserl, E., “La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, Il Saggiatore, Milano, 1986 (ed. or. 1954).

[2] – Costa, V., “L’assoluto e la storia”, Morcelliana, Brescia, 2023, p. 6.

[3] – Lévi-Strauss, C., “Razza e storia”, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1952).

[4] – Rimando al mio Visalli, A., “Dipendenza”, Meltemi, Milano, 2020.

[5] – Si veda King, C., “La riscoperta dell’umanità”, Einaudi, Torino, 2020 (ed. or. 2019).

[6] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 10, citato Boas, F. “The mind of primitive man”, The MacMillan Company, New York, 1938, p. 159.

[7] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 12

[8] – Lukacs, G., “Ontologia dell’essere sociale”, Meltemi, Milano, 2023 (ed. or. 1984).

[9] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 15

[10] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 16

[11] – Costa, V., “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, Rogas Edizioni, Roma, 2023.

[12] – Si veda “L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?”, Tempofertile, 27 agosto 2023.

[13] – Per un inquadramento dell’insegnamento seminale di Socrate nel contesto del suo tempo, si veda Luciano Canfora, “Il mondo di Atene”, Laterza, Roma-Bari 2011.

[14] – Si veda, ad esempio, Diego Lanza, “Dimenticare i Greci”, in AA.VV. “I greci. Storia, cultura, arte e società”, vol. 3, Einaudi, Torino, 2001, p. 1462.

[15] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 17.

[16] – Said, E. “Orientalismo”, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed. or. 1978); “Cultura e imperialismo”, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed. or. 1993).

[17] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 58

[18] – Ogni osservazione più ravvicinata dissolve questa idealizzazione, per la quale, come vorrebbe in pratica ogni filosofo occidentale formato alla sua scuola, nel IV secolo a.c., all’incirca, si è creata improvvisamente una coscienza nuova, e questa in sostanza in una città di venticinquemila cittadini liberi attraversata da un radicale conflitto tra ‘democratici’ e ‘aristocratici’ ed in scontro con altre città-stato. Tutto ciò trascurando fastidiosi particolari come l’appartenenza di tutti i filosofi tramandati al partito aristocratico (Crizia, autore del colpo di stato contro la democrazia ateniese, appartiene alla cerchia intima di Socrate e ne è parente), e quindi la dipendenza del discorso sul “non sapere” da un diretto utilizzo politico, oppure i legami della cultura greca con le fonti siriane, egizie, fenicie, o nordafricane come la cultura Kush e Aksum. O, per il tramite a volte di queste ultime, con il mondo indiano e oltre.

[19] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 102

[20] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 104

[21] – Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or. 1972), p.167.

[22] – Derrida, cit., p. 280

[23] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 120, cit. Husserl, “La Crisi”, p.45.

[24] – Per questa interpretazione si vedano i testi di Francois Jullien, “Trattato sull’efficacia”, Einaudi, Torino, 1998 (ed. or. 1996); “Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente”, Laterza, Torino, 2006 (ed. or. 2005).

[25] – Si veda Granet, M., “Il pensiero cinese”, Adelphi, Milano, 2018 (ed. or. 1971).

[26] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 131.

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Il sistema produttivo italiano. Una prima carrellata su vizi e virtù Con il professor Marco Pugliese

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Manifesto di Orvieto_ Un invito alla riflessione_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto i testi, con i relativi link disponibili per chi avesse difficoltà di lettura dei documenti non perfettamente formattati per mancanza di tempo, propedeutici al dibattito nell’assemblea di fondazione del Forum dell’Indipendenza Italiana, presieduta da Gianni Alemanno, che si terrà a Roma il 25 e 26 novembre prossimi.

A parere dello scrivente gli elaborati rappresentano, in termini di analisi, quanto di più compiuto sia riuscito a produrre una organizzazione politica, sia pure in formazione, almeno sui temi cari a questo sito.

Vi sono diversi punti controversi sui quali aprire la discussione. In particolare la priorità da attribuire alla battaglia culturale, il decadimento degli stati nazionali e la qualità del potere del capitalismo e dei capitalisti, in particolare finanziario, in quale maniera andrebbero esercitate le prerogative dello stato in un sistema globalizzato o quantomeno esteso di relazioni, l’atteggiamento da tenere sulle nuove tecnologie, sulla loro forza di penetrazione, distinguendole dai fondamenti esistenziali inquietanti costruiti a corollario. 

Quanto alle proposte politiche, al programma del manifesto, la discussione promette di essere ancora più accesa, con riguardo soprattutto al ruolo e alla istituzionalizzazione delle associazioni a tutela in particolare dei ceti intermedi, alla funzione del conflitto sociale, al ruolo della grande impresa multinazionale e al suo rapporto con gli stati nazionali.

Gli estensori  partono da una constatazione realistica, il retaggio ancora irriducibile delle ideologie otto/novecentesche, per concludere che l’azione politica deve svolgersi ancora distintamente nelle rispettive aree ideologiche, evitando agglomerazioni affrettate e pasticciate. Il rischio pesante è quello di essere ancora una volta risucchiati nel passato. L’enfasi attribuita alla contrapposizione tra élites e massa, all’impegno scandito dalle battaglie e dalle scadenze elettorali, alla assoluta priorità data al successo e alla rappresentanza elettorale rispetto al problema dell’effettivo esercizio del governo e del potere, rischiano però di riproporre sotto mutate spoglie gli errori e gli opportunismi più o meno intenzionali che hanno inficiato tutte le esperienze del recente passato, in particolare quelle del M5S, di Salvini e per certi versi di Matteo Renzi, portando alla disillusione componenti sempre più importanti di popolazione?

Cercheremo di aprire una discussione sul merito compatibilmente con le nostre modeste forze. Buona lettura, Giuseppe Germinario

MANIFESTO-DI-ORVIETO-1

Noi chiamiamo a raccolta chi ci crede ancora.Chi si emoziona quando sente il nostro inno nazionale e guarda la bandiera dell’Italia alta nel cielo. E non si rassegna a vedere donne e uomini messi ai margini, sfruttati, privati di ogni diritto.Chi non accetta di sentir parlare male degli Italiani, chi si ricorda della nostra storia e la vede ancora scorrere nell’immensa creatività di questo popolo e di questa cultura.Le radici contano, l’identità di ognuno di noi è fatta della lingua, della cultura, della memoria condivisa, dell’ambiente e del paesaggio che ci circonda e a cui dobbiamo dare valore. Per questo l’identità di ciascuno di noi vive nelle comunità di cui facciamo parte, dalla famiglia ai territori, fino alla Comunità nazionale.Noi ci sentiamo europei, perché siamo innanzitutto e soprattutto Italiani. Se smetteremo di essere Italiani, smetteremo anche di essere europei.Noi crediamo ancora nel valore della cittadinanza che si radica nell’identità. Un valore che chiede ogni giorno sacrificio, impegno sociale e partecipazione politica, ma che deve garantire il lavoro per tutti e i diritti sociali per ogni famiglia. La cittadinanza non si regala a nessuno, né a chi è nato italiano, né a chi viene da altri paesi.La democrazia nasce dalla cittadinanza e dalla sovranità popolare, scompare quando si diventa sudditi e quando i diritti sociali vengono negati.Tutto questo è scritto nella nostra Costituzione, perché è scritto nella nostra storia, nella Dottrina sociale cattolica e nell’Umanesimo del Lavoro.Proprio per questo c’è bisogno di un profondo cambiamento e il tempo in cui stiamo vivendo è propizio per questa svolta.L’Italia deve uscire dalla condizione di sudditanza economica, finanziaria e politica, che è la radice di tutti i suoi problemi. Siamo sempre più una colonia che subisce il vincolo esterno dell’Unione Europea e le direttive geo-politiche del deep state americano, dietro cui non è difficile cogliere gli interessi e i progetti della global finance. Non certo dei popoli europei o del popolo americano, che subiscono quanto noi questa perdita di sovranità.Non è solo una questione di orgoglio nazionale: dalla nostra indipendenza dipende il futuro del nostro popolo e la nostra libertà di cittadini.Non riusciremo più a dare un lavoro dignitoso ai nostri figli e a garantire i diritti sociali delle nostre famiglie se non ci ribelleremo ai vincoli di austerità e liberismo che ci vengono imposti da Bruxelles. Ancora oggi la Commissione europea – nel pieno di una guerra – vuole rapidamente tornare ad un Patto di Stabilità ancora più severo e obbligarci ad approvare una riforma del MES che ci metterà ancora di più a rischio di default. Queste riforme europee imporranno alla nostra2economia manovre finanziarie di tagli alla spesa pubblica di almeno 10 miliardi all’anno per dieci anni, rendendo così impossibile ogni investimento per lo sviluppo e ogni spesa necessaria ai servizi sociali essenziali.Le direttive del deep state americano ci hanno imposto guerre devastanti per il nostro interesse nazionale e per la nostra economia: dalla seconda guerra del Golfo, all’intervento nel Kosovo, all’attacco alla Libia, fino al coinvolgimento in prima linea nel conflitto in Ucraina. Un paese come il nostro, naturale ponte tra il Nord e il Sud, tra l’Est e l’Ovest, è stato trasformato in un confine armato nel cuore del Mediterraneo.Per questo la questione sociale esplode nel nostro Paese: squilibrio crescente nella distribuzione della ricchezza; diffusione della povertà anche nel ceto medio; mancanza di lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito; smantellamento di tutti i servizi sociali, sanitari e previdenziali; abbandono del territorio e devastante degrado urbano; tratta di esseri umani che porta sempre più disperati sulle nostre coste; fuga dei nostri ragazzi all’estero per cercare lavoro.Il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia è tornato a crescere, i diritti e i doveri non sono più uguali per tutti gli Italiani e il progetto di autonomia differenziata rischia di rendere irreversibili questi problemi e queste ingiustizie. Nessuna regione trarrà vantaggio dalla divisione dell’Italia.Per dare risposte a questa crisi sociale bisogna innanzitutto rilanciare lo sviluppo ricostruendo le filiere produttive della nostra economia nazionale, con una nuova sinergia tra Stato e piccole e medie imprese. Lo Stato deve rigenerare la nostra grande industria, le PMI devono essere liberate dal peso delle tasse e della burocrazia, protette dalla concorrenza predatoria delle grandi multinazionali, per poter esprimere tutta la creatività del made in Italy. L’Italia deve tornare a produrre ricchezza e a ridistribuirla equamente tra tutta la popolazione. Ma tutto questo non è possibile senza entrare in conflitto con i vincoli europei.La nostra sudditanza finisce per colpire anche le libertà individuali e la dignità dell’essere umano: è in atto un vero e proprio attacco “transumanista” alla nostra condizione umana, l’evoluzione dell’eugenetica nell’era delle nuove tecnologie.Le multinazionali del farmaco, Big Pharma, stanno costruendo la dittatura sanitaria, cominciata con le campagne vaccinali per il Covid e oggi proiettata a conferire ad una OMS privatizzata il controllo della sanità mondiale.Le multinazionali biotech diffondono l’ideologia gender per aprire la strada alle peggiori sperimentazioni biotecnologiche che manipolano il concepimento di un figlio, la dignità della vita umana, l’alimentazione naturale e la biodiversità.Big Tech, i giganti della tecnologia dell’informazione, ci impongono la transizione digitale, che vuole consegnare all’intelligenza artificiale il controllo delle nostre possibilità di conoscenza e percezione del reale.La Green economy rende obbligatorie le tecnologie delle energie rinnovabili, le batterie e i pannelli fotovoltaici fatti con terre rare estratte con il lavoro minorile, la limitazione dei nostri spostamenti, la rottamazione delle nostre abitazioni e delle nostre autovetture. Ci illudono di contrastare il cambiamento climatico con la transizione green, invece che con la cura del territorio e dell’ambiente, la limitazione del consumismo “usa e getta” e una diversa qualità della vita.Ma da dove vengono le strategie di queste multinazionali se non dall’Agenda di Davos del Word Economic Forum, dalla finanza globale in larga parte radicata in quel mondo occidentale che noi dovremmo difendere in nome della “libertà del mercato” e della lotta contro le “autocrazie”?3Per reagire a queste devastanti manipolazioni dobbiamo difendere fino in fondo la libertà personale di ognuno di noi e ripristinare la sovranità dello Stato nazionale sull’uso delle tecnologie, con il rilancio della ricerca e della sanità pubbliche e con istituzioni scientifiche trasparenti e qualificate. Tutta la cultura, la formazione dei nostri giovani e l’informazione mediatica devono essere liberate dai condizionamenti economici e dagli interessi lobbistici, con un forte intervento della mano pubblica finalizzato a garantire veramente la libertà di scelta di tutti i cittadini.Oggi, a differenza del passato, le porte della nostra prigione possono essere aperte. Sta emergendo un mondo multipolare che mette in discussione la supremazia americana e permette a tutti i popoli di riprendersi la propria indipendenza.Per questo, dopo più di dieci anni di governi imposti dall’alto, speravamo che l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi potesse rappresentare questa svolta. Un governo votato dai cittadini, un partito di maggioranza relativa premiato per la coerenza di rimanere sempre all’opposizione, erano la premessa per rimettere in movimento la nostra Nazione.Purtroppo, questi primi mesi di governo sono stati una profonda delusione: non si tratta solo delle naturali difficoltà di avviare un nuovo Esecutivo contro una burocrazia ostile e tra mille trappole nazionali e internazionali. Il problema è che la Premier, sotto la pressione di queste difficoltà, ha scelto la strada sbagliata e la direzione opposta.L’Italia è a un bivio, deve scegliere: sfruttare le opportunità offerte dal nuovo mondo multipolare o rimanere imprigionata nel vincolo esterno di una Unione europea in crisi e di un atlantismo in declino.Non si può essere conservatori nei valori e liberisti in economia. Il liberismo nega i valori non negoziabili e cancella i principi. Non si può difendere il nostro interesse nazionale facendo i primi della classe in Europa e nel G7. Solo andando controcorrente si risale la china.Queste verità erano già state intuite tanto tempo fa, quando la destra sociale e nazionale parlava di alternativa al sistema. Oggi le stanno denunciando tanti “mondi del dissenso” trasversali e non ideologici, che raccolgono coloro che stanno pagando sulla loro pelle il prezzo della sudditanza.Per questo non abbiamo nessuna intenzione di essere “la destra della destra”, di continuare l’antica disputa della destra sociale e identitaria contro la destra conservatrice e liberista.Con il Forum dell’indipendenza italiana noi vogliamo raccogliere tutti coloro che cercano di uscire dalla prigione della sudditanza, aperti a ogni confluenza e a ogni confronto, guardando alle prospettive e non alle provenienze. Perché questo non è più il tempo del settarismo, delle antiche faide che hanno dilaniato il nostro popolo in una interminabile guerra civile, rendendoci più deboli di fronte alle colonizzazioni.Noi speriamo che questo Governo eletto dal popolo riveda le sue posizioni, perché non vogliamo certo tornare a governi tecnici imposti dall’alto, mentre l’opposizione progressista ci appare ancora più condizionata dall’Agenda di Davos e per questo lontana dai bisogni degli Italiani.Noi chiediamo a tutta la politica ufficiale di tornare a confrontarsi con i problemi reali, anche per contrastare un astensionismo sempre più dilagante. Bisogna superare i partiti personali, fatti da cerchi magici e ras locali, dove non c’è democrazia interna, partecipazione e radicamento nel4territorio. Bisogna ridare al popolo il diritto di scegliere veramente i propri rappresentanti, con preferenze e collegi uninominali contendibili, di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica, di indire referendum ogni qual volta sarà necessario.Per questo facciamo appello al mondo delle liste civiche che esprime una parte importante della politica italiana, proprio quella più radicata nel territorio e meno disponibile a piegare la testa di fronte alle imposizioni dei partiti. Bisogna coinvolgere questo mondo in un grande progetto politico nazionale, perché anche i problemi locali possono essere risolti soltanto liberandoci dai vincoli dell’Unione europea.Vogliamo confrontarci con le rappresentanze della società civile, le organizzazioni di categoria e le rappresentanze sindacali, gli ordini professionali, le fondazioni e casse di previdenza, il mondo delle associazioni, le Camere di commercio e le Università. Al di là di tanti interessi lobbistici e giochi di potere, esiste in tutte queste realtà un potenziale di partecipazione e di progettualità che non può essere disperso.Sovranità popolare, rigenerazione dello Stato-nazione, rilancio dell’economia nazionale, diritti sociali garantiti dalla Costituzione, partecipazione e sussidiarietà sono i principi da contrapporre ai poteri forti dell’economia e della finanza.Questo è il tempo del popolo che si ribella contro il tradimento delle classi dirigenti, dei valori umani e cristiani per reagire agli attacchi della tecnocrazia, degli italiani che vogliono riprendersi le chiavi di casa.Noi non ci tiriamo indietro, chiediamo a tutti di fare altrettanto.Un movimento per l’Italia può nascere davvero.Orvieto, 30 luglio 2023

documento-politico-orvieto23

Allegato 1
DOCUMENTO POLITICO
I. ALL’ALBA DI UN NUOVO CICLO POLITICO
II. L’ANIMA “POPULISTA” DEL CAMBIAMENTO
III. LA PREMESSA: REGOLARE I CONTI A DESTRA
IV. IL PRIMO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: I MONDI DEL
DISSENSO
V. IL SECONDO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: LISTE CIVICHE
E CORPI INTERMEDI
VI. OBIETTIVI FONDAMENTALI E IDEE-FORZA DI UN
MOVIMENTO PER L’ITALIA
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I. ALL’ALBA DI UN NUOVO CICLO POLITICO
Abbiamo tutti la sensazione che – secondo ritmi storici sempre più accelerati – un
nuovo ciclo politico si stia affacciando all’orizzonte della storia nazionale ed europea.
A livello globale la guerra in Ucraina sta segnando un altro passo avanti verso
l’emersione di un nuovo mondo dopo l’epoca dell’unipolarismo americano,
cominciata nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino ed entrata in crisi irreversibile
con la parabola di Donald Trump, la fuga dall’Afghanistan e la crescita economica e
politica dei BRICS.
L’alternativa dei prossimi anni, quella che darà il segno della nuova epoca che si sta
aprendo, sarà tra la speranza di un vero mondo multipolare in cui possano riprendere
valore le identità e le sovranità dei popoli, oppure la minaccia di un nuovo
bipolarismo Usa-Cina, in cui le logiche oppressive del mercato globale saranno rese
ancora più feroci da nuove forme di totalitarismo. La guerra in Ucraina appare come
uno strumento per mettere in una posizione subordinata Europa e Russia rispetto a
questo nuovo progetto di bipolarismo e non è un caso che tutti i paesi BRICS – anche
sotto la spinta degli interessi strategici della Cina – siano schierati più dalla parte della
Russia che non dalla parte dell’Occidente.
Questo nuovo bipolarismo sarà molto più devastante di quello novecentesco: se allora
si contrapponevano consumismo e gulag, oggi la posta in palio sono le gestioni
totalitarie delle pandemie, dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie
transumaniste. Un attacco alle radici stesse dell’identità e della libertà della persona
umana.
Di riflesso a questi scenari l’Unione europea manifesta con sempre maggiore
chiarezza la sua funzione negativa: non rappresenta – come qualcuno ancora si illude
– un primo, magari imperfetto, passaggio verso la sovranità dei popoli europei, al
contrario si rivela come una gabbia costruita proprio per impedire al nostro Continente
di conquistare un ruolo geo-politico e un modello economico-sociale conforme alla
sua civiltà.
Non si spiegherebbe altrimenti la pervicacia con cui vengono imposti modelli che
sembrano fatti apposta per deprimere culturalmente, socialmente ed economicamente i
popoli europei: rigida applicazione dei dogmi economici liberisti, sostegno maniacale
delle ideologie gender e immigrazionista, fondamentalismo ambientalista e scientista,
totalitarismo digitale, indifferenza per l’impoverimento crescente delle popolazioni.
Il nuovo scalino di questa follia è un “incastro” determinato da diverse azioni
convergenti: il nuovo Patto di stabilità e crescita, la riforma del Mes, la governance
rigorista BCE, la transizione ecologica, il posizionamento nella guerra in Ucraina che
ha rotto ogni positiva sinergia economica con la Russia. Questa situazione porta verso
la deindustriazzazione dell’Europa, la crescita vertiginosa dell’impoverimento e dello
sfruttamento del lavoro, la perdita di ogni incidenza geo-politica, il default dei paesi
politicamente più fragili come l’Italia.
È evidente come una simile deriva non possa non produrre ricorrenti e crescenti
ondate di protesta in tutto il continente europeo, sia come rivolte di piazza che come
rovesci elettorali. La violenta protesta contro la riforma delle pensioni in Francia è
3
l’ultimo esempio di queste reazioni di piazza, mentre in tutte le elezioni nei paesi
europei tendono a vincere i partiti di opposizione o comunque fuori dal coro
progressista (anche se spesso questi partiti vincenti sono di natura più conservatrice
che sovranista).
In Italia l’ultima ondata significativa di proteste di piazza è stata quella contro le
misure adottate per la pandemia, mentre ormai da trent’anni (dalla fine della prima
Repubblica in poi) gli Italiani tendono a votare i partiti e gli schieramenti che
promettono il più radicale cambiamento rispetto al passato. Prima la “rivoluzione
liberale” di Berlusconi unita allo sdoganamento della destra, poi il “rottamatore”
Matteo Renzi, il populismo moralistico del Movimento 5 Stelle, il populismo
sovranista della Lega di Salvini, infine la pervicace opposizione (durata 10 anni)
prima sovranista e poi conservatrice di Giorgia Meloni.
Ognuna di queste esperienze si è conclusa con la dimostrazione dell’incapacità (o
della mancanza di volontà) di realizzare questo cambiamento.
La vicenda di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia può sfuggire a questo destino?
Su tutto l’arco delle questioni politiche e programmatiche la mutazione di Fdi da forza
di cambiamento a forza di conservazione è evidente e forse irreversibile.
Sul versante geopolitico lo schieramento ultra-occidentale nel nuovo Governo appare
convinto e strutturato: “In tutto il mondo le autocrazie cercano di guadagnare campo
sulle democrazie e si fanno sempre più aggressive e minacciose, e il rischio di una
saldatura che porti a sovvertire l’ordine internazionale che le democrazie liberali
hanno indirizzato e costruito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la
dissoluzione dell’Unione Sovietica è purtroppo reale. In questo nuovo bipolarismo
l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta netta. Stiamo dalla parte
della libertà e della democrazia, senza se e senza ma, e questo è il modo migliore per
attualizzare il messaggio del 25 Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la
nostra libertà è tornata concretamente in pericolo.” (Lettera di Giorgia Meloni al
Corriere della Sera del 25 luglio 2023).
La conseguenza di questa posizione geo-politica e ideologica è la postura da “primi
della classe” nei consessi dell’Unione europea (oltre che di tutto l’Occidente): invece
di uno scontro frontale e una vera trattativa contro le devastanti derive di Ursula von
del Leyen e di Christine Lagarde, si cerca di trovare accomodamenti per dimostrare di
“non essere anti-europeisti”, forse non rendendosi conto della trappola mortale in cui
Bruxelles sta trascinando l’Italia.
In queste condizioni, quando saranno esaurite le risorse del PNRR (che in larga parte
dovremo restituire), margini per fare politiche di sviluppo economico e di crescita
sociale in Italia non ce ne sono e l’unica strategia del nuovo Governo sembra essere
quella di riverniciare di identitarismo conservatore la vecchia linea berlusconiana della
“rivoluzione liberale” (già ampiamente fallita più di dieci anni fa).
Insomma, tutto fa supporre che questa scelta di posizionarsi come una sorta di
“sezione italiana del partito neo-conservatore americano” porti anche Fratelli d’Italia
verso quel rapido declino che ha già segnato il M5S e la Lega.
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Se non cambia rapidamente e radicalmente linea, l’ultima speranza che la Meloni può
coltivare è quella di un diffuso successo conservatore in tutta l’Unione nelle prossime
elezioni europee, in modo da porsi alla testa di un nuovo blocco di potere politico che
freni il delirio radical-progressista di Bruxelles e che allenti la pressione economica
sull’Italia. Ma, anche ammesso che questo successo si realizzi dopo i deludenti
risultati delle elezioni spagnole, in un’Europa dove dominano gli interessi nazionali
rispetto agli schieramenti ideologici, essere conservatore nei paesi del Nord e dell’Est
significa rappresentare interessi diametralmente opposti a quelli dei conservatori dei
paesi meridionali come l’Italia. Se il nostro Paese ha disperatamente bisogno di
allentare l’austerità fiscale della UE e della BCE, al contrario i liberal-conservatori
nordici vogliono a tutti i costi un veloce ritorno al “rigore” nelle politiche economiche.
Quindi è legittimo domandarsi quale soggetto politico prenderà in mano la bandiera
del cambiamento per occupare gli spazi politici e sociali abbandonati da Fratelli
d’Italia. Ed è necessario porsi subito questa domanda, prima che il partito di
maggioranza relativa cominci a entrare in crisi e questi spazi politici vengano occupati
da qualche nuovo demagogo privo di progetto politico, oppure da qualche gatekeeper
incaricato di spingere la protesta verso l’ennesimo vicolo cieco.
II. L’ANIMA “POPULISTA” DEL CAMBIAMENTO
Cosa bisogna fare per mettersi alla testa del cambiamento all’alba di questo nuovo
ciclo politico?
Dopo tanti fallimenti indotti dai compromessi e dal moderatismo che hanno segnato la
destra italiana da Fiuggi in poi, la tentazione può essere quella di esprimere “in
purezza” i nostri contenuti ideologici e valoriali.
Non vi è dubbio che a differenza del passato bisogna mettere in campo un più lucido
rigore politico e una maggiore determinazione a rifiutare “compromessi al ribasso”.
La situazione italiana ed europea è talmente grave da richiedere scelte forti e radicali.
Ma tutto questo non può tradursi in una “proposta ideologica”, ovvero nel costruire
un soggetto politico caratterizzato nel posizionamento da etichette politiche e astratti
schemi culturali.
L’immagine, il linguaggio, le idee-forza del nuovo Movimento non possono non usare
gli strumenti del “populismo”, ovvero la capacità di parlare direttamente dei problemi
della gente, offrendo risposte forti con un linguaggio semplice.
Se lo scontro politico attuale è tra “il popolo” e “le élite”, bisogna stare dalla parte del
popolo, non solo con le proposte di giustizia sociale ma nel modo di essere e di
comunicare.
Questo non significa cedere ad una impostazione demagogica, ovvero ricercare un
consenso fine a se stesso, ingannando la gente con proposte irrealizzabili. Anzi,
bisogna essere consapevoli che i veri demagoghi sono gli esponenti
dell’establishment: sono loro che da trent’anni cercano di illuderci che questa Europa,
con le sue impostazioni economiche liberiste, produrrà ricchezza che sarà
automaticamente ridistribuita dal mercato, sono loro che ci hanno ingannato sugli
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effetti “benefici” della globalizzazione, sono loro che negano le conseguenze
devastanti dell’immigrazionismo.
La vera arte politica che bisogna mettere in campo è quella di produrre idee-forza
dirette e immediate, in grado di raggiungere la gente comune usando con intelligenza
tutti i mezzi di comunicazione, avendo però un retroterra adeguato alla sfida, con un
costante sforzo per costruire consequenzialità tra questi messaggi e le scelte di
governo necessarie a produrre cambiamenti reali.
Il Movimento che dobbiamo costruire, pur non rinnegando le sue radici di Destra
sociale e sovranista, si deve presentare come un’aggregazione aperta oltre gli schemi
ideologici, fondata su poche e chiare idee-forza espresse attraverso campagne di
stampo “populista”.
Qualcosa di simile al modello di comunicazione utilizzato dal Movimento 5 Stelle,
con la differenza che dietro l’immagine “populista” ci devono essere dei fondamenti
seri: una classe dirigente preparata e militante, un progetto politico-programmatico
strutturato e realistico, un credibile modello di democrazia interna.
Per ottenere questo risultato è necessario un impegno serio e contemporaneo tanto sul
versante politico quanto su quello metapolitico. Senza metapolitica – come
approfondimento culturale e comunitario, formazione delle coscienze e radicamento
nella società civile – il progetto di un nuovo Movimento rimarrebbe fragile ed
estemporaneo. Ma, dopo quarant’anni delle più diverse esperienze, sappiamo anche
che la metapolitica da sola non basta, neppure come azione propedeutica a una
successiva fase politica. Perché la lotta politica è l’unico strumento per verificare la
validità delle idee e delle persone che escono dal laboratorio della metapolitica. Ma
attenzione: è necessaria una lotta politica coerente con le idee che vengono dalla
cultura, perché è pericoloso cullarsi nell’illusione – che si sta diffondendo in tante
comunità militanti – di far convivere il rigore del lavoro culturale con l’inserimento
rassegnato in organizzazioni politiche che non rappresentano in alcun modo queste
idee.
Quindi il nuovo Movimento non può essere una “nuova Fiamma tricolore”, né un
movimento ideologico sovranista, né semplicemente il concorrente “sociale e
partecipativo” di Fratelli d’Italia o una rete metapolitica dedita solo all’impegno
sociale e culturale. È chiaro che il nostro primo bacino di aggregazione saranno i
delusi del centrodestra, ma bisogna tenere presente che la gran parte di questi elettori
sono andati prima verso Salvini e poi verso la Meloni perché speravano in un radicale
cambiamento più che in un rigoroso posizionamento ideologico. Sono elettori che
progressivamente finiranno per ingrossare il bacino del non voto, confondendosi, al di
là di ogni schema, con tante altre persone che già da tempo non trovano nessuna
risposta politica alle loro aspettative.
Quindi il cambiamento deve essere il messaggio centrale del nuovo movimento, ma
con la consapevolezza che il cambiamento vero può essere realizzato solo ribaltando
gli equilibri economici e geopolitici in Europa e in Occidente. Perché i problemi
strutturali dell’Italia non si risolvono, neppure in parte, se non si affronta la radice di
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questi problemi, ovvero la condizione di colonia in cui è imprigionata la nostra
Nazione.
Un’ultima notazione sulla comunicazione: aver insistito fino ad ora sulla parola
“cambiamento” non significa non rendersi conto di quanto questo slogan sia stato
abusato nella propaganda politica. La nostra bravura dovrà essere proprio quella di
rappresentare il cambiamento senza usare questa parola come uno slogan.
III. LA PREMESSA: REGOLARE I CONTI A DESTRA
Costruire un nuovo Movimento non significa non ripartire dalla nostra area, non solo
per il percorso politico della maggioranza dei promotori di questo progetto, ma
soprattutto perché in questo momento è proprio “la destra” di Giorgia Meloni ad
essere riuscita a imporsi come interprete del cambiamento e quindi a raccogliere la
maggioranza dei consensi degli Italiani.
Dal dopoguerra in poi nella nostra area politica sono convissute due anime: una destra
conservatrice e liberale e una destra sociale e identitaria, la prima dedita
all’inserimento nel quadro politico esistente, la seconda determinata a dare contenuti
nuovi al mito dell’alternativa al sistema. Queste due destre si sono mescolate,
alternando conflitti e sintesi, all’interno del Movimento Sociale Italiano e poi di
Alleanza Nazionale, accumunate da un retorico riferimento agli interessi della
Nazione italiana e ai valori tradizionali. Questa convivenza ha garantito la
sopravvivenza di uno spazio politico alla destra della Democrazia cristiana prima e del
berlusconismo poi, ma lo ha spesso paralizzato con un posizionamento “a somma
zero” tra spinte e controspinte di segno opposto.
Giorgia Meloni ha rotto questo equilibrio, probabilmente in modo definitivo. La
svolta conservatrice di Fratelli d’Italia ha espulso o tacitato tutto quanto rimaneva
della destra sociale, proponendo un modello tutt’altro che moderato e dialogante. Qui
siamo all’opposto della linea politica di Gianfranco Fini, che voleva “modernizzare la
destra” aprendo agli immigrati, alla fecondazione artificiale e ai diritti civili cari ai
progressisti. Quella della Meloni è una “destra dura”, simile ai neo-conservatori
americani, protesa a scontrarsi con i progressisti sul tema dei valori, ma
contemporaneamente impegnata a “esportare la democrazia” con le armi in giro per il
mondo e a proporre il modello liberista come darwinismo sociale ed economico.
In realtà ci sono delle verità profonde contenute nel messaggio conservatore che
hanno permesso a questa destra di proporsi come interprete del cambiamento.
Citiamo Marco Tarchi nell’intervista su Fanpage del 25/9/2022: “Ad aver ridato
vigore e capacità di attrazione al conservatorismo sono gli eccessi dell’odierno
progressismo. In un momento storico in cui quella parte politica, in tutto l’Occidente,
preme l’acceleratore sull’indiscutibilità di qualunque diritto/desiderio individuale, in
cui le tematiche Lgbt sono assunte come paradigma della “società giusta”, la cancel
culture, l’ideologia woke, la gender theory, l’assolutizzazione dell’“inclusione”,
l’elogio a prescindere dell’immigrazione, la celebrazione del multiculturalismo e del
cosmopolitismo sono diventate la cifra identitaria di tutto ciò che si oppone alla
destra, che quest’ultima si presenti come un argine e un’alternativa è addirittura
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ovvio”. Ed è questo infatti il cuore del messaggio di Fratelli d’Italia, quello che
provoca l’indignazione pelosa della sinistra, le scomuniche ad intermittenza
dell’Unione Europea e, all’opposto, un forte grado di fascinazione in mezzo alla
gente. È la risposta del realismo e della vera natura umana contro le utopie coltivate
dalle élite progressiste e cosmopolite, ciò che rende la destra più vicina al sentimento
popolare di quanto oggi non riesca ad esserlo la sinistra.
Il problema però è che questi eccessi progressisti non rappresentano una negazione di
quella “civiltà occidentale” che i conservatori vorrebbero difendere, sono invece il
sintomo estremo della decadenza dell’Occidente stesso, una manifestazione della sua
cattiva coscienza, delle sue ineliminabili contraddizioni. Da un lato sono il risultato
ultimo dell’ideologia liberale che mette un’informe libertà individuale al di sopra di
ogni altro valore umano, dall’altro lato rappresentano l’effetto della mercificazione
dell’esistenza funzionale al progetto economico capitalista, infine esprimono la cattiva
coscienza di quell’imperialismo materialista con cui l’Occidente è andato alla
conquista del mondo sterminando popoli, comunità e culture.
Per cui si tratta di un ben triste destino quello di chi vuole battersi, su posizioni
inevitabilmente perdute, per difendere una civilizzazione dai mali che essa stessa ha
prodotto. Anche perché un conservatorismo che mescola valori identitari con un
occidentalismo acritico può generare pericolosi mostri di natura razzista: la pretesa di
esportare con le armi la democrazia liberale, l’illusione che la nostra civiltà sia più
progredita di tutte le altre, l’islamofobia, l’aggressione ai diritti dei popoli in nome di
astratti diritti individuali. Qui neoconservatori alla Bush e democratici alla Obama
finiscono per stringersi la mano.
Per questo il conservatorismo, come il progressismo, non regge al malessere sociale
ed esistenziale della gente. Affascina perché appare controcorrente, può consentire
slogan suggestivi come “in questa epoca l’unico modo per essere ribelli è essere
conservatori” come ha detto Giorgia Meloni alla Convention dei conservatori a
Orlando nel febbraio 2022, ma non può nascondere a lungo le ingiustizie sociali e la
disgregazione dei valori indotte dal modello liberista.
Manca un modello economico e sociale alternativo a quello dominante e una
prospettiva di sviluppo e di riscatto sociale, senza la quale non si può dare speranza
alla gente. Nel conservatorismo ci sono spinte valoriali profonde che sono anche
nostre, ma che da sole non bastano per andare oltre una reazione politica a corto
raggio e che, male applicate, rischiano di provocare nuovi e ulteriori danni.
Citiamo ancora Marco Tarchi (Diorama letterario, maggio-giugno 2023): “Se si è
capaci di identificarla, o meglio di smascherarla, oltrepassando la cortina fumogena
dei suoi divulgatori, l’ideologia occidentalista – spesso definita, con minore
precisione, pensiero unico, pensiero dominante, politicamente corretto – si mostra
oggi in Italia in tutta la sua aggressività. Nelle versioni progressiste è alla base del
forte slittamento della “sinistra” dalla difesa dei diritti sociali all’affermazione dei
diritti individuali (…) Nelle versioni conservatrici determina sia la progressiva
rimozione dei limiti dell’espansione planetaria delle grandi concentrazioni
economico-finanziarie, con le conseguenti delocalizzazioni industriali, le strategie di
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dumping, la sostituzione del lavoro umano con le macchine guidate dall’“intelligenza
artificiale” e in definitiva il trionfo della logica capitalistica e consumistica più
brutale…”
In più, a differenza dell’epoca (che qualcuno sogna di restaurare) di Margaret
Thatcher e Ronald Reagan, non veniamo dai “trent’anni gloriosi” di sviluppo e piena
occupazione creati dal keynesismo postbellico, ma da un lungo periodo liberista di
crescente impoverimento e aumento delle disuguaglianze. È impossibile spingere
ancora di più sul pedale del liberismo senza far esplodere ogni equilibrio sociale.
Se queste sono le motivazioni e le contraddizioni della destra conservatrice, cosa
devono fare gli eredi della destra sociale per non rassegnarsi, dopo settant’anni di
dispute politiche e culturali, di congressi e di sfide movimentiste, ad una scomparsa
politica definitiva?
Innanzitutto comprendere che il proprio messaggio è meno immediato di quello
conservatore, ma è molto più centrato per interpretare il disagio sociale e la protesta
popolare. Perché mette insieme tre obiettivi inscindibili: una difesa ancora più
intransigente dei valori umani e comunitari, un modello di sviluppo economico
centrato sul lavoro e i diritti sociali rifiutando l’ideologia neo-liberista, la riconquista
di una vera sovranità nazionale e popolare. Se viene negato o depotenziato uno di
questi obiettivi gli altri due si rivelano illusori e irrealizzabili.
Il passaggio successivo è quello di capire che, proprio per rendere vincente il progetto
della destra sociale, è necessario allargarsi oltre il recinto della destra, perché chiusi
dentro quel recinto siamo perdenti nei confronti della destra conservatrice, come è
sempre avvenuto e ancor più accadrebbe oggi di fronte ad una leadership forte come
quella di Giorgia Meloni.
Questo non significa rinnegare qualcosa delle nostre radici o lanciare complicati
messaggi “al di là della destra e della sinistra”, significa semplicemente essere noi
stessi ma senza far prevalere l’etichetta sul contenuto.
La destra sociale, identitaria, comunitaria e sovranista diventa vincente se si incrocia
con il populismo. E all’inverso, come dimostrano le vicende del Movimento 5 Stelle e
della Lega, nessun populismo è destinato a durare se non si radica sulle idee delle
destra sociale.
IV. IL PRIMO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: I MONDI DEL
DISSENSO
Che cosa c’è fuori dal recinto della destra? Innanzitutto quelli che sono stati definiti i
mondi del dissenso. Questi mondi hanno una funzione simile a quella che un tempo
avevano i movimenti sociali, ovvero quella di interpretare temi di protesta e di
disagio sociale talmente forti da diventare prevalenti rispetto alle originarie
appartenenze politiche.
L’origine di queste realtà può essere fatta risalire ai tempi del Governo Monti, quando
in nome dei vincoli europei fu attuata una profonda e devastante ristrutturazione del
nostro sistema economico e sociale. Proprio l’origine eurista di questa operazione,
associata a quella ancora più pesante attuata nei confronti della Grecia, ridiede forza
9
ad antiche critiche contro l’Unione europea e l’introduzione dell’Euro. Attraverso i
social e la diffusione di testi di teoria economica alternativa a quella dominante, si
formarono in tutta Europa comunità e gruppi di pressione No-Euro e No-UE che
finirono per dare forza alla Brexit in Gran Bretagna, alla Lega e ai 5 Stelle in Italia, a
tanti movimenti sovranisti in tutto il Continente. L’incapacità di questi movimenti di
dare seguito in modo serio e rigoroso a questi obiettivi, unita al “Whatever it takes” di
Mario Draghi, ha portato al ridimensionamento di questo fenomeno che però continua
a sopravvivere come consapevolezza diffusa dell’insostenibilità del modello eurista e
della stagnazione economica di tutta l’euro-zona.
Poi c’è stata la pandemia Covid e le campagne vaccinali imposte dalle autorità statali,
che hanno generato nuovi mondi del dissenso tra gli operatori economici costretti a
chiudere le loro attività durante i ripetuti lock-down, tra le persone che rifiutavano il
green-pass e i medici che denunciavano – e denunciano – gli affetti avversi dei
vaccini e il divieto di terapie alternative. Le proteste di piazza che sono nate su questi
temi sono state stroncate dalle provocazioni degenerate in violenza, la fine
dell’emergenza ha ridotto la pressione sociale, ma tutt’ora c’è un vasto mondo
sommerso che chiede verità e giustizia su quello che è accaduto durante la pandemia e
che potrebbe ripetersi di fronte ad una nuova emergenza sanitaria.
Infine è esploso il conflitto in Ucraina che, nonostante una pesantissima “propaganda
di guerra”, ha fatto nascere un movimento trasversale pacifista e antimperialista che
cerca di dare voce a quella maggioranza di Italiani che in tutti i sondaggi si dichiara
contraria all’invio di armi a Kiev. A destra come a sinistra si è reso ancora più
evidente lo scollamento tra le formazioni politiche ufficiali e i mondi del dissenso
schierati contro l’atlantismo.
Adesso ci sono nuove aree di dissenso che si stanno formando contro le imposizioni
derivanti dalla transizione green, contro la liberalizzazione del cibo artificiale, contro i
tentativi transumanisti di manipolare l’essere umano. Anche il mondo cattolico si è
nel tempo configurato come un “mondo del dissenso” quando è dovuto scendere in
piazza per difendere i valori della famiglia, della natalità e della vita da tutti gli
attacchi portati avanti dal fronte progressista, di fronte a cui tutta la politica ufficiale,
anche quella di destra, non è mai riuscita a costruire una risposta forte ed efficace.
Dalle piazze del Family Day alle Marce per la Vita questo popolo ha fatto sentire una
voce, una pressione sociale e culturale, senza la quale oggi l’attacco transumanista in
Italia sarebbe giunto agli stessi livelli dei paesi del Nord Europa.
Sono mondi, a volte sovrapposti, a volte diversi e confliggenti tra loro, ma sempre
accomunati dalla percezione delle manipolazioni di una comunicazione mediatica
autoritaria e dell’esistenza di poteri e vincoli planetari contro cui bisogna reagire in
nome dei diritti dei popoli e della libertà delle persone. In tutti questi contesti ci sono
forti rischi di complottismo e di derive maniacali, di scollamento dalla realtà con
elaborazioni fantastiche, ma bisogna essere consapevoli che in ogni realtà che si
contrappone allo status-quo si possono incontrare questi pericoli.
Quindi un Movimento che voglia muoversi come forza di cambiamento non può non
tentare di aggregare in questi mondi, cercando di attrarre le persone più consapevoli e
10
di allontanare quelle più problematiche. Non si tratta di opportunismo politico, ma
della condivisione di una percezione complessiva dei pericoli che vengono da forti
concentrazioni di interessi economici e finanziari, di fronte a cui gli Stati e le
democrazie sono sempre più deboli e condizionabili.
V. IL SECONDO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: LISTE CIVICHE
E CORPI INTERMEDI
Nella nostra base aggregativa potenziale ci sono anche due bacini che meritano
un’attenzione e un discorso a parte: quello delle liste civiche e quello dei corpi
intermedi.
Le liste civiche che si affermano in diversi contesti di elezioni locali, oggi sono
sempre meno espressione di spontanee esigenze di efficienza amministrativa e di
soluzione di problemi territoriali. In realtà, all’interno di esse si nasconde e trova
espressione un variegato mondo politico espulso dai partiti personali che oggi
dominano soprattutto nel centrodestra.
La scomparsa di ogni forma di democrazia interna in partiti verticisticamente chiusi
attorno ai propri leader con relativi “cerchi magici” e “ras locali”, ha portato tanti
pezzi di classe dirigente politica a uscire da questi partiti e a mettersi in gioco creando
o animando liste civiche locali.
Si tratta quindi di un enorme potenziale che attende un progetto politico nazionale per
uscire da una dimensione puramente locale, radicata ma indubbiamente limitante per
chi mantiene aspirazioni politiche di carattere generale.
Un progetto politico nazionale rivolto al “civismo” può avere due concezioni diverse.
La prima – tipica ad esempio della lista “Scelta civica” di Mario Monti o di “Impegno
civico” di Luigi Di Maio – parte dal civismo per incarnare una visione puramente
amministrativa della politica, la convinzione tipica del liberalismo che il conflitto
politico si possa spegnere attraverso una visione pragmatica e neutrale dei problemi.
Insomma… la morte della politica.
L’opposta concezione punta invece ad una rigenerazione della politica: parte dalla
constatazione che un’impostazione puramente civica è insufficiente anche per
risolvere i problemi locali, perché anche questi derivano da vincoli allo sviluppo
imposti a livello nazionale ed europeo. Quindi si contesta il ceto politico nazionale
non per un eccesso ma per una carenza di politica, ridotta a teatrino istituzionale e a
scontro di slogan da talk-show, senza rendersi conto dell’impatto reale che
determinate scelte hanno sul territorio e sulla realtà sociale.
Questo distacco della politica nazionale è diretta conseguenza della mancanza di
democrazia interna ai partiti e dell’impossibilità degli elettori di scegliere i
parlamentari nazionali (imposti invece dai vertici di partito grazie ai posti in lista
bloccata o alla scelta dei collegi). Imposizioni autoritarie – giustificate
dall’antipolitica come lotta al correntismo nei partiti e alla corruzione “necessaria a
pagare” le preferenze – che hanno prodotto un drammatico abbassamento del livello
del ceto politico, impedendo ogni forma di selezione dal basso e ogni banco di prova
meritocratico.
11
Analogo discorso può essere fatto per i “corpi intermedi” della società civile. La
deriva verticistica dei partiti politici e la spinta ideologica del liberismo hanno
prodotto una diffusa disintermediazione della società italiana, finalizzata a un rapporto
“diretto” (ma in realtà ancora più subalterno) tra individui e istituzioni pubbliche e
all’abbattimento di ogni protezione sociale di fronte alle logiche di mercato. Questo è
stato possibile anche per la crisi dei corpi intermedi nel nostro Paese: ordini
professionali, fondazioni e casse di previdenza, rappresentanze sindacali e di
categoria, mondo delle associazioni, camere di commercio e università, istituti
partecipativi di settore, si sono sempre più chiusi in rappresentanze lobbistiche di
interessi forti e concentrati.
Anche in questo caso la strada che si apre è duplice e opposta.
Si può accompagnare questo processo mandando definitivamente in disarmo strutture
che appaiono obsolete espressioni del vecchio Stato sociale, sicuramente sgombrando
il campo da tante lobby e rendite parassitarie, ma lasciando il cittadino-individuo nudo
e inerme di fronte al potere del Mercato e dello Stato.
Oppure si può tentare di rigenerare queste rappresentanze, imponendo sistemi
democratici più trasparenti e aperti di quelli oggi esistenti, ristabilendo un preciso
rapporto tra diritti e doveri di questa “società intermedia”, delegando, in modo attento
e controllato, poteri pubblici a queste autonomie funzionali e sociali. Scegliendo
questa seconda strada – conforme alla dottrina sociale della Chiesa, ad una visione
comunitaria e sussidiaria della società civile, nonché a una lettura democratica e
realmente partecipativa della dottrina corporativa – si possono costruire alleanze con
tutti quei mondi autentici che ancora credono nella rappresentanza e vivono con
frustrazione le prepotenze dei partiti dominanti e del mercato globalizzato.
Sintetizzando queste due possibili aggregazioni, si può trarre energia politica ed
elettorale, ceti dirigenti e rappresentanza sociale e territoriale da un grande progetto di
rigenerazione della politica fondato su alleanze reali con chi rappresenta i mondi
delle liste civiche e dei corpi intermedi. Un progetto che deve avere come bandiere
l’istanza della partecipazione e il principio della sussidiarietà.
Quindi il movimento politico e metapolitico che dobbiamo costruire può presentarsi
come un punto d’incontro sia di soggetti politici per il cambiamento che di liste
civiche e di rappresentanze sociali. In questo modo aumenterà il suo carattere non
ideologico, rafforzerà il proprio radicamento sociale e territoriale, aggregherà su un
ampio fronte di astensionismo e di delusi degli attuali partiti politici, marcherà ancor
di più la propria distanza rispetto al liberismo dominante e ai poteri forti nazionali e
internazionali.
È evidente che tutto questo apre un discorso scivoloso sull’autonomia e sulla
sussidiarietà (orizzontale e verticale) che deve avere precisi punti di riequilibrio nel
rafforzamento della sovranità nazionale e popolare (ad esempio attraverso una riforma
presidenzialista) per non degenerare in una perdita di coesione sociale, di unità
nazionale e di senso dello Stato. Ciò vale soprattutto ora che si è riaperto il dibattito
sull’autonomia differenziata che potrebbe rappresentare l’ultimo e devastante colpo
alla nostra unità nazionale.
12
VI. OBIETTIVI FONDAMENTALI E IDEE-FORZA DI UN
MOVIMENTO PER L’ITALIA
Chiarito che il Movimento, pur senza rinnegare le proprie radici di destra sociale e
nazionale, sarà definito innanzitutto dai contenuti e dai messaggi aggregativi,
proviamo a formulare una prima serie di obiettivi fondamentali e di idee-forza che ne
potranno caratterizzare l’azione.
Cominciamo dagli obiettivi fondamentali e irrinunciabili di tutto il progetto:
1. Liberazione dell’Italia da ogni forma di sudditanza – nella UE, nella NATO e
negli organismi internazionali che governano la globalizzazione – in base al
principio dell’autodeterminazione dei popoli e contro l’egemonia (economica,
sociale e mediatica) dei poteri forti che derivano da questa sudditanza.
2. Superamento dei vincoli derivanti dall’ideologia liberista (pareggio di bilancio,
impossibilità di usare la leva monetaria, imposizione della libera circolazione
delle merci, dei capitali e della forza lavoro, divieto di aiuti di stato e di intervento
dello Stato nell’economia) per creare le condizioni di una crescita economica
inscindibilmente legata alla piena occupazione, ai diritti sociali e alla
redistribuzione del reddito.
3. Centralità e rigenerazione dello Stato-nazione come garante e promotore della
sovranità popolare, di uno sviluppo economico orientato alla crescita sociale e
della lotta alla criminalità organizzata, attraverso l’elezione diretta del Presidente
della Repubblica, la democrazia partecipativa e la sussidiarietà dei corpi intermedi
e dei territori.
4. Sviluppo fondato sull’identità nazionale e comunitaria del popolo italiano, in
termini di valori tradizionali, di difesa della famiglia e della natalità, di cultura, di
educazione, di valorizzazione del made in Italy, di tutela del paesaggio e
dell’ambiente.
5. Difesa della libertà e della sovranità delle persone e delle comunità, contro
ogni dittatura sanitaria, giudiziaria, fiscale, tecnocratica e green, contro ogni
forma di politicamente corretto, di gender theory e di imposizione transumanista.
Questi obiettivi trovano nei principi fondamentali della Costituzione italiana una
base di riferimento storicamente radicata per la sovranità nazionale e popolare (una
democrazia reale in grado di dare risposte positive alle spinte del populismo), la
centralità del lavoro e il legame tra crescita economica e diritti sociali, contro tutte le
forme di sottomissione interne ed esterne.
Un secondo riferimento per la legittimazione di questi obiettivi è dato dai principi
della Dottrina sociale della Chiesa, letti non in chiave confessionale e clericale, ma
come valori universali della persona umana ed elementi costitutivi della nostra identità
nazionale.
I principi fondamentali della Costituzione italiana, della Dottrina sociale della Chiesa
e dell’Umanesimo del Lavoro sono, nel loro insieme, una potente spinta ad affrontare
seriamente la nuova questione sociale che pesa sempre più sulle nostre società
13
globalizzate. È dall’avvento del Capitalismo che questa questione non si ripropone
con altrettanta forza: si misura con lo squilibrio crescente nella distribuzione della
ricchezza, con la diffusione della povertà anche nel ceto medio, con la mancanza di
lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito, con la smantellamento di tutti i servizi
sociali e previdenziali, con un devastante degrado urbano. È chiaro che per dare
risposta a questi problemi bisogna prima produrre ricchezza, ma è altrettanto chiaro
che negli anni del neo-liberismo molta ricchezza è stata prodotta, ma è rimasta
sempre più concentrata in poche mani. La nuova questione sociale è il principale
banco di prova di qualsiasi realtà politica che voglia interpretare il bisogno di
cambiamento della società italiana.
Tutto questo deve essere declinato in poche idee-forza di aggregazione che
rappresenteranno le battaglie del Movimento:
1. Fermare la guerra in Ucraina: impegno per la neutralità attiva dell’Italia in
un mondo multipolare, denunciando ogni forma di sudditanza nella UE e nella
NATO da superare con una vera cooperazione europea e mediterranea, basata sui
principi di parità e reciprocità tra le nazioni. L’Italia, per posizionarsi in un mondo
multipolare, deve ricostruire un rapporto con i paesi BRICS (Brasile, Russia, India,
Cina e Sudafrica) dopo le scelte sbagliate di schierarsi in prima linea nella guerra
in Ucraina e di stracciare gli accordi con la Cina sulla “Nuova Via della Seta”.
2. Un lavoro per tutti: contro l’impoverimento generalizzato e per il diritto alla
piena occupazione, con la perdita di valore del lavoro e della rappresentanza
sindacale, la distruzione della piccola e media impresa, la stagnazione
dell’economia nazionale, lo smantellamento della previdenza sociale e la
cancellazione dei diritti sociali e civili, accusando il neo-liberismo eurista di essere
la prima causa di questi fenomeni. Messaggio rivolto a tutti gli italiani senza
conflitti sezionali: dai ceti popolari al ceto medio, dai lavoratori autonomi e
dipendenti ai veri imprenditori (non emanazione di poteri forti e multinazionali),
alle diverse generazioni, cominciando dai giovani.
3. Vincolare le multinazionali: impediamo lo sfruttamento del lavoro e
l’aggressione alle piccole e medie imprese italiane. Le multinazionali
concentrano nelle loro mani buona parte del Pil mondiale, delocalizzano le attività
produttive verso paesi a più alto sfruttamento sociale e ambientale e mettono fuori
mercato le piccole e medie imprese italiane. Sono le multinazionali che guidano i
processi culturali che portano alle varie forme di dittatura contro la libertà delle
persone e delle comunità.
4. Cancellare la follia delle privatizzazioni: il crollo del Ponte Morandi è il
simbolo di cosa significa regalare ai privati i grandi patrimoni economici
italiani. La stagione delle privatizzazioni, che ha la firma di Draghi, Prodi e
D’Alema, è stato uno degli esempi più devastanti di dissipazione di risorse
imprenditoriali ed economiche che appartenevano al popolo italiano. Paragoniamo
il destino di Alitalia, Autostrade, Ilva, Telecom con quello di Enel, Eni, Fincantieri
e Leonardo: le prime sono imprese privatizzate e poi progressivamente distrutte, le
seconde sono rimaste, almeno parzialmente, allo Stato e sono ancora determinati
14
per l’economia nazionale. I profeti del neo-liberismo hanno ancora il coraggio di
dire che “privato è bello?”. Noi diciamo che lo Stato deve difendere e riprendersi i
gioielli dell’economia italiana, anche per rendere più forte la vera imprenditoria
privata.
5. No alla tratta di esseri umani: blocchiamo l’impatto devastante dei crescenti
flussi migratori in entrata e in uscita, finalizzati ad aumentare lo sfruttamento
della forza lavoro nel nostro Paese, con la fuga all’estero dei nostri giovani e il
collasso di tutti i sistemi sociali e urbani. Unire inevitabili azioni di blocco
dell’immigrazione clandestina con progetti di sviluppo dei paesi di origine dei
flussi migratori, accusando i processi di sfruttamento economico e finanziario
come vera causa di queste realtà.
6. Tutelare il diritto alla salute: verità e giustizia sulla pandemia, lotta contro
l’aumento di potere dell’OMS e rilancio della sanità pubblica, contro ogni
forma di dittatura sanitaria, di green-pass internazionale e di dominio di Big
Pharma, per la ricostruzione del Servizio Sanitario Nazionale e per la prevenzione
di nuove emergenze pandemiche. Creazione di un Osservatorio per monitorare il
lavoro della Commissione d’inchiesta sulla pandemia Covid.
7. Giù le mani dal nostro cervello: denuncia della manipolazione digitale e
biotecnologica, dall’identità digitale all’imposizione del metaverso, dal dominio
dell’intelligenza artificiale all’eugenetica dell’utero in affitto, dalle applicazioni
della teoria gender al cibo artificiale. Rivendicazione della sovranità popolare e del
controllo della ricerca pubblica sulle ricadute sociali dello sviluppo della scienza e
della tecnica.
8. No alla dittatura climatica: fermare la transizione green imposta dall’Unione
europea, rifiutando la dismissione delle autovetture, le ZTL generalizzate, il
declassamento del patrimonio edilizio, l’imposizione ossessiva delle fonti
energetiche alternative. Contrapporre alla dittatura ambientale concentrata sul
cambiamento climatico, la difesa del paesaggio, dell’ambiente naturale e culturale,
la capacità dell’uomo di plasmare il proprio territorio attraverso l’agricoltura e la
lotta al dissesto idrogeologico.
9. L’Italia rimarrà unita: rifiuto del progetto di autonomia differenziata come
pericolo per l’unità nazionale e la pari dignità tra Nord e Sud Italia. Rilancio
di una vera autonomia basata sui principi di sussidiarietà, solidarietà e identità dei
territori, un progetto di sviluppo per il Mezzogiorno, recupero attraverso il
Presidenzialismo di un ruolo guida delle istituzioni nazionali come garanti
dell’interesse nazionale.
10.Trasmettiamo cultura: rigenerare il sistema educativo e culturale italiano,
come base imprescindibile per lo sviluppo, per la rinascita della scuola,
dell’università e della ricerca, la valorizzazione del merito, dell’eccellenza e della
qualità delle produzioni, diffondendo tra i giovani la consapevolezza e l’orgoglio
dell’unicità del nostro Paese. Impegnare gli studenti nella cura del nostro
patrimonio artistico e culturale, integrando questa attività nei programmi scolastici.
15
11.Meno tasse a chi ha più figli: quoziente familiare per sostenere le famiglie e la
natalità. Questa è la vera riforma fiscale di cui ha bisogno l’Italia, non la flat tax
ingiusta e finanziariamente insostenibile, perché quella demografica rimane la
principale sfida per non far scomparire il nostro popolo.
12.Una Giustizia giusta per uno Stato forte: un nuovo sistema giudiziario e di
pubblica sicurezza in grado di combattere la criminalità organizzata e le
deviazione degli apparati (a cominciare da quelli della strategia della tensione), di
tutelare la sicurezza del cittadino, di combattere ogni dittatura giudiziaria e di
tutelare la magistratura dai condizionamenti del potere.
13.Chi mi rappresenta lo scelgo io: ridiamo agli elettori il diritto di scegliere i
parlamentari. L’inadeguatezza della classe dirigente politica deriva dai partiti
personali, dove non esiste né partecipazione né meritocrazia ma soltanto
sudditanza al leader e “cerchi magici”. Conseguenza è la critica dell’attuale
modello elettorale che – senza preferenze e senza collegi territoriali che mettano
realmente alla prova le persone – si presenta così oligarchico e sradicato dal
territorio da essere privo di vera legittimità democratica e costituzionale.
Orvieto, 30 luglio 2023

documento-programmatico orvieto23

Allegato 2
DOCUMENTO PROGRAMMATICO
I. IL VINCOLO ESTERNO EUROPEO COME NEGAZIONE DELLA
POLITICA ECONOMICA NAZIONALE
II. LA STRATEGIA AMERICANA CONTRO L’ECONOMIA EUROPEA
NELLA GUERRA IN UCRAINA
III. I VINCOLI ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE SONO VINCOLI ALLA
SOVRANITÀ POPOLARE FONDATA SUL LAVORO
IV. LA GLOBALIZZAZIONE È CONTRARIA AGLI INTERESSI DEGLI
ITALIANI
V. ATTACCARE L’OCCUPAZIONE E I SALARI SIGNIFICA COLPIRE LA
REDDITIVITÀ DELLE IMPRESE
VI. DALLA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ALLA CRISI DEMOGRAFICA
VII. UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA È LA BASE DELLA
RINASCITA ECONOMICA NAZIONALE
VIII. LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL SISTEMA MEDIATICO MINANO LA
CONSAPEVOLEZZA DEL POPOLO ITALIANO
IX. LO SVILUPPO POSSIBILE: SOLUZIONI POLITICO-ECONOMICHE
ALLE CRITICITÀ STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA
2
I. IL VINCOLO ESTERNO EUROPEO COME NEGAZIONE DELLA
POLITICA ECONOMICA NAZIONALE
È da tempo sotto gli occhi di tutti il sostanziale fallimento della seconda Repubblica e delle
sue promesse di modernizzazione, benessere, stabilità, controllo democratico.
La sparizione dei partiti presenti alla Costituente, e l’indebolimento o svuotamento di quelli
subentrati – ridotti a partiti personali senza vita democratica interna e senza libera scelta dei parlamentari grazie alle liste elettorali bloccate – ha consentito ai poteri forti (quasi tutti di derivazione straniera) operanti in Italia di imporre il definitivo abbandono dei tradizionali obiettivi (sanciti dalla nostra Costituzione) di occupazione e crescita che avevano caratterizzato, non senza notevoli limiti e resistenze, il trentennio post-bellico; tali obiettivi sono stati sempre più diluiti, a partire dagli anni Ottanta, in favore di una «cultura della stabilità», garantita dal vincolo esterno fondato prima sul cambio fisso col marco (dal 1979) e poi sull’euro.
La stabilità dell’indirizzo politico fondamentale era, in precedenza, garantita in Italia dal
controllo pubblico del sistema bancario a favore del sistema delle imprese e delle famiglie e dalla dinamicità, stabilizzatrice di investimenti e occupazione, della grande industria a
controllo statale. Ora questo concetto si è evoluto in senso sempre più “liberale”, secondo le modalità del capitalismo finanziario anglosassone, sfociando nella priorità assoluta del
concetto di “governabilità”, inteso come zelante e acritica attuazione degli “impegni” assunti con l’Unione Europea, imperniata sull’asse franco-tedesco.
Questa scelta ha così comportato il trasferimento della determinazione dell’indirizzo
politico ai Trattati europei e agli organi comunitari, in particolare alla Commissione, al
Consiglio Ue e alla Banca Centrale Europea, contro i principi fondamentali di democrazia
lavorista e sociale contenuti nella Costituzione e contro gli interessi e i bisogni della
schiacciante maggioranza degli italiani.
Tuttavia, il sacrificio di democrazia, occupazione, crescita, produttività, – ed un drammatico
aggravamento della questione meridionale strettamente connesso -, neppure ha consentito di raggiungere i reclamizzati obiettivi di stabilità finanziaria pubblica (come dimostra il
fenomeno degli spread) e privata (visto che il risparmio dei depositanti diviene, con l’Unione bancaria e il bail-in, garanzia delle perdite di capitale delle banche, sempre più amplificate dal fenomeno delle diffuse insolvenze, a loro volta causate dall’austerità fiscale volta al pareggio di bilancio, inserito da Monti in Costituzione).
L’assoluta incapacità di autoriforma delle istituzioni dell’Unione Europea dev’essere
considerata un dato di fatto insormontabile, nonostante la crisi del debito pubblico in euro
(2011) e la Brexit (2020). Semmai questi cambiamenti possono avvenire in senso ancora più costrittivo, come attesta la vicenda di NGEU (NextGenerationEU), debito mutuato a forti condizionalità, totalmente vincolato all’importazione di tecnologie estere e con pesanti oneri di restituzione.
Anche l’attuale “gestione” della crisi energetica, segnata da uno stallo disastroso di iniziative comuni, riafferma la natura istituzionalmente non solidaristica dell’Ue e della mission della BCE, perfettamente conforme alle previsioni dei Trattati, sia in tema di espresso divieto di solidarietà fiscale, sia in tema di autonomia delle scelte energetiche di ciascun paese (si vedano gli artt. 125 e 194.2, seconda parte, del TFUE – Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea).
II. LA STRATEGIA AMERICANA CONTRO L’ECONOMIA EUROPEA
NELLA GUERRA IN UCRAINA
L’inaudito astensionismo che oggi si registra non è che la prevedibile conseguenza di questa catastrofe politica e sociale, frutto di un esplicito ripudio dell’indipendenza nazionale (perfino nelle dichiarazioni dei vertici delle istituzioni nazionali) e di una sfiducia nella capacità del popolo italiano di autogovernarsi (tradizionalmente propria nelle nostre elites industriali e finanziarie, da sempre liberali e cosmopolite), espressi con una franchezza, e perseguiti con una coerenza, che hanno pochi precedenti nella pur travagliata storia nazionale.
La novità che ci si presenta oggi – soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina – è lo sfaldarsi dell’impalcatura della globalizzazione che ha fatto da sfondo a questa distruttiva e illusoria «fuga dalla storia» italiana ed europea.
In questa crisi risalta la predominante influenza “riacquistata” dagli Stati Uniti. In base a
precedenti storici ben documentati, la scelta del vincolo monetario (prima) e della moneta
unica (poi), corrispondono a una “pressione” politica molto accentuata impressa dagli Stati
Uniti sulle nazioni europee. Ora però l’atteggiamento geo-politico del Presidente Biden, mira oggettivamente, ed in modo traumatico e repentino, a rompere il legame tra
l’approvvigionamento energetico garantito dalla Russia ed il mercantilismo dell’area
euro, guidato dall’interesse del dominante manifatturiero tedesco. Ciò conferma con
chiarezza quanto, ancora oggi, la classe politica e dirigente italiana ha difficoltà a
comprendere: il sistema politico-industriale tedesco – laboratorio del modello economico
“ordoliberista” – è stato prescelto dagli stessi Usa come strumento economico per
“disciplinare” le democrazie europee, eliminando progressivamente ogni residuo di welfare
pubblico e di intervento bilanciatore dello Stato rispetto agli appetiti del capitale
multinazionale.
In tal senso, l’effetto dell’imposizione agli Stati dell’Unione europea di adottare le “sanzioni” contro la Russia, è, da un lato, il rendere complessivamente l’area-euro importatrice netta (via commodities e tecnologie energetiche e digitali, grazie al già controverso paradigma delle green e digital revolution), cioè debitrice e non più creditrice verso il resto del mondo, dall’altro, quello di rendere strutturale questa dipendenza dall’estero, portando l’intero continente in una situazione costrittiva di deindustrializzazione, forzata dall’insostenibilità dei costi da parte delle imprese (con effetti occupazionali che ipotecano pesantemente il futuro dei popoli europei e, più di tutti, di quello italiano).
La storia non è finita, si sta rimettendo in marcia presentando minacce gravissime ma anche inedite possibilità.
4
Agire per affrontarle e coglierle nell’interesse nazionale, cioè di tutti i cittadini italiani
presenti e futuri, impone la necessità di fare i conti in maniera analitica con i vincoli che al
momento lo rendono impossibile.
III. I VINCOLI ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE SONO VINCOLI ALLA
SOVRANITÀ POPOLARE FONDATA SUL LAVORO
L’astensionismo deriva quindi, in misura direttamente proporzionale, dal distacco della
politica dalle istanze popolari, dovuto alla perdita di sovranità. Senza sovranità monetaria, non ci può essere sovranità fiscale, infatti regole apposite nell’euro-area vincolano lo Stato a finanziarsi esclusivamente sul mercato finanziario privato, come un debitore di diritto
comune, e quindi a mantenere una bassa inflazione “a qualsiasi costo”.
Questo obiettivo si può raggiungere sostanzialmente attraverso uno Stato che viene privato, attraverso l’obiettivo del pareggio di bilancio, della possibilità di utilizzare la spesa pubblica corrente e per investimenti per il sostegno all’occupazione e al reddito delle famiglie: reddito indiretto, sanità e istruzione pubblica, e reddito differito, cioè la previdenza pubblica.

Senza sovranità fiscale, non ci può essere una politica economica nell’effettivo interesse della nazione, cioè volta alla piena occupazione, a conseguenti redditi dignitosi, e ad una
consistente propensione a trasformare il risparmio in investimenti produttivi
(esattamente l’opposto di quanto, invece, stabilisce l’art.47 Cost.).
E senza una politica economica volta all’interesse nazionale, non è possibile avere una
politica industriale nell’interesse della Nazione e quindi la sopravvivenza delle imprese che
non siano orientate ad esportare: cioè dovrebbero sopravvivere solo quelle inserite, in
posizione subordinata, dentro le strategie integrate di grandi gruppi industriali esteri.
L’interesse nazionale è quindi l’interesse del lavoro italiano: lavoro che si articola nella
sua forma imprenditoriale, salariata, autonoma, pubblica o privata (art.1 Cost.). Il lavoro
sviluppato in tutte le sue forme garantisce la sovranità popolare: la democrazia non può essere limitata da vincoli alla sovranità nazionale.
Nel momento in cui i vincoli alla sovranità nazionale sono vincoli alla sovranità popolare
fondata sul lavoro, questi sono vincoli allo sviluppo economico della nazione e al
benessere materiale e spirituale degli italiani. Ovvero vanno rimossi nell’interesse degli
Italiani.
Introdurre questo concetto, in sé piuttosto elementare, nell’opinione pubblica, rendendolo un patrimonio condiviso di tutti gli italiani, è impresa ardua, ma – specialmente alla luce del disastro energetico-produttivo in corso – necessaria per la nostra stessa sopravvivenza come comunità nazionale.
IV. LA GLOBALIZZAZIONE È CONTRARIA AGLI INTERESSI DEGLI
ITALIANI
5
La globalizzazione, ovvero la libera circolazione dei capitali in un mercato globale, ha prima
portato all’impoverimento dei lavoratori dipendenti, ponendo i salari italiani in
competizione con i salari di paesi economicamente arretrati; quindi ha contribuito a
contrarre la domanda aggregata nazionale, impoverendo il mercato interno e sottoponendo a pressioni crescenti i profitti delle imprese che operano nel mercato nazionale e che vedono i lavoratori italiani come clienti.
Il risultato è stata la progressiva desertificazione industriale, unita alla cessione di intere
filiere produttive a imprese di concorrenti non nazionali, drenando ricchezza all’estero e
sacrificando autonomia economica e – quindi – politica. Ovvero la globalizzazione ha operato contro gli interessi generali degli Italiani. L’accelerazione “geopolitica” impressa con le sanzioni alla Russia, e la rottura dell’equilibrio energetico nella produzione industriale europeo, indicano che pure la “crisi” della globalizzazione stessa (si parla di “decoupling” tra economie occidentali e quelle russa, cinese e, in senso sempre più evidente, indiana, orientale in genere, e persino dei paesi arabi produttori di idrocarburi), in quanto guidata dall’interesse dominante degli Stati Uniti, si rivela un’evoluzione disastrosa, proprio in assenza di quegli elementi di sovranità che sembrano ormai irreversibilmente dispersi dentro il calderone della passività, e incapacità decisionale, dell’Unione europea.
L’Unione Europea ha costituito, per la sua peculiare ingegneria istituzionale (liberalizzazione dei capitali estremizzata e configurazione di una Banca centrale che, per norme intangibili, non garantisce il debito pubblico emesso in euro, né i sistemi bancari nazionali), la punta di diamante della globalizzazione e, con i suoi stringenti vincoli fiscali, burocratici e, anzitutto, monetari, ha strozzato l’economia italiana a favore di paesi concorrenti come la Francia o la Germania.
La UE ha determinato un gigantesco effetto di perdita di controllo, economico e democratico:
cioè, in generale, quello di far aggredire il nostro patrimonio produttivo e immobiliare,
nonché il nostro stesso risparmio, da investitori stranieri di tutto il mondo. E ciò, dopo
aver comunque aperto le porte a ondate di acquisizioni da parte dei paesi “dominanti”
dell’euro-area, avvantaggiati sistematicamente da un’applicazione discrezionale, e
vantaggiosa, di regole (in tema fiscale, di aiuti di Stato, di ricapitalizzazioni statali del sistema bancario, di squilibri macroeconomici sul debito, così come sull’eccesso di attivo
commerciale) che, invece, sono state applicate (e spesso invocate “dall’interno”)
severamente nei confronti dell’Italia.
Per interessi convergenti, Germania e Francia premono per accelerare la crisi economica
italiana, e, in concorrenza con i fondi predatori anglosassoni, cercano di accaparrarsi la
domanda pubblica (spesa in appalti), nonché i risparmi e i patrimoni privati e pubblico, in una svendita sempre più accelerata, che si è trasformata in un vero e proprio saccheggio.
V. ATTACCARE L’OCCUPAZIONE E I SALARI SIGNIFICA COLPIRE LA
REDDITIVITÀ DELLE IMPRESE
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La libera circolazione della forza lavoro e le politiche di immigrazione europee, imposte
complessivamente dai trattati, sottraggono qualsiasi possibilità, – in presenza di una moneta unica senza banca centrale “garante”, trattati di libero scambio e filiere produttive passate in mano estera -, di poter far crescere in qualsiasi modo i salari e garantire una diffusa redditività delle imprese.
La politica economica e fiscale sono orientate in modo manifestamente contrario ai principi
fondamentali della Costituzione, non perseguendo la piena occupazione ma massimizzando i profitti della grande impresa finanziaria o finanziarizzata, sempre più estesamente a
controllo estero.
Inoltre, ciò ha creato una forte concentrazione di risparmio nelle mani di chi può
facilmente esportarlo, facendo crollare gli investimenti: l’enorme saldo negativo italiano
nel sistema di pagamenti in euro, denominato Target-2, indica una fuga di capitali, a partire dall’epoca “Monti”, che nessun paese industrializzato può reggere senza contraccolpi esiziali su investimenti, occupazione e produttività.
In ogni caso, le regole del commercio internazionale imposte dai trattati UE impediscono
la piena occupazione e tutte quelle importanti «tutele» (definite “rigidità”) che
preservano il lavoro come baricentro della famiglia e, quindi (cosa che sfugge sempre più
al pubblico dibattito), la redditività delle imprese che hanno nel mercato interno i propri
clienti (che, necessariamente, sono la stragrande maggioranza).
Da rilevare, poi, che la disintegrazione del legame tra occupazione (domanda) e
redditività delle imprese (da cui la propensione ad investire), conduce ad una
drammatica crisi demografica che, a sua volta, accelera la caduta della “base imponibile”
fiscale complessiva – e quindi della tenuta dei conti pubblici -, inducendo a quella rincorsa
all’aumento della pressione fiscale e al taglio dei servizi essenziali che è obbligatoria secondo le regole fiscali che governano l’eurozona.
Inutile ribadire che il traumatico mutamento che sta imponendo la “crisi energetica”
porta questo fenomeno a livelli insostenibili, specialmente per l’assoluta impossibilità di
trovare soluzioni realistiche ed efficaci dentro un quadro di regole Ue che non si accenna
minimamente a voler modificare.
VI. DALLA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ALLA CRISI DEMOGRAFICA
Abbiamo sinteticamente visto che il nostro principale problema sociale e, se vogliamo, di
impoverimento culturale, risiede in un vincolo monetario e politico-economico, rigido e
prolungato. Potremmo definirlo “effetto di deindustrializzazione” dovuta al coniugarsi di
due fattori istituzionali: l’adesione alla moneta unica e la globalizzazione (che è tutto fuorché “spontanea”, come dimostra proprio l’attuale “svolta contraria” imposta dal mutamento di linea degli Stati Uniti).
I cittadini percepiscono tangibilmente questo paradigma nel fatto che i livelli salariali sono
soggetti ad un irreversibile declino, via via che le politiche (appunto “sovranazionali”) degli
ultimi decenni hanno determinato sia la progressiva perdita del controllo (o, peggio, la
sparizione) delle filiere industriali a più alto valore aggiunto, che, come abbiamo visto,
una connessa crisi demografica, ormai strutturale; cioè, tipica delle insistite politiche
deflattive, che si proiettano essenzialmente sul mercato del lavoro, rendendo pressoché
irraggiungibile il livello di reddito e di sicurezza che inducono la formazione delle
famiglie per i nostri, già pochi, giovani.
Questa situazione è stata appunto determinata dalle politiche di austerità fiscale, con
l’ossessione del pareggio di bilancio, imposte dal regime normativo proprio della moneta
unica e dalle conseguenti misure fiscali necessarie all’Unione Europea per tener in vita l’euro.
La sua logica è, in base alle previsioni fondamentali dei trattati, volta alla compressione
salariale al fine di competere sui mercati internazionali schiacciando la domanda interna a
favore delle esportazioni (il sopradetto mercantilismo a trazione tedesca).
La necessità di tener basso il costo del lavoro e di ammortizzare il crollo demografico ha dato poi il pretesto per far apparire come ineluttabili i grandi flussi migratori, in entrata e in uscita; i migliori laureati e diplomati formatisi in Italia emigrano e l’impoverimento
industriale tende a far sostare in Italia gli immigrati meno dotati di professionalità e
formazione, proprio a causa delle tipologie di lavoro che domanda il sistema italiano.
Queste due tendenze, rendono la deindustrializzazione ancora più strutturale e comportano
gravi disagi sociali e alienazione. Insieme all’importazione di merci “culturali”, i flussi
migratori costituiscono modifiche sociologiche che minano alle fondamenta la millenaria
cultura italiana.
Sarebbe, a questo punto, inutile ribadire la triste constatazione che tali processi siano
addirittura accelerati, e non attenuati, dall’aggiungersi della crisi energetica che, con
riguardo all’euro-area, finisce, come s’è visto, per sopprimere pure la (debole) tendenza alla crescita fondata essenzialmente sulle esportazioni (ciò che, appunto, caratterizza il
mercantilismo a trazione tedesca).
VII. UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA È LA BASE DELLA
RINASCITA ECONOMICA NAZIONALE
Quel minimo di «autarchia» – e quindi di economia «chiusa» – che auspicava il più grande
economista del ‘900, John Maynard Keynes, oggi è istituzionalmente impedita dai vincoli dei trattati “sovranazionali” (dall’UE all’OMS, passando per il WTO e il FMI).
Per questo aumentare i salari è economicamente quasi impraticabile come misura in sé,
in quanto la già avvenuta distruzione/riduzione delle filiere produttive a più alto valore
aggiunto e a più elevato contenuto tecnologico, comporta che l’aumento della domanda
aggregata (come, irrazionalmente, si sta tendendo a fare col Pnrr), si trasformi sempre più in domanda di beni prodotti all’estero e, quindi, in uno squilibrio della bilancia
commerciale a favore dei creditori esteri.
La transizione ecologica che ci viene imposta si inserisce, a coglierne il frutto avvelenato, in questa trasformazione strutturale, economica e demografica che l’Italia ha subìto, perché accelera fortemente anch’essa l’uso (strutturale) di tecnologia d’importazione.
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Noi abbiamo invece bisogno di poter attuare sovranamente politiche industriali coerenti con una chiara visione degli interessi di lungo periodo dell’intero Paese: ossia solo una politica industriale pubblica, ben calibrata sulla realistica situazione economica e sociale della Nazione, può rivitalizzare e far ri-espandere (esattamente com’è accaduto durante la
ricostruzione nel dopoguerra), l’intero settore privato sopravvissuto.
Per muoversi in questa direzione, va anzitutto effettuata una rigorosa ricognizione
dell’attuale struttura produttiva, delle capacità tecniche, scientifiche e culturali
disponibili.
Queste politiche pubbliche dal lato dell’offerta sono le premesse logico-politiche per
poter realisticamente porre in essere politiche dal lato della domanda, cioè della tutela del
lavoro (e in ultima analisi, di favor demografico), che oggi non possiamo permetterci di
fare. Il passaggio principale, divenuto indispensabile, è quindi perseguire una
reindustrializzazione per mano pubblica.
Ma ciò, a sua volta, presuppone un totale mutamento istituzionale, (compreso il rilancio
dell’istruzione pubblica italiana, ad ogni livello): ovvero è necessario (attraverso atti giuridici del massimo livello di decisione politica) lo smantellamento dei vincoli monetari e fiscali euro-unionisti.
Un aspetto aggiuntivo emerge ora (ma avrebbe dovuto essere chiaro anche in precedenza, in un paese trasformatore e manifatturiero come l’Italia), con enorme evidenza, a causa
dell’atteggiamento dell’Ue sulle “sanzioni” adottate a seguito del conflitto russo-ucraino:
senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo questi sforzi, e prima ancora la
nostra stessa sopravvivenza, sarebbero per lo più impossibili.
E’ dunque evidente come la stessa transizione energetica non sia nel nostro immediato
interesse; essa è incompatibile con l’orientamento utile, per l’interesse nazionale, degli
investimenti, con la tutela del lavoro – e con il relativo rilancio dei livelli retributivi e, quindi, di redditività delle piccole e medie imprese -, che permetterebbe la ripartenza dell’economia.
VIII. LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL SISTEMA MEDIATICO MINANO LA
CONSAPEVOLEZZA DEL POPOLO ITALIANO
È quasi impossibile difendere gli interessi nazionali, anche nel caso di una forte decisione
politica unilaterale di “rottura”, a meno che, prima, non si passi per una diffusa
consapevolezza del popolo italiano, e dei partiti che dovrebbero esserne i rappresentanti,
delle condizioni per realizzare una realistica fase di transizione verso il recupero della
sovranità e della legalità costituzionali.
Ed infatti, l’integrazione delle filiere globali – anche in caso di catastrofiche crisi economiche come quelle in cui è sprofondato il mercato globalizzato – rende di difficile la comprensione una politica economica realmente sovrana volta a perseguire gli interessi degli Italiani. Infatti le attuali forze politiche sono divenute timorose (dei “mercati” e delle reazioni della BCE) e disabituate, ormai da decenni, a fare scelte politico-economiche, industriali e fiscali al di fuori delle soffocanti regole euro-unioniste. Tra queste regole “intoccabili” emergono i vincoli all’azione della BCE, le regole di austerità fiscale che governano l’eurozona e il regime degli aiuti di Stato.
Le tecnologie digitali, a quasi totale controllo estero, gettano una luce sinistra sulle possibilità di riconquistare quel minimo di indipendenza tecnico-produttiva che esigerebbe, in un immediato futuro, una ritrovata autonomia economica.
Inoltre la capillarità dell’uso del digitale toglie qualsiasi necessaria riservatezza alla vita
economica, sociale e politica del Paese, esponendola all’ossessiva sorveglianza
angloamericana e più in generale di chi controlla lo sviluppo delle tecnologie digitali: il
controllo politico-culturale “estero” diviene così sempre più profondo ed irreversibile.
Di fatto la prostrazione economica prodotta dai Trattati UE, e in particolare dall’euro, è stata presentata dal sistema mediatico come frutto di una colpa umiliante di cui gli italiani si sarebbero macchiati. Una tale “narrazione” non corrisponde affatto alla realtà delle cause del declino nazionale: il controllo mediatico, oltre a quello della digitalizzazione, è
chiaramente un tema di primaria importanza.
Non si può perseguire l’interesse nazionale senza il controllo democratico dell’informazione.
Il relativo “vantaggio” che possiamo vantare, in questa difficile opera di salvezza, è che il
mutamento istituzionale qui indicato come necessario, coincide con il modello sociale e
politico-economico della nostra Costituzione del ‘48 ed è quindi più facile, e legittimo,
trovare una soluzione sulla base della Legge fondamentale della nostra comunità nazionale.
Si può utilmente rivendicare, finché essa formalmente esista, che la parte essenziale e
immodificabile della nostra Costituzione diverge radicalmente dal sistema dei trattati, con le sue regole sul ruolo della banca centrale, sugli aiuti di Stato, con i suoi severi limiti fiscali, con le sue imposizioni di «privatizzazioni» e «liberalizzazioni», con la sua scarsa attenzione al risparmio e alla tutela del sistema bancario: “vincoli esterni” che, nel loro insieme, sono la causa del declino italiano.
Questo risveglio culturale, istituzionale e, nelle condizioni attuali, di consapevolezza
“geopolitica”, è l’unica difficile via rimasta per avere un futuro dignitoso.
IX. LO SVILUPPO POSSIBILE: SOLUZIONI POLITICO-ECONOMICHE AI
PROBLEMI STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA.
1. L’analisi dello scenario evolutivo dell’eurozona – soprattutto dopo l’inizio della guerra in
Ucraina – pone il quesito relativo al “come” ritornare a un livello di crescita stabile ed
adeguato.
La risposta a tale interrogativo esige l’adozione di alcune misure di salvaguardia dal
“vincolo esterno” imposto sia dai mercati finanziari, in termini di spread, sia dalla ampia
“discrezionalità” della BCE nel concedere liquidità al nostro sistema bancario e,
indirettamente, al nostro sistema fiscale.
È immaginabile un ventaglio di rimedi adottabili senza dover mettere in discussione le norme dei trattati, in particolare:
– misure di incentivazione ai risparmiatori italiani, – che tengono più di 2000 miliardi
“immobilizzati” sui conti correnti- a tornare ad acquistare i titoli del debito pubblico
italiano senza timori;
– misure per il pagamento dei crediti dei privati verso la pubblica amministrazione e
per la circolazione dei crediti fiscali (vedi il caso del “Superbonus 110%).
Questo insieme di provvedimenti sono infatti adottabili dentro le maglie delle previsioni dei
trattati e del diritto europeo. Ma purché vi sia una forte volontà politica in tal senso
all’interno di un Governo che abbia la chiarezza di idee e la determinazione concorde di
difendere l’interesse nazionale.
Va aggiunto che di fronte all’evoluzione dell’eurozona impressa con la riforma
dell’MES, sono necessarie altre adeguate “misure di difesa”, oltre il rifiuto categorico di
ratificare questo trattato.
2. Alla fase di “assestamento difensivo” dell’interesse nazionale, va fatta immediatamente
seguire una serie politiche economico-industriali, per così dire, attiva, costruttiva.
Ciò deve comunque basarsi sulla consapevolezza che ogni possibile politica economica e
sociale si inserisce in un quadro istituzionale, quello determinato dalla nostra permanenza
nell’area euro, composto di regole rigidamente applicate (sicuramente nei confronti
dell’Italia).
Quindi, determinare tali politiche presuppone il prendere atto di alcune caratteristiche
del nostro sistema istituzionale ed economico, generate dalla prolungata applicazione
delle regole Ue, che hanno appunto modificato, indebolendolo, il nostro sistema produttivo e industrial-manifatturiero; caratteristiche che appaiono trascurate dai governi, tutti presi dalla contingenza dei “conti in ordine”.
3. Ed infatti, il sistema Ue-eurozona presenta i seguenti elementi di forte vincolo:
a) divieto legalmente sancito (e non meramente corrispondente ad una prassi osservata
autonomamente dalla banca centrale) di intervento della BCE nel finanziamento diretto
dell’azione economico-fiscale dello Stato, nonché di ogni forma di solidarietà fiscale (si
vedano gli artt.123-124-125 del TFUE);
b) aggiustamenti degli squilibri commerciali e finanziari entro l’eurozona, perseguibili
solo entro la cornice del fiscal compact, (principio del pareggio di bilancio,
imprudentemente recepito in Costituzione): cioè mediante consolidamento fiscale incessante, che dà luogo ad una indiscriminata compressione della domanda interna che riduce sì i consumi, avendo come obiettivo quelli di beni e servizi importati, ma finisce per tagliarli generalmente tutti e per ridurre la produzione interna, la corrispondente occupazione e la propensione all’investimento nazionale. Al più propiziando spinte deflazionistiche che affidano alla competitività forzata (sul costo decrescente del lavoro), e quindi alle sole esportazioni, le magre possibilità di crescita del prodotto nazionale:
c) cesura del legame vitale tra banche e economia “sul territorio” dovuto all’Unione
bancaria, laddove la vitalità del sistema produttivo italiano è invece legata alle piccole e
medie imprese originate da una intraprendenza creativa diffusa e decentrata;
d) crescente peso dei servizi nell’economia; fenomeno che incentiva sia lo spiazzamento
degli investimenti dal fondamentale settore manifatturiero, sia la sotto-offerta, il sottoinvestimento e la sotto-occupazione, determinati, per loro notoria fisiologia operativa, da monopoli, e oligopoli concentrati, gestiti dai proprietari privati, o privatizzati, che
controllano il settore dei servizi (fenomeno ulteriormente accentuato dall’apertura
dell’economie, – sia all’interno del mercato unico Ue, sia per via della c.d. “globalizzazione”-, e che induce un crescente controllo estero sul settore dei servizi, inclusi quelli di interesse generale “a rete”);
e) difficoltà estrema a correggere tale dannosa “struttura di mercato”, e la conseguente
stagnazione deflazionista, in conseguenza dei limiti all’intervento fiscale (pareggio di
bilancio) e del regime del divieto di aiuti di Stato, quale interpretato (specialmente nei
confronti dell’Italia) dalle autorità Ue.
4. È necessario quindi un complesso di misure di intervento pubblico mirato a ridurre,
attraverso diretti investimenti industriali in settori strategici, i limiti al livello dei
moltiplicatori fiscali che sono dovuti al fatto che, ormai, crescendo spesa pubblica e
privata, si verifica un insostenibile aumento delle importazioni.
A ciò, può porsi rimedio soltanto consolidando un rilancio della capacità industriale
nazionale fondabile prevalentemente sulla domanda interna. In altri termini, va perseguita,
grazie all’intervento pubblico “mirato”, una ripresa che non comprometta l’equilibrio delle
partite correnti, la solidità della posizione patrimoniale netta sull’estero (problema acuito
dall’invocazione degli “investitori esteri”) e ricrei un’adeguata propensione ad investire del
settore privato.
La ripresa industriale e occupazionale legate alla domanda interna, risolvono anche gli
pseudo-problemi posti sui principali aggregati della spesa pubblica: servizio sanitario
universale (reddito delle famiglie indiretto) e sistema pensionistico pubblico (reddito delle
famiglie differito).
Ed infatti, il maggior gettito, sia fiscale che contributivo, che sarebbe determinato da una
crescita dell’occupazione connessa al rafforzamento della produzione interna effettivamente consumata sul territorio nazionale, sgonfierebbe il problema dei conti pubblici; mentre, allo stesso tempo, se il rafforzamento industriale e occupazionale si consolidasse, darebbe soluzione (progressiva) al problema della traiettoria demografica negativa (riducendo anche il simmetrico problema di invecchiamento della popolazione).
Peraltro, reddito indiretto e reddito differito sono, per la stessa Costituzione, oltre che tutela dei bisogni essenziali della società, gli strumenti privilegiati di un risparmio diffuso, fondato sul lavoro (adeguatamente retribuito), che costituisce lo strumento più sano per alimentare autonomamente gli investimenti produttivi (come emerge dallo stesso
art.47 Cost.) e finanziare la stessa azione dello Stato.
5. Le soluzioni qui auspicate per linee generali, possono condurre, dapprima, allo
sfruttamento mirato di regole del diritto europeo (si pensi al regime derogatorio del divieto di aiuti di Stato relativo ai SIEG, cioè ai Servizi di interesse economico generale, e al nuovo
regime di praticabilità delle iniziative industriali pubbliche “In House”); e successivamente,
al raggiungimento di una ripresa autonoma della crescita e della capacità industriale
nazionali, al punto da rendere quasi naturale, per mutamento delle posizioni di forza
negoziali, una riforma concordata del quadro istituzionale UE.
Il rafforzamento della capacità industriale nazionale è perseguibile promuovendo “l’effetto
sostituzione”, cioè impiegando, almeno nella fase iniziale del ciclo, gli investimenti
pubblici per iniziare a produrre ciò che viene consumato in Italia, specialmente nelle
filiere a più alto valore aggiunto, opportunamente individuabili in base al know-how
tecnologico e alle competenze della forza lavoro ancora disponibili in Italia. Ciò mantiene e
rilancia anche la qualità dell’occupazione e, più ampiamente, della convivenza sociale.
Lo stesso intervento pubblico può contemporaneamente essere indirizzato a “rimuovere le
strozzature” (di disponibilità di capitale, di accesso ai risultati della ricerca teorica e
applicata, di regime tributario) al fine di potenziare i settori italiani già competitivi e ben
orientati all’esportazione.
In sostanza, riprendendo la citazione keynesiana fatta da Federico Caffè, l’azione fiscale
espansiva, per raggiungere una sostenibilità, nei conti con l’estero e, naturalmente,
occupazionale, deve porsi l’obiettivo: “cosa produrre e cosa scambiare con l’estero in modo
da assicurare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti nel medio-lungo termine”.
6. In questo quadro è fondamentale rinegoziare il PNRR per indirizzarlo verso politiche
industriali ed economiche realmente utili per la nostra Nazione: meno transizione
energetica e digitale, più infrastrutture e finanziamenti per la politica industriale pubblica.
In particolare per la transizione energetica bisogna rendere centrale la manutenzione e
l’efficientamento energetico del nostro patrimonio immobiliare pubblico e privato (vedi
Superbonus 110%). In più bisogna allungare i tempi previsti per mettere a bando i
progetti per evitare caotiche accelerazioni che di per sé generano nuova inflazione e
valutare una riduzione dell’utilizzo di risorse ottenute attraverso prestiti che dovranno
essere restituiti, aumentando di fatto il debito pubblico e i costi del suo servizio (i fondi del
PNRR, infatti, devono essere pagati non solo negli interessi ma, a differenza dei titoli di
Stato, anche per la sorte capitale). Nell’immediato le risorse del PNRR devono essere
utilizzate per ridurre l’impatto dei rincari energetici sulle famiglie e sulle imprese.
7. Infine il rilancio del nostro sistema economico è impensabile senza una profonda
revisione ed un rapido superamento delle sanzioni contro la Russia, che si sono rivelate
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delle “auto-sanzioni” che oggettivamente danneggiano più i paesi europei che il regime di
Vladimir Putin. È evidente che tutto questo non è pensabile senza ottenere almeno un
cessate il fuoco e l’apertura di un tavolo di trattative tra le parti in conflitto. Ecco perché
l’impegno per fermare la guerra è fondamentale non solo per ragioni umanitarie e per evitare il rischio di una pericolosissima escalation del conflitto, ma anche per salvare la nostra economia che senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo non può essere salvata.
Una svolta del Governo italiano in questo senso aprirebbe un inevitabile contenzioso non
solo con gli Stati Uniti ma anche con le istituzioni dell’Unione Europea, ma proprio questo
potrebbe essere l’innesco per un non più rinviabile negoziato con i nostri partner europei e
occidentali. Se si pretende l’allineamento dell’Italia come paese cobelligerante con l’Ucraina come è possibile negare una profonda revisione dei Trattati europei (e nell’immediato delle decisioni economiche della BCE e della Commissione europea) e dei costi economici delle forniture energetiche tra l’Italia e gli Stati Uniti, nella chiave di una “economia di guerra” che possa salvare il nostro sistema produttivo? È evidente che la forza negoziale dell’Italia sarebbe rafforzata dall’adozione delle misure di salvaguardia dal “vincolo esterno” accennate all’inizio di questo capitolo.
8. Tra i punti in sospeso ereditati dal Governo Draghi c’è anche quello del Superbonus 110% per l’adeguamento energetico degli edifici. Si tratta di un tema di portata sistemica: i crediti non smobilizzati sono quasi a 4 miliardi e le imprese edili a rischio default oltre 20.000. Non solo: nella “Direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia” che sarà emanata dalla Commissione europea è prevista l’inalienabilità degli immobili che non rispondono a requisiti energetici progressivamente sempre più alti. Quindi i comuni cittadini che non avessero i soldi per adeguare i propri immobili alla costosa normativa energetica, si troverebbero con le loro case ridotte a valore commerciale zero. L’unica soluzione possibile è costituire un veicolo pubblico/privato che acquisti i crediti dalle banche che hanno fatto da collettori e li cartolarizzi emettendo note garantite dal MEF o da SACE. Il mercato degli investitori internazionali con questi tassi potrebbe facilmente impiegare risorse, avendo un rischio default prossimo allo zero. I crediti sarebbero a loro volta gestiti tramite piattaforma di nuovo a disposizione delle banche per compensarli sugli F24 di imprese e contribuenti dando la possibilità di frazionarli anche infra-anno. Questa manovra genererebbe quasi 100 miliardi di euro di liquidità rotativa sul settore: a questo punto anche il 90% sarebbe un credito gradito e la manovra sostenibile. Un vero e proprio esempio di moneta fiscale, fino ad ora sempre sconfessato dal MEF su input delle autorità europee.
9. Il Ministro Giorgetti ha dichiarato l’Italia è pronta a ratificare la riforma dell’ESM (o
MES, il fondo salva-stati) se la Corte costituzionale tedesca darà il via libera all’adesione
della Germania. C’è da sperare che questa sia solo un’uscita estemporanea per prendere
tempo, perché sarebbe veramente un disastro se il Governo Meloni si intestasse questa ratifica che dal 2019 i governi Conte e Draghi hanno comunque evitato. Ratificare la riforma dell’ESM per l’Italia significa condannarsi ad andare in default. Il Meccanismo Europeo di Stabilità prevede una serie di condizionalità che a un paese indebitato come l’Italia consentono solo di accedere a una “linea di credito a condizioni rafforzate” che
comporterebbe una preliminare ristrutturazione del debito e quindi il fallimento delle finanze pubbliche. Non solo: l’ESM, per meglio esercitare i propri compiti, cioè scrutinare gli Stati per le loro eventuali future richieste di assistenza, procederà “d’ufficio” all’accertamento della sostenibilità del debito pubblico di concerto con la Commissione e la BCE. Quando da queste verifiche d’ufficio risulterà che l’Italia non è in condizione di accedere alle normali linee di credito dell’ESM, sui mercati si scatenerà il panico rispetto ai nostri titoli, poiché sono le stesse autorità che dovrebbero “sostenerci” che dicono che siamo destinati ad una preventivari strutturazione del debito.
Questa ratifica è quindi qualcosa da evitare ad ogni costo, perché l’esito sarebbe nel caso
migliore quello di sprecare le ingenti risorse con cui l’Italia dovrebbe finanziare questo nuovo ESM senza però poter accedere al suo utilizzo, oppure nel caso peggiore quello di condannare l’Italia ad una ristrutturazione economica “lacrime e sangue” peggiore di quella inflitta a suo tempo da Mario Monti.

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DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA

A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).

Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.

Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.

Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa – fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.

Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.

Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.

Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della disapplicazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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